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rifonda

1968: la Cecoslovacchia e il Pci

di Guido Liguori*

praga2Sono 50 anni dall’invasione della Cecoslovacchia da parte dei paesi del Patto di Varsavia guidati dall’Unione Sovietica. Era il 1968, il mondo era in fermento, si combatteva duramente in Vietnam, e negli Stati Uniti era nato un forte movimento, molto variegato, contro la guerra e contro la discriminazione razziale. In Europa gli studenti scendevano in piazza, si protestava da Parigi a Roma a Berlino.

Anche oltre la “cortina di ferro” vi era aria di novità. Soprattutto a Praga, in Cecoslovacchia. Fu considerato un ’68 in tono minore, anche dal “movimento del ’68”, ma fu un grave errore. Ciò che stava succedendo in quel paese avrebbe cambiato profondamente la percezione del “socialismo reale” (come si sarebbe in seguito autodefinito) e anche del comunismo, del movimento comunista, delle speranze di comunismo: si era a un bivio. La domanda fondamentale era la seguente: il “socialismo fino allora realizzato” (come più giustamente lo chiamerà poi Enrico Berlinguer) può autoriformarsi? Può recuperare elementi di democrazia (sia pure di tipo nuovo), di autogestione, di dibattito politico e culturale non ingessato? A dodici anni dalla invasione dell’Ungheria si stava provando a realizzare un tentativo in questo senso. Ma le differenze con l’Ungheria erano chiare: a Budapest si era stati di fronte a un processo ambiguo, pieno di genuine spinte popolari e di torbidi tentativi reazionari di utilizzarle (il che non vuol dire giustificare l’invasione del 1956, ma sottolineare che a quel punto non si doveva arrivare). In Cecoslovacchia invece il rinnovamento era saldamente nelle mani dei comunisti, era portato avanti da un partito comunista e dal suo giovane segretario, Alexander Dubček, da poco eletto, che riscuoteva grande consenso e partecipazione popolare.

In Cecoslovacchia si parlava allora sia di riforma economica che di riforma politica, e ciò non fu senza conseguenze negative per i giudizi che molti comunisti diedero sul “nuovo corso” di Dubček. Sul primo fronte, il dirigente comunista ed economista di punta cecoslovacco Ota Šik proponeva un “sistema misto”: la pianificazione era valida per gli orientamenti di fondo dell’economia, ma accanto a essa andavano immessi elementi di mercato e di autonomia dei dirigenti aziendali, per uscire dalla crisi in cui la pianificazione rischiava di impantanarsi. La possibilità di un mercato socialista era allora largamente discussa nei paesi dell’Est. Il Partito comunista cecoslovacco, alla fine del 1967, introdusse quindi delle innovazioni che andavano in questa direzione. Furono anche promossi i “consigli dei produttori”, formati dai lavoratori delle aziende.

Parallelamente si introdussero delle riforme politico-elettorali, atte a aumentare la possibilità di scelta dal basso dei candidati. Furono poi separate le cariche di segretario del partito e di capo dello Stato, fin lì entrambe ricoperte da Novotný. Dubček, fin lì segretario del partito in Slovacchia, fu eletto segretario generale, in un clima crescente di mobilitazione ed entusiasmo. La direzione di Dubček era antiautoritaria, democratica, aperta alla società. Fu abolita la censura sulla stampa, si moltiplicò la partecipazione politica. Presto Novotný dovette lasciare anche la carica di presidente. In un’intervista all’Unità, Dubček affermò che la scelta del suo partito era per un uso socialista del mercato e per l’attuazione di una “democrazia socialista”. Un documento ufficiale del partito comunista cecoslovacco si concludeva con parole che non lasciavano dubbi: «Per noi la democrazia è inseparabile dal socialismo così come il socialismo lo è dalla democrazia»,

I comunisti cecoslovacchi non mettevano in discussione l’appartenenza del paese al Patto di Varsavia, che legava tutti i paesi socialisti. Il Partito comunista dell’Unione Sovietica era però allarmato dalla crescente autonomia della Cecoslovacchia, e anche dalla crescita di sentimenti antisovietici. Il confronto tra comunisti cecoslovacchi e sovietici ebbe momenti di grande tensione, che sembrarono a un certo punto superati. I paesi del Patto di Varsavia eseguirono esercitazioni e convocarono vertici che suonavano minacciosi per la Cecoslovacchia. La Romania si dissociò visibilmente dagli altri paesi socialisti, esprimendo solidarietà ai cecoslovacchi. Le tensioni sembrarono tuttavia superate, assopite.

Il “nuovo corso” di Dubček, la “primavera di Praga”, e poi l’invasione della Cecoslovacchia da parte dei Paesi del Patto di Varsavia, costituirono una tappa fondamentale nella progressiva presa di distanze del Partito comunista italiano rispetto all’Unione Sovietica del Pcus e di Brežnev.  

Il Pci aveva alle spalle il Memoriale di Jalta, il “testamento politico” di Palmiro Togliatti (morto nel 1964), che aveva rilanciato la teoria dell’“unità nella diversità” e delle “vie nazionali al socialismo”, secondo cui ogni partito e ogni paese comunista avevano diritto alla propria strada nella costruzione di una società socialista, senza dover necessariamente replicare l’esperienza dell’Unione Sovietica. Anche per questo i comunisti italiani seguivano con estrema simpatia il rinnovamento democratico portato avanti dal Partito comunista cecoslovacco fin dalla seconda metà del 1967, interessati sia ai progetti di apertura sul piano politico che a quelli di liberalizzazione sul piano economico. Il segretario italiano Luigi Longo sulla stampa di partito dichiarò esplicitamente il suo appoggio al “nuovo corso”. E il 6 maggio andò a Praga per incontrarvi i dirigenti comunisti cecoslovacchi, esprimendo loro appoggio e solidarietà. La battaglia del Pcc (il partito comunista cecoslovacco) era da lui sentita come una battaglia propria anche dei comunisti italiani: costruire il socialismo nella democrazia.

Quando a giugno uscì a Praga il Manifesto delle 2000 parole, un documento di intellettuali che irritò molto l’Unione Sovietica, il Pci espresse forte preoccupazione e, temendo una invasione simile a quella di Budapest del 1956, mise in modo i suoi canali diplomatici per chiedere ai sovietici di non ripetere l’errore, sottolineando le differenze con la situazione dell’Ungheria di 12 anni prima, cioè il fatto che alla guida del “nuovo corso” vi fosse un partito comunista che godeva del sostegno popolare e che non voleva uscire dal “campo” socialista. Per il Pci, Dubček aveva ripreso la strada della costruzione del socialismo abbandonata in precedenza da Novotný, reo di aver usato solo metodi «autoritari e burocratici»

Nonostante le rassicurazioni ricevute, nella notte tra il 20 e il 21 agosto i carrarmati del Patto di Varsavia (con l’eccezione della Romania) invasero la Cecoslovacchia. Molti dirigenti del Pci erano in vacanza, alcuni all’estero (Longo in Urss). Berlinguer, a Costanta con la famiglia, rientrò subito in Italia con un aereo messogli a disposizione da Ceaușescu. Il giorno stesso si riunì l’Ufficio politico del Pci, che (sentito telefonicamente Longo) emise un comunicato in cui esprimeva il proprio «grave dissenso» per l’intervento militare, giudicato «ingiustificato», e ribadiva la propria piena solidarietà a Dubček. Era la prima volta che veniva reso pubblico un forte dissenso dei comunisti italiani dalla politica di Mosca.

Al vertice del Pci si aprì il dibattito, con posizioni caute e prudenti, influenzate dalla consapevolezza che la base del partito era ancora orientata in buona misura in senso filosovietico. Berlinguer fu tra coloro che ebbero una posizione più netta e radicale, anche rispetto allo stesso Longo, contro l’invasione. Egli espresse la convinzione che si fosse entrati «in una fase nuova, anche nella nostra collocazione del movimento comunista», non escludendo «la eventualità di una lotta politica con i compagni sovietici», per la quale bisognava preparare il partito «almeno con una azione di ricerca e di studio critico sempre più approfondito sui paesi socialisti». Propose inoltre una «riunione dei partiti comunisti dell’Europa occidentale», evidentemente per fare blocco comune contro i partiti filosovietici. E il 3 ottobre, in una riunione al massimo livello, affermò che occorreva prepararsi allo scontro, «ideologicamente, politicamente, organizzativamente e propagandisticamente», aggiungendo poche settimane dopo: «Il nostro rapporto col Pcus non potrà essere più quello di prima. Dobbiamo avere presente la necessità di preparazione anche psicologica dei compagni», ovvero la necessità di preparare la base del partito alla possibilità di una rottura con Mosca.

Dopo l’invasione di Praga le dinamiche politiche interne al Pci subirono una brusca accelerazione. Longo – anche provato dallo scontro con i sovietici (a cui era stato legato fin da giovane, dalla fine degli anni ’20) – fu colpito da un ictus, restando menomato fisicamente, anche se non inabile e perfettamente lucido mentalmente. La “vecchia guardia” del Pci cercò un compromesso con il Pcus: il partito, sostenevano,  non era pronto per una rottura con l’Urss. Della qual cosa era consapevole anche Berlinguer, che infatti aveva ipotizzato una campagna di massa dentro il Pci per preparare gli iscritti (parecchie centinaia di migliaia) e gli elettori (nelle elezioni del maggio 1968 i comunisti italiani avevano avuto un notevole successo elettorale, raggiungendo un quarto dei voti totali) a un allontanamento dall’Unione Sovietica. L’operazione doveva essere fatta solo con gradualità, per evitare che i sovietici favorissero la nascita nel Pci di una frazione scissionista a loro favorevole.

In realtà la scissione da parte di una piccola minoranza si ebbe sul versante di sinistra del partito: l’ala più radicale della sinistra seguace di Pietro Ingrao (sconfitta nel Congresso del Pci del 1966, ma ancora forte e in sintonia con nuovo “movimento del ’68”, studentesco e largamente antisovietico) fece una propria rivista, il manifesto, e a un anno dall’invasione pubblicò un editoriale intitolato Praga è sola, in cui lamentava l’atteggiamento troppo morbido del Pci verso i sovietici. Questi ultimi chiesero a Longo di espellere il gruppo del manifesto, minacciando in caso contrario l’apertura di una rivista e di una corrente apertamente filosovietiche.

Berlinguer cercò in tutti i modi di evitare la radiazione, chiedendo ai “ribelli” di fare un passo indietro. Così non fu ed egli, benché ufficialmente vicesegretario dal febbraio del 1969 (diventerà segretario solo nel 1972), non riuscì a evitare un epilogo diverso: gli “estremisti” furono radiati e questo fatto indebolì anche il giovane vicesegretario, più moderato ma certo più vicino alle loro posizioni che alla corrente riformista di Amendola e Napolitano o alla corrente filosovietica, guidata da Secchia e più tardi da Cossutta. 

Da quel momento, tuttavia, Berlinguer conquistò sempre maggiore popolarità e prestigio. Ciò gli permise presto di lanciare la proposta dell’eurocomunismo (cioè una completa assunzione della democrazia nella costruzione del socialismo), una politica apertamente alternativa a quella sovietica, trovando nel suo partito l’ opposizione di una sparuta minoranza. E nel 1977 a Mosca, davanti ai rappresentanti di quasi tutti i partiti comunisti del mondo, ebbe a dichiarare, nel silenzio e nello stupore generale, che «la democrazia è la via al socialismo». La via, non una possibile via accanto ad altre: la sola via che i comunisti italiani approvavano e riconoscevano.

A Praga nel 1968 era iniziato un nuovo periodo nella storia del più grande partito comunista di Occidente: l’appoggio a Dubček aveva significato una scelta senza ritorno, che Berlinguer seppe portare avanti con coraggio, fino a dichiarare – dopo l’invasione dell’Afghanistan del 1979 e il colpo di Stato di Jaruzelski (indotto dai sovietici) in Polonia del dicembre 1981 – ormai finita la situazione di attesa verso una «autoriforma» dei Paesi di «socialismo reale» (o «finora realizzato», come amava dire).

Si apriva, secondo il leader comunista italiano, l’inizio di una «terza fase» del movimento operaio, socialista e comunista: dopo la Seconda Internazionale socialdemocratica e la Terza Internazionale comunista, che avevano ormai esaurito la loro «spinta propulsiva», bisognava trovare vie nuove per la costruzione di una società più giusta ed eguale, una società postcapitalistica, quale Berlinguer non smise mai esplicitamente di auspicare, conquistando su questa base, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, crescente consenso e popolarità.


* storico, autore del libro Berlinguer rivoluzionario
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