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micromega

Cambiare la vita o conquistare il potere?

Foa, Trentin e il futuro della sinistra

di Giorgio Pagano

Vittorio Foa, “La Gerusalemme rimandata”, Einaudi, Torino, 1985
Bruno Trentin, “La città del lavoro”, Feltrinelli, 1997

images830La sinistra, oggi a rischio avanzatissimo di irrilevanza, vive solo se ricrea una dimensione sociale a partire dalle persone che lavorano. “La città del lavoro” di Bruno Trentin e “La Gerusalemme rimandata” di Vittorio Foa sono due libri che non ebbero fortuna quando uscirono. Riletti oggi, ci forniscono preziose riflessioni non solo sul passato ma anche sul presente e sul futuro.

Vittorio Foa e Bruno Trentin si conobbero a Milano il giorno prima della Liberazione. Insieme scrissero l’appello alle Brigate di “Giustizia e Libertà” per l’insurrezione di Milano che inizia con la frase “La bandiera rossa sventola su Berlino”. Si frequentarono assiduamente nei due anni di esistenza del Partito d’Azione, per poi prendere strade diverse allo scioglimento del partito nell’autunno 1947: Foa aderì al partito Socialista, Trentin si laureò e si iscrisse al Pci probabilmente nel 1950. Alla fine del 1949 Foa, diventato vicesegretario della Cgil con l’incarico di seguire l’ufficio studi, chiamò Trentin in questo ufficio con l’incarico di ricercatore. Il loro comune maestro fu Giuseppe Di Vittorio, segretario della Cgil. Foa fu dirigente della Cgil fino al 1970, Trentin ne fu segretario dal 1988 al 1994.

Nell’ultima fase delle loro vite, entrambi tornarono a studiare e a riflettere sulla loro esperienza sindacale e politica, sulla sconfitta del movimento operaio dopo le grandi lotte degli anni Sessanta e Settanta di cui furono protagonisti, e soprattutto sul socialismo libertario, l’”altra strada” per la sinistra. Foa pubblicò “La Gerusalemme rimandata” nel 1985, dopo quattro anni di studi in Inghilterra. Trentin pubblicò “La città del lavoro” nel 1997, dopo un lavoro durato tre anni. Sono due libri che, quando uscirono, non ebbero successo: furono quasi “clandestini”. Riletti oggi, ci forniscono preziose riflessioni non solo sul passato ma anche sul presente e sul futuro.

Secondo Iginio Ariemma, studioso di Trentin, la risposta contenuta nei due libri è sostanzialmente analoga:

“Sia la sconfitta degli anni Venti che quella degli anni Sessanta sono state determinate dalla concezione prevalente nel movimento operaio, sia comunista che socialdemocratico, con al centro l’assalto allo Stato, la conquista del potere politico, e non la trasformazione della società attraverso un processo dal basso, anche culturale e soggettivo, che aiuti i lavoratori a governarsi da sé [ … ] Nei due libri c’è una sintonia molto marcata sia nel considerare la rivoluzione come processo che trasforma e migliora non solo la vita quotidiana, ma le coscienze dei singoli e della comunità dei lavoratori, sia nel concepire la politica come levatrice dell’autogoverno”. [1]

Le radici della sinistra, per Foa e per Trentin, stanno nell'autonomia delle persone, nella responsabilità dei singoli, in una vita pubblica non separata dalla dimensione etica. Nella distinzione, scrive Foa, “che politica non è solo comando, è anche resistenza al comando, che politica non è, come in genere si pensa, solo governo della gente, politica è aiutare la gente a governarsi da sé”.[2] Nella convinzione, scrive Trentin, “che l’utopia della trasformazione della vita quotidiana debba diventare il modo di fare politica”. [3]

C’è, nella storia del socialismo libertario, un ampio e inesplorato mondo di potenzialità, che hanno alla loro base l’idea della ricerca ininterrotta per la liberazione della persona e per la sua capacità di autorealizzazione, l’idea di coniugare libertà ed eguaglianza. Potenzialità da riscoprire, per uscire dalle macerie che ha lasciato dietro di sé l’idolatria statalista. [4]

 

“La Gerusalemme rimandata” di Vittorio Foa

Nell’Introduzione alla nuova edizione del libro, Pino Ferraris cita la “Postilla” di Foa al libro “Riprendere tempo”, scritto con Pietro Marcenaro, pubblicato nel 1982. L’autore manifesta con estrema franchezza le difficoltà che sta attraversando:

“Quando si superano i settant’anni dopo averne passati cinquanta a ‘fare politica’ e ci si trova in una tempesta che investe strumenti di analisi, modelli culturali e progetti di trasformazione praticati per decenni (marxismo, socialismo) è difficile far finta di niente. Vi sono vecchi militanti che abbassano le saracinesche e si chiudono in quel poco che resta di privato. Altri difendono l’insieme delle regole e delle analisi del passato, ma sono poi costretti ad arrampicarsi sugli specchi per restaurare almeno i pezzi più logori. Per parte mia sento acuto il bisogno di salvare dalla liquidazione quello che nel mio passato sembra a me il nucleo coerente, ma per far questo devo interrogare il passato e verificarne la continuità con il presente”.[5]

“La Gerusalemme rimandata” è una riflessione sulla storia del movimento operaio inglese del primo Novecento, in particolare degli anni 1910-1914, che collega quei conflitti con la ripresa di quel tipo di esperienza negli anni che vanno dal 1968 al 1973 e vuole segnalare la fine di un ciclo, durato mezzo secolo, nel quale la politica, sia nella versione socialdemocratica che in quella comunista, ha avuto un volto prevalente, quello della statualità, o come delega agli equilibri parlamentari esterni o come rinvio allo “Stato rivoluzionario esterno”. Il socialismo e il marxismo della Seconda e della Terza Internazionale sono sempre stati, sostiene Foa, incapaci di comprendere la soggettività operaia:

“In un modo o nell’altro tutte le formazioni socialiste [ … ] avrebbero fatto propria la tesi della socialdemocrazia continentale (che fu di Kautsky come di Guesde, di Lenin come di Turati) che una classe di schiavi non può essere liberata dagli stessi schiavi ma che occorrono uomini di una classe capace di assimilare la conoscenza scientifica senza la quale il socialismo sarebbe impossibile”. [6]

Se la classe operaia è “una classe di schiavi”, l’emancipazione dei lavoratori non potrà mai essere opera dei lavoratori stessi, come sosteneva invece la Prima Internazionale. Solo l’intellettuale, l’organizzazione, il partito, potranno darle dall’esterno la coscienza di classe e la luce politica.

In contrasto con questa tesi i primi capitoli indagano sull’ampiezza di un’autonoma cultura operaia del lavoro, o meglio delle diverse culture operaie, data la persistente divisione della classe operaia inglese. “La coscienza e il conflitto -scrive Foa- non stanno solo nel rapporto di lavoro, nella sfera dell’economia, ma vanno costantemente analizzati nel rapporto fra il lavoro e la vita, per capire che l’identità collettiva non parte dall’omogeneità ma dalla diversità”. [7] Molto belle, da questo punto di vista, sono le pagine sulla stratificazione e la differenziazione dentro la classe operaia e soprattutto quelle sul lavoro delle donne e sulle diversità di genere. Le mogli e le madri dei minatori, per esempio, sono la colonna portante della solidarietà mineraria, figure insuperabili di sensibilità e di intelligenza. Sono pagine da cui emerge una classe che cammina con le sue gambe e ragiona con la sua testa:

“Con la fabbrica si imponeva la disciplina al tempo di presenza al lavoro; pur con molte sofferenze i lavoratori erano costretti ad adattarsi, ma in qualche forma una resistenza non venne mai meno, il bisogno di poter governare sia pure in piccola parte il proprio tempo fu represso ma non soppresso”. [8]

L’assenteismo è solo la manifestazione più nota di resistenza: per esempio è segno di libertà del minatore, che usa stare a casa il lunedì dopo la paga.

Da qui l’interesse di Foa per le tesi di William Morris, artista e socialista, per cui il lavoro deve essere creativo e libero, anche se salariato, e la fabbrica deve diventare centro di attività intellettuale. Il lavoratore vuole controllare non solo la paga, spiega Foa, ma anche quello che si dà in cambio della paga, come energia e capacità, come tempo: vuole autodeterminare il proprio tempo, vuole controllare il suo futuro.

Il tema centrale del libro è il controllo, quello dei lavoratori sulla produzione. Il conflitto tra padroni e operai è sul controllo dell’esecuzione del lavoro: la libertà che chiedono i padroni è un vincolo per gli operai, e viceversa. Le forme del controllo operaio all’inizio furono tre: il rallentamento nella produzione, l’opposizione alle macchine e la restrizione nell’offerta di lavoro. L’autogoverno del lavoro era l’opposto puntuale dell’ideologia del lavoro. Poi la forma diventò quella per la costruzione e il controllo dello sciopero, della resistenza popolare, della solidarietà: lo sciopero “non era solo uno strumento di pressione per conseguire dei risultati, esso era anche una affermazione di identità [ … ] non era un tempo negativo, un vuoto di lavoro: era un tempo pieno, una presa di parola, la rottura del silenzio della disciplina industriale”.[9] Si passò infine alla rivendicazione operaia di mettere le fabbriche sotto la direzione collettiva dei lavoratori: questa divenne la forma politica della rivendicazione del controllo operaio.

L’undicesimo capitolo del libro è il più denso e importante, e dà il titolo al libro. Foa vuole “riflettere sul controllo operaio nella sua luce politica”[10]: la democrazia come governo di se stessi, la partecipazione e l’autogoverno diretto. L’eccezionalità del lungo decennio (1910-1920) di conflittualità sociale in Inghilterra si manifestò soprattutto durante la guerra. Fu un caso unico in Europa, dove l’union sacrée di industriali, sindacati e governi aveva dato vita a forme di corporativismo autoritario. In Inghilterra, invece, vi fu una spinta operaia libertaria che si espresse nell’azione diretta conflittuale gestita attraverso il coordinamento dei consigli operai, composto da delegati di fabbrica (stop stewards). Il controllo operaio lo si rivendicava e lo si esercitava. Fu un’esperienza di rottura, che anticipò successive esperienze consiliari dell’immediato dopoguerra. Scrive Foa:

“Il socialismo dei consigli non era più solo una questione di mezzi di produzione e di divisione del prodotto sociale in vista di una futura conquista del potere, esso diventava una linea teorica e pratica che collegava le rivendicazioni immediate alle strategie di trasformazione, saldava tempo presente e tempo futuro, unificava il soggetto della lotta per la trasformazione con quello della gestione della società futura”. [11]

L’autore riflette sul riassorbimento di questa esperienza nel laburismo statalista, mentre viene sconfitta l’evasione verso una rivoluzione a guida esterna da parte di un partito comunista che nasce dentro la sconfitta operaia:

“Sul piano politico l’esperienza inglese del controllo operaio, come quella più o meno coeva degli altri Paesi europei, ha costituito, nonostante il suo insuccesso, una indicazione teorico-pratica di alternativa alla linea classica del socialismo come costruzione parlamentare e sindacale e anche, almeno nella sua fase finale, una alternativa al socialismo come costruzione di una coscienza esterna, cioè a opera del partito rivoluzionario. Il rapporto che si è stabilito fra azione industriale e prospettiva di cambiamento sociale e politico ha proposto una concezione nuova della rivoluzione socialista e ha consentito di porre per la prima volta in termini concreti la domanda: può la classe operaia lavorare per sé? E’ per questo che ci si richiama a Murphy in Gran Bretagna, al Gramsci dell’Ordine Nuovo in Italia, a Rosmer in Francia, a Daumig in Germania, cioè a coloro che più acutamente hanno teorizzato e tentato di praticare l’unità di amministratori e amministrati, di saldare l’autogoverno della produzione con quello della politica”. [12]

Foa scandaglia gli errori degli statalisti, sia rivoluzionari che riformisti, e gli stessi errori del socialismo dei consigli. Su questo tema, che per l’autore rappresenta il “nucleo coerente” del suo passato da salvare, sul tema “della libertà del lavoro e attraverso il lavoro, dell’autodecisione nel lavoro e nella vita, il discorso è tutto aperto”. [13]

Vittorio Foa conclude così:

“Se si vuole salvare la stessa idea del cambiamento, la stessa Gerusalemme, bisogna rileggere il presente, scorgere in esso il futuro, non separare più il domani dall’oggi, riscoprire Gerusalemme attorno a noi, dentro di noi”. [14]

Gerusalemme, cioè la terra promessa, è la libertà del lavoro e nel lavoro. Non è stata solo rimandata, è stata trasformata. Ma Gerusalemme vive ancora.

 

“La città del lavoro” di Bruno Trentin

“La città del lavoro” ha la stessa ispirazione del libro di Vittorio Foa: capire le ragioni della sconfitta delle lotte del periodo 1968-1973, cercare di trovare un nuovo ruolo al lavoro, mettere la libertà al centro del lavoro.

Il tema più significativo della progettualità di Trentin, su cui più continue sono state la sua iniziativa e la sua riflessione, è quello del controllo operaio, come in Foa. Il suo punto di partenza è l’esperienza consiliare degli anni Venti, in particolare quella dell’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci. Ma Trentin, dirigente dei metalmeccanici della Fiom dal 1962 in avanti, innova rispetto a questo punto di riferimento. Scrive Iginio Ariemma nel testo introduttivo alla seconda edizione del libro:

“Per lui i Consigli non sono e non possono essere istituzioni pubbliche che mirano all’autogoverno dei produttori e neppure strumenti del contropotere operaio del processo rivoluzionario, come sostenevano le ali più radicali ed estremiste: Trentin non abbandona i Consigli di Fabbrica, ma li concepisce come organi del sindacato, di un sindacato più democratico, unitario, di tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti, per il controllo della produzione e delle condizioni di lavoro”. [15]

“La città del lavoro” è una critica aspra alla sinistra, incapace di dare una risposta politica adeguata alla crisi del fordismo-taylorismo. Ed è una critica della subalternità del marxismo e del leninismo al fordismo-taylorismo e della concezione secondo cui la conquista del potere politico deve venire prima del cambiamento del lavoro e della vita dei lavoratori. Le grandi lotte operaie della fine degli anni Sessanta, sostiene l’autore, hanno messo in crisi il fordismo-taylorismo, ponendo i problemi della liberazione del lavoro e del controllo effettivo del processo produttivo, al di là della lotta salariale. Importante è stato l’apporto della cultura di tradizione cristiana: Jacques Maritain, Emanuel Mounier, Simone Weil. Nel ’68-’69 Trentin scopre la persona umana, che viene prima della classe:

“Si può affermare che intorno alla fine degli anni Sessanta prese corpo nel vivo del conflitto sociale e in un’area molto articolata della ricerca teorica ed empirica una nuova idea della sinistra: l’abbozzo di un progetto di società che prendeva le mosse dal lavoro e dalle sue trasformazioni possibili. Un progetto di società che fuoriusciva dagli schemi redistributivi e risarcitori delle tradizionali ideologie della ‘transizione’, le quali assumevano come immutabili i rapporti di potere inerenti a un sistema di organizzazione del lavoro e delle funzioni, ancora considerato ‘oggettivamente’ inseparabile dall’idea di progresso. La testimonianza, insomma, del riemergere di un’altra concezione della sinistra e del socialismo possibile, e del loro ‘dialogo’ con le tematiche della liberazione del lavoro, dei diritti individuali, del valore e del ruolo della persona”. [16]

Sulle cause della sconfitta di questa esperienza Trentin è netto: non fu ritenuta degna di attenzione e riflessione la “matrice storica” del “sindacato dei consigli”, né da parte dalle confederazioni sindacali né da parte della sinistra partitica, la cui reazione fu di “bassa intensità”, “tutta tesa a ricondurre entro binari conosciuti, e nei ‘ruoli’ del passato, un conflitto sociale pur così anomalo nei propri obbiettivi e nella propria forma di organizzazione”. [17]

Di fronte alla sconfitta, “La città del lavoro” cerca “un’altra sinistra”:

“Un’altra ‘anima’ della sinistra è però sempre esistita, sin dagli albori del movimento socialista. E, in un certo senso, anche prima. Certo, si tratta di una ‘sinistra’ che non si è mai espressa in forme compiute. Si tratta di un’altra ‘anima’ che si è espressa ripetutamente attraverso le testimonianze spesso frammentarie e disperse (e presto cancellate da una storia scritta dai vincitori), di una ricerca e di una tensione di volta in volta più presenti in un dato schieramento politico che in un altro. E, in tutti questi casi, si è trattato in fin dei conti di tendenze che, salvo brevi parentesi, sono risultare minoritarie e soccombenti.

Naturalmente anche l’’altra anima’ della sinistra è coinvolta in questi anni dalla crisi di identità che investe tutte le correnti culturali e politiche della sinistra. Ma forse essa rimane portatrice di valori e istanze più capaci di sopravvivere, di quelli propri alla sinistra fino a oggi vincente”. [18]

Al termine del libro, nel capitolo “Le altre strade”, Trentin dichiara di sentirsi parte della “sinistra libertaria”, la sinistra che ha messo al centro il lavoro e la libertà umana nel lavoro, e che ha privilegiato la politica che scaturisce dalla società civile. I cambiamenti devono avvenire qui e ora, e diventano reali e duraturi se procedono dal basso, dalla società civile. Il capitolo è una miscellanea della sinistra eretica: Rosa Luxemburg, Karl Korsch, l’austromarxismo di Otto Bauer e di Max Adler, e poi, sulla scia di Foa, il “Guild Socialism” inglese e il movimento degli shop stewards.

Trentin, significativamente, cita anche il tentativo del collettivo torinese di “Giustizia e Libertà”, che aveva dato vita, negli anni del fascismo, al foglio “Le voci di officina”, i cui massimi esponenti furono Leone Ginsburg e Carlo Levi e di cui faceva parte anche Foa: “per quanto approssimativo, si collocava ben al di là della versione gramsciana dei consigli e delle stesse tesi di Gobetti”, in quanto progettava “un sistema di autonomie articolato non solo nelle istituzioni pubbliche, ma anche nella società civile”, nei parlamenti centrali e locali come nei sindacati e nei consigli. [19]

Il capitolo termina con l’analisi dell’apporto arrecato dalla straordinaria avventura intellettuale e politica di Simone Weil:

“C’era, anche allora, da ‘cercare ancora’ per conquistare -qui e ora- nuovi spazi di libertà nel moderno rapporto di lavoro e per rimuovere la solitudine del lavoratore subordinato, spezzato nella sua unità di essere pensante e stroncato nella sua dignità, per una parte tanto grande dell’esistenza. Questo è anche il valore della testimonianza di Simone Weil, al di là del suo percorso erratico e dell’approdo mistico, a tratti disperato.

C’era già allora, come c’è ora, un’altra sinistra possibile”. [20]

 

La sinistra vive se ricrea una dimensione sociale

L’attuale non è soltanto una crisi politica, ma anche e soprattutto una profonda trasformazione sociale e culturale. A sinistra la priorità è tessere nuovi legami sociali e culturali. Non basta un leader: senza legami dura poco, come dimostra la recente storia politica del Paese. I libri di Foa e di Trentin spingono la sinistra, a rischio avanzatissimo di irrilevanza, a leggere la nuova realtà a partire dal lavoro e dalle persone che lavorano. Nella “Gerusalemme rimandata”, quasi 35 anni fa, Foa scriveva:

“Finché vi sarà bisogno di gente per lavorare sarà impossibile privarla della volontà di volere. Non vi è ragione di pensare che lo stesso non debba avvenire anche oggi, con la rivoluzione informatica”. [21]

Oggi la sinistra deve ricreare una dimensione sociale e una nuova trama di relazioni umane, nella nuova realtà del lavoro. Franco Giordano ha scritto:

“Per noi questa è operazione veramente complessa. In fondo siamo tutti figli della Rivoluzione d’ottobre e della sua nemesi, la conquista del Palazzo d’inverno ovvero la conquista democratica del potere. [ …] Oggi abbiamo una oggettiva difficoltà a parlare a singoli individui. Non riusciamo a fare società e a nominare e costituire un popolo. Nella specifica tradizione della sinistra italiana l’unico che si è cimentato con grande rigore e passione nello studio della relazione e nelle forme di costruzione della società è stato Antonio Gramsci. I ‘Quaderni del carcere’ sono da questo punto di vista un patrimonio straordinario e una vera e propria miniera di insegnamenti per esperienza di autogoverno democratico della società. Noi, invece, siamo tutti figli di Togliatti”. [22]

Il fondatore del Partito comunista italiano, il teorico della filosofia della praxis, che tende a superare la separazione tra sociale e politico, tra umili e sapienti, tra diretti e dirigenti, non ha avuto eredi nel suo pensiero culturale e politico: “il Pci non è mai stato gramsciano”, sono solito dire. Ma nei diversi schieramenti della sinistra ci sono state personalità, come Foa e Trentin, che hanno riflettuto molto sulla relazione sociale. E che ci offrono tracce preziose e stimoli a una nuova ricerca.


NOTE
[1] Iginio Ariemma, “La sinistra di Bruno Trentin”, Ediesse, Roma, 2014, p. 140
[2] Vittorio Foa, “La Gerusalemme rimandata”, Einaudi, Torino, 2009, p. 10
[3] Bruno Trentin (con Bruno Ugolini), “Il coraggio dell’utopia”, Rizzoli, Milano, 1994, p. 250
[4] Questa tesi ha ispirato le riflessioni sulla mia esperienza di dirigente del Pci-Pds e poi di Sindaco contenute in “La sinistra la capra e il violino” (Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2010) e in “Non come tutti” (Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2014); così come ha ispirato le riflessioni sulla mia successiva esperienza di cooperante in Africa contenute in “Sao Tomé e Principe - Diario do centro do mundo” (Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2016).
[5] Pietro Marcenaro e Vittorio Foa, “Riprendere tempo”, Einaudi, Torino, 1982, pp. 95-96
[6] Vittorio Foa, “La Gerusalemme rimandata”, Einaudi, Torino, 2009, p. 95
[7] Ivi, pp. 5-6
[8] Ivi, p. 14
[9] Ivi, p. 166
[10] Ivi, p. 276
[11] Ivi, p. 279
[12] Ivi, p. 299
[13] Ivi, p. 313
[14] Ivi, p. 366
[15] Iginio Ariemma, “La città del lavoro e l’altra strada della sinistra”, in “La città del lavoro”, seconda edizione, Ediesse, Roma, 2014, p. XV
[16] Bruno Trentin, “La città del lavoro”, seconda edizione, Ediesse, Roma, 2014, p. 30
[17] Ivi, p. 31
[18] Ivi, p. 10
[19] Ivi, p. 203
[20] Ivi, p. 213
[21] Vittorio Foa, “La Gerusalemme rimandata”, Einaudi, Torino, 2009, p. 9
[22] Franco Giordano, “La sconfitta culturale della sinistra”, “Italianieuropei”, n. 1 2018, p. 144
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