Le origini intellettuali della rivoluzione italiana: il ‘68 e la sua genesi
di Michele Filippini
Abstract: Il ‘68 italiano, rispetto allo stesso movimento in altri paesi europei, si caratterizza per la sua lunga durata e per la sua particolare intensità. Si tratta infatti di un movimento che ha prodotto effetti potenti e duraturi sulla società italiana per almeno un decennio, con un impatto ben visibile nella persistente memoria storica dell’evento che si ripresenta anche ai giorni nostri. Ma lo scoppio del ‘68, come le conquiste sociali e legislative degli anni ‘70, devono le loro condizioni di possibilità a una rottura, politica ma soprattutto teorica, che si è verificata in precedenza, all’inizio degli anni ‘60. Risalire alla genesi della rottura dell’immaginario conservatore degli anni ‘50, oltre ad essere un’operazione di storia intellettuale, può essere utile per indagare come emerge la “novità teorica”, in questo caso attraverso una rottura con la tradizione tesa però alla sua riattivazione
1. Il movimento, la politica, la teoria
Se si dovesse scegliere la più rilevante tra le particolarità del ‘68 italiano rispetto al ciclo globale di mobilitazioni di quell’anno, questa sarebbe probabilmente la sua durata. La stessa storiografia ha ripetutamente identificato come “lungo ‘68” il decennio successivo a quell’evento, sottolineando più che la ripetizione – assai diverse sono infatti le fasi, le pratiche, i protagonisti – una specie di effetto a catena che permette di risalire a quella rottura per spiegare le profonde trasformazioni ideologiche, culturali e politiche avvenute in Italia negli anni ‘701. Quella rottura aveva però avuto nel decennio precedente un periodo di incubazione caratterizzato dall’accumularsi di fenomeni nuovi – lo sviluppo economico accelerato, la scolarizzazione crescente, l’emigrazione dal sud al nord del paese – che avevano creato contraddizioni e conflitti. Ha quindi qualche ragione chi fa risalire l’origine della rottura sessantottina al protagonismo giovanile nella rivolta del luglio ‘60 contro il governo Tambroni, alla ripresa del conflitto operaio con gli elettromeccanici a cavallo tra il ‘60 e il ‘61, ai tumulti di Piazza Statuto contro la Uil del ‘62 o alla grande stagione di lotta per i rinnovi contrattuali degli anni ‘62-‘632.
Anche dal punto di vista delle mobilitazioni studentesche, le prime occupazioni universitarie si hanno in Italia in anticipo rispetto al trend internazionale: già nel ‘66 alla Sapienza di Roma (dopo la morte dello studente Paolo Rossi) e a Sociologia a Trento (per il riconoscimento della nuova laurea); nel ‘67 la Cattolica a Milano, Palazzo Campana a Torino, la Statale a Pisa, ancora Trento, poi Napoli, Venezia, Milano Statale e Architettura. Il movimento dura poi a lungo anche dopo l’anno degli studenti3, scomponendosi e ricomponendosi all’interno dei nuovi gruppi extraparlamentari e attraverso esperienze più o meno fortunate di collegamento con i lavoratori (in particolare a Torino) di nuovo in lotta dall’autunno ‘69.
Seguendo lo stesso frame ricostruttivo fatto di anticipazioni e di effetti duraturi, anche dal punto di vista politico il ‘68 rimanda a mutamenti sostanziali lungo un arco di tempo esteso. Due eventi in particolare segnano la rottura con il conformismo degli anni ‘50: da una parte la reazione della Cgil alla sconfitta senza precedenti della Fiom alle elezioni per le commissioni interne della Fiat nel ‘554; dall’altra la crisi dell’intellettualità di sinistra nel ‘56 dopo il rapporto Krusciov di denuncia dello stalinismo al XX congresso del Pcus e la repressione della rivolta ungherese5. Questi due eventi, uno sindacale e uno politico, provocano nella seconda metà degli anni ‘50 due reazioni diverse, entrambe decisive per le sorti del “lungo ‘68”. Sul fronte sindacale la Cgil rivede il suo modello centralistico, apre alla contrattazione articolata e si pone l’obiettivo di una presenza in fabbrica per avere un contatto diretto con gli operai, con i loro nuovi bisogni e rivendicazioni. È qui che si allenta il collateralismo politico (o meglio la subalternità politica al Pci) e nascono i primi germi dell’autonomia sindacale, nella direzione di quel sindacato di classe che, con tutti i suoi ritardi e le sue contraddizioni, sarà comunque la struttura portante dei due cicli successivi di lotta operaia, quello dei primi anni ‘60 e quello del ‘696.
Sul fronte dei partiti lo choc della denuncia dello stalinismo, ma soprattutto quello creato dall’invasione dell’Ungheria nel ‘56 da parte dell’esercito sovietico, non produce invece un’apertura, ma piuttosto un irrigidimento del Pci a difesa del legame con l’Urss e con esso dell’impostazione politico-culturale che Togliatti aveva dato al partito sin dal ‘447. Oltre all’allontanamento di molti intellettuali dal partito quest’evento segna, almeno simbolicamente, la data di nascita di un’opposizione a sinistra del Pci (come anche all’interno del Pci): uno spazio politico che fino ad allora era stato occupato dal bordighismo, dal trotskismo e dall’anarchismo, tendenze che nei primi anni dal dopoguerra erano state sconfitte e marginalizzate dalla costruzione del partito nuovo togliattiano. Quest’area di dissenso politico-culturale, che nella seconda metà degli anni ‘50 ha contorni labili e nessuna organizzazione, faticherà molto a trovare un autonomo protagonismo politico, riuscendo a organizzarsi, sia fuori sia dentro i due principali partiti del movimento operaio, solo dopo la parentesi del centro-sinistra e la morte di Togliatti8.
Negli stessi anni, in particolare dalle elezioni del ‘58 che segnano la fine del centrismo, inizia il lento e accidentato percorso di avvicinamento tra Dc e Psi, che all’inizio degli anni ‘60 produrrà la stagione del centro-sinistra. Anche questo graduale spostamento dell’asse politico del paese è tra i fattori che concorrono a creare le condizioni per il “lungo ‘68”, da una parte come effetto delle politiche di apertura del centro-sinistra – nel ‘68, ad esempio, le scuole superiori sono già piene dei ragazzi che hanno frequentato la scuola media unificata istituita dal governo di centro-sinistra nel ‘639, dall’altro come risentimento per la timidezza di queste stesse riforme e come insoddisfazione rispetto alle promesse di emancipazione che questa stagione aveva creato – non a caso il movimento studentesco crescerà grazie all’opposizione alla legge Gui sull’università.
Dal punto di vista della teoria, infine, il ‘56 segna, con il distacco di una parte dell’intellettualità di sinistra dal Pci, l’apertura definitiva di un campo di sperimentazione che nei due decenni successivi innoverà la teoria marxista e la letteratura, la filosofia e la sociologia, la pedagogia e la psichiatria, alimentando il ‘68 e i movimenti successivi e da questi venendo alimentato. Nel primo decennio della Repubblica la continuità dello Stato10 non era stata infatti solo quella della macchina amministrativa, ma anche quella della cultura diffusa, impregnata di conformismo e moderatismo, che nel campo del Pci si rifletteva in un’opposizione fatta di centralismo interno e di strenua difesa esterna da un anticomunismo derivato da «corpose e arcaiche culture reazionarie»11. Il fatto epocale dell’inizio degli anni ‘60, che trova tutta la sua cogenza nel ‘68 e nel decennio che lo segue, è quindi la rottura prima timida, poi tumultuosa, poi ancora irriverente e infine anche violenta di un immaginario conservatore che impregnava tanto il senso comune quanto la prassi istituzionale, politica, sociale e culturale del paese. In questi anni la letteratura vede l’emergere della neoavanguardia, il marxismo dell’operaismo, la filosofia viene investita dalla crisi dei fondamenti, la psichiatria viene sfidata dall’antipsichiatria, dal (e contro il) movimento nasce una stagione di pensiero e di pratica femminista12. Il ritardo che la cultura italiana aveva accumulato rispetto alle correnti maggiori della cultura mondiale – dovuto prima al ventennio fascista di isolamento, poi al conformismo dell’Italia degli anni ‘50 – nei due decenni successivi viene recuperato vorticosamente, con un effetto di spiazzamento dato dall’accelerazione che è probabilmente alla base della ricchezza sperimentale di questa stagione13.
Queste tre dimensioni – le mobilitazioni studentesche e operaie, l’emergere di nuovi equilibri politici, lo sperimentalismo e la “nuova sinistra” – si richiamano chiaramente l’una all’altra e finiscono necessariamente per spiegarsi a vicenda. Non è quindi da un punto di vista causale che si possono ricostruire le traiettorie, le rotture e le innovazioni di quella stagione. Appare invece più fecondo un punto di vista che sappia tenere insieme le diverse dimensioni del “lungo ‘68” e che ambisca a riportare l’ampiezza del fenomeno.
2. L’eredità degli anni ‘50: Vittorini, Fortini e l’“altra linea”
Nell’immediato dopoguerra un tentativo di apertura della cultura di sinistra a quelle correnti di pensiero “moderne” che erano emerse nei paesi a capitalismo avanzato (in particolare negli Usa) in realtà era stato fatto. «Il Politecnico», rivista diretta da Elio Vittorini e pubblicata dal settembre ‘45 al dicembre ‘47, pur in modo eclettico e disordinato, si proponeva infatti come uno spazio dove continuare “con altri mezzi” quella battaglia di rinnovamento che era stata la Resistenza e che aveva visto, evento raro nella storia italiana, un incontro tra ceti popolari, intellettuali progressisti borghesi e quadri politici dei partiti di sinistra. Così scrive Franco Fortini qualche anno dopo la chiusura della rivista:
«“Il Politecnico”, almeno in un primo momento, si proponeva di rivolgere agli intellettuali dell’antifascismo, alla frazione radicale della borghesia e a quei lavoratori che la Resistenza aveva presentati alla responsabilità politica, un discorso complesso dove l’informazione (e la divulgazione) di tutti i risultati di quella cultura contemporanea dalla quale il fascismo aveva tenuto lontani quasi tutti gli italiani, fosse, per metodo, linguaggio e correlazione di soluzioni e problemi, una proposta o fondazione di “cultura nuova”»14.
La fine di questa esperienza è nota: una polemica pubblica con la dirigenza del Pci (con articoli dello stesso Togliatti) che si avvita nella rivendicazione per entrambe le parti della “primazia” della politica o della cultura15. Togliatti agiva allora in un contesto di progressiva marginalizzazione del Pci (era stato appena varato il terzo Governo De Gasperi con l’estromissione delle sinistre, iniziava la guerra fredda) e preparava una fase difensiva del movimento all’interno della quale i ranghi, anche quelli culturali, dovevano rimanere serrati per reggere l’urto dell’avversario. Vittorini, dal canto suo, «invece di […] affermare che, sì, la richiesta di indipendenza della ricerca letteraria è una richiesta politica, […] finiva col formulare la richiesta “corporativa” della libertà della letteratura»16. Frutto di una stagione che si andava chiudendo, quella dell’unità antifascista e del vento del nord rinnovatore, «Il Politecnico» non trova quindi spazio nel nuovo contesto della ricostruzione caratterizzato dalla “missione nazionale” del Pci che implica moderatismo politico e ortodossia culturale. Da allora, per almeno un decennio, la vita culturale a sinistra sarà caratterizzata da quella gran bonaccia delle Antille immortalata da Calvino in un celebre racconto satirico nel ‘5717.
Gli anni dal ‘48 al ‘56, dal punto di vista della cultura critica impegnata politicamente, rappresentano quindi un lungo inverno, dove la sopravvivenza di voci dissonanti è garantita solamente da alcune riviste come “Discussioni” (‘50-‘53, Guiducci, Solmi, Fortini), “Movimento operaio” (soprattutto dal ‘49 al ‘52 sotto la direzione di Gianni Bosio), “Ragionamenti” (‘55-‘58, Amodio, Fortini, Guiducci, Momigliano, Pizzorno)18. È il trauma del ‘56, come abbiamo visto, a rimettere in moto un duplice processo di sperimentazione teorica e di lotta politica che si materializza prepotentemente negli anni successivi: la prima attraverso la stagione delle riviste autonome degli anni ‘60, la seconda con la ripresa del conflitto operaio.
Questa rinascita di teoria e di lotte non viene però dal nulla; al contrario, essa si innesta su una serie di tradizioni sotterranee, tra di loro anche molto diverse, che nel lungo inverno avevano continuato a vivere ai margini del movimento operaio. Si tratta di un sottobosco in realtà limitato e quasi clandestino di personaggi eterodossi e radicali, il cui lavoro avrà un ruolo di preparazione/anticipazione del ‘68, pur non determinandolo, e che costituirà una delle basi sulle quali si agganceranno gran parte delle innovazioni teoriche del decennio ‘68-‘77, influenzando la cultura italiana per i decenni successivi. Personaggi come Franco Fortini, Gianni Bosio, Danilo Montaldi, Raniero Panzieri, ma anche Franco Basaglia, Luciano Bianciardi, Danilo Dolci, Don Milani. Si tratta in parte di quell’“altra linea”, o “altra storia” descritta da Attilio Mangano e Stefano Merli19 che si era sempre situata alla sinistra del Pci e del Psi (sia dentro che fuori questi due partiti), in parte di un cerchio più ampio di dissenso (compreso quello cattolico) che aveva trovato nella critica radicale alle istituzioni nazionali – la scuola, il manicomio, l’industria culturale – una via per opporsi al conformismo che in quegli anni aveva la faccia tanto della Dc quanto del Pci.
Se Fortini20 ha il merito di mantenere aperta la ricerca di un rapporto tra politica e cultura diverso da quello prefigurato dallo zdanovismo – ovvero la partiticità della cultura – nella speranza di un’uscita a sinistra dallo stalinismo che permetta di rivendicare un legame con la prima garantendo autonomia e pluralismo alla seconda, Gianni Bosio21 dispiega già dalla fine degli anni ‘40 un’intensa attività di ricostruzione delle culture politiche e delle forme organizzative del proletariato italiano, in netta contrapposizione alla narrazione nazional-popolare del Pci. Danilo Montaldi22 è invece il primo a mostrare gli effetti della modernizzazione capitalistica in agricoltura, dipingendo un affresco delle campagne cremonesi abitate non più da contadini che aspirano all’appezzamento di terra per diventare piccoli proprietari ma da lavoratori salariati che lottano per migliorare le proprie condizioni di lavoro.
3. La rottura teorica: Panzieri e Tronti
La figura più importante di quest’area eretica e radicale è però quella di Raniero Panzieri, personalità di straordinaria vivacità intellettuale nonché quadro della sinistra morandiana del Psi sin dal dopoguerra23. Panzieri, tra gli anni ‘40 e ‘50, lavora con De Martino a Bari e con Della Volpe a Messina per poi stabilirsi a Roma con incarichi importanti come quello di responsabile per la stampa e la propaganda del partito24. Il suo è un socialismo libertario interessato più ai comportamenti della classe che a quelli del partito, che quindi mal si concilia tanto con la linea politica nenniana quanto con il politicismo della corrente di sinistra nella quale milita. Per questo motivo, soprattutto a partire dal congresso di Venezia, Panzieri inizia un graduale distacco dai ruoli politici, preferendo nel ‘57 la direzione della rivista teorica del partito, «Mondo operaio», sulla quale l’anno seguente pubblica, insieme a Lucio Libertini, le Sette tesi sul controllo operaio, che possono essere considerate la prima sfida “operaista” alla cultura politica, ma soprattutto alla linea politica dei due principali partiti del movimento operaio25. Con la pubblicazione delle Tesi, a cui segue un acceso dibattito26, viene infatti esplicitata l’opzione del controllo operaio: una proposta politica che parte dall’idea che lotta salariale e lotta generale non debbano più essere pensate separatamente, come invece presupponevano entrambe le strategie, riformista del Psi e leninista-stalinista del Pci, ma agite insieme nel conflitto di fabbrica. Scriverà Libertini qualche anno dopo:
«la classe operaia – e più precisamente gli strati più avanzati di essa – vanno acquistando consapevolezza che qualunque aumento salariale, o miglioramento normativo, o miglioramento delle stesse condizioni del potere scritte nei contratti viene regolarmente assorbito dal padronato, soprattutto nella industria moderna, se alla battaglia contrattuale seguono lunghe pause di “pace sociale”, all’interno delle strutture produttive. Nell’ambito della “pace sociale”, ovviamente gestita dal padronato, è facile annullare i vantaggi e diritti conseguiti dagli operai attraverso modifiche della organizzazione produttiva, variazione dei ritmi, ricambio e dequalificazione della forza-lavoro, ecc. […]. Articolazione e generalizzazione sono momenti dialettici di una strategia. Il vero problema sta più avanti, ed è la scelta tra una lotta a direzione delegata, che nasce e si conclude all’esterno della fabbrica, e lascia vuoti riempiti dalla incontestata gestione padronale, e una continua lotta e contestazione che si esercita all’interno della produzione e dalla quale cresca di continuo un contropotere»27.
Che il potere potesse crescere in fabbrica era una novità per la tradizione marxista italiana, che proprio sui limiti del biennio rosso aveva costruito, attraverso la riflessione gramsciana28, l’azione politica come azione nello Stato attraverso il partito. Le Tesi riprendevano invece dalla tradizione consiliarista l’idea che «gli istituti del potere proletario devono formarsi non già dopo il salto rivoluzionario, ma nel corso stesso di tutta la lotta del movimento operaio per il potere»29. Questa insistenza sulla fabbrica come “luogo del potere” coesiste ancora in questo testo con un elemento classico delle letture ortodosse dei partiti del movimento operaio: una visione positiva e oggettiva dello sviluppo che legge l’arretratezza italiana come frutto del mancato ammodernamento dovuto alla presenza dei monopoli. Di lì a un anno anche questo aspetto di subalternità all’ideologia dello sviluppo capitalistico si rovescerà nella critica al “neocapitalismo”, un neologismo coniato in quegli anni per identificare il nuovo sviluppo capitalistico e le ideologie che esaltano l’integrazione della classe operaia al suo interno. È infatti il ‘59 l’anno della svolta definitiva per Panzieri: ad aprile si trasferisce a Torino per lavorare all’Einaudi, a settembre rompe con Libertini – che punta a una battaglia egemonica all’interno del Psi – per iniziare un lavoro esterno al partito di critica ideologica e ricerca teorica, e già nel febbraio ‘60 organizza riunioni con Tronti e il cosiddetto “gruppo romano” (Asor Rosa, Coldagelli, Di Leo, Accornero) per impostare un “lavoro politico autonomo” da cui nasceranno l’anno successivo i Quaderni rossi, la rivista più importante di quegli anni.
Mario Tronti nel ‘59 ha 28 anni, dieci in meno di Panzieri, e ha militato nel Pci togliattiano fino al ‘56 per poi avvicinarsi alla corrente del marxismo scientifico antistoricista capeggiata da Galvano Della Volpe e ben rappresentata alla Sapienza, dove Tronti è segretario della cellula comunista universitaria, da Lucio Colletti30. I «Quaderni rossi» sanciscono quindi l’incontro di due anime diverse dell’eterodossia operaia degli anni ‘60 – quella socialista rivoluzionaria antistalinista e quella comunista classista antistoricista, entrambe interessate alle potenzialità rivoluzionarie della nuova composizione di classe dell’Italia del boom economico, caratterizzata dall’emergere di una forzalavoro dequalificata che adotta specifiche strategie di rifiuto del lavoro ed esprime il proprio antagonismo in forme nuove, come durante la rivolta di Piazza Statuto a Torino l’8 luglio ‘62.
I contributi di Panzieri e Tronti all’inizio degli anni ‘60 interrompono quindi una lunga consuetudine di discorso produttivista e subalterno allo sviluppo capitalistico che aveva caratterizzato il Pci e la Cgil (ma anche il Psi) fin dalla ricostruzione31. Si tratta di un periodo molto breve – dal ‘59 con la preparazione dei Quaderni rossi al ‘64 con uscita di Classe operaia e la morte di Panzieri – nel quale il corpus di innovazioni teoriche che i due riescono a produrre e a socializzare è ampio, va in profondità e forgia quei «prototipi mentali» di cui ha parlato Sergio Bologna, attraverso un numero tutto sommato contenuto di testi che hanno «tracciato un solco dal quale è difficile scostarsi ancora oggi»32. La rottura tra i due nei primi mesi del ‘6333 – che si crea su una precisa richiesta politica, quella di Tronti di un intervento diretto nelle lotte, e che ha alla base un dissidio su un punto teorico specifico, la precedenza logica che Tronti assegna alla classe operaia sul capitale – non deve trarre in inganno rispetto a una serie di assunti teorici elaborati in comune che costituiscono le basi di quello che verrà chiamato, inizialmente in senso dispregiativo, operaismo34.
La prima messa in discussione dell’ordine del discorso produttivista avviene, come succede sempre nello stile dei due, tramite la riscoperta di un testo marxiano, quel Frammento sulle macchine dei Grundrisse tradotto per la prima volta nel n. 4 dei Quaderni rossi35. In Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo Panzieri ribalta l’idea secondo la quale lo sviluppo tecnico avvicini la liberazione del lavoro, sostenendo invece che la razionalizzazione capitalistica non faccia altro che aumentare il dispotismo del capitale:
«l’uso capitalistico delle macchine non è, per così dire, la semplice distorsione o deviazione da uno sviluppo “oggettivo” in se stesso razionale, ma esso determina lo sviluppo tecnologico […], di fronte all’operaio individuale “svuotato”, lo sviluppo tecnologico si manifesta come sviluppo del capitalismo […], coincide con l’incessante aumento dell’autorità del capitalista […], [con] lo sviluppo del piano come dispotismo»36.
Le possibilità rivoluzionarie non sono quindi legate allo sviluppo dei processi di razionalizzazione, ma alla crescente “insubordinazione operaia” suscitata dall’intensificarsi del dominio. Fissato questo punto, è chiaro come la rottura del sistema possa avvenire più facilmente nei punti di più alto sviluppo: «la forza eversiva della classe operaia, la sua capacità rivoluzionaria si presenta (potenzialmente) più forte precisamente nei “punti di sviluppo” del capitalismo, laddove il rapporto schiacciante del capitale costante sul lavoro vivente, con la razionalità in quello incorporata, pone immediatamente alla classe operaia la questione della sua schiavitù politica»37. Tronti, due anni più tardi, porrà la questione su un piano ancora più ambizioso:
«dentro la società capitalistica in fondo il punto più alto dello sviluppo non è affatto il livello del capitale, il punto più alto dello sviluppo è la classe operaia, per cui probabilmente non è più vera la tesi di Marx secondo cui il capitale spiega tutto quello che c’è dietro, perché evidentemente c’è qualcosa oggi che spiega il capitale e che soltanto può spiegare il capitale, e che è appunto la classe operaia»38.
La riflessione di Tronti in La fabbrica e la società, che vede l’estendersi dalla prima alla seconda della logica organizzativo-produttiva del capitalismo e che per questo sancisce la centralità della fabbrica come punto nevralgico di tutta l’organizzazione sociale, lo porterà a sviluppare il “punto di vista” come indicazione metodologica rivoluzionaria, espressa qui in un passo assai famoso dell’introduzione a Operai e capitale:
«la sintesi può essere oggi solo unilaterale, può essere solo consapevolmente scienza di classe, di una classe. Sulla base del capitale, il tutto può essere compreso solo dalla parte. La conoscenza è legata alla lotta. Conosce veramente chi veramente odia. Ecco perché la classe operaia può sapere e possedere tutto del capitale: perché è nemica perfino di sé stessa in quanto capitale. Mentre i capitalisti trovano un limite insormontabile alla conoscenza della propria società, per il fatto stesso che devono difenderla e conservarla»39.
Per entrambi questo antagonismo della classe operaia verso il capitale si concretizza nel rifiuto che la stessa classe operaia sviluppa rispetto alla propria posizione all’interno della produzione capitalistica; una produzione che, grazie alla catena di montaggio, è sempre più parcellizzata e nella quale il lavoro ripetitivo e intercambiabile dell’operaio massa ha perso quegli attributi di senso che l’operaio di mestiere ancora gli attribuiva: l’odio verso il capitale è quindi anche odio verso il proprio lavoro, che all’interno del meccanismo di produzione funziona come capitale variabile, riproducendo lo sfruttamento40. Infine, entrambi sottolineano il carattere politico del neocapitalismo, esemplificato dalla figura del «capitalista collettivo, funzionario del capitale complessivo sociale»41, che ha la necessità di programmare il proprio sviluppo, gestendo anche con la leva politica del rallentamento economico i conflitti che si innescano con quella sua parte interna che è sempre sfruttata ma mai sottomessa42, la classe operaia, alla quale si apre così la possibilità di influenzare politicamente lo sviluppo stesso del capitale43.
Si può quindi dire che la centralità della fabbrica nel neocapitalismo rappresenti il contributo più importante di Panzieri all’operaismo, mentre quello di Tronti sia l’enfasi sulla centralità della classe operaia e lo sviluppo conseguente di un suo punto di vista sul sistema. Queste due acquisizioni, insieme al rifiuto dello sviluppo tecnologico come elemento di liberazione e al riconoscimento di un piano politico del capitale, innerveranno una nuova stagione di scoperte teoriche e di lotte politiche, che si produrranno anche in ambiti diversi (letteratura, filosofia, psichiatria), secondo altre parole d’ordine (quelle dei gruppi extraparlamentari degli anni ‘70), per mezzo di soggetti diversi dalla classe operaia (gli studenti, le donne), ma che avranno tutti come condizione di possibilità la rottura degli schemi interpretativi marxisti alla luce delle trasformazioni del neocapitalismo prodotte nella breve stagione dei Quaderni rossi.
4. La politica in movimento: centro-sinistra, Pci e nuova sinistra
Mentre nel giugno del ‘62 esce il secondo numero dei Quaderni rossi con l’editoriale di Tronti La fabbrica e la società e il mese successivo gli operai di Torino assaltano la sede della Uil dopo che questa aveva spaccato il fronte sindacale sul rinnovo contrattuale firmando un accordo separato con la Fiat, l’Italia vive i primi mesi della stagione del centro-sinistra con il governo Fanfani IV, sorretto dall’appoggio esterno del Psi. Si tratta dell’esito di un percorso di avvicinamento tra Dc e Psi che punta a rispondere con alcune riforme di sistema a quei cambiamenti e a quella conflittualità che il boom economico ha fatto emergere44. Nello stesso periodo anche il Pci inizia a rivedere, seppur timidamente, la sua lettura della realtà italiana: tra giugno e novembre dello stesso anno prende vita un serrato dibattito sulla dialettica tra storicisti e “dellavolpiani” sulle pagine di Rinascita45, mentre a marzo si svolge il convegno dell’Istituto Gramsci sulle “Tendenze del capitalismo italiano”, dove si confrontano due relazioni contrapposte di Bruno Trentin – che ricostruisce la genesi e l’ambivalenza delle dottrine neocapitalistiche riconoscendo la sfida che queste pongono al marxismo – e di Giorgio Amendola – fermo nel rivendicare il ruolo della classe operaia nel portare avanti gli «interessi generali della nazione» contro quelli dei gruppi monopolistici46.
Anche il mondo cattolico mostra un fermento inedito, sia rispetto alla necessità di ammodernare le proprie letture della società – il ‘62-‘63 è ad esempio il primo anno accademico del nuovo Istituto universitario superiore di Scienze Sociali di Trento voluto da Bruno Kessler47 – sia rispetto alla rivitalizzazione delle comunità di base che avviene grazie all’apertura del Concilio Vaticano II (ottobre ‘62) e alla pubblicazione nel ‘63 dell’enciclica Pacem in terris, che si rivolge non più ai soli cristiani, ma «a tutti gli uomini di buona volontà»48.
A livello internazionale poi una serie di proteste e di lotte stanno immettendo nuovi temi e nuove soggettività al centro della scena politica: nell’estate del ‘64 gli Usa invadono il Vietnam e la resistenza dei vietcong diventa un modello globale di opposizione all’imperialismo; in autunno scoppia la rivolta nel campus dell’università di Berkeley e qualche mese dopo quella nei ghetti neri di Watts, nel frattempo Malcolm X abbandona il nazionalismo islamico avvicinandosi al movimento per i diritti civili di Martin Luther King; nel ‘66 Mao avvia la rivoluzione culturale in Cina; nel ‘67 Che Guevara viene ucciso in Bolivia e il mito del guerrigliero inizia a diffondersi. Si tratta di eventi che avranno un effetto duraturo sia sul movimento studentesco del ‘68 sia sui gruppi politici che successivamente popoleranno il panorama extraparlamentare italiano.
Se quindi è vero che gli anni ‘60 sono caratterizzati da forti tensioni e cambiamenti a livello internazionale, c’è però una specificità italiana che va sottolineata, perché ci aiuta a comprendere i potenti effetti che questa stagione avrà sulle vicende dei decenni successivi. La crisi del modello sovietico, tanto come orizzonte ideale quanto come fonte di legittimazione derivante dalla perfetta coincidenza di teoria marxista e costruzione del socialismo, porta infatti alla luce la necessità di un ripensamento radicale delle basi teoriche del marxismo. Ma questo ripensamento avviene in Italia in condizioni storiche affatto particolari, quelle di un prorompente sviluppo capitalistico che modifica le figure sociali, i rapporti di potere in generale nella società e in particolare nella fabbrica, il costume e i consumi49. La denuncia dello stalinismo, la crisi di quel marxismo e la ricerca di una nuova via per la rivoluzione50 coincidono quindi con uno sviluppo che impone l’elaborazione di nuove interpretazioni e nuove pratiche legate alle trasformazioni del neocapitalismo. Questa coincidenza è ciò che rende gli anni ‘60 italiani un vero e proprio laboratorio di innovazione teorica, e il “lungo ‘68” un campo aperto di sperimentazione politica.
A testimonianza di come questo “nuovo marxismo” abbia un’influenza difficilmente sottostimabile sulla cultura italiana successiva ci sono i riflessi che esso ha nei diversi campi del sapere. Vediamo solo tre esempi, di tre personaggi che nel ‘64 erano tutti, non a caso, nella redazione di Classe operaia. Nella critica letteraria Alberto Asor Rosa sovverte il canone dell’Italia letteraria criticando i «populisti democratici e progressisti […] tutti raccolti fedelmente intorno al principio ineliminabile della “tradizione nazionale”»51. Nella critica filosofica Massimo Cacciari ribalta il giudizio sull’irrazionalità del nichilismo riconoscendo nella crisi del pensiero negativo un dispositivo centrale e costante del nuovo ordine, che impedisce in maniera definitiva «di risolvere in senso sintetico la crisi del sistema classico-dialettico»52. In campo giuridico Antonio Negri rinnova la teoria dello Stato attraverso l’analisi del governo della crisi, riuscendo a passare «dalla critica dell’economia politica alla critica della politica pur continuando a tenere il discorso saldamente ancorato alla composizione di classe e senza ricadere in utopie umanistiche di “riappropriazione” della sfera politica»53. L’attacco ai paradigmi consolidati avviene anche in altre discipline, non sempre portato dagli esponenti di questa nuova sinistra ma sicuramente come frutto di un clima di rifondazione teorica da questa promosso.
Tale “rivoluzione nel pensiero” trova comunque il suo principale canale di espressione nelle riviste che nascono o si politicizzano negli anni ‘60. Si tratta di una svolta vera e propria nella cultura di un paese abituato a una gestione centrale e unitaria della politica culturale da parte del Pci e della Dc. In quegli anni sorgono un po’ ovunque riviste di critica letteraria, cinematografica, filosofia critica, dissenso marxista54. Inizia già alla fine degli anni ‘50 la neoavanguardia letteraria con “Officina” (Pasolini, Roversi, Leonetti, ‘55), “Il Verri” (Anceschi, Balestrini, ‘56) e “il Menabò” (Calvino, Vittorini, ‘59). Seguono quelle riviste che, partite da interessi letterari e culturali, si politicizzano rapidamente: i “Quaderni piacentini” (Bellocchio, Cherchi, Fofi, ‘62), probabilmente la rivista più letta all’interno del movimento studentesco, “Giovane critica” (Mughini, ‘63), “Angelus novus” (Cacciari, De Michelis, ‘64), “Nuovo impegno” (Petroni, Luperini, Ciabatti, ‘65) e i “Quindici” (Giuliani, Balestrini, ‘67), espressione quest’ultima del “Gruppo ‘63”, un insieme di scrittori della neoavanguardia a cavallo tra riformismo e critica di sistema del quale fanno parte anche Eco, Sanguineti, Guglielmi, Barilli55. Nella seconda metà degli anni ‘60 il succedersi di nuove riviste segue le fortune dei gruppi politici ai quali queste fanno riferimento: dopo la scissione all’interno dei Quaderni rossi (‘64) nasce quindi Classe operaia (Tronti, Negri, Asor Rosa, ‘64-‘67), poi una parte del gruppo prosegue con Contropiano (‘68-‘71) mentre parallelamente viene fondato Potere operaio (Negri, Piperno, Bologna, ‘67-‘69), giornale del gruppo omonimo. Il giornale del gruppo di Lotta continua, prima settimanale e poi quotidiano, nasce nel ‘69 e smetterà di pubblicare solo nel ‘82; infine il Manifesto, nato dall’espulsione di Rossanda, Pintor, Magri e Natoli dal Pci nel ‘69, cercherà senza successo di svolgere un ruolo di unificazione dei nuovi gruppi della sinistra rivoluzionaria e sarà la più longeva di queste esperienze56.
Va anche notato come questo rifiorire culturale degli anni ‘60 contenga al suo interno un’ambivalenza che è propria di tutti i momenti di passaggio, ovvero la nascita di gruppi intellettuali che si posizionano sul crinale tra contestazione e inclusione rispetto a un sistema che è in rapido movimento e trasformazione. In questo caso tale ambiguità trova un’ulteriore spinta nella forza dirompente, anche culturale, del neocapitalismo per la deideologizzazione, la relativizzazione e l’innovazione, che se da una parte aiuta la nuova sinistra nella polemica contro lo storicismo comunista, dall’altra pone il pericolo costante di un utilizzo strumentale da parte delle ideologie neo-borghesi. Come scrive Luperini criticando il Gruppo ‘63:
«il sistema sembra tutto assorbire e accettare: il collage fenomenologico o tecnologico che i più vari tasselli accozza in un virtuoso mosaico di non-sense è in tutto omologo alla sua onnivora irrazionalità razionale. Il che poi equivale a dire che la neoavanguardia si inserisce oggettivamente in questo clima, oggettivamente collaborando a formarlo e a qualificarlo proprio mentre induce sul mercato librario una girandola vorticosa di novità»57.
Il portato di questa stagione delle riviste sulla formazione teorico-politica delle nuove generazioni – come recita il titolo di un convegno che il Pci tiene nel ‘71 riconoscendo con un certo ritardo l’importanza del fenomeno58 – è difficilmente sottostimabile, non tanto sulla base di una filiazione diretta rispetto al movimento studentesco o alle avanguardie di classe del ‘68 e ‘69, quanto sulla base di una critica a quell’ideologia neocapitalistica che voleva tutta la società funzionale all’accumulazione, attraverso l’integrazione di ogni elemento potenzialmente conflittuale59.
5. La rottura pratica: ‘68 studentesco e ‘69 operaio
Dal punto di vista dello sviluppo economico il ‘68 vede una situazione di quasi piena occupazione (il tasso di disoccupazione è appena sopra il 5%), uno sviluppo economico sostenuto e duraturo (una media annua di crescita del 6,6% nell’ultimo decennio), un reddito pro-capite quasi doppio rispetto a quello di dieci anni prima60. Misurata con il metro del determinismo economico non ci sarebbe dovuta essere una stagione migliore per la pace sociale, il consenso e lo sviluppo non conflittuale. La storia politica e intellettuale del decennio precedente, come si è cercato di ricostruire, ci mostra invece un crescente divario tra le aspirazioni delle nuove generazioni61 – studenti e lavoratori in primis – e la forma ancora rigida e verticale del comando, che si manifesta all’interno di una cultura caratterizzata dal moderatismo politico e dall’autoritarismo nelle istituzioni (università, scuole, ecc.) e nelle fabbriche62. Non è quindi sorprendente che la rivolta, prima studentesca e poi operaia, scatti in questo contesto: sono infatti proprio le aspirazioni suscitate dai rapidi mutamenti che mettono in moto le istanze rivendicative, aprendo spazi di protagonismo fino a quel momento preclusi.
Il movimento studentesco ha la sua stagione di massima crescita tra l’autunno del ‘67 (Trento, Cattolica, Torino) e la primavera del ‘68, quando le occupazioni universitarie si diffondono a macchia d’olio nel paese. La reazione dei rettori e dei prefetti è spesso di incredulità e di immediata repressione e mette a nudo quanto l’autoritarismo sia ancora un carattere centrale delle istituzioni della Repubblica. L’effetto dei primi sgomberi è però quello di rafforzare la protesta. Fino a marzo il movimento è sostanzialmente pacifico e non si pone il problema della violenza. Il tentativo di rioccupare la facoltà di Architettura a Roma porta il 1° marzo a uno scontro inedito tra studenti e forze dell’ordine, in quella che verrà ricordata come la “battaglia di Valle Giulia”63. Da quel momento, il problema di come rispondere alla repressione entra nelle discussioni del movimento, così come diventa chiaro all’opinione pubblica del paese che la critica antiautoritaria del movimento non si limita alla contestazione dei professori e della riforma Gui dell’università, che il parlamento discute proprio in quel frangente, ma si allarga alla società tutta. La contestazione non è settoriale ma globale, «nell’università si ritrova una metafora della società» scrive il leader del movimento torinese Guido Viale, aggiungendo:
«da un lato l’immagine della società come sistema di potere e apparato di dominio è una proiezione sul mondo di un’esperienza che gli studenti fanno innanzitutto dentro l’università. Ma è anche vero che la lotta contro le strutture accademiche nasce trasferendo dentro l’istituzione con cui sono a più diretto contatto un’immagine della società come rete diffusa di apparati di controllo che gli studenti del ‘68 hanno in qualche modo acquisito fuori e prima di entrare all’università»64.
Le assemblee delle facoltà occupate e i leader locali iniziano a produrre documenti politici65 che cercano di inquadrare quello che – ormai è chiaro a tutti – è un movimento inedito di contestazione giovanile. Sociologia a Trento e Architettura a Venezia, facoltà funzionali alle necessità organizzative di un paese in forte sviluppo, elaborano una critica della figura del “tecnico” della pianificazione capitalistica, iniziando a contestare lo scopo finale e l’uso strumentale delle competenze specialistiche acquisite nell’università, gettando così un primo ponte verso la critica delle altre istituzioni sociali66. L’occupazione di Palazzo Campana a Torino, come abbiamo visto dalle parole di Viale, si concentra invece sulla denuncia della condizione studentesca e sulle tematiche antiautoritarie. A Pisa, dove la componente di “cultura operaista” è più numerosa, vengono redatte le Tesi della Sapienza, che definiscono lo studente «forza lavoro in fase di formazione»67, tracciando quindi un’analogia con la classe operaia e proponendo al movimento di dotarsi di forme organizzative simili ai sindacati e di stabilire un collegamento organico con le lotte operaie. A Napoli, dove invece i gruppi marxisti-leninisti di derivazione maoista sono più numerosi, viene ribadita la distinzione tra lavoro produttivo (operai) e improduttivo (studenti), all’interno di una lotta comune.
Anche le nuove pratiche di contestazione – le occupazioni, i sit-in, le assemblee che decidono al posto delle vecchie associazioni studentesche ormai delegittimate – dimostrano una rottura con il mondo precedente, anche quello dei movimenti di protesta, definendo nuovi comportamenti collettivi che si ripercuotono nella sfera privata (ma politica) dei rapporti familiari. Critica della famiglia come istituzione patriarcale dedita alla riproduzione del conservatorismo politico e liberazione sessuale come chiave per aprire un nuovo tipo di socializzazione sono componenti essenziali della “fiammata” sessantottina, in linea con le esperienze europee e americane dello stesso periodo68.
Le occupazioni nelle università continuano anche durante l’anno accademico successivo, il ‘68-‘69, che vede però due novità: la prima è l’estensione della protesta alle scuole superiori e quindi la definitiva sanzione “di massa” del movimento, che ora coinvolge più o meno direttamente ogni famiglia italiana; la seconda è l’evoluzione della riflessione nel movimento universitario – peculiare rispetto ad altre esperienze di contestazione studentesca in Europa e negli Usa – rispetto alla consapevolezza di non essere l’unico attore sociale del cambiamento, e quindi la ricerca di forme di connessione con la classe operaia. La formula “operai e studenti uniti nella lotta” risuona nei cortei, ai picchetti operai la presenza studentesca diventa una costante, spesso nelle grandi città, Torino su tutte, nascono assemblee unitarie di operai e studenti per coordinare le iniziative69.
Lungo tutti gli anni ‘60 una leva di giovani operai non qualificati, in gran parte provenienti dal sud, sostituisce a mano a mano gli operai qualificati che avevano fatto esperienza politica nei duri anni ‘50 all’interno della Cgil e del Pci. La disponibilità alla lotta di questa nuova composizione era risultata evidente già nella ripresa dei conflitti operai del ‘60-‘6370, anche se quella stagione aveva visto un protagonismo marcato degli operai specializzati e una sostanziale tenuta del sindacato come strumento di lotta e contrattazione. Se quindi la ripresa delle lotte operaie dei primi anni ‘60 era stata contenuta anche grazie a un uso politico della crisi, con il rallentamento del ciclo espansivo durante il ‘63-‘64, la vera e proprie esplosione del conflitto industriale alla fine del decennio con il cosiddetto “autunno caldo” – le ore di sciopero si quadruplicano dal ‘68 al ‘69 – travolge anche quei deboli meccanismi regolativi che il potere politico e il capitale privato avevano predisposto per cercare di governare lo sviluppo. Il sindacato, con i suoi rappresentanti nelle commissioni interne, viene sfidato dalla nascita dei Comitati unitari di base promossi da Avanguardia operaia71; il potere politico, con i tre deboli governi presieduti da Rumor, ha da tempo rinunciato all’ipotesi di uno sviluppo conflittuale ma controllato e si prepara a una svolta a destra funzionale alla repressione.
Emerge qui chiaramente la contraddizione, che i teorici operaisti avevano individuato, di un capitale industriale costretto, per svilupparsi, ad accrescere la sua componente interna antagonistica, la classe operaia: solo alla Fiat, nella primavera del ‘69, vengono assunti 15.000 nuovi operai, provenienti in parte dall’estero, carichi delle esperienze di lotta nelle zone di capitalismo più avanzato, in parte dal Meridione, spesso giovani diplomati senza lavoro. L’operaio massa che emerge dalla composizione di classe tipica del metodo fordista è la figura politica centrale di questa stagione72: un operaio intercambiabile – il turnover è infatti altissimo, in Fiat si licenziano 10.000 operai all’anno – la cui prestazione lavorativa è incalzata continuamente da tempi cronometrati. Un operaio che non sviluppa quindi un attaccamento al lavoro, ma al contrario un suo rifiuto, e che all’interno di questa rapida politicizzazione nell’autunno caldo sta creando una nuova antropologia politica che caratterizzerà tutta la fase successiva del conflitto, fino almeno alla sconfitta operaia dell’ottobre 1980. In queste lotte operaie è quindi in gioco anche la formazione di una nuova identità collettiva, come rilevano al tempo i sociologi più attenti73, che trova nuovi riti e nuove pratiche, a volte derivate da altre esperienze di contestazione rispetto a quelle della storia del movimento operaio, come la memoria delle rivolte contadine o le pratiche del movimento degli studenti74. Anche le richieste si modificano rispetto alle rivendicazioni classiche: l’egualitarismo salariale, che si traduce in aumenti uguali per tutti, il controllo sul processo lavorativo e sui tempi, il salario come “variabile indipendente” ovvero sganciato dalla produttività del lavoro.
Al contrario del movimento degli studenti, l’autunno operaio estende la sua fase intensa almeno per un quinquennio, le lotte operaie si mantengono infatti su di un livello molto alto, sia di frequenza sia di estensione, almeno fino al ‘7475. Quello che la fine del ‘69 segna è invece l’arrestarsi della forza espansiva di entrambi i movimenti, della loro capacità di aprire costantemente nuovi terreni, tramite una forza che fino a quel momento era stata parallela al grado di consenso e di entusiasmo che la “rivoluzione” aveva suscitato. Il movimento studentesco e le lotte operaie dell’autunno caldo erano infatti riusciti a evitare uno scontro diretto con quella maggioranza di italiani politicamente passivi che però, almeno fino a quel momento, sembrava non voler ostacolare un processo anche conflittuale di ammodernamento del sistema. Le cose cambiano proprio alla fine di quell’anno, quando a distanza di meno di un mese, a Milano, avvengono due fatti che determineranno le forme del conflitto che si dipanerà per tutti gli anni ‘70: il 19 novembre viene ucciso durante una manifestazione l’agente Antonio Annarumma, il 12 dicembre 17 persone perdono la vita nella Strage di Piazza Fontana. Si tratta non a caso di due eventi la cui dinamica e le cui responsabilità non saranno mai chiarite fino in fondo, ma che al tempo hanno due effetti politici immediati: quello di spingere l’opinione pubblica – nonostante un’immediata campagna di controinformazione rispetto alla versione ufficiale che attribuisce la responsabilità della strage agli anarchici76 – a legare, in modo anche indiretto ma evidentemente efficace, il conflitto sociale con la violenza verso le forze dell’ordine e con quella stragista; quello di spingere il movimento (studentesco, extraparlamentare di sinistra e parte di quello operaio) sulla difensiva e di galvanizzare i gruppi neofascisti che intensificano negli anni seguenti le aggressioni e le violenze contro i militanti di sinistra.
Non si sottolineerà mai abbastanza quanto l’inizio della strategia della tensione, con la strage di Piazza Fontana, abbia segnato i destini delle numerose e diverse traiettorie critiche che si erano preparate negli anni ‘60 ed erano esplose nel ‘68-‘69: quell’evento segna la centralità sempre maggiore del tema della violenza nell’azione politica. Fino a quel momento infatti sia il movimento studentesco sia il movimento dei lavoratori non avevano fatto della violenza un feticcio, tanto nell’uso quanto nella condanna. Pur non essendosi mai caratterizzati in modo specifico come non violenti, non avendo cioè costruito sulla violenza un confine che definisse chi fosse dentro e chi fuori dalle lotte, avevano invece usato la violenza, quasi sempre difensiva, come strumento tattico, utile a rompere un soffocante immaginario conformista. Un attacco violento come quello di Piazza Fontana – che pur in assenza di una verità processuale vede ormai consolidata una verità storica di responsabilità dei servizi segreti e dei neofascisti – porta invece al centro dello scontro proprio quel confine sul quale si giocherà gran parte dello scontro nel decennio successivo, che vedrà nutrite minoranze scegliere la strada della lotta armata e, in alcuni frangenti, anche un’illegalità di massa77.
Questa brusca interruzione della fase espansiva dei movimenti è un’altra di quelle anomalie italiane che segnano le traiettorie successive. Nasce anche da qui la “stagione dei gruppi”, ovvero il protagonismo di una serie di organizzazioni extraparlamentari di sinistra (Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia, Movimento Studentesco, Unione Comunisti Italiani) che raccolgono entusiasmo e militanti dalla fase precedente, prolungando di fatto la contestazione per diversi anni78. È la contemporaneità di due fenomeni tra loro diversi a creare le condizioni per questo sviluppo particolare: da una parte un altissimo livello di mobilitazione nato sulla base della contestazione ai modelli educativi della scuola e dell’università che però fatica a generalizzarsi, anche per la difficoltà di arrivare ad analisi condivise sul ruolo dello studente in una società caratterizzata da uno sviluppo neocapitalista79; dall’altra l’eredità di una stagione inedita di innovazioni teoriche e di esperimenti pratici di organizzazione nella sinistra marxista che aveva fornito una «struttura interpretativa» – come l’ha chiamata Sidney Tarrow80 – delle trasformazioni neocapitalistiche e che aveva davanti l’attivazione operaia più consistente dell’ultimo mezzo secolo. L’incontro di questi due elementi – una vasta mobilitazione, prima studentesca e poi operaia, e un nuovo discorso marxista con al centro l’operaio massa – hanno permesso il prolungamento, e l’inasprimento, della mobilitazione fino alla fine degli anni ‘7081.
6. Conclusione
La rottura consumatasi in Italia nel biennio ‘68-‘69 non sta tutta dentro le premesse e le condizioni di possibilità che sono state ricostruite in questa sede. Rimangono infatti una specificità e un’intensità del movimento che impediscono di contenerlo all’interno di una storia di “modernizzazione” del paese o di semplice aggiornamento della cultura “di sinistra”. La sua natura di vero e proprio evento storico, testimoniata dalla successiva e continua risignificazione e riappropriazione82, ne impedisce infatti una riconduzione lineare secondo presupposti definiti. Ciò detto, la stagione aperta dai movimenti nel ‘68-‘69 ha avuto profondissime conseguenze sulla cultura politica, sul senso comune e sulla legislazione italiana. Basta scorrere le riforme varate in quegli anni per rendersene conto: lo Statuto dei lavoratori (maggio ‘70), la legge sul divorzio (dicembre ‘70), la legge sull’obiezione di coscienza (dicembre ‘72), la riforma del diritto di famiglia (maggio ‘75), la legge sulla riforma penitenziaria (luglio ‘75), la legge Basaglia sui manicomi (maggio ‘78), la legge 194 sulla regolamentazione dell’aborto (maggio ‘78), l’istituzione del Servizio sanitario nazionale (dicembre ‘78). Queste riforme, figlie di lunghe battaglie settoriali ma che riescono ad arrivare ad approvazione sulla spinta generale che i movimenti esercitano dall’esterno sul sistema politico, aprono una fase nuova per il paese, interrompendo quella continuità con lo Stato fascista richiamata all’inizio che aveva impedito di considerare l’Italia un paese solidamente e definitivamente democratico-repubblicano.
C’è un’ultima particolarità del caso italiano che, in conclusione, vale la pena sottolineare ed è quella che riguarda le modalità di emersione di queste “novità politiche”, tanto pratiche quanto teoriche. La storia delle origini intellettuali del ‘68 italiano mette infatti in evidenza sempre un doppio movimento, di recupero e di tradimento, di precedenti tradizioni di lotta: è così per quanto riguarda l’operaismo, nato all’interno della tradizione del movimento operaio ma già da subito in contrapposizione ad essa; è così per il femminismo, che rinasce sul binario emancipazionista ma da subito elabora temi centrali come la differenza (non l’uguaglianza) e la liberazione (non l’emancipazione) che sono contestativi di quella stessa tradizione; così è anche per il cattolicesimo sociale, che dalla spinta conciliare guadagna il coraggio di porsi al servizio degli ultimi anche quando questo significa andare contro la propria Chiesa83. La riattivazione di culture politiche e di tradizioni di lotta sopite, attraverso un tradimento interno e una proiezione esterna, sembra essere il carattere distintivo, se non di tutte, almeno di questa stagione di conquiste politiche e sociali.