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manifesto

Quel movimento che aprì la via alla globalizzazione

Marco Revelli

Sessantotto. Un'anticipazione della lezione che l'autore terrà oggi all'Auditorium di Roma

sessantottoIl Sessantotto si diffuse nel pianeta cambiando radicalmente il mondo anche se fu sconfitto. E può essere considerato come l'avvio di una rottura antropologica che vent'anni dopo è emersa con forza alla superficie

Valle Giulia. Era il primo marzo del 1968. La rivolta degli studenti arrivava per la prima volta sulle prime pagine dei giornali e dei telegiornali. Per la verità il Sessantotto italiano era incominciato qualche mese prima, già dalla fine del '67, quando erano state occupate prima la Cattolica di Milano - un vero e proprio sacrilegio -, poi Palazzo Campana a Torino. Ma le notizie erano rimaste confinate nelle pagine locali. C'erano volute le cariche della polizia in assetto da combattimento, le camionette rovesciate, il fuoco e le pietre, gli arresti e i feriti, perché il sistema dei media si accorgesse della cosa. C'era voluta, insomma, la violenza perché il Sessantotto diventasse un evento mediatico.

Le riflessioni sofferte dei cristiani ribelli di Milano, i controcorsi di Torino, più di un mese di studio collettivo e autogestito da parte di centinaia di giovani in rivolta mentale, le «tesi della sapienza» di Pisa, non avevano ricevuto nessuna attenzione al di fuori degli ambienti universitari in sommovimento, né da parte della politica, né da parte dell'informazione. Le immagini (ancora in bianco e nero, allora) delle scalinate di architettura di Roma, invece, esplosero sugli schermi televisivi con la forza di un terremoto.


Il maggio francese


Pochi giorni più tardi, alla metà di aprile, le stesse immagini aprono i telegiornali tedeschi, con i violenti scontri di Berlino, seguiti al grave attentato contro Rudi Dutschke - uno dei leaders del movimento studentesco tedesco - colpito con tre colpi di pistola da un fanatico di estrema destra al culmine di una aggressiva campagna stampa mossagli contro dai giornali della catena mediatica Springer. Poi, è la volta di Parigi, dove ii 2 maggio le autorità accademiche avevano deciso la serrata dell'università di Nanterre, in risposta ad alcune azioni di protesta da parte degli studenti. Era l'inizio del «maggio francese». Il nocciolo duro del Sessantotto. Il suo luogo simbolico, con la Sorbonne in mano agli studenti, il Quartiere latino in fiamme, le barricate sul Boulevard Saint Michel, i Crs, i grandi cortei imponenti, con gli intellettuali - Sartre, Simone de Bouvoir, quelli del «Nouvel Observateur» - a braccetto, in testa, a formare cordone come negli anni Trenta, e il difficile ma incendiario rapporto con gli operai, Flins, Billancourt, i metalleaux della Renault, il servizio d'ordine della Cgt... Tutto insieme. Tutto comnpresso in un solo mese, anzi in venti giorni, con l'apoteosi dello sciopero generale del 20 e 21: tutti fermi, dai musicisti dell'Opera ai taxi, dai ferrovieri alle maestre d'asilo.

Intanto era iniziata, al di là della «cortina di ferro», la Primavera di Praga, e si era innescato il processo che in poco tempo porterà all'invasione sovietica della Cecoslovacchia - 20 e 21 agosto - con i carri armati in Piazza San Venceslao, Jan Palach che si dà fuoco e le sue immagini, terribili, che fanno il giro del mondo, il socialismo reale che muore in diretta, per eccesso d'esibizione di forza.


I pugni chiusi di Mexico City


Quasi contemporaneamente, la rivolta che si accende dall'altra parte dell'Atlantico, nel Messico che si prepara a un altro evento globale, le Olimpiadi, e l'eccidio di Piazza delle Tre culture, gli studenti fucilati dall'alto, dagli elicotteri, sotto gli occhi dei giornalisti di tutto il mondo, fino all'epilogo inatteso, il 16 ottobre: i due atleti neri americani - Tommie Smith e John Carlos - vincitori rispettivamente della medaglia d'oro e di quella di bronzo nei 200 metri piani che, sul podio, alzano il pugno destro avvolto nel guanto nero nel saluto del Black Power. Il gesto costò loro caro: per «vilipendio alla bandiera» e «oltraggio allo spirito olimpico» furono espulsi dai giochi. Ma il loro gesto lasciò un segno indelebile, questa volta sulla falsa coscienza dell'Occidente: era l'onda lunga dell'esplosione seguita all'assassinio di Martin Luther King, il 5 di aprile di quell'anno, con le comunità nere di 110 città americane in rivolta, i ghetti in fiamme, 39 morti, 2500 feriti, 5000 arresti.

Nell'altro emisfero, infine - a completare il panorama globale di quell'anno così denso di eventi da assumere il peso specifico di un intero decennio e anche di più -, l'insurrezione degli Zenga Kuren giapponesi, con l'assedio alle basi americane, retrovie della guerra nel sud est asiatico. E, soprattutto, la rivoluzione culturale cinese, con Mao Tze Tung che invitava a «bombardare il quartier generale» e le guardie rosse che imponevano nelle università le «squadre di controllo operaio», dando l'illusione (oggi sappiamo quanto falsa) di una rivolta antiburocratica e libertaria, di una «rivoluzione nella rivoluzione» in cui soffiasse lo stesso spirito di Parigi o di Praga, di Roma o di Berkeley.


Il Vietnam in casa


Su tutto - a costituirne, per così dire, l'involucro metallico, e a segnare il clima dell'anno - la guerra del Viet-nam: il grande «buco nero» dell'Occidente. Il segno della sua caduta morale, e la ferita aperta nella sua legittimazione etica. E insieme, il segno della sua debolezza sul terreno stesso che gli era più favorevole: quello della forza. Della potenza tecnologica e militare. È il contesto senza il quale è impossibile concepire il Sessantotto. La maledizione di quella guerra segnerà l'anno in tutta la sua estensione, fin dal suo inizio, dal gennaio 1968, quando in corrispondenza del Capodanno buddista, tra il 30 e il 31 gennaio, fu lanciata la celebre «offensiva del Têt» nel delta del Mekong, la quale investì tutte le principali città sud-vietnamite e la grande base americana di Khe Sahn. Da allora, giorno per giorno, il Vietnam entrerà nelle nostre case, con le sue immagini di distruzione, di tortura, di morte, come una sorta di contrappunto costante alla nostra vita quotidiana, con una tacita investitura morale all'opinione pubblica mondiale, chiamata a giudicare quell'orrore reso visibile. Ed i campus, le aule universitarie, le piazze, si trasformarono in pubblici «tribunali delle coscienze», in cui in qualche misura si finiva anche per giudicare noi stessi, e la nostra passività.


Passaggio d'epoca


Dunque, cosa è stato il Sessantotto? Sulla base di questa sommaria mappa geografica e cronologica, un primo punto possiamo stabilirlo, con relativa certezza. Il Sessantotto è stato il primo, esplicito anticipo della globalizzazione. Se vogliamo, il punto storico d'inizio di quel processo che solo negli anni Novanta apparirà alla sperficie nella sua dimensione conclamata, e che segna il passaggio - storicamente decisivo e periodizzante - a una spazialità inedita e, appunto, «globale». Lo rivela la successione degli eventi, la loro straordinaria sincronicità, e l'impressionante tendenza a «divorare lo spazio», da parte di quel movimento magmatico, senza centri di direzione e strutture organizzative visibili: la circolazione su scala mondiale delle esplosioni di rivolta (il loro rimbalzare da un continente all'altro, indifferenti alle distanze e ai confini, persino ai differenti contesti politici e ideologici). La relativa omogeneità delle forme di espressione di essa, dei linguaggi utilizzati, delle figure stesse dei protagonisti (i giovani, gli studenti).

Da questo punto di vista, il Sessantotto sembrerebbe richiamare un altro «anno dei miracoli», e un'altra «rottura rivoluzionaria» di dimensione trans-nazionale, di più di un secolo prima, anch'essa terminante per otto: il Quarantotto. E infatti l'analogia è stata sottolineata da più parti, autorevolmente. «Ci sono state solo due rivoluzioni mondiali. Una nel 1848. La seconda nel 1968.

Entrambe hanno fallito. Entrambe hanno trasformato il mondo», hanno scritto ad esempio Giovanni Arrighi, Terence Hopkins e Immanuel Wallerstein, nel libro Antisystemic movements (manifestolibri). E ciò è senz'altro vero sul versante del bilancio: davvero quelle rivoluzioni «fallite» hanno lavorato nel profondo dei rispettivi secoli e delle rispettive società (nel costume, nell'antropologia, nel contesto culturale e comportamentale), più di tante altre rivoluzioni «riuscite». Ma richiede una precisazione sul versante del contesto. Della rispettiva natura «spaziale».


Una rivolta globale


Perché il Quarantotto di metà Ottocento fu «mondiale» nel senso che fu caratterizzato in senso forte dall'esplosione simultanea o comunque in rapida successione di una molteplicità di «rivoluzioni nazionali» all'interno di uno spazio internazionale segmentato nettamente in una pluralità di Stati cui si trattava di far corrispondere le relative Nazioni. In questo senso esso inaugurò l'epoca delle «questioni nazionali», e della politica moderna incentrata sul contesto assorbente dello Stato-nazione. Il Sessantotto di fine Novecento, invece, nasce esplicitamente come «rivolta globale»" (o, come si disse allora «contestazione globale»). Assume come proprio habitat naturale uno spazio strutturalmente «globalizzato», indifferente ai confini, alle distinzioni di lingua o di cultura nazionale. Potremmo dire addirittura che esso segna la fine delle culture nazionali. E apre l'epoca della «questione globale»: della definizione del destino del pianeta. Dell'assunzione dell'«Umanità» come soggetto storico e morale di riferimento.


La terra come patria


Mentre il Quarantotto, dunque, aveva attraversato lo spazio internazionale radicando tuttavia le proprie identità nei diversi contesti nazionali, il Sessantotto si costituisce invece ex origine come globalità. Non si comunica per «imitazione» di un altrove, ma per «identificazione» entro una totalità spaziale che è il pianeta. È sulla dimensione-mondo che elabora la propria «geografia mentale», anticipando, per molti aspetti, quella rottura «antropologica» che, quasi un quarto di secolo più tardi, all'inizio degli anni '90, Ernesto Balducci sintetizzerà nell'idea del passaggio dal vecchio «uomo delle tribù», identificato nella dimensione esistenziale nazionale, all'inedito «uomo planetario» mentalmente radicato nello spazio-mondo. E che Edgar Morin esprimerà con l'assunzione, anch'essa senza precedenti, della Terra-patria.

Né stupisce che quella «rottura antropologica»" fosse compiuta allora (o meglio «vissuta») solo da una parte - da uno strato sottile ma enormemente esteso - di popolazione: dai giovani, e in particolare da quelli acculturati, dagli studenti. Che essa assumesse, cioè, una dimensione generazionale, essendo appunto i giovani coloro che esperivano, esistenzialmente, in tutta la sua portatata, la trasformazione radicale del mondo, in un certo senso la sua «palingenesi integrale», nei convulsi, densissimi decenni, seguiti all'orrore globale della seconda guerra mondiale, e segnati da un mutamento tecnologico di portata dirompente.

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