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Il Medio Evo secondo i marxisti

di Paolo Tedesco

Le società classiste non cominciarono con il capitalismo: anche il mondo antico e quello medievale avevano sistemi di sfruttamento. Il cui funzionamento ‒ e anche la loro scomparsa ‒ potrebbe rivelare qualcosa sul futuro che ci attende

medioevo jacobin italia 1320x481In qualità di storici, Karl Marx e i suoi seguaci si occuparono in primo luogo dell’ascesa del capitalismo, della sua diffusione nel mondo e dei modi in cui lo si sarebbe potuto volgere a conclusione. Allo stesso tempo, però, essi tentarono di spiegare lo sviluppo delle società precapitalistiche alla luce del materialismo storico e dei suoi concetti principali; così facendo, cercarono di individuare le condizioni che permisero la formazione delle società di classe, prima che le contraddizioni interne ne causassero il collasso.

Le loro originali reinterpretazioni della teoria marxista hanno permesso di leggere queste affascinanti epoche storiche nei termini loro propri, anziché presentarle come semplice anticamera all’ascesa del capitalismo. Quest’ultimo approccio aveva infatti l’effetto, paradossale per i marxisti, di far apparire il capitalismo una fase naturale dello sviluppo sociale.

In quest’articolo discuterò la tradizionale visione marxista del mondo precapitalistico e i suoi problemi. Darò poi un breve resoconto delle proposte alternative elaborate da tre dei maggiori storici marxisti contemporanei: Chris Wickham, John Haldon e Jairus Banaji.

 

Marx e il Medioevo

L’interesse principale di Marx per le società del passato scaturiva dalla sua esigenza di identificare un meccanismo generale per tutti i processi di trasformazione sociale che aiutasse a spiegare tanto l’avvento del capitalismo quanto la sua prevedibile crisi. Marx presentava la storia come una progressione di fasi, dall’antichità al feudalesimo al capitalismo e infine al socialismo.

Per Marx, la transizione da una fase all’altra avveniva attraverso trasformazioni nel modo di produzione (che rispondevano a mutamenti tecnologici e altri fattori), nonché attraverso la lotta tra classi sociali innescata da ciascun modo di produzione (padroni e schiavi, signori e servi, borghesia e proletariato).

In sintesi, Marx caratterizzava particolari epoche della storia (comunismo primitivo, antichità e feudalesimo) o particolari sistemi di rapporti economici (che egli definiva talora usando termini diversi, quali «germanico», «slavo» o «asiatico») come modi di produzione. Tuttavia, i suoi scritti su questi temi sono poco chiari, e buona parte della successiva letteratura marxista sul tema riflette la stessa incertezza e ambiguità.

Nel 1974, lo storico britannico Perry Anderson pubblicò il suo fondamentale studio Dall’antichità al feudalesimo. Si tratta del tentativo più sistematico di esaminare le fasi storiche precedenti al capitalismo e di integrarle nel corpo generale della teoria marxista. Anderson seguì da vicino la schematizzazione della storia europea data da Marx; tuttavia, egli sostenne che il «vero motore» responsabile dell’ascesa e della caduta dell’antichità classica non fu tanto la lotta di classe, quanto lo sviluppo della contraddizione tra «forze e rapporti di produzione».

Nell’antichità classica (il periodo compreso tra il 500 a. C. e il 500 d. C.) coesistevano due distinte forme di organizzazione economica. Anderson denominò queste due forme «modo di produzione schiavistico» e «modi di produzione primitiva estesa e deformata» e vide in esse le espressioni di due forze politiche opposte: gli imperi antichi (in particolar modo l’Impero Romano, dal 200 a. C. al 200 d. C.) e le società che vivevano ai margini di queste entità politiche (le tribù nomadi o le popolazioni germaniche):

La catastrofica collisione di questi due decadenti modi di produzione anteriori – primitivo e antico – produsse in ultima analisi il sistema feudale, che si diffuse nell’Europa medievale.

La fine dell’antichità classica e il sistema servile caratteristico del sistema feudale del tardo Medioevo sono separati da una frattura di circa sei secoli. Per dar ragione dello scarto temporale tra la dissoluzione della schiavitù antica e l’emergere della servitù medievale, Anderson introdusse l’idea di una forma ibrida di organizzazione del lavoro, il colonato tardoromano.

Con l’intento di identificare il luogo d’origine del feudalesimo e della servitù, Anderson distinse tra le traiettorie dell’Europa occidentale e orientale. Nella metà occidentale del continente, entro l’inizio del quindicesimo secolo si era verificato un profondo processo di disintegrazione socioeconomica e di trasformazione delle strutture feudali. A est, invece, il feudalesimo, pur avendo strutture economiche comparabili a quelle dell’Europa occidentale, si era come arrestato, e non aveva seguito la traiettoria di sviluppo del pieno e del tardo Medioevo nel resto del continente.

 

I limiti del marxismo tradizionale

Dall’antichità al feudalesimo di Anderson è il tentativo più audace di creare una grandiosa narrazione marxista della storia mondiale. Esso spicca per l’innegabile chiarezza espositiva e per l’ampiezza di contenuti, anche se il suo più grande merito sta proprio nell’aver reso espliciti i limiti della schematizzazione universale marxiana dello sviluppo storico. Tale schematizzazione è fuorviante per due motivi principali.

In primo luogo, essa presentava l’Europa come apripista di una traiettoria di sviluppo valida per tutta la storia mondiale. Ciò assegnava un significato «evoluzionistico» universale al passaggio dall’antichità al feudalesimo, e quindi dal feudalesimo al capitalismo. Stando allo schema di Marx, se il resto (o «il Resto») del mondo non aveva prodotto il feudalesimo, ciò è da vedersi come un’eccezione alla regola generale di cui l’Europa rappresentava il presunto esempio «riuscito».

In verità, da allora gli storici hanno dimostrato in maniera convincente che il feudalesimo era diffuso in un numero più ampio di società extra-europee di quanto si fosse creduto in precedenza; inoltre, hanno dimostrato che i regimi dell’intera Eurasia – incluso i cosiddetti dispotismi asiatici di India, Cina e altre regioni – ebbero radici comuni nell’Età del Bronzo e nella sua rivoluzione urbana. Sia in Oriente che in Occidente tali regimi furono varianti di un sistema che potremmo definire tributario.

Se a dissolvere il feudalesimo occidentale fossero stati il benessere mercantile e lo scambio monetario, lo stesso sarebbe dovuto accadere con tutti i restanti regimi euro-asiatici. Le comunità mercantili erano cosmopolite: ovunque mirassero a ottenere prestigio e influenza culturale, esse erano organizzate in modi simili e dovevano affrontare difficoltà analoghe.

La schematizzazione marxista è fuorviante anche per un secondo aspetto: essa descrive le transizioni storiche come se queste fossero definite da una successione rigidamente marcata di modi di appropriazione del surplus economico, procedendo dalla schiavitù del mondo antico al sistema servile del Medioevo fino al lavoro salariato delle società capitalistiche.

In realtà, i modi in cui le classi detentrici del potere economico procedevano all’estrazione del surplus dai suoi diretti produttori furono assai più volatili e contingenti di quanto suggerisca questo modello: passando infatti dalla modellizzazione astratta all’interrogazione diretta delle fonti antiche e medievali, non si trovano evidenze concrete a supporto della prospettiva marxista tradizionale.

Per esempio, l’idea della schiavitù come base economica delle società antiche è semplicemente errata. Gli schiavi, specialmente in ambito agricolo, giocarono un ruolo secondario nel mondo antico, al di fuori di alcune aree geografiche circoscritte e periodi di tempo limitati (come la Roma tardo-repubblicana e primo-imperiale tra il 200 a. C. e il 100 d. C.).

D’altro canto, la schiavitù rurale continuò a essere un fattore economico anche nell’Europa medioevale e nel Vicino Oriente. Le sue forme variavano dall’impiego degli schiavi, diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo, alla più rara, ed estrema, schiavitù delle piantagioni nell’Iraq del X e nell’Iran del XIII secolo.

È, poi, ugualmente errato sostenere che ci sia una correlazione necessaria tra lavoro servile e feudalesimo. Sistemi feudali esistettero sia dentro che fuori l’Europa occidentale e la servitù non ne era la struttura sociale caratteristica: India e Cina, per esempio, furono due importanti eccezioni.

 

Chris Wickham e l’altra transizione

Infine, il lavoro salariato non è prerogativa delle società capitaliste, dato che era comune anche nel mondo antico e medievale. D’altro canto, esistono molti esempi di schiavitù e servitù a contratto impiegati sotto il capitalismo, dalle enormi piantagioni di Haiti in epoca prerivoluzionaria o nel sud degli Stati uniti fino al selvaggio sfruttamento della manodopera di emigrati nelle odierne monarchie del Golfo Persico.

Riconosciuti i limiti dello schema marxista tradizionale, gli storici si sono posti l’obiettivo di elaborare nuovi quadri interpretativi capaci di aiutare a comprendere le relazioni sociali del mondo precapitalistico. Tre studiosi marxisti contemporanei hanno dato un contributo particolarmente importante alla revisione della nostra comprensione della storia mondiale prima dell’avvento del capitalismo.

Il primo che mi propongo di discutere è Chris Wickham, storico specialista del Medioevo europeo e del Mediterraneo. Wickham iniziò a mettere in dubbio l’approccio dogmatico del marxismo alla storia in un fondamentale articolo del 1984, The Other Transition: From the Ancient World to Feudalism. Più di recente, ha scritto uno dei libri più influenti sulla transizione dall’antichità al Medioevo: Framing the Early Middle Ages: Europe and the Mediterranean, 400–800 (2005).

Nella sua opera, Wickham rifiuta l’idea semplicistica di una dicotomia tra schiavitù e servitù come demarcazione tra mondo antico e medievale. Al suo posto, egli prospetta una diversa polarizzazione tra due modi di produzione che vengono rispettivamente definiti «antico» o «tributario» e «feudale». Nel primo, il potere era saldamente concentrato nelle mani di un’élite sovrana collocata in cima alla piramide di governo; nel secondo, il potere era largamente ripartito tra signori locali, con una sovranità fragile al di sopra di essi.

Realtà storiche del tipo «antico» o «tributario» sono gli imperi romano, bizantino, abbaside e carolingio. Le élites sovrane all’apice di questi sistemi erano forti perché controllavano almeno due cruciali strumenti istituzionali.

In primo luogo, essi supervisionavano un elemento strategico all’interno del processo produttivo: la raccolta e gestione standardizzata dell’informazione. Questo ruolo di supervisione permetteva loro di creare statistiche aggregate in merito a proprietà, redditi, popolazione e produttività nei territori sotto il loro dominio. Queste forme di registrazione delle informazioni garantivano la riuscita della riscossione dei tributi.

In secondo luogo, le élites sovrane controllavano un elemento strategico di coercizione, ossia un esercito permanente provvisto di superiore capacità militare. Grazie a questa autorità coercitiva, i sovrani erano in grado di inviare i propri esattori delle imposte senza ricorrere all’assistenza di potentati locali. Essi potevano così allentare la presa dei signori locali sulle risorse e quindi sui produttori primari del surplus economico, rendendo i signori stessi dipendenti dai redditi che l’élite dominante destinava loro.

 

Economia tributaria e modi di produzione contadina

Queste strutture politiche dipendevano in ultima istanza dalla capacità di estrarre dalla popolazione agricola sufficienti risorse per finanziare l’apparato centrale di governo (la corte, l’amministrazione e l’esercito salariato). Raccolta e ridistribuzione dei tributi avevano inoltre due importanti effetti collaterali sull’economia.

In primo luogo, esse obbligavano i contadini a produrre un maggiore surplus agrario (e a volte anche beni manifatturieri), per pagare le imposte statali. Inoltre, inducevano i mercanti ad approfittare delle rotte commerciali a lunga percorrenza che erano state stabilite per il trasporto dei prelievi fiscali statali. Il crollo degli imperi tributari accelerò pertanto la fine dell’integrazione economica. Come conseguenza, le economie divennero locali o, secondo la terminologia di Wickham, feudali.

Di contro, le caratteristiche determinanti delle società feudali furono il primato della «politica della terra» e la decentralizzazione dei mezzi di coercizione nelle mani dell’aristocrazia terriera locale. In queste forme politiche, i fattori cruciali nell’esercizio del potere furono la proprietà diretta e il controllo delle terre. Il re o il signore locale era la figura più potente in un dato territorio non tanto in virtù di un ruolo statale formale o di cariche istituzionali quanto perché possedeva la maggioranza dei terreni ed esercitava uno stretto controllo sulle persone che vi risiedevano.

Queste società si svilupparono in Europa dopo la caduta di Roma, in Asia in seguito alla dissoluzione del califfato degli Abbasidi e della dinastia Tang, e in Africa dopo il declino dell’Impero Aksumita e dell’Impero del Ghana. L’assenza di una tassazione sistematica impedì alle élites governanti di esercitare il controllo diretto delle terre. Di conseguenza, il controllo di terreni e rendite divenne la fonte primaria di ricchezza e potere per tutti i vari re, nobili e signori.

All’interno di questi ampi parametri di definizione della società feudale, era possibile (ma non inevitabile) che si sviluppasse un ordine politico e sociale come quello impostosi nei territori dell’Europa post-carolingia, basato sul lavoro servile nel senso stretto del termine. L’istituto del feudo, come forma di proprietà condizionata della terra garantita da parte di un signore ai propri vassalli, prevedeva la giurisdizione su una classe contadina asservita.

Ci possono essere molteplici configurazioni intermedie tra questi due modi di produzione. Wickham affianca a essi una terza opzione di base cui dà il nome di «modo di produzione contadino». Il concetto si riferisce alle varie forme di economia contadina che si affermano quando i signori o lo stato non provvedono sistematicamente all’estrazione del surplus agricolo. Si possono trovare svariati esempi di queste comunità, dagli Appennini italiani del settimo secolo all’Islanda medievale, fino ai moderni altopiani del Sud-Est asiatico.

 

John Haldon e il modo tributario

John Haldon è un raffinato studioso dell’Impero Bizantino i cui interessi di ricerca vertono anche sull’analisi comparata degli Imperi Ottomano e Moghul. Come Chris Wickham, anche Haldon è stato allievo di Rodney Hilton, uno dei padri fondatori della tradizione storiografica marxista britannica sviluppatasi dai primi anni Cinquanta. Mentre figure del calibro di Eric Hobsbawm, Christopher Hill, George Rudé ed E. P. Thompson si concentrarono sulla storia moderna dell’Europa, Hilton dedicò la propria vita di studioso all’Europa medievale, in particolare alle rivolte contadine che analizzò nel suo libro del 1973, Bond Men Made Free (Il titolo significa: Servi fatti liberi, e purtroppo il volume non è tradotto in italiano).

Nel discutere la transizione dal mondo antico al Medioevo, Haldon offre una prospettiva sui modi di produzione per certi aspetti diversa da quella di Wickham. Egli sostiene che, dietro l’apparente impressione di rottura, vi fu in realtà continuità tra queste due epoche storiche; entrambe, infatti, furono definite da un singolo modo di produzione dominante: il modo tributario.

Nel suo capolavoro teorico The State and the Tributary Mode of Production (Lo stato e il modo di produzione tributario, 1993), Haldon impiega il concetto di «modo di produzione tributario» (tribute-paying mode). Lo studioso marxista egiziano Samir Amin aveva originariamente ideato questo concetto per sostituire l’ambigua, impopolare e ormai desueta idea di un modo di produzione «asiatico», usato anche da Marx nella sua opera. Haldon tuttavia non dipende da Amin ma dall’antropologo Eric Wolf e dal suo lavoro del 1982 Europe and the People Without History.

Haldon sostiene che in entrambi i modi di produzione, tributario e feudale, il processo di appropriazione del surplus è essenzialmente lo stesso, così come lo stesso è il rapporto economico tra produttori e mezzi di produzione – al di là di come tale rapporto sia definito in termini giuridici. I contadini erano la base economica del mondo tributario, indipendentemente dal fatto che al vertice della struttura di potere stesse un’élite nomade, un gruppo di signori feudali o uno stato.

Ciò che invece varia tra i modi di produzione tributario e feudale è il grado di controllo esercitato dalla classe dominante sulla comunità. Questo ha un impatto sul grado di sfruttamento dei lavoratori, ma non influisce in maniera essenziale sui modi di appropriazione del surplus.

 

Varietà di tributi

Ad ogni modo, sarebbe sbagliato guardare al modo di produzione tributario di Haldon come a una singola epoca storica della durata di oltre un millennio. Se la si intendesse in questo senso, la sua concezione non sarebbe di reale aiuto nel riflettere sulla formazione degli stati o sui modi in cui il potere politico era concretamente espresso attraverso strutture fiscali, o ancora sui conflitti interni alle élites o tra le élites e il potere centrale. Si tratterebbe di un quadro di riferimento troppo vago per tracciare i graduali spostamenti e mutamenti nelle sovrastrutture di stato e società, e nemmeno aiuterebbe nell’analisi dei rapporti economici.

Ma non è questo il fine per cui Haldon ha proposto la sua interpretazione. Egli ha utilizzato i termini «modo tributario» o «rapporti di produzione tributari» in sostituzione delle espressioni «modo di produzione nomadico», «feudale» o «contadino». Ciò permetterebbe di restringere l’impiego di termini quali «feudale», «nomadico» e «contadino» a specifiche formazioni sociali.

Mentre tali formazioni sono tutte basate su rapporti di produzione tributari, particolari circostanze storiche e specifiche relazioni giuridiche intervengono a distinguerle le une dalle altre; ciò non significa che ogni configurazione storica sia in sé stessa un modo di produzione.

Le società storiche basate sul modo di produzione tributario possono tendere verso la centralizzazione o la frammentazione, ma possono anche oscillare tra questi due poli o variare nelle modalità in cui i tributi sono raccolti, fatti circolare e distribuiti.

 

Jairus Banaji e il capitalismo commerciale

Nonostante Chris Wickham e John Haldon divergano su ciò che può definire un modo di produzione, entrambi condividono lo stesso obiettivo principale: comprendere come diverse tipologie di élites tenessero soggiogata la popolazione contadina su cui governavano e come esse procedessero a impiegare il surplus che riuscivano a estrarre dalla popolazione produttiva.

In quanto concetti, i modi di produzione tributario e feudale mettono in evidenza le principali relazioni sociali attraverso cui l’autorità politica estraeva e distribuiva le eccedenze in un dato territorio. Tuttavia, bisogna anche riconoscere che una porzione di queste eccedenze non era né consumata direttamente dai produttori né distribuita dopo essere stata esatta come tributo. In quasi tutti i casi, una parte del surplus veniva indirizzata verso lo scambio e la circolazione sul mercato.

La circolazione delle merci è il focus della ricerca di Jairus Banaji. Nato in India, Banaji è uno storico del Mediterraneo medievale e del Medio Oriente i cui interessi investono anche la lunga vicenda del capitalismo. I suoi punti di riferimento all’interno della galassia marxista sono diversi da quelli di Wickham e Haldon: Banaji prende le mosse dall’opera di due studiosi russi dell’inizio del ventesimo secolo, lo storico Mikhail Pokrovsky e l’economista Yevgeni Preobrazhensky.

Nel suo libro del 2020, A Brief History of Commercial Capitalism (Breve storia del capitalismo commerciale), Banaji traccia una distinzione teorica tra quello che Marx chiamava «modo di produzione capitalista», un rivoluzionario nuovo ordine sociale che è esistito soltanto negli ultimi due secoli circa, e «capitalismo» in senso più generale. Quest’ultimo termine può anche descrivere il capitalismo commerciale esistito in alcune regioni dal dodicesimo al diciottesimo secolo.

Tale distinzione permette a Banaji di distinguersi dalla prospettiva marxista ortodossa. Secondo questa linea interpretativa, la ricchezza dei commerci non costituisce «capitale» nel senso in cui Marx intese il termine fintanto che tale ricchezza rimane esterna al processo di produzione. Essa è separata da quella che Marx chiamava la reale subordinazione del lavoro al capitale, poiché aliena semplicemente i prodotti dai produttori e ottiene guadagni dalla loro vendita.

 

Mercanti e produzione

Per individuare una visione alternativa, Banaji si rivolge sempre a Marx, che nel terzo volume del Capitale scriveva che un produttore può diventare mercante o capitalista, o «alternativamente… il mercante stesso può prendere il controllo della produzione». Marx concepiva la seconda di queste due possibili traiettorie come una forma di transizione al capitalismo meno progressiva, dal momento che avrebbe lasciato inalterato il «modo di produzione».

Il capitale commerciale collegava il mondo della produzione e la sfera della circolazione delle merci in modi e in tempi diversi. La sua lunga storia venne a includere mercati monetari internazionali, reti di esportazione, l’integrazione verticale della produzione agricola e l’economia di piantagione. Banaji rintraccia germi del capitalismo commerciale fino nella tarda antichità e nei primi anni dell’Islam, pur notando che, come succede per ogni cambiamento epocale, è impossibile rintracciarne con precisione le origini.

I mercanti del mondo islamico del decimo secolo si organizzavano in partnership commerciali, finanziavano viaggi, trasportavano beni e possedevano e controllavano le spedizioni in tutto il Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Oceano Indiano. Nella Cina dell’undicesimo secolo, sotto la dinastia Song, ebbe luogo una sensibile crescita di attività capitalistiche nell’estrazione e nella produzione del ferro così come un grande aumento dei commerci con l’estero e una crescita del mercato monetario.

I gruppi capitalisti che dominarono le economie delle città mercantili italiane erano dediti ad attività di vario tipo: a Firenze organizzavano le produzioni locali in reti di esportazione; a Bologna investivano nella produzione di nuovi modelli manifatturieri; a Genova e Venezia finanziavano e gestivano il commercio tramite lettere di cambio e banche commerciali.

La base produttiva per gran parte di queste attività commerciali era il lavoro della famiglia contadina. La sua formale subordinazione al capitale commerciale, attraverso i canali di circolazione sopra descritti, comportava l’appropriazione di grandi quantità di lavoro contadino non pagato a beneficio dei mercanti capitalisti. Il modello di capitalismo commerciale proposto da Banaji prevede uno sviluppo combinato di vari fattori invece che la successione lineare di differenti modi di produzione.

 

Lo snaturamento del capitalismo

I modelli sviluppati da Wickham e Haldon mostrano che il punto cruciale non risiede tanto nell’individuare uno, due o tre modi di produzione oppure nel denominare un certo modo tributario o feudale; l’efficacia di un concetto va misurata sulla sua capacità di fare luce sulle configurazioni storiche dello sviluppo sociale.

Le società si sviluppano dalle interazioni tra persone, siano esse reali o figurate. Il concetto di «modo di produzione» mira a rivelare i rapporti politici ed economici che condizionano e vincolano tali interazioni.

Nelle società basate sul modo di produzione tributario/feudale, le eccedenze sono sì estratte dalle élites, ma sono anche trasportate e scambiate attraverso le transazioni di intermediari commerciali. Il lavoro di Banaji mira a esaminare le circostanze in cui i mercanti diedero avvio all’espansione commerciale, nonché le epoche in cui il potere di altri gruppi sociali circoscrisse o potenziò la crescita economica.

Le differenze tra queste scuole di pensiero sono significative, in quanto riflettono la diversità della storia umana. A seconda dei tempi e delle circostanze, come scrisse Marx, il produttore poteva diventare mercante e il mercante produttore. Quando una di queste due alternative si concretizzava, l’espansione del capitale cominciava a prender forma.

Tuttavia, tale espansione poteva dispiegarsi per vie diverse, che spaziavano da modifiche nelle relazioni agrarie a trasformazioni nella sfera dei commerci. Il ruolo giocato dallo stato poteva essere decisivo in questo processo. Lo stato poteva funzionare da motore di un’economia che frenava l’espansione del capitale, come nel caso del ruolo dominante del sistema di tassazione del tardo Impero Romano; ma poteva anche fungere da catalizzatore nella trasformazione del capitalismo commerciale in un modo di produzione capitalista: il tardo diciannovesimo secolo vide il rapido emergere di economie nazionali trainate più dalle grandi industrie e dai grandi investimenti piuttosto che dal commercio in sé.

Nel lungo intervallo di tempo tra questi due esempi, l’espansione del capitale si verificò su direttive tanto diverse quanto numerose. Le varietà di capitalismo organizzato in termini commerciali esistite prima del diciannovesimo secolo differivano nelle forme di produzione ed erano alquanto versatili rispetto alle modalità di collegamento del capitale all’autorità politica, dagli stati musulmani ai regni cinesi fino agli imperi iberici d’Oltreoceano.

La forza delle interpretazioni marxiste che ho descritto consiste proprio nel riconoscimento di questa varietà. Essa risiede anche nella loro capacità di concettualizzare le transizioni storiche come un complesso di percorsi ben più ricco e vario di quanto suggerisce la convenzionale idea di «passaggio» da un modo di produzione all’altro.

Nel condurre un’analisi sociale delle strutture materiali e dei processi storici, questi tre autori hanno elaborato un apparato concettuale che respinge la visione unilineare della storia come progressivo succedersi di fasi e l’impenitente eurocentrismo a essa associato; ma soprattutto, ci permettono di rigettare l’idea che il capitalismo rappresenti l’ineluttabile compimento del corso predeterminato della storia.


* Paolo Tedesco insegna storia all’Università di Tübingen. I suoi interessi di ricerca includono la storia economica e sociale della Tarda Antichità e del Medioevo, la storia agraria comparata, e il materialismo storico. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Marco Carrara

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Giuseppe Casamassima
Sunday, 26 June 2022 03:49
La cosa veramente curiosa, leggendo questo articolo, sono certe affermazioni che non stanno né in cielo né in terra.

Innanzitutto, Marx non ricercò MAI un "meccanismo generale per tutti i processi di trasformazione sociale" (come scrive qui l'autore di questo pezzo). In realtà, Marx studiò le epoche storiche precedenti solo col fine di comprendere la dialettica del modo di produzione capitalistico, rintracciando il processo di formazione dei suoi elementi costitutivi nelle forme di produzione precapitalistica.
Ma con ciò Marx non ha MAI inteso scrivere una "storia del capitalismo", né tantomeno delle transizioni da un modo di produzione all'altro !

Perciò, è molto probabile che il dott. Tedesco abbia frainteso completamente i testi di Karl Marx, laddove afferma che "i suoi scritti su questi temi sono poco chiari...". Perché, come ho detto, Marx non trattò questi temi della transizione.
Questi furono invece trattati da una certa letteratura marxista (in vero, le ricerche si concentrarono soprattutto sulla transizione dal feudalesimo al capitalismo, con il fine ei individuarne delle "Leggi" che Marx non indicò mai... perché non esistono!). La fase di transizione dal modo di produzione schiavistico al feudalesimo, ad esempio, fu quasi del tutto trascurata.

Di contro a tale realtà, qui il dott. Tedesco propone all'attenzione tre autori che non fanno altro che mortificare l'analisi marxista al livello della volgare empiria e dell'astrazione generica (come direbbe Marx). Due dei tre storici inglesi sono, non a caso, dei troskisti che inventano nuove categorie che sono, a ben vedere, del tutto INUTILI perché storicamente indeterminate. Faccio solo un esempio: uno dei tre (Haldon) propone di usare, al posto di "feudalesimo", una nuova "categoria", quella di "modo di produzione tributario". Il risultato è che, ragionando nei termini di questa categoria generica, non si afferra più la differenza tra il sistema socioeconomico del regno degli Unni del IV secolo e, ad esempio, la monarchia feudale d'Inghilterra del XIII secolo o l'impero ottomano del XVI secolo, dato che per lo storico troskista, caro al dott. Tedesco, l'elemento dominante sarebbe in tutti e tre i casi l'esazione di tributi.

È chiaro che, in quanto STORICAMENTE INDETERMINATA, questa pseudo-categoria (come anche le altre proposte) sono di per sé fondamentalmente ANTIMARXISTE. Rimane per me un vero mistero il fatto che, invece, il dott. Tedesco le presenti come nuove "interpretazioni marxiste".

Infine, riguardo al grande storici marxista Parry Anderson, va detto che la sua opera - al contrario di quello che pensa il dott. Tedesco - rappresentò un tentativo dialettico di spiegare la storia delle civiltà antiche e medievali, ma SENZA MAI pretendere di rintracciare nello svolgimento delle civiltà delle Leggi di transizione. Al contrario, Anderson mostra che, quando in Europa occidentale spariva il servaggio della gleba (non il Feudalesimo, come fraintende il dott. Tedesco !), in Europa orientale appariva con una durezza inaudita.
Dunque, Anderson mostra che non c'è alcuna necessaria sincronia di fasi o transizioni in uno stesso periodo cronologico.
Addirittura, in un libro successivo, Anderson mostra la permanenza di elementi di Feudalesimo nella formazione dello Stato moderno.
Con ciò Anderson supera quello schema evoluzionistico che Marx usò scrivendo di fretta il Manifesto nel 1848, quando aveva solo 30 anni, e che ha fatto storia nel marxismo perché è stato assunto dogmaticamente, cioè senza considerare il fatto che Marx stesso abbandonò questo schema già nei manoscritti del 1857-1859 e soprattutto nella sua opera maggiore, Il Capitale, che è quella che conta di più.
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