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sinistra

Il rifiuto del lavoro

Teoria e pratiche nell'Autonomia Operaia

di Ottone Ovidi

tumblr mawtbhnFNQ1rs4qqbo1 1280Il rifiuto del lavoro è stato patrimonio dell’autonomia operaia degli anni settanta, intesa sia con la A maiuscola di organizzazione politica sia con la a minuscola di egemonia di pratiche nel movimento di quegli anni[1].

La prima considerazione da fare riguarda la mancanza di ricerca storiografica sul tema, dal punto di vista della teoria e della prassi messe in campo dagli autonomi. Finora, infatti, l’interesse della gran parte degli storici si è concentrato su altri aspetti quali la violenza e l’illegalità teorizzate e/o praticate dagli stessi[2].

L’attenzione accordata a questi temi ha messo in ombra quello che invece è stato un nodo centrale attorno a cui si è sviluppata l’autonomia e larghi strati del movimento di quegli anni fornendogli forza e, soprattutto, originalità. La teoria e la pratica, appunto, del rifiuto del lavoro.

Uno studio storico di quella stagione da questo punto di vista comporta una certa difficoltà. Le piccole e grandi realtà nascono e muoiono velocemente, vi è un continuo scambio e ricambio di militanti e mancando una direzione centrale o centralizzata le stesse regole per venire inclusi e autodefinirsi appartenenti a quest’area non sono rigide[3]. Un ulteriore problema per lo storico consiste nella difficoltà di reperire documenti d’archivio perché il tipo di organizzazione di questi gruppi ha comportato una perdita notevole di materiale.

Poi, bisogna ricordare e sottolineare l’effetto distruttivo che hanno avuto le perquisizioni, i sequestri, gli arresti, i processi e la condanna totale con cui tutto l’arco politico, istituzionale e culturale, ha bollato quell’esperienza. Tutto questo si aggraverà con l’imponente operazione giudiziaria nota come Teorema Calogero[4], datata 7 aprile 1979, consistente nell’ipotizzare una direzione unica di tutti i movimenti rivoluzionari e lottarmatisti italiani, ai cui vertici si sarebbero trovati dirigenti politici dell'autonomia.

Per poter comprendere la portata e gli effetti delle teorizzazioni sul rifiuto del lavoro è necessario partire proprio dal concetto di lavoro. Riguardo a questo è interessante l'analisi svolta da Maria Turchetto che definisce così l’ideologia del lavoro:

Quel modo di pensare, largamente introiettato nella nostra società, che fa dell'attività lavorativa continuativa e retribuita il titolo normale e pressoché esclusivo di partecipazione alla vita associata. […] L'idea che sia il lavoro a conferire pieno diritto di cittadinanza è in effetti ampiamente trasversale, interclassista, condivisa da etiche laiche e religiose. É più di un ideologia: è senso comune, rappresenta cioè una norma di comportamento e di giudizio completamente assimilata e che dunque funziona, proceduralmente, senza passare attraverso un attento esame critico, come dispositivo disciplinare[5].

In assoluto gli autonomi non erano i primi a discutere tematiche antilavoriste. Possiamo ricordare che già nel 1887, Paul Lafargue aveva pubblicato il suo Diritto alla pigrizia, recentemente ripubblicato[6]. Ma queste tematiche non si erano, prima di allora, mai tramutate in programma politico, in azione collettiva che uscisse al di fuori dal comportamento individuale avverso alla pratica lavorativa. Nessun movimento politico organizzato le aveva fatte proprie. Lo stesso Marx nei suoi Lineamenti fondamentali sosteneva bisognasse far si che il tempo di lavoro e il tempo libero smettessero di essere contrapposti, e immaginava uno sviluppo tecnologico tale da poter abbattere il tempo di lavoro a beneficio dello sviluppo culturale, artistico, scientifico degli individui[7]. Solo l'ambito filosofico sembrava, all'inizio degli anni sessanta, interessarsi, seppur lontanamente, all'essenza di quello che definiamo lavoro, e al rapporto uomo – natura – lavoro[8].

In Italia, è soprattutto il mondo dell’operaismo che comincia ad accorgersi di alcuni cambiamenti che si stavano verificando nelle grandi concentrazioni industriali[9]. L’attenzione degli operaisti è attratta dalle pratiche di insubordinazione e sabotaggio che si erano diffuse e radicalizzate nelle fabbriche fino ad esplodere con l'autunno caldo del 1969. E’ allora che queste pratiche spontanee e diffuse vengono concepite come molteplici forme dello stesso rifiuto. E saranno la base su cui si formeranno i primi nuclei dell’autonomia. L’autonomia come progetto politico nasce in maniera simbiotica con il rifiuto del lavoro. L’evoluzione del rifiuto del lavoro come impianto teorico e come applicazione pratica va ricercata nella vita quotidiana dei militanti e non solo, negli espropri, nelle spese proletarie, nelle autoriduzioni delle bollette, degli affitti, nell’occupazione di stabili per motivi abitativi o culturali e/o politici, nel modo di lavorare di chi aveva un lavoro fisso e nelle modalità di vita di chi non lo aveva. Risulta chiaro quanto grande sia stata allora la novità, quanto grande l’impatto di una posizione come quella del rifiuto del lavoro praticata e propagandata dagli autonomi. La storia del rifiuto del lavoro è la storia della fabbrica, concentrato di esperienze storiche, di necessità quotidiane, di insoddisfazione nei riguardi dei sindacati e delle pratiche sindacali, di impegno politico ed ancora di metodi di lotta radicali: come il gatto selvaggio, il salto della scocca, i sabotaggi sulla catena di montaggio, lo sciopero a scacchiera o a singhiozzo, il rifiuto del cottimo[10]. L’operaismo degli anni ’60 in Italia, al di là della costellazione dei percorsi politici che lo hanno animato, era declinato sulla centralità politica operaia, per cui la classe operaia era il soggetto politico e l’attore principale del cambiamento della società e della rivoluzione. Tuttavia l’operaismo rompe con la tradizione comunista dell’etica del lavoro e introduce l’idea-forza dell’odio degli operai per la propria condizione

Ho l'impressione che si faccia troppo spesso coincidere la storia dell'idea moderna di lavoro con la storia del movimento operaio organizzato, il quale, se ha certamente almeno in parte interiorizzato tale idea, non ne è tuttavia l'artefice. […] Preferisco […] far risalire anche la genesi del lavoro, che alla modernità certamente appartiene, ai processi di formazione degli stati nazionali che inaugurano le tecniche del “biopotere”[11].

Una volta nata, la figura di quello che verrà chiamato “operaio massa”, diventa portatrice di nuovi bisogni, desideri, comportamenti, istanze conflittuali. In definitiva di un diverso atteggiamento verso il lavoro e il proprio ruolo. Inizialmente la lotta operaia rivendicò l’egualitarismo salariale, indispensabile per coagulare i lavoratori, rompendo la linea di continuità tra mansione e retribuzione e cercando il riconoscimento dell’attività lavorativa in quanto tale, oltre le molteplici frazioni prodotte dal capitale tra categorie e competenze. Da subito, però, il conflitto lavorativo si spostò sui temi della nocività e del rifiuto del lavoro estendendo alle università e al territorio questa sensibilità, aggregando soggetti e generazioni diverse tra loro. Il modello industriale fordista, arrivato anche in Italia, aveva fatto nascere la figura dell’operaio-massa e quest’ultimo fuggiva da quella condizione. Le testimonianze degli operai raccolte in quegli anni, tramite lo strumento dell'inchiesta[12], ci parlano di un grande malessere:

Mi sono fatta mettere in malattia: con l'aria condizionata, le luci al neon e i telai c'è da impazzire. Il reparto noi lo chiamiamo Mauthausen.

Io sono entrata in fabbrica a dodici anni, quindici anni fa. Ero contenta di andare a lavorare. Mi trovavo bene. Adesso, ogni mattina che mi alzo, mi sembra di andare a morire[13].

Questo comportò lo sviluppo politico di pratiche che andavano dall’assenteismo in fabbrica al rifiuto del lavoro su tutti i terreni sociali. Il comportamento spontaneo, di massa, che gli autonomi richiamano è proprio quello del rifiuto del lavoro principalmente come estraneità, anche non cosciente, ai valori della società capitalista. I “nuovi bisogni” e le “nuove aspirazioni sociali” sono la causa di questo rifiuto e, quindi, proprio da questo rifiuto si deve partire per rendere cosciente la “classe” dei motivi del suo malessere.

Il giornale <<La classe>> raccoglie e rilancia questo programma politico. Nel numero del giugno 1969 il titolo in prima pagina era “Rifiuto del lavoro” e così si dipanava l’articolo:

La rivoluzione operaia non può significare un nuovo nome per lo sfruttamento del lavoro vivo, può intendersi soltanto come possibilità concreta materiale di liberazione del lavoro vivo dall’intero apparato produttivo organizzato del lavoro morto, come distruzione dei rapporti capitalistici in ogni loro specificazione[14].

Ecco come si esprimeva il Comitato Operaio di Porto Marghera:

Siamo liberi solo di alzarci ogni mattina e di andare a lavorare. Chi non lavora non mangia. È libertà questa? C'è una cosa che impedisce la nostra libertà: il lavoro, e a lavorare in realtà noi siamo obbligati”[15].

Per comprendere appieno l'aria che si respirava nelle grandi concentrazioni industriali basta prendere, ad esempio, le statistiche riguardanti l'assenteismo all'interno della sola Fiat: si passa dal 7% sul totale degli occupati nel primo semestre 1970, all'11% del secondo semestre, al 14-15% del 1972[16]. A tal proposito è bene ricordare l’occupazione della Fiat Mirafiori avvenuta nelle giornate del 29 e 30 marzo 1973. Un evento individuato come spartiacque tra i militanti dell'epoca[17], e riconosciuto come importante ancora oggi. La novità fu la partecipazione continua e di massa, l’estraneità totale di figure sindacali di qualsiasi tipo, la completa autorganizzazione degli operai, insomma in quell’occasione si condensarono anni di esperienza di lotta in fabbrica.

In questo senso le varie aree dell’autonomia non rivendicarono mai l’invenzione del rifiuto del lavoro, ma sostennero sempre di averlo preso dalla pratica quotidiana dei lavoratori, in particolare degli operai. L’operaio massa veniva interpretato dagli autonomi non solamente come categoria sociale e sociologica, ma, soprattutto, come categoria politica produttrice di lotte. Quindi il mito del “sol dell’avvenire” venne sostituito dall’immanenza delle lotte, dei desideri, del rifiuto del lavoro. L'etica del lavoro non faceva parte della cassetta degli attrezzi. L’errore che non si deve commettere è quello di considerare l’autonomia al pari di un partito (o gruppo extraparlamentare) classico poiché con “autonomo” non si intendeva solamente chi esplicitamente si richiamava all’area politica in questione, ma anche tutti coloro che, a vario titolo, mettevano in atto determinate pratiche, tra cui il rifiuto del lavoro:

L’Autonomia operaia non è soltanto la risposta ad una costrizione, ad una “negatività” imposta alla classe dalla crisi del capitale, ma vuole essere affermazione piena e consapevole della “positività” con cui già oggi il movimento marcia verso un nuovo assetto dell'organizzazione sociale e produttiva. Negli obiettivi, nei bisogni, nella pratica di chi lotta oggi […] ci deve essere già la prefigurazione delle diverse condizioni di vita e dei nuovi rapporti sociali a cui tendiamo e che nella società nuova vogliamo affermare. Nella tematica della riduzione dell'orario di lavoro c'è si la risposta alla cassa integrazione, ai licenziamenti, alla disoccupazione, ma c'è anche l'affermazione di una volontà nuova della liberazione dell'uomo a questo stadio della sua evoluzione e di un nuovo assetto del lavoro e della produzione socialmente utile[18].

Le autoriduzioni, gli espropri, le occupazioni, il contropotere devono essere interpretate a partire da questa positività.

Per gli autonomi il rifiuto del lavoro, del lavoro fatica, del lavoro espropriato significava richiesta di conquista di tutto il potere, di appropriazione di tutta la ricchezza sociale. Questo è il senso delle parole d’ordine lanciate all'inizio degli anni settanta dai primi gruppi autonomi: riduzione dell'orario di lavoro, riduzione dei ritmi, rifiuto della nocività, aumento salariale uguale per tutti[19].

La necessità di espandere al territorio le tematiche sviluppate in fabbrica è conseguenza di questo significato. Per questo si aveva l'esigenza di avviare una ricomposizione della classe e delle lotte contro le divisioni che venivano concepite come strumentali e false nonché utili al capitale: tra lavoratori e disoccupati, precari e non, studenti e lavoratori, uomini e donne. Questa ricomposizione doveva partire essenzialmente dai bisogni comuni a tutto il proletariato, bisogni che ruotavano attorno al perno centrale del rifiuto del lavoro concepito come un momento unificante delle lotte. A questo proposito così scriveva l'Assemblea Autonoma di Porto Marghera:

Quello che deve contraddistinguere l'Ass. Aut. è l'impostazione completamente nuova della lotta, sviluppando le capacità di generalizzazione delle parole d'ordine e dell'unificazione dei diversi settori di classe; praticando forme nuove di lotta, che contrappongano la capacità organizzativa operaia al padrone, attaccando la sua organizzazione del lavoro […]; portando la lotta sul sociale per ricomporre alla classe operaia i disoccupati, le donne, gli studenti e tutti gli altri proletari, riuscendo ad articolare dalla fabbrica al sociale il programma del salario garantito[20].

Pertanto, negli anni ’70, le espressioni “potere operaio” e “classe operaia” per alcuni avevano mutato significato perché non ci si riferiva solo ad una figura economica o sociologica ma anche e, soprattutto, a quei soggetti, singoli e collettivi, produttori di autonomia e quindi intrinsecamente fuori dalla società del capitale, contro di essa. Riprendendo l'analisi svolta da un operaista come Mario Tronti, gli autonomi teorizzano il concetto di estraneità che caratterizzerebbe la nuova composizione operaia (quell'”operaio sociale” non più legato esclusivamente al lavoro di fabbrica)[21]. Anche perché forte era il riferimento alla categoria marxista di capitale “sociale”, con cui si intendeva la tendenza del capitalismo ad estendere il dominio che esercitava in fabbrica all’intera società. Cioè l’industria dava ormai il volto e l’essenza a tutta la società capitalistica

E allora la coscienza politica di classe non nasce più dalla mera assunzione dell'antagonismo, ma dall'esigenza della liberazione, non semplicemente dalla coscienza della mostruosità del lavoro salariale, ma direttamente dal rifiuto del lavoro, non dalla necessità della produzione, ma dall'urgenza dell'invenzione. Nasce dal distruggere il rapporto salariale come legge della distruzione – ormai completamente irrazionale, non più legata a qualsiasi proporzione di sviluppo – di ogni bisogno proletario, di ogni autonomia di classe. Finalmente la lotta di classe operaia si mostra sempre più come lotta di liberazione[22].

Questo lo spirito con cui veniva letta anche la scuola, definita “fabbrica speciale”. A ribadire che la società era modellata sull’esempio della fabbrica. Questa fabbrica-scuola andava inserita tra gli obiettivi da attaccare in quanto istituzione che riproduce la forza lavoro da sfruttare domani, perché inocula negli studenti l’abitudine al lavoro che altro non è che disponibilità ideologica a subire lo sfruttamento. Pertanto la lotta degli studenti avrebbe dovuto svilupparsi parallelamente a quella della fabbrica e del quartiere e puntare ad abbattere il costo della scuola, il costo dei trasporti, a boicottare la didattica, ottenere la promozione garantita sganciata dal “profitto” e il salario politico a tutti gli studenti[23].

Lo scambio tra Autonomia e movimento fu talmente stretto e continuo che quest'ultimo venne contagiato dalle teorizzazioni autonome del rifiuto del lavoro. Dopo lo scioglimento delle principali formazioni extraparlamentari l'autonomia esercitò la sua egemonia sul movimento che adottò parole d'ordine da applicare nelle situazioni più disparate, e le mise in pratica nelle maniere più diverse. Il confine non fu mai netto e si espresse in tutta una serie di pratiche di appropriazione e riappropriazione[24] largamente diffuse anche là dove di Autonomi non ce n'erano. Ma per alcuni militanti ormai il rifiuto del lavoro faceva parte del proprio background culturale e politico:

Per quel che riguarda la mia esperienza, il modo in cui sono entrata nel movimento, quel che mi interessava era la volontà che c’era di esprimere un rifiuto radicale del lavoro, della fatica, di tutte le cose che sono caratteristiche del capitalismo. Cioè non mi battevo perché ci fosse la bandiera rossa davanti alla fabbrica ma poi dentro si lavorasse allo stesso modo di prima[25].

Nel febbraio 1977 comparve sui muri di Bologna un manifesto, vero è proprio sunto politico dell'autonomia, dove centrale risulta l'odio verso la società del lavoro

Finalmente il cielo è caduto sulla terra. La rivoluzione è giusta necessaria possibile. Sorprendente non è che gente rubi, ma che chi ha fame non rubi sempre. Sorprendente non è che operai facciano sciopero, ma che chi è sfruttato non scioperi sempre. Hanno tentato di convincerci che questa società fosse l'unica possibile, fosse naturale, un sistema che si fonda sull'espropriazione di tutta la nostra vita, sulla sua trasformazione in valore, un sistema fondato sullo sfruttamento, sul furto organizzato dell'invenzione operaia ci viene presentato come naturale. La lotta continua degli sfruttati per sottrarre il tempo di vita al lavoro, per guadagnare spazi di autonomia è il fondamento della liberazione. […] Chi ha detto che non si può produrre tutto ciò che occorre riducendo l'orario di lavoro e aumentando l'occupazione? Chi ha detto che non si può dare salario a tutti, aumentare i consumi, i servizi e soprattutto il tempo di vita liberato dal lavoro[26]?

Antonio Negri che di quella stagione dell’autonomia e del rifiuto del lavoro fu un protagonista così scrive:

Nessuna affermazione comunista, più di quella del rifiuto del lavoro, è stata violentemente e continuamente espulsa, soppressa, mistificata, dalla tradizione e dall'ideologia socialiste. Se vuoi mandare in bestia un socialista o se vuoi scoprirlo quando si copre di demagogia, provocalo sul rifiuto del lavoro. Nessun punto del programma comunista, lungo un secolo, da quando Marx parlava del lavoro come “essenza disumana” è stato tanto combattuto: fino a quando la scomunica del rifiuto del lavoro è divenuta taciuta, surrettizia, implicita, ma non meno potente: l'argomento è stato tolto. Ora, è su questo terreno indiretto che l'astuzia della ragione proletaria ha cominciato a restaurare la centralità del rifiuto del lavoro nel programma comunista. […] Nostro compito è la restaurazione teorica del rifiuto del lavoro nel programma, nella tattica, nella strategia dei comunisti[27].

In definitiva, il movimento, la teoria, la pratica del rifiuto del lavoro si incardinano sul principio che il proletariato per rendersi indipendente, per procedere nel percorso della propria auto-valorizzazione, deve misurarsi con la capacità di trasformare il rifiuto del lavoro in misura del processo di liberazione.

L’autonomia, in maniera coerente e più organica seppe interpretare un’esigenza, una sensazione che serpeggiava in tutto il movimento e intorno all’idea-forza del rifiuto del lavoro caratterizzò la sua identità e un modo di leggere l’intera società capitalista. ”Valore d'uso”[28] è la formula con cui gli autonomi descrivevano questo approccio alla vita. La pratica dell’appropriazione divenne il punto di identità più rilevante dell’area politica dell’autonomia: appropriazione di beni, espropri, illegalità di massa, autoriduzione delle tariffe, una diffusione di comportamenti antagonistici. Nella critica della politica in quanto separazione da sé e dalla possibilità stessa di trasformare il reale a partire dalla propria situazione di miseria, è contenuto forse il senso più vero di quello che si configurava come autonomia diffusa ed è ben sintetizzato in questo passaggio: Chi lotta per il lavoro non lotta si adegua […] Il comunismo non è lotta per un altro lavoro, è lotta per l’abolizione del lavoro[29].

Forse proprio per questo le teorizzazioni sul rifiuto del lavoro hanno avuto una diffusione e un'attenzione anche fuori dall'Italia, soprattutto in alcuni paesi d'Europa e in America Latina. La Germania è forse il paese dove l'attenzione è stata più forte e longeva[30]. Un esempio può essere il lavoro svolto da Martin Birkner e Robert Foltin, i quali riconoscono il debito teorico verso l'operaismo italiano degli anni sessanta. La loro ricerca si concentra verso i gastarbeiter, o lavoratori ospiti, cioè gli emigrati italiani, portoghesi, spagnoli, similmente a come gli operaisti avevano studiato gli emigrati meridionali che lavoravano nelle grandi fabbriche del nord. La ricerca viene effettuata sul campo, sui treni di periferia e nei quartieri operai, e viene usata l'espressione “lotta contro il lavoro” per classificare alcune pratiche che caratterizzerebbero questi soggetti, soprattutto i più giovani[31].

Anche altre riviste avevano affrontato il nodo teorico del rifiuto del lavoro. Come“Willdcat”, nata a Karlruhe nel 1979, che usava metodi di ricerca simili all'inchiesta di matrice operaista e si poneva come obiettivo l’elaborazione di forme di resistenza che andavano dal sabotaggio individuale alle assenze per malattia, sulla base di quello che veniva definito “rifiuto del lavoro capitalistico”.

Una delle più importanti pubblicazioni sull'argomento rimane sicuramente Il manifesto contro il lavoro avvenuta in Germania nel 1999.

La traduzione italiana, benché eseguita rapidamente, è rimasta a lungo inedita ed è stata pubblicata da Deriveapprodi nel 2003[32]. Il gruppo Krisis, riunito intorno all’omonima rivista, ha sviluppato in Germania una delle analisi più articolate e radicali sul rifiuto del lavoro. Un collettivo non inteso secondo la tradizione italiana, ma un gruppo di intellettuali, di cui l’esponente più noto è Robert Kurtz, che utilizza come strumento di lavoro seminari, conferenze ed incontri a cavallo tra università e mondo artistico e culturale. Che siano debitori dell’autonomia operaia lo raccontano loro stessi quando scrivono che “l’ultima onda della tradizionale critica del lavoro giunse negli anni ’70 dall’operaismo italiano”[33].

Nel pamphlet in questione si contesta che il lavoro venga elevato a principio che domina le relazioni sociali senza tener conto dei bisogni e della volontà degli interessati. Non solo la vacanza e il riposo settimanale servono alla riproduzione della forza lavoro, ma perfino quando mangiamo, festeggiamo, proviamo piacere, da qualche parte del cervello il cronometro continua a scandire il tempo del lavoro: quest’ultimo è un fine in sé e realizza la valorizzazione del capitale, l’infinita moltiplicazione del denaro grazie al denaro stesso.

Tra la fine degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta si chiude in Italia la stagione politica apertasi alla fine del decennio sessanta. La risposta del sistema di potere alle lotte e alle iniziative dell'autonomia è stata presentarle all'opinione pubblica come criminali e presentare la lotta di classe in generale come criminale, scrivendo perciò fascicoli su fascicoli di condanne penali, prefigurando la manipolazione storica successiva, che ha consegnato gli autonomi alla damnatio memoriae, in primis non riconoscendo loro lo status di soggetto politico.

In definitiva, il rifiuto del lavoro salariato è un’affermazione dei bisogni radicali di libertà, di piacere, di esperienza e comprensione, del carattere universale della rivendicazione della libertà dal lavoro di cui era portatrice la classe operaia ed è un’implicita violazione delle regole produttive stabilite dal capitale e dalla mediazione sindacale. É, dunque, il rifiuto dell’obbligo di produrre plus-valore.

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Note

1 Si veda Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli 2003, pp. 555-577; Marcello Tarì, Il ghiaccio era sottile. Per una storia dell'autonomia, DeriveApprodi, 2012; Nanni Balestrini, Primo Moroni, L'orda d'oro. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale 1968-1977, SugarCo, 1988.

2 Angelo Ventrone (a cura di), I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d'Italia negli anni sessanta e settanta, Eum, 2010.

3 Mino Monicelli, L'ultrasinistra in Italia 1968-1978, Laterza, 1978, pp. 114-122; G Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa: la violenza politica nell'Italia degli anni sessanta e settanta (1966-1975), Einaudi, 2009; Cesare Bermani, Il nemico interno. Guerra civile e lotta di classe in Italia (1943-1976), Odradek, 1997.

4 Dal magistrato padovano Pietro Calogero che, in veste di sostituto procuratore, elaborò l'impianto accusatorio con il quale vennero arrestati importanti leader dell'Autonomia operaia come Antonio Negri, Emilio Vesce, Oreste Scalzone ed altri. Per una ricostruzione di quelle vicende si veda Giacomo Mancini, 7 aprile, Lerici, 1982, Pietro Calogero, Carlo Fumian e Michele Sartori, Terrore rosso. Dall'autonomia al partito armato, Laterza, 2010.

5 Maria Turchetto, Il lavoro senza fine. Riflessioni su “biopotere”e ideologia del lavoro tra XVII e XX secolo, <<Zapruder>>, n. 3, 2004.

6 Paul Lafargue, il diritto alla pigrizia. Confutazione del diritto al lavoro, Spartaco, 2004.

7Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica 1857 – 1858, La Nuova Italia, 1968, pp. 400-401.

8 Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, 2000. Arendt individua tre diverse condizioni dell'esistenza umana, che insieme vanno appunto a comporre la “vita activa”. Queste tre condizioni sono: l'attività del lavoro rappresentata dall'animal laborans; l'insieme degli artefatti materiali di cui l'uomo si circonda per vivere rappresentati dall'homo faber; e infine l'attività dell'agire, intesa come spazio pubblico in cui gli individui interagiscono tramite la parola.

9 Si veda Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero, Gli operaisti, DeriveApprodi, 2005. L'esperienza dell'operaismo in Italia nasce nel 1961 con l'uscita del primo numero di <<Quaderni rossi>>. Tra i componenti della redazione Alberto Asor Rosa, Romano Alquati, Antonio Negri, Rita Di Leo, Claudio Greppi, Mario Tronti e altri. In seguito agli eventi di Piazza Statuto del luglio del 1962, alcuni si convinceranno della possibilità di un intervento diretto e più incisivo nelle lotte, e fonderanno il giornale <<Classe operaia>> nel 1963. I torinesi invece, raccolti attorno a Renato Panzieri, continueranno sulla linea di pungolo critico per le istituzioni del movimento operaio. Elementi centrali attorno a cui ruotava l'analisi politica degli operaisti erano la fabbrica fordista e l'operaio-massa. Questo era il soggetto guida del proletariato nel processo rivoluzionario.

10 Nella tipologia a gatto selvaggio lo sciopero viene effettuato in tempi diversi nelle sezioni che dividono il lavoro di una stessa catena di montaggio; nella tipologia a singhiozzo lo sciopero è caratterizzato da interruzioni brevi e continue; nello sciopero a scacchiera i lavoratori di reparti interdipendenti tra loro nel processo produttivo scioperano in tempi diversi e a piccoli gruppi; il salto della scocca è invece una forma di sabotaggio che prevede il mancato montaggio di un pezzo in transito sulla catena di montaggio.

11 Il lavoro senza fine, cit. Si usa qui “biopotere” nella declinazione sviluppata negli anni sessanta da Michel Foucault in opere quali Sorvegliare e punire, Einaudi, 1976 o La volontà di sapere, Feltrinelli, 1978 . Per Foucault il “biopotere”, o potere sulla vita, è il terreno su cui la rete di poteri gestisce la disciplina dei corpi e la regolazione della popolazione, in funzione dell'utilizzazione di entrambi (il corpo e la popolazione) e del loro controllo. Questo terreno è proprio di un momento storico ben preciso, quello dell'esplosione del capitalismo. Il risultato è il rovesciamento del paradigma classico del potere, legato al “diritto di morte”, in uno nuovo, in cui il potere “garantisce la vita”. Ed è per questo che ora più di prima il potere ha accesso al corpo degli individui e delle popolazioni.

12 L'inchiesta era il metodo d'indagine privilegiato usato dagli operaisti per studiare la realtà di fabbrica. Un esempio di come fosse impostata si può trovare in Dino De Palma, Vittorio Rieser, Edda Salvadori, L'inchiesta alla Fiat nel 1960-1961, <<Quaderni Rossi>>, n. 5, aprile 1965, pp. 252-253. Per una ricostruzione esauriente delle vicende dell'operaismo si veda Giuseppe Trotta, Fabio Milana (a cura di), L'operaismo degli anni sessanta. Da <<Quaderni Rossi”>> a <<Classe Operaia>>, DeriveApprodi, 2008.

13 Liliana Lanzardo e Massimo Vetere, Interventi politici contro la razionalizzazione capitalistica, <<Quaderni Rossi>>, n. 6, maggio-dicembre 1965.

14 <<La Classe>>, n. 6, 14 giugno 1969. Il giornale nasce e muore nel giro di pochi mesi nel 1969 in seguito alle vicende del cosiddetto “Autunno caldo”. Si raccolgono attorno a questo giornale alcuni intellettuali che avevano partecipato all'esperienza dell'operaismo negli anni sessanta, come Antonio Negri e Franco Piperno. Il giornale viene considerato una tappa importante nel processo che porterà alla fondazione dell'organizzazione Potere operaio.

15 Comitato operaio di Porto Marghera, Rifiuto del lavoro, <<Quaderno di organizzazione>>, n. 1, 1970.

16 G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, cit., p. 454.

17 Assemblea Autonoma dell'Alfa Romeo (a cura della), Diario operaio della lotta 1972-1973, Rotografica Fiorentina, 1973, pp. 130-136. Irsifar: fondo Strappini, busta 4/189.

18 Comitati Autonomi Operai di Roma (a cura di), Autonomia Operaia. Nascita, sviluppo e prospettive dell'area dell'autonomia nella prima organica antologia documentaria, Savelli, 1976, p. 12.

19 Collettivo Eni (a cura di), Contro la crisi sciopero generale, Eni - Petrolio e lotta di classe, 1971, p. 37. Irsifar: fondo Strappini, b. 4/189.

20 <<Potere operaio del lunedì>>, novembre 1972. Questo giornale viene pubblicato a partire dal dicembre 1971, inizialmente come supplemento a <<Potere operaio>> (il cui primo numero risale al settembre 1969). Questo era passato da una scansione settimanale (1970) ad una quindicinale (1971) ad una mensile (1972), e si era sempre più caratterizzato per l'impostazione teorica. <<Potere operaio del lunedì>> chiuderà le sue pubblicazioni nel dicembre 1973. Entrambe le testate sono espressione del gruppo politico Potere operaio.

21 Mario Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, 2006. Tronti sosteneva che sono le lotte e le richieste operaie, anche quando non prendono la forma di scontro frontale, a costringere il capitale a innovarsi continuamente, nel tentativo di riassorbire gli elementi potenzialmente rivoluzionari.

22 Antonio Negri, Proletari e Stato, in Id., I libri del rogo, DeriveApprodi, 2006, p. 164.

23 Comitati Autonomi Romani (a cura di), Contro la scuola, contro i decreti delegati, novembre 1974. Irsifar: fondo Strappini, b. 4/189.

24 La messa in discussione della disciplina sociale e dell'ordine produttivo si riverberava anche al tempo della vita, rifiutata come naturale contenitore del tempo del lavoro e del riposo finalizzato al lavoro. Se l'obiettivo politico era poter vivere senza il “ricatto” del lavoro, l'appropriazione (cioè l'occupare stabili e appartamenti, il rifiuto di pagare le bollette e i biglietti del cinema o dei trasporti, il procurarsi ciò che si desiderava, beni voluttuari e di base, attraverso le spese proletarie) rappresentava il tentativo di una realizzazione immediata della teoria e la critica alla politica come separazione da sé. Contemporaneamente la riappropriazione riassumeva la volontà di sottrarsi all'alienazione di corpo, sapere e tempo tramite la messa a profitto della vita degli individui da parte del capitale.

25 Dadi Mariotti, Compagni del '68, Marsilio, 1975, cit. in Angelo Ventrone, Vogliamo tutto. Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione 1960–1988, Laterza, 2012, p. 157.

26 Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, vol. II, DeriveApprodi, 2007, pp. 249-250.

27 Antonio Negri, Il dominio e il sabotaggio, in Id., I libri del rogo, cit., pp. 284-285.

28 Franco Piperno così lo definiva: “Valore d'uso è il disgusto del posto fisso, magari sotto casa: è l'orrore per il mestiere; è mobilità; è fuga dalla prestazione stupidamente irrigidita come resistenza attiva alla merce, a farsi merce, a essere posseduto interamente dai movimenti della merce. […] Valore d'uso è la volontà di sapere nel suo “attraversare calpestando”, con la dolce ottusità dei giovani, il corpo della “madre scuola”; che boccheggia e ansima perché strutturalmente incapace di dare, di rispondere a un bisogno di conoscenza che non si configuri come richiesta di inserimento nei ranghi del lavoro salariato, e se, Dio non voglia, anche qualche rosa viene calpestata, tanto peggio per le rose.”, <<Preprint>>, supplemento a <<Metropoli>>, n. 0, dicembre 1978. La rivista, primo numero uscito nel giugno 1979, aggregò la parte principale degli ex Potere operaio e autonomi. Collaborarono alla rivista Paolo Virno, Lucio Castellano, F. Piperno, Felix Guattari e altri.

29 <<Rosso>>, n. 16, maggio-giugno 1975. La rivista nasce nel gennaio 1973 in seguito alla svolta in senso movimentista e operaista del Gruppo Gramsci, che già pubblicava una rivista teorica dal titolo <<Rassegna Comunista>>. Dopo lo scioglimento del Gruppo, e contemporaneamente anche di Potere operaio, <<Rosso>> comincia a svolgere il ruolo di raccordo nazionale dell'intera area dell'autonomia. Successive vicende portarono l'area romana ad uscire dalla redazione. Tra il 7 aprile e il 21 dicembre del 1979 la quasi totalità della redazione venne incarcerata. Le pubblicazioni si interruppero nel maggio di quell'anno.

30 Si veda S. Bianchi e L. Caminiti, Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, vol. III, DeriveApprodi, 2008.

31 Martin Birkner e Robert Foltin, Post-operaismus: Vonder arbeiterautonomie zur multitude, Schmetterling verlag gmbh, 2006.

32 Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, DeriveApprodi, 2003.

33 Robert Kurtz, Norbert Trenkle, Il superamento del lavoro. Uno sguardo alternativo oltre il capitalismo, in Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro, cit., p.104.

 
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