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moneta e credito

Kindleberger e l’instabilità

Pierluigi Ciocca*

Affinità elettive: la mia “simpatia” verso il Kindleberger economista[1] nasce, oltre che dalla ammirazione per l’erudito, dalla condivisione di almeno due dei criteri di metodo da cui egli muoveva.

L’economia politica è interessante, nelle sue stesse espressioni più astratte, nella misura in cui effettivamente aiuta a comprendere ciò che è accaduto, accade, potrà accadere al benessere materiale degli uomini riuniti in società. Questo è il senso vero della disciplina, il suo principio ispiratore.

Il secondo criterio coincide con la constatazione che “non c’è una teoria economica, o un modello che siano buoni per tutti gli usi, che illuminino l’intera storia economica”[2]. L’eclettismo teorico è quindi preferibile al monoteismo teorico allorché ci si pone di fronte ad accadimenti o a tratti strutturali d’ordine economico della società con la dichiarata intenzione di spiegarli. Penso a un eclettismo critico, dei distinguo, capace di sceverare fra gli strumenti offerti dalle diverse, spesso confliggenti, famiglie di teorie i più idonei ad affrontare la specifica questione fatturale a cui l’indagine si rivolge. Un eclettismo, quindi, che presuppone padronanza e cognizione di potenzialità e limiti di più d’una teoria, se non dell’intero “libro” della economia politica, e che sia alieno dal tentare improbabili mediazioni fra esse.


Kindleberger amava definirsi “un economista storico, non uno storico economico”: “Il mio interesse di ricerca è volto al progresso teorico, per teorie più utili, generali, rilevanti, non per quelle solo eleganti e prive di implicazioni concernenti il comportamento degli individui in una economia”[3]. Come “economista storico”, egli ha dato un contributo specialmente prezioso alla riflessione sulla instabilità del capitalismo.

I


Segnatamente, Kindleberger si è posto il problema “rasoio di Occam o causazione multipla?” a proposito delle crisi finanziarie più serie che dal XVIII secolo hanno avuto come epicentro economie di mercato quali quelle di Olanda, Gran Bretagna, Germania, Francia, Stati Uniti, Italia: “Le fluttuazioni cicliche in assenza di crisi finanziaria, se sono esistite, non mi interessano. Lo stesso vale per le crisi di finanza dimostratesi gestibili al punto da non avere ripercussioni sul sistema economico. Le crisi finanziarie che prenderò in esame sono quelle gravi, per entità, effetti e, di norma, dimensione internazionale”[4].

La demarcazione è significativa sia nell’arco temporale sia nell’oggetto[5]. Per l’Ottocento e per il Novecento disponiamo di statistiche del prodotto interno lordo (a prezzi costanti e tassi di cambio basati sulle parità dei poteri di acquisto) relative a molti paesi. In questo universo si registrano non pochi episodi di crisi “finanziaria” bloccata, ovvero risolta, prima di sfociare in una crisi “reale”, con contrazione della domanda globale, dell’attività produttiva, dell’occupazione. Cito tre casi. Nei primi due, distanti due secoli l’uno dall’altro, l’instabilità finanziaria venne arrestata dall’intervento pubblico; nel terzo caso perdette forza, sino a spegnersi, endogenamente.

Nel 1793 una crisi finanziaria acuta colpì la City di Londra. Voci connesse alle difficoltà delle banche di provincia innalzarono la domanda di mezzi liquidi. La catena dei dissesti, per illiquidità se non per insolvenza, delle country banks venne tuttavia spezzata dall’orientamento espansivo annunciato pubblicamente dal Parlamento e dal Tesoro. Nelle parole di un osservatore, e attore, come Henry Thornton – il primo, acuto analista delle crisi, il primo teorico del central banking e del credito di ultima istanza – “si decise di accordare un prestito in buoni dello Scacchiere a tutti i mercanti capaci di fornire una garanzia adeguata che ne avessero fatto domanda […]. A diffondere una sensazione di generale solvibilità bastò l’aspettativa di un’offerta di buoni che quasi ogni commerciante avrebbe potuto ottenere”[6].

Nell’ottobre del 1987 all’aumento dei tassi di interesse seguì una flessione del 25 per cento dei corsi azionari a Wall Street: un crollo da primato in soli due giorni, persino più grave di quello dell’ottobre del 1929. Il contagio si estese alle principali borse mondiali. La slavina venne arrestata dal repentino mutamento di segno nella politica monetaria restrittiva che gli Stati Uniti avevano sino ad allora attuato. Nel 1988 il prodotto interno lordo in termini reali crebbe del 4 per cento negli Stati Uniti e in Europa, del 2 per cento nel mondo.

Nello scorcio del 1857 la crisi di finanza seguita agli eccessi speculativi su ferrovie, banche, cereali – anche in connessione con la guerra di Crimea – interessò New York, Liverpool, Londra (dove il Bank Act venne sospeso), Amburgo, Parigi, Oslo, Stoccolma. Nonostante la loro diffusione, le tensioni finanziarie si risolsero quasi per esaurimento senza compromettere la produzione, che nel 1858 diminuì lievemente soltanto in Germania.

Il fatto che in questi come in altri episodi la contrazione non si sia estesa all’attività produttiva ridimensiona solo in parte la gravità delle ripercussioni che l’instabilità finanziaria provoca. Anche quando la finanza era meno pervasiva nell’economia, dai suoi squilibri vennero colpiti i settori maggiormente dipendenti dai fondi esterni, la redistribuzione della ricchezza apparve casuale e ingiusta, lo sviluppo della infrastruttura finanziaria subì distorsioni e rallentamenti.

A quest’ultimo proposito valga il caso italiano del 1907. Allora, la crisi finanziaria provocò il dissesto di una delle quattro principali banche del paese, la Società Bancaria Italiana. Soprattutto, alla caduta dei corsi azionari seguì un pluridecennale arresto nel processo di sviluppo della borsa. Contrariamente a quanto riteneva la letteratura su cui lo stesso Kindleberger si era basato nel valutare quella crisi, il PIL reale italiano nel 1907-1908 aumentò[7].

Nel suo schizzo storico delle crisi finanziarie Kindleberger concentra l’attenzione su una trentina di episodi, fra il 1720 e il 1975. Se avesse avuto la possibilità della retrospettiva avrebbe forse aggiunto alla sua lista, oltre al crack borsistico del 1987, le crisi degli anni Novanta del secolo scorso (Messico, Asia, Russia, fondo di investimento LTCM). Certamente vi avrebbe incluso la fase di forte instabilità, tuttora non risolta, che i sistemi finanziari ed economici “occidentali” hanno sperimentato dopo il 2007.

Le crisi più profonde, lunghe, estese sono state quattro: negli anni Trenta e Settanta dell’Ottocento, nel 1929-33 e l’ultima, in corso. Tra il 1839 e il 1842 il PIL inglese cedette del 7 per cento. Il PIL dell’Europa occidentale diminuì dell’1,5 per cento nel 1876 e, di nuovo, dell’1,9 per cento nel 1879. Nei primi anni Trenta del Novecento il prodotto mondiale crollò del 17 per cento, con punte del 30 negli Stati Uniti e in Canada, del 15 in Germania e Francia, del 14 in Argentina. Nel 2009 la flessione del prodotto è stata dello 0,6 per cento nel mondo, del 4 nell’Europa dell’euro, del 2,4 negli Stati Uniti, del 6,5 in Messico, del 7,9 in Russia. Fra i paesi industrializzati si stima che rispetto al PIL (di un anno rappresentativo) le perdite delle banche siano state pari all’1 per cento negli Stati Uniti negli anni Settanta dell’Ottocento (3 per cento in Italia); allo 0,5 per cento negli Stati Uniti, all’1 nel Regno Unito, al 6 in Italia nel 1889-93; al 2 per cento in Germania, 2,5 in Francia, 6 negli Stati Uniti, 8 in Italia, 9 in Austria, in anni vari nel periodo tra le due guerre, segnato dalla contrazione “del 1929”; al 7 per cento (2,3 trilioni di dollari USA) nell’insieme delle economie dette avanzate nel 2007-2010.8 In molti dei paesi coinvolti i corsi azionari in questi frangenti arrivarono a perdere metà del loro valor medio in termini reali.

Come questa raffica di cifre conferma, crisi finanziaria e crisi “reale” hanno nei casi più gravi interagito. Per più vie si sono rilanciate, vicendevolmente, in una spirale distruttiva di reddito e di ricchezza: “Le crisi finanziarie si associano ai picchi del ciclo economico”[9]. La contrazione della domanda aggregata e delle vendite determina profitti negativi, assottigliarsi dei flussi di cassa, dissesti delle imprese non finanziarie che incontrano le maggiori difficoltà nel fronteggiare l’onere del servizio del debito. I loro finanziatori – banche e non-banche – riducono l’offerta di fondi, poiché a propria volta sperimentano incagli e sofferenze sui prestiti concessi, illiquidità, minusvalenze su titoli, perdite di conto economico, insolvenza. Il circolo vizioso si aggrava allorché la deflazione inattesa dei prezzi dei beni innalza i tassi reali d’interesse e l’aumento del costo del capitale per le imprese viene inasprito dalla caduta dei corsi azionari. La diminuzione nello stock di ricchezza contribuisce a ridurre i consumi delle famiglie e anche per questa via gli investimenti, frenati dal restringersi della finanza esterna, dal più alto prezzo del danaro, dal diffondersi del pessimismo.

Dopo Keynes, le teorie del ciclo si sono imperniate sulle fluttuazioni della domanda globale[10]. Kindleberger poteva dare quasi per scontata la dimensione più fondamentale, non finanziaria, della instabilità del capitalismo. Poteva altresì dare per scontati i principali canali della interazione perversa fra domanda globale e crisi finanziaria per appuntare su quest’ultima la sua analisi teorica e storica. Poteva, in particolare, concentrare l’indagine sulle “follie” della finanza, ricollegandosi anche ai filoni dell’analisi del ciclo pre-keynesiani. Alla fine degli anni Cinquanta Robin Matthews aveva con fondatezza affermato:


“In passato si pensava che le cause principali delle fluttuazioni derivassero dalla sfera monetaria e finanziaria. L’interesse si è ora spostato nella direzione opposta. Le più moderne trattazioni teoriche del ciclo sono basate sull’analisi delle forze reali, e al massimo attribuiscono implicitamente un’importanza secondaria agli effetti che possono risultare da variazioni nel costo e nella disponibilità dei fondi […]. Si ammette che, in alcune occasioni, l’importanza del fattore monetario è risultata notevole […]. Il termine crisi è usato per indicare un crollo patologico della fiducia e la scarsità di credito che si verificano all’inizio o nel corso della contrazione ciclica […]. Il fatto che una recessione sia o non sia accompagnata da una crisi, ed in caso affermativo da quale tipo di crisi, dipende da molte cause oltre che dalla gravità della recessione stessa”[11].

 

II


La molteplicità di forme che le crisi finanziarie hanno assunto va oltre l’alta varianza della gravità delle loro ripercussioni e dei loro legami con le fluttuazioni dell’attività produttiva. E tuttavia la frequenza elevatissima dei casi sinora sperimentati – centinaia e centinaia, più volte nella medesima economia – e i loro tratti ricorrenti invitano a configurare una morfologia tipica, un modello unico, delle crisi di finanza. L’analisi, quindi, non può essere che storica e teorica al medesimo tempo. Non sorprende che un economista storico come Kindleberger vi si sia dedicato con brillanti risultati.

Egli ha costruito la sua indagine sulla risposta sostanzialmente positiva che una parte almeno della teoria economica ha dato al quesito di fondo: se il capitalismo sia, o non sia, intrinsecamente instabile.

Kindleberger è cauto, sul quesito di fondo:

“Le crisi non sono endemiche: le economie non sono sempre instabili. Sostengo piuttosto che esse possono accadere, e la storia mostra che sono avvenute. Una teoria economica che non contemplasse l’instabilità insita nella legge di Gresham sarebbe incompleta, come lo sarebbe una visione della storia economica fondata sull’assunto che tutti i mercati siano sempre in equilibrio […]. L’idea monetarista che nel lungo periodo la domanda di moneta sia stabile è in certa misura smentita. Lo è allorché cambiano le aspettative circa il valore relativo della moneta e di altri cespiti, e le famiglie e le imprese fuggono dalla moneta e investono in altri cespiti reali e finanziari, ovvero abbandonano questi ultimi per la moneta, secondo un comportamento stile legge di Gresham che spinge a cedere averi di ogni genere per un altro” (Kindleberger, 1989, p. 60, corsivo mio).

Nonostante la evidente cautela, ricorrono nella bibliografia degli scritti di Kindleberger i nomi degli economisti più critici dell’ipotesi generale di un capitalismo stabile, o poco instabile. In punto di storia del pensiero, egli prende le mosse dalle osservazioni di Adam Smith che collegavano all’overtrading le ricorrenti, diffuse lagnanze del mondo degli affari per la scarsità della moneta[12]. Adamo a parte, Kindleberger abbonda di riferimenti ai teorici delle crisi prima di lui, economisti eterodossi inclusi: Banking school, Tooke, Mill, Bagehot, Marx, Marshall, Wicksell, Fisher, Schumpeter, Hawtrey. Ricchi sono altresì i riferimenti al pensiero dei banchieri – centrali soprattutto – che non di rado colsero la natura del problema prima e meglio degli scrittori di cose economiche[13].


Qualcuno manca, anche tra i grandi economisti. Manca, ad esempio, Pareto, forse più il Pareto sociologo che non il teorico degli “ottimi”:

“All’uscire da una crisi gli uomini son divenuti estremamente sfiduciati […]. Ma, a poco a poco, questa impressione si attenua; nuove generazioni, che non han provato direttamente i mali prodotti dall’ultima crisi, arrivano alla direzione degli affari. Si forma di nuovo nella società come un deposito di materia eccitabile: il frutto è maturo, la minima scossa lo farà cadere. Il tempo propizio è venuto perché il movimento si manifesti e adduca ad una nuova crisi”[14].


E Keynes?

Come nella maggioranza degli economisti americani, in Kindleberger c’è più “economia keynesiana” – dallo Hicks di IS-LL ad Alvin Hansen, alla sintesi neoclassica MIT di Modigliani e Samuelson – di quanto non vi sia il Keynes vero, studiato sulle fonti, che nella vulgata mainstream è distorto, quasi irriconoscibile. Kindleberger attribuisce a una “analisi keynesiana” dell’instabilità, oltre al giusto rilievo per le dinamiche risparmio/investimento, “l’abbandono delle convinzioni precedentemente incentrate sulla speculazione su merci e titoli e sulla instabilità del credito e dei prezzi”. Nondimeno questo giudizio, se può riferirsi alle “curve IS-LM di Hansen-Hicks” – “una sintesi di keynesismo e monetarismo che resta incompleta […] se non considera l’instabilità di aspettative, speculazione, credito”[15] – a mio avviso non è estensibile a Keynes. Segnatamente, non è estensibile al Keynes della General Theory.

Fu Henry Thornton, critico di Smith – “L’errore del Dr. Smith”…[16] – e in totale dissenso dall’amico Ricardo, ad aprire la via del collegamento fra le ondate di fiducia e pessimismo negli affari e l’abbondanza o carenza di credito e il grado di preferenza per la liquidità. Questa via nell’analisi delle crisi è stata poi percorsa dai molti che, fino a Kindleberger, hanno approfondito i nessi specifici fra speculazione e finanza. Ma si deve a Keynes la chiarificazione, allo stato definitiva, delle ragioni basilari per le quali le spese in conto capitale costituiscono la componente più volatile della domanda aggregata e financo i piani di investimento più attentamente ponderati possono risultare disattesi, sfociando nelle fluttuazioni e nelle crisi.

La General Theory è incentrata sulla instabilità dell’economia di mercato quale economia monetaria di produzione. In un sistema economico siffatto le decisioni di investimento fanno capo a una miriade di imprese private. Sono altamente decentrate, atomistiche, autoreferenziali. Sarebbero anarchiche se non venissero guidate dai segnali che il sistema dei prezzi esprime. Ma vengono prese sulla base di “aspettative altamente precarie”, “in una economia di capitalismo individualistico”, sempre esposta a un “improvviso crollo della efficienza marginale del capitale”[17]. Le scelte d’impresa, e più in generale dei capitalisti, sono motivate da rendimento atteso e rischio. In un contesto di incertezza e di non coordinamento sono guidate dai prezzi prevalenti nel mercato e dalle aspettative concernenti la domanda e i prezzi. Ma i prezzi non sono in grado di segnalare in ogni circostanza che un eccesso si sta profilando: un eccesso di fiducia, di investimento, di debito, di finanza nella ricerca del profitto e della innovazione, il motore dell’economia capitalistica quale formidabile macchina da crescita.

La questione non è di irrazionalità degli investitori[18]. Gli investitori sono razionali nel senso che cercano il profitto facendo il miglior uso possibile, a loro vantaggio, dell’informazione di cui dispongono. Tuttavia, per Keynes le probabilità – soggettivo/oggettive – non sono sempre commensurabili, così da essere da ultimo riflesse nei prezzi[19]. La moltitudine degli operatori deve assumere decisioni di investimento nel tempo storico, in quel momento determinato, anche quando le probabilità non sono valutabili, o non lo sono in modo affidabile, con argomentata convinzione. In queste circostanze gli investitori non possono che integrare il calcolo basato sui segnali di prezzo con assunzioni e criteri semplificanti. Dato lo stato di conoscenza imperfetta e di alta incertezza, le scelte vengono effettuate assumendo che la situazione presente non cambi, sulla scorta di quella che Keynes definisce “convenzione”, per natura precaria[20]. La precarietà della convenzione – del compromesso fra calcolo ed emotività su cui si fondano le attese e le scelte di investimento – è accentuata secondo Keynes dal carattere radicalmente diverso della “speculazione” – “l’attività volta a prevedere la psicologia del mercato” – rispetto alla “intrapresa” – “l’attività volta a prevedere il rendimento dei cespiti nell’intero arco della loro vita” – e dal rischio che la prima, più instabile forma di attività predomini sulla seconda e la condizioni[21]. La caduta degli investimenti è quindi una eventualità sempre possibile, connaturata al sistema. Ha luogo allorché i prezzi perdono capacità segnaletica, la convenzione muta, le aspettative si incupiscono, l’efficienza marginale del capitale collassa. Ha luogo altresì quando gli investimenti sono alimentati con il ricorso a fonti di finanza esterna – non con il profitto accumulato dall’impresa che li effettua – e i finanziatori vengono a giudicare eccessivo il rischio di accrescere la propria esposizione, o financo di mantenerla:

“Due ordini di rischi influiscono sul volume dell’investimento […]. Il primo è il rischio dell’imprenditore, o del debitore, e scaturisce dai dubbi che nella sua mente riguardano la probabilità che egli effettivamente lucri il rendimento sperato. Se un individuo impegna il danaro proprio, questo è l’unico rischio rilevante. Ma quando esiste un sistema di debito e credito […] diviene rilevante un secondo ordine di rischio, che possiamo chiamare rischio del prestatore” (Keynes, 1936, p. 144).


Il presupposto della instabilità è quindi, per Keynes, il seguente: “In una fase di rapida espansione dell’economia la valutazione generale dell’entità di questi rischi, del debitore e del prestatore, è suscettibile di divenire insolitamente e sconsideratamente bassa”[22]. Le crisi – reali e finanziarie, come pure i fenomeni di “manias, panics and crashes” – costituiscono la forma che nell’economia di mercato capitalistica assumono gli eccessi degli investitori e dei finanziatori. Al tempo stesso, le crisi rappresentano la modalità, estremamente costosa, con cui a quegli eccessi il sistema reagisce cercando con vario grado di successo di correggerli.

La sottovalutazione della dimensione finanziaria del potenziale di instabilità, a suo parere presente nella General Theory, ha orientato Kindleberger a dare rilievo particolare alle analisi del ruolo specifico della finanza nella crisi che sono state proposte da Irving Fisher e da Hyman Minsky.

Fisher aveva particolarmente insistito sul grado di indebitamento nell’economia, e segnatamente presso le imprese, come pure sul legame tra deflazione dei prezzi e onerosità del servizio dei debiti. Identificava il meccanismo cumulativo dell’avvitarsi dell’economia in una recessione e in una crisi di finanza nelle aspettative di deflazione e quindi di tassi reali dell’interesse crescenti, da un lato, nelle svendite di merci e cespiti patrimoniali volte a rimborsare in fretta il debito nell’inane tentativo di evitare l’insolvenza, dall’altro lato[23].

Minsky[24] muove da una corretta lettura di Keynes come teorico della instabilità in una Wall Street economy, ma anche dall’opinabile convincimento che Keynes “al di là di accenni e allusioni, non ha mai costruito un modello – o offerto una spiegazione – dell’evolvere nella struttura del passivo di imprese, banche e altre istituzioni finanziarie, né delle modalità con cui si realizza l’espansione endogena della moneta e dei sostituti della moneta”. Secondo Minsky “Keynes non è entrato nei dettagli circa il modo con cui la finanza influisce sul funzionamento del sistema”[25]. Minsky, comunque, integra l’analisi di Keynes formulando una precisa definizione di fragilità finanziaria in un’economia di mercato capitalistica con istituzioni di finanza altamente sviluppate: una condizione nella quale sono cospicue le posizioni degli investitori non coperte, nelle quali i flussi di ricavo attesi non sono costantemente e sufficientemente superiori alle rate di ammortamento delle passività. L’industria della finanza, per più ragioni intrinseche al suo modus operandi (ricerca del rendimento, carente visione d’assieme, comportamenti gregari, ottica limitata al breve periodo, incentivi perversi degli amministratori, limiti della regolamentazione e della supervisione), è affetta da una radicata tendenza, che può prevalere sulle controtendenze, a sottovalutare la rischiosità delle posizioni non coperte e a spingerle all’eccesso, in specie nella fase ascendente del ciclo. Quando, per qualunque fatto nuovo, il clima economico da positivo volge al peggio la “bolla” speculativa si sgonfia ed esplode la crisi: “manias, panics and crashes”.

Kindleberger riassume come segue il modello stilizzato – a questo punto Keynes-Fisher-Minsky – su cui egli fonda la propria originale indagine empirica delle crisi e la proposta su come contrastarle:

“Non è affatto vero che ogni espansione ciclica sia eccessiva, provocando inevitabilmente follie speculative e panico finanziario. Ma tale sequenza si realizza abbastanza spesso e con una certa uniformità. Fondamentalmente accade che un qualche evento muta la prospettiva economica. Le nuove opportunità di profitto vengono rincorse, e all’eccesso, in forme così vicine alla irrazionalità da configurare una follia speculativa. Una volta che la natura eccessiva della espansione emerge, il sistemfase della eccitazione folle, gente facoltosa o meritevole di credito usa il contante o si indebita per acquistare cespiti reali o strumenti finanziari illiquidi. Nel panico avviene il movimento opposto, dai cespiti reali o finanziari alla moneta, ovvero al rimborso dei debiti, con il conseguente crollo dei prezzi di beni, case e altri immobili, terreni, azioni, obbligazioni: in breve, dei prezzi dell’oggetto della mania speculativa, qualunque esso sia stato” (Kindleberger, 1978, p. 5).


La struttura tipica delle crisi è invariante, secondo la sequenza:

1.  Nuove opportunità di profitto (“spiazzamento”) alimentano un boom di investimenti diretti a coglierle. L’oggetto della speculazione può essere il più diverso: prodotti primari o manufatti o servizi; titoli, nazionali o esteri; valute; contratti derivati; terreni, immobili, centri commerciali.

2.  Alimentazione degli investimenti anche con crescente ricorso a una o più fonti di finanza esterna: credito personale e commerciale, emissione di titoli, espansione degli attivi di banche e altri intermediari, sostenuta o meno dalla base monetaria creata dalle banche centrali (moneta endogena).

3. Quotazioni dell’oggetto della speculazione in aumento, sull’onda di una euforia rialzista che coinvolge una platea via via più ampia di investitori.

4.   Euforia, ovvero overtrading smithiano, che si trasforma in “mania” irrazionale, in una “bolla” che scoppierà.

5.   Stadio – imprecisabile ex ante – raggiunto il quale alcuni investitori e speculatori, paghi del lucro realizzato e resi timorosi dalla “scintilla” di una notizia sopraggiunta, cominciano a vendere. I prezzi cessano di salire per poi flettere.

6.  Emersione di perdite. Altri investitori e speculatori seguono i primi nel vendere. La corsa al rimborso delle passività inaugura una caccia alla liquidità che implica svendite frenetiche, sino al “panico”.

7. La contrazione reale e finanziaria si configura, da ultimo, come un vero e proprio crash.

Se la struttura delle crisi è invariante, ogni crisi è unica nelle sue specifiche forme fenomeniche. “Quanto più qualcosa cambia, tanto più resta la medesima. I dettagli si moltiplicano, la struttura si conferma” (ibid., p. 21). Ciascuna crisi è quindi, necessariamente, oggetto di indagine storica, da estendere alle variabili metaeconomiche – istituzionali, politiche, culturali – che ne hanno plasmato le forme.

E l’indagine storica che Kindleberger sviluppa suffraga la generale validità del “modello”.

III


Di fronte alla gravità delle ripercussioni economico-sociali della instabilità sono necessariamente chiamate in causa la politica economica, le istituzioni, le regole per contrastarla:


“La sequenza di base – spiazzamento, eccesso di investimento, espansione monetaria, inversione delle aspettative, crollo del credito […] – coglie la natura delle economie capitalistiche tanto da orientare l’attenzione a problemi cruciali di politica economica” (ibid., p. 21).


Possono l’eziologia e la diagnosi dell’instabilità offerte dall’analisi teorica e storica delineare una terapia?

Kindleberger esclude come irrealistica l’ipotesi che le pubbliche autorità, una volta scoppiata una crisi, non intervengano e lascino che la crisi segua il suo corso senza tentare di arrestare il panico. Moratorie, certificati delle stanze di compensazione, comitati di banche per i salvataggi, fondi di garanzia e altri metodi non hanno potuto evitare nel passato il ricorso a quello che Kindleberger considera lo strumento principe: il credito di ultima istanza. “Siamo pronti a provare ad argomentare che un prestatore di ultima istanza, in effetti, abbrevia la depressione degli affari che consegue a una crisi finanziaria” (ibid., p. 21). E ancora:


“Nelle situazioni di panico, allorché ci si rifugia dai cespiti reali e finanziari di lunga scadenza nel contante, lo strumento per placare il panico è che il prestatore di ultima istanza renda il contante disponibile a volontà. L’assicurazione che gli altri cespiti patrimoniali possano essere convertiti in moneta induce molti detentori a desistere dal cercare di convertirli in danaro. La prospettiva che esista un limite interrompe le svendite, fa venir meno il timore che manchi la moneta allorché si decide di liquidare […]. Sulla scorta di una qualche preferenza storica rivelata, il prestatore di ultima istanza interviene nelle situazioni di panico per fornire la liquidità di cui si avverte disperato il bisogno” (Kindleberger, 1989, pp. 62-63)
.


Di fronte alla “globalità” che l’economia e la finanza sono venute nel tempo assumendo, Kindleberger – in ciò confortato dalla sua interpretazione della speciale gravità della Grande Depressione degli anni Trenta[26] – ha sottolineato l’esigenza di un prestatore di ultima istanza anche “internazionale”:

“Abbisognamo di un prestatore internazionale di ultima istanza? La mia risposta è sì […]. Un prestatore di ultima istanza per le emergenze dev’esserci. È opportuno che il mondo ne dubiti, affinché il senso di responsabilità si rafforzi, ma è inopportuno che i leaders nazionali e internazionali […] scarichino la responsabilità della stabilità mondiale su altri (come avvenne nel 1931” (Kindleberger, 1978, pp. 220 e 226).

Sulla gestione del credito di ultima istanza la convinzione profonda di Kindleberger è che occorra valorizzarne al massimo la discrezionalità: “La regola è che non c’è regola”[27]: non devono esservi regole. Tuttavia, l’analisi e l’esperienza consentono di formulare, se non dei criteri puntuali, dei principi a cui il credito di ultima istanza può utilmente ispirarsi per conciliare rigore e flessibilità.

Il principio fondamentale è che la decisione di concedere il credito non corrisponda a una presunzione da parte dei richiedenti del diritto a ottenerlo. Su questo principio era stato già chiarissimo Henry Thornton, due secoli fa. Egli era convinto dell’opportunità che la Banca d’Inghilterra, di fronte a nuove tensioni finanziarie, sia disposta a concedere il suo risconto con maggiore larghezza. Tuttavia,


“non si vuol dire che la Banca d’Inghilterra debba alleviare ogni tensione generata dall’avventatezza delle banche. Se lo facesse, finirebbe con l’incoraggiare la loro sconsideratezza. Esiste una linea mediana che una pubblica banca in posizione centrale deve proporsi di seguire nell’offrire soccorso agli istituti minori, ancorché sia difficile attenervisi. Il sostegno non dev’essere né così pronto e generoso da sottrarre chi ha male amministrato alle conseguenze naturali dei suoi errori, né così tardivo e scarso da porre a repentaglio l’interesse generale” (Thornton, 1802, pp. 185-186, p. 99 dell’edizione italiana).


Al fine di distinguere i debitori illiquidi da quelli insolventi i tassi di interesse debbono essere penalizzanti rispetto a quelli di mercato e scanditi dal rischio, dalla scadenza, dalla frequenza del ricorso al prestatore di ultima istanza.

Le scadenze debbono essere brevi, essendo l’illiquidità di norma temporanea, ma rinnovabili per il caso di illiquidità non contingente.

Le garanzie devono essere, salvo casi eccezionali, pretese. Ciò è necessario sia per agevolare la distinzione degli illiquidi dagli insolventi, sia per proteggere il capitale del prestatore di ultima istanza.

L’accesso va limitato agli intermediari esposti, come le banche, a crisi di fiducia infondate, contagiose, suscettibili di minare la stabilità dell’intera struttura finanziaria[28].

Sul quanto prestare, “abbondare è più prudente che lesinare. L’eccesso potrà essere riassorbito in seguito. La scelta del momento è un’arte. Ciò equivale a dire tutto e nulla” (Kindleberger, 1978, p, 181).

Nel passaggio dal rifinanziamento del sistema creditizio nazionale al sostegno della economia e della finanza mondiali Kindleberger dilata la nozione di lending of last resort dal governo della moneta affidato alla banca centrale di un singolo paese alle politiche monetarie e fiscali di autorità di più paesi coordinate nelle sedi della cooperazione internazionale.

L’esperienza e la teoria keynesiana suggeriscono che l’azione rivolta a circoscrivere le crisi e a contenerne le ripercussioni deve sostenere, allo stesso tempo, sia la finanza sia la domanda aggregata. Deve curare, in forme coerenti, tanto la sfera finanziaria quanto la sfera reale dell’economia. Altrimenti, se il settore finanziario è in difficoltà la carenza e l’onerosità dei finanziamenti provocheranno, prima o poi, una recessione; a propria volta, il ristagno delle attività produttive causerà illiquidità e insolvenza nel mondo della finanza attraverso le perdite di valore su prestiti e titoli. I Tesori e le banche centrali sono chiamati a fornire mezzi liquidi, ad assicurare le attività rischiose, a consolidare con fondi privati, e financo pubblici, il patrimonio netto di banche e intermediari. La politica monetaria dev’essere espansiva sino all’aggressività che sospinga verso lo zero i tassi nominali d’interesse. La politica di bilancio ammetterà disavanzi crescenti, derivanti da abbattimento di imposte e, preferibilmente, da spese per investimenti e per lavori pubblici produttivi. Contenere i comportamenti irresponsabili di banchieri e finanzieri, evitare di alimentare con moneta l’inflazione nel più lungo periodo, programmare e rendere credibile il riequilibrio dei conti pubblici a crisi superata: sono, questi, i vincoli che la politica stabilizzatrice deve rispettare per non incorrere in inefficienze, instabilità e inflazione oltre il breve periodo.

Vanno, certo, colmati i vuoti e superate le carenze che la crisi ha messo a nudo nella regolamentazione e nella supervisione dell’industria della finanza. E tuttavia l’intento di evitare il ripetersi in futuro di crisi simili a quelle sperimentate nel passato non deve scadere nell’illusione che si possa sempre assicurare la stabilità finanziaria, sempre prevedere e prevenire le crisi. La disamina teorica e storica offerta da Charles Kindleberger costituisce conferma della bassa probabilità che l’economia di mercato capitalistica possa mai essere trasformata in un sistema stabile, riformata attraverso la regolamentazione e la politica economica. Non può essere che realisticamente negativa la risposta al quesito se le crisi siano evitabili in ogni circostanza. Crisi reali e finanziarie si ripeteranno in futuro. Sono radicate nella dinamica intrinsecamente instabile del sistema capitalistico.

Identificare come “eccessiva” la speculazione su specifici prodotti o cespiti è estremamente difficile, arbitrario. Ciò è particolarmente vero quando – come nel 2008 – la speculazione si inscrive in una condizione macroeconomica non inflattiva dei prezzi delle merci. In questi casi, inoltre, per i policy makers, e segnatamente per organismi tecnici quali le banche centrali, è più arduo di quanto Kindleberger non pensasse agire per frenare la speculazione rialzista sui valori patrimoniali con restrizioni monetarie, o fiscali. Lo stesso può dirsi per il grado di indebitamento delle imprese finanziarie e non finanziarie, delle famiglie, dei governi, la cui sostenibilità dipende da un vasto insieme di altre variabili: tassi d’interesse, redditi, profittabilità, gettito fiscale, flussi di cassa. Le aspettative del mondo degli affari, e ancor più le loro mutazioni, sono ardue da interpretare e ancor più ardue da influenzare e moderare. La scintilla che innesca le spinte ribassiste può essere qualsivoglia e dovunque, brillare in ogni momento. Può financo consistere nei richiami lanciati dalle autorità contro la speculazione, ovvero in interventi volti a stroncarla per tempo.

In termini più generali, il tentativo di scongiurare le crisi si scontra con l’alternativa “regole/discrezionalità” che angoscia la politica economica. Le regole – come le remore all’assunzione dei rischi, i tetti all’indebitamento, gli incentivi alla trasparenza, la proibizione di determinate pratiche commerciali – nel migliore dei casi possono evitare il ripetersi di crisi analoghe a quelle del passato, sulla cui esperienza quelle stesse regole vengono disegnate. Sono per natura inadeguate a prevenire l’instabilità quando essa, come più spesso avviene, assume forme nuove e segue scansioni inusitate. Gli interventi discrezionali, d’altra parte, si fondano sull’assunto che i governi, le banche centrali, le autorità di supervisione siano informati almeno quanto gli operatori del mercato, se non di più. Ma ciò di rado avviene. Inoltre, interventi siffatti, se per la loro imprevedibilità da parte degli operatori del mercato possono essere più efficaci contro la speculazione, sono per ciò stesso considerati invasivi e arbitrari, tanto da suscitare le resistenze del mondo degli affari, oltre che delle teorie economiche e giuridiche ispirate a criteri liberisti.

L’indicazione di Charles Kindleberger è che discrezionalità e regole devono riguardarsi come complementi. Affinchè sia resa meno instabile, l’economia di mercato capitalistica richiede il rigore costante della regola, ma richiede altresì l’intervento discrezionale allorché la flessibilità appare necessaria.29

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* Sapienza Università di Roma, e-mail: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
1 Questa stessa “simpatia” mi indusse a pregare Kindleberger di partecipare con un breve intervento a una discussione a distanza e a molte voci sul ventesimo secolo che volgeva al termine (cfr. Kindleberger, C.P. (1998), “Rasoio di Occam, o causazione multipla?”, in Ciocca, P. (a cura di), L’economia mondiale nel Novecento. Una sintesi, un dibattito, il Mulino, Bologna).
2   Kindleberger, C.P. (1989), Economic Laws and Economic History, Cambridge University Press, Cambridge, p. ix.
3 Ibidem.
4 Kindleberger, C.P. (1978), Manias, Panics, and Crashes. A History of Financial Crises, Macmillan, London, p. 3.
6 Thornton, H. (1802), An Enquiry into the Nature and Effects of the Paper Credit of Great Britain, Hatchard, London, p. 50. Sulla originalità del contributo di Thornton all’analisi monetaria resta fondamentale Hicks, J. (1967), “Thornton Paper Credit (1802)”, in Critical Essays in Monetary Theory, Clarendon Press, Oxford. Si veda anche Ciocca, P. e Sannucci, V. (1990), “Henry Thornton, primo teorico della banca centrale”, saggio introduttivo alla edizione italiana del volume di Thornton, Indagine sulla natura e sugli effetti del credito cartolare in Gran Bretagna, Cassa di Risparmio di Torino, Torino (pp. 27-28).

7
Aumentò a un ritmo medio annuo del 4,5 per cento secondo le stime di Angus Maddison, del 2,3 per cento secondo le più attendibili stime di Stefano Fenoaltea. Cfr. Fenoaltea, S. (2006), L’economia italiana dall’Unità alla grande guerra, Laterza, Bari, rispettivamente tab. 5 p. 56 e tab. 6 p. 61.


8
  Carriero, G., Ciocca, P. Marcucci, M. (2003), “Diritto e risultanze dell’economia nell’Italia unita”, in Ciocca. P. e Toniolo, G. (a cura di) Storia economica d’Italia, vol. 3.2, Laterza, Roma-Bari, pp. 502-509. La stima di 2,3 trilioni di dollari per il 2007-2010 è contenuta in IMF (2010), World Economic Outlook. Rebalancing Growth, April, Washington (D.C.), p. xvi. Questa stima ridimensiona quella molto più elevata (4 trilioni) proposta dal Fondo nell’aprile del 2009.
9 Kindleberger (1978), p. 3.
10 In queste teorie, le aspettative di profitto sono mutevoli e le fluttuazioni della domanda sono legate all’interagire del moltiplicatore dei consumi con l’acceleratore degli investimenti. Assumono altresì rilievo gli sfasamenti con cui le variabili si influenzano, i limiti rappresentati dal pieno utilizzo delle risorse (“soffitto”) e dalla non negatività dell’investimento lordo (“pavimento”), gli shocks reiterati a cui l’economia è esposta. Si vedano, in una sterminata letteratura, le sintesi di Matthews, R.C.O. (1962), Il ciclo economico, Feltrinelli, Milano; e Gandolfo, G. (1971), Mathematical Methods and Models in Economic Dynamics, North-Holland, Amsterdam.
11 Matthews (1962), pp. 127 e 138.
12 “Quando accade che i profitti del commercio sono maggiori del livello normale, l’eccesso di attività commerciale diventa un errore generale, tra i piccoli come tra i grandi commercianti […]. Costoro acquistano a credito […] una quantità superiore al normale di merci […] nella speranza che i ricavi giungano prima della domanda di rimborso. La domanda giunge però prima dei ricavi” (Smith, A. (1976) [1776], An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, Oxford University Press, Oxford, p. 438).

13 Ciocca, P. (1987), “Between “a “Science” and “an Art”: Central Banks and the Political Economy of Money”, in Ciocca, P. (a cura di), Money and the Economy. Central Bankers’ Views, Macmillan, London.
14 Pareto, V. (1949) [1896], Corso di economia politica, Einaudi, Torino, p. 311.
15 Kindleberger, (1978), pp. 22-23.
16 Thornton, (1802), p. 46 e passim.

17 Keynes, J.M. (1936), The General Theory of Employment Interest and Money, Macmillan, London, pp. 315-317.
18 Gli investitori, in Keynes, non sono irrazionali, come pure si continua da molti a ritenere. Si veda, quale esempio di superficiale lettura del pensiero di Keynes, Akerlof, G.A. e Shiller, R.J. (2009), Animal Spirits, Princeton University Press, Princeton.
19 Keynes, J.M. (1921), A Treatise on Probability, Macmillan, London.
20 “Nella pratica, abbiamo tacitamente concordato di attestarci, di regola, su una convenzione. L’essenza della convenzione – anche se, naturalmente, non agisce così semplicemente – consiste nell’assunto che lo stato presente degli affari persisterà indefinitamente, a meno che non si configurino motivi specifici per attendersi un mutamento […]. Di fatto, si assume che la presente valutazione di mercato, comunque raggiunta, sia univocamente corretta in relazione alla conoscenza attuale dei fatti che influenzeranno il rendimento dell’investimento, e che essa cambierà soltanto nella misura in cui cambierà tale conoscenza” (Keynes, 1936, p. 152).
21 Ibidem, p. 158.

22 Ibidem, p. 145.
23 Fisher, I. (1933), “The Debt-Deflation Theory of Great Depressions”, Econometrica, vol. 1, n. 4, pp. 337-357.
24  Minsky, H.P. (1982), Can It Happen Again?, Sharpe, New York; e Minsky, H.P. (1986), Stabilizing an Unstable Economy, Yale University Press, New Haven.

25 Minsky, H.P. (1975), John Maynard Keynes, Columbia University Press, New York, p. 106. La linea d’analisi inaugurata da Minsky è stata sviluppata, fra gli altri, da Vercelli, A. (2001), “Minsky, Keynes and the Structural Instability of a Sophisticated Monetary Economy”, in Bellofiore, R. e Ferri, P. (a cura di), Financial Fragility and Investment in the Capitalist Economy, Elgar, Cheltenham; e da Ferri, P. (2002), La macroeconomia di medio periodo, Giappichelli, Torino.

26 Secondo Kindleberger la gravità di quella crisi non dipese tanto dagli squilibri interni all’economia mondiale ma soprattutto dalla mancanza di un paese leader che si accollasse la responsabilità di offrire un sostegno. L’Inghilterra non era più in grado e gli Stati Uniti non vollero svolgere quel ruolo (Kindleberger, C.P., (1973), The World in Depression 1929-1939, Allen Lane, London).
27 Ibidem, p. 176.

28 Ciocca, P. (1991), Banca, Finanza, Mercato, Einaudi, Torino, cap. XI.

29 Hicks (1967), pp. 185-186.
 
 
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