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Dopo il keynesismo: teorie economiche per una (non-) politica economica

di Alberto Russo

In questo articolo viene proposta una breve discussione sull’evoluzione della macroeconomia e della politica economica dopo Keynes. In particolare, viene descritta la diffusione di un nuovo standard di ricerca, dopo la «stagflazione» degli anni ‘70 del secolo scorso, che ripropone la fiducia (pre-keynesiana) nelle capacità di auto-regolazione dei mercati e considera la politica economica (anticiclica) come un possibile ostacolo al raggiungimento dell’equilibrio «naturale» del sistema economico. Infine, vengono discusse alcune prospettive per la macroeconomia dopo la Grande Recessione

1420457688 2 al di la del faro paesaggi e pittori siciliani dellottocento1. Introduzione

Quando nel 1936 John Maynard Keynes pubblicò la sua Teoria Generale, i danni della Grande Depressione erano già evidenti. Con il suo contributo, Keynes individuò importanti misure di politica economica per superare la crisi attraverso l’intervento pubblico, in assenza di meccanismi di riequilibrio automatico del sistema economico. Il grande successo della Teoria Generale è dovuto proprio al bisogno di una nuova teoria macroeconomica in grado di comprendere cosa era andato storto e di indicare le soluzioni di politica economica per favorire una ripartenza dell’economia. La fiducia nell’intervento pubblico e nella politica economica continueranno a caratterizzare la teoria macroeconomica anche nel dopoguerra, fino agli anni ‘70 del secolo scorso, quando un nuovo cambiamento epocale viene accompagnato dall’aumento congiunto di inflazione e disoccupazione durante la crisi energetica.

La rivoluzione anti-keynesiana del monetarismo (di prima e seconda generazione) torna ad una impostazione (pre-keynesiana) contraddistinta dalla fiducia nelle capacità di auto-regolazione dell’economia di mercato, con il corollario che proprio le politiche economiche ostacolerebbero la tendenza del sistema verso il suo equilibrio naturale.

Il successo di questa impostazione comporta l’emergere di un vero e proprio standard di ricerca economica e di (non-)politica economica, che dominerà la scena fino alla recente crisi. In altre parole, l’approccio teorico che domina la scena nell’era del «neoliberismo» ha avuto successo nel contrastare l’impianto keynesiano della politica macroeconomica anti-ciclica, creando un contesto nel quale si arriva a propugnare l’austerità fiscale per risolvere la cosiddetta “crisi dei debiti sovrani” in un’Eurozona in recessione (implementando così politiche fiscali pro-cicliche). In questo senso parliamo di non-politica economica, perché evidentemente non mancano le ricette proposte nell’ambito dell’approccio dominante, che però guardano al lato dell’offerta. Ci si riferisce, ad esempio, alle cosiddette «riforme strutturali», volte a rendere ulteriormente flessibile il mercato del lavoro e a mantenere il predominio della finanza, mentre la disuguaglianza nei paesi continua ad aumentare. Ci si può interrogare su quale sarà l’evoluzione della teoria macroeconomica e l’atteggiamento di politica economica a seguito della Grande Recessione.

 

2. I Trenta Gloriosi e la macroeconomia della sintesineoclassico-keynesiana

Sulla scia del contributo keynesiano, la politica economica assume un ruolo centrale nella regolazione dell’equilibrio macroeconomico, con un governo che usa attivamente la politica fiscale e le banche centrali che tendenzialmente assecondano i fini del governo. Il riferimento per l’analisi macroeconomica è il modello IS-LM (dove IS sta per Investment-Saving e LM per Liquidity preference-Money), proposto da Hicks1, a ridosso della Teoria Generale, e poi modificato da altri economisti, ad esempio da Modigliani2, evidenziando la centralità della rigidità (verso il basso) dei salari nominali nel determinare scenari caratterizzati da disoccupazione involontaria. L’intento di Hicks, e degli economisti che si muovono in una direzione simile, è quello di riassumere il contributo di Keynes e di riproporlo in un modello (formale) coerente. Tuttavia, molti aspetti cruciali dell’analisi keynesiana restano fuori da questa rilettura - come, ad esempio, il centrale problema del mancato coordinamento tra gli agenti che compongono i diversi mercati3 - che tende a riportare alcuni passaggi dell’analisi keynesiana all’interno del filone neoclassico-marginalista. Si tratta di una rielaborazione del pensiero keynesiano che possiamo, appunto, denotare come «sintesi neoclassico-keynesiana».

Nell’ambito di questa sintesi, infatti, la disoccupazione è principalmente dovuta alla rigidità verso il basso del salario nominale, mentre in assenza di rigidità - che però è ritenuta realistica, anche sulla base delle evidenze empiriche - l’economia tenderebbe a raggiungere l’equilibrio di pieno impiego. Il cuore dell’analisi macroeconomica keynesiana viene quindi relegato ad un caso speciale, che può essere inglobato nel più generale modello IS-LM. Restano, comunque, ampi spazi per la politica economica. Anzi, si fa largo l’idea del fine-tuning e, cioè, la possibilità per il policy maker di “scegliere” un dato livello di disoccupazione, accettando un corrispondente livello di inflazione. Tale scelta di politica economica è legata alla presenza nel modello della sintesi neoclassico-keynesiana della «curva di Phillips», ovvero di una relazione inversa tra inflazione (salariale) e tasso di disoccupazione: man mano che la disoccupazione diminuisce, ad esempio come conseguenza di una politica fiscale espansiva, l’inflazione aumenta, a causa della minore competizione tra lavoratori nel mercato del lavoro. Ne consegue grande fiducia nella capacità della politica economica di guidare l’evoluzione macroeconomica.

Sul piano intemazionale, gli influssi keynesiani si ritrovano nei principi alla base dell’organizzazione del commercio internazionale e della regolazione dei movimenti di capitali tra paesi. Nel 1944 si tenne una conferenza internazionale a Bretton Woods (negli USA), dalla quale scaturirono degli accordi che, seppur non corrispondenti al piano che Keynes aveva proposto per conto del Regno Unito4, furono il frutto di un compromesso tra la proposta keyne-siana e quella del delegato USA Harry Dexter White, con una prevalenza della seconda visione (quella cioè della nuova potenziale mondiale). In sintesi, gli accordi di Bretton Woods prevedevano un sistema di tassi di cambio fissi, noto come gold exchange standard, con una moneta convertibile in oro, il dollaro statunitense, e il resto delle monete convertibili in dollari. Questo sistema avrebbe favorito il commercio internazionale, in un contesto di libertà degli scambi. Lo stesso accordo si prefiggeva di controllare i movimenti di capitale, allo scopo di evitare eccessive turbolenze dei mercati finanziari internazionali (dopo la negativa esperienza del gold standard e della Grande Depressione). Per circa trent’anni la combinazione di politiche nazionali ed intemazionali ispirate, più o meno direttamente, a Keynes accompagnò l’espansione degli USA e la ripartenza di Europa e Giappone, con tassi di crescita sostenuti e bassa disoccupazione (specialmente negli anni della ricostruzione postbellica). Si parla così dei Trenta Gloriosi.

Il modello IS-LM, con l’integrazione della curva di Phillips, diventa lo standard di questa «età dell’oro», ed è usato come base per le decisioni di politica economica, anche grazie allo sviluppo di modelli macroeconometrici di ampie dimensioni5. L’estensione del modello sul piano intemazionale avviene ad opera di Mundell6 e Fleming7 e prevede l’introduzione del vincolo estero attraverso il saldo della bilancia dei pagamenti: ci si riferisce al modello Mun-dell-Fleming o IS-LM-BP (dove BP sta per Balance of Payments). In questa fase, quindi, il pensiero keynesiano, anche se rielaborato, continua a dominare la scena macroeconomica. Qualcuno attribuisce a Milton Friedman (sul quale torneremo successivamente) la dichiarazione «siamo tutti keynesiani». Ma lo stesso Friedman stava in realtà preparando il campo per una inversione di tendenza, che andrà a ridimensionare ulteriormente il peso degli elementi keynesiani nella teoria macroeconomica. Gli accadimenti degli anni ‘70 del Novecento costituiscono un terreno fertile per l’avvio di una nuova fase teorica volta a sottolineare i limiti dell’intervento pubblico nell’economia, i possibili effetti controproducenti della politica economica anti-ciclica, con un ritorno della fiducia nella capacità dei mercati (concorrenziali) di raggiungere l’equilibrio paretiano (ovvero una situazione nella quale non esistono ulteriori scambi vantaggiosi, per cui il benessere collettivo è massimizzato).

 

3. A cavallo della «stagflazione»: dal monetarismo alla «nuova macroeconomia classica»

La crisi energetica degli anni ‘70 del Novecento fa da spartiacque tra una fase dominata dalle idee keynesiane (seppur riviste nell’ambito della sintesi neoclassico-keynesiana) e una fase che potremmo definire anti-keynesiana, dominata dall’emergere dell’approccio monetarista e dal successivo sviluppo della «nuova macroeconomia classica» (o «monetarismo di seconda generazione»), con rilevanti ripercussioni per la conduzione della politica economica. Il primo shock petrolifero è del 1973 e comporta un’impennata del prezzo del petrolio (per via dell’accordo in sede OPEC volto a sostenere Egitto e Siria nella guerra del Kippur) e, conseguentemente, un forte rialzo del tasso di inflazione, data l’elevata dipendenza energetica dei sistemi produttivi dei paesi avanzati8. Lo shock petrolifero colpisce l’economia mondiale in una fase che già vedeva un rialzo dei prezzi derivante dalla dinamica dei salari, dopo anni di crescita sostenuta e bassa disoccupazione. La crisi economica innescata da questo shock, comunque, si riflette in un aumento della disoccupazione. Si assiste, quindi, ad un aumento congiunto di inflazione e disoccupazione che mette in crisi il modello macroeconomico che aveva dominato la scena nei decenni addietro. Infatti, ciò non è coerente con la relazione inversa tra inflazione e disoccupazione espressa dalla curva di Phillips. La combinazione di elevata disoccupazione ed elevata inflazione, ovvero la «stagflazione», è proprio per questo uno degli elementi principali che mettono in crisi la macroeconomia della sintesi neoclassico-keynesiana. Si aprono così spazi per un’impostazione teorica alternativa, in grado di interpretare le cause della stagflazione, anche a seguito del secondo shock petrolifero del 1979 (legato alla rivoluzione iraniana). È in questo scenario che l’approccio monetarista si fa largo.

I più noti contributi in ambito monetarista sono legati all’opera di Milton Friedman che, seppur inizialmente influenzato dalle idee keynesiane, lavora ad una diversa interpretazione dei fenomeni macroeconomici e, in particolare, ad un’analisi del problema dell’inflazione come fenomeno monetario, come ad esempio nel noto lavoro con Anna Schwartz sulla storia monetaria degli Stati Uniti tra 1867 e il 19609. Recuperando la Teoria Quantitativa della Moneta, questo approccio lega l’andamento dell’inflazione a quello dell’offerta di moneta, sostenendo così che la Banca Centrale sarebbe in grado di controllare l’andamento dell’inflazione, stabilendo il «giusto» tasso di crescita dell’offerta di moneta. Secondo Friedman, la scelta migliore per la Banca Centrale consiste nell’individuare una «regola» per la crescita dell’aggregato monetario, ovvero un tasso di crescita costante dell’offerta di moneta10. La Banca Centrale perde così libertà di manovra, rinunciando alla discrezionalità nelle scelte di politica monetaria, riuscendo però in questo modo a perseguire l’obiettivo della stabilità dei prezzi. Passando dalla moneta all’economia reale, la visione monetarista propone il cosiddetto «tasso naturale di disoccupazione» come centro di gravità del sistema economico: si tratta di quel tasso di disoccupazione che è compatibile con la stabilità dei prezzi (si parla, infatti, anche di NAIRU, ovvero Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment)11 e verso il quale il sistema spontaneamente tende, in assenza di rigidità (quindi, con salari e prezzi pienamente flessibili) o interventi di politica economica che compromettano il perfetto funzionamento dei mercati12. Compito della politica economica è, semmai, proprio quello di rimuovere le barriere al «corretto» funzionamento di mercati, con uno spostamento dell’enfasi dagli interventi di natura macroeconomica (come la gestione keynesiana della domanda aggregata, nelle diverse fasi del ciclo economico, volta al raggiungimento della piena occupazione) a quelli di natura microeconomica (ai quali oggi spesso ci si riferisce a proposito delle riforme strutturali).

Sulla base di questi sviluppi teorici, diventa sempre più rilevante il ruolo delle banche centrali nell’assicurare la stabilità dei prezzi. Un significativo esperimento di politica monetaria anti-inflazionistica, dopo l’esperienza della stagflazione, è stato quello condotto dall’allora presidente della Fed, Paul Volcker, con un importante rialzo dei tassi di interesse, che poi ha avuto rilevanti conseguenze internazionali13. Questa impostazione riguarderà in parti-colar modo la costituzione e il funzionamento della Banca Centrale Europea (BCE) e sarà accompagnata dalla tendenza al ridimensionamento della politica fiscale come strumento anti-ciclico e il diffondersi di un atteggiamento sempre più market-oriented volto a rimuovere gli ostacoli al funzionamento dei mercati attraverso le cosiddette riforme strutturali. Tale impianto diventerà dominante soprattutto dopo i contributi di Robert Lucas Jr e della scuola della «nuova macroeconomia classica».

Quello di Lucas e dei suoi co-autori14 è un attacco frontale alla macroeconomia keynesiana (ovvero, a quello che ne restava). La «critica di Lucas» evidenzia i limiti dei modelli macroeconometrici che avevano dominato la scena durante i Trenta Gloriosi, sottolineando la loro incapacità nel descrivere la reazione degli agenti in risposta a cambiamenti del sistema economico e alle scelte di politica economica15. Ciò di cui erano carenti i modelli di impostazione keynesiana era un’accurata analisi delle aspettative che fosse in grado di descrivere l’atteggiamento forward looking (cioè, la capacità di «guardare avanti») degli agenti (razionali). Eppure Keynes aveva dato grande peso al ruolo delle aspettative nella Teoria Generale, in particolare riferendosi a quelle di lungo termine nel processo imprenditoriale di decisione degli investimenti, notando però che spesso l’incertezza è tale che l’imitazione può diventare una scelta razionale (come nell’esempio del beauty contest) e che alle volte l’investimento deriva più dagli animal spirits degli imprenditori che dai loro calcoli razionali. Effettivamente, però, i modelli macroeconomici che da Keynes traevano ispirazione si caratterizzavano per un ruolo secondario delle aspettative, ovvero per ipotesi sul comportamento degli agenti economici che conduceva tipicamente ad aspettative adattive (statiche), influenzate esclusivamente da ciò che è accaduto nel passato. Il buon funzionamento dei modelli keynesiani durante i Trenta Gloriosi si può spiegare notando che quello fu un periodo caratterizzato da una relativa stabilità economica e finanziaria. D’altra parte, la persistenza delle serie temporali relative alle variabili macroeconomiche (si pensi, ad esempio, al consumo aggregato) è molto forte e un comportamento adattivo degli agenti basato sul passato è in grado di prevedere con ragionevole precisione l’andamento dell’economia. A meno di novità importanti, appunto, come la stagflazione degli anni ‘70.

Già Friedman aveva proposto una nuova formulazione delle aspettative (accelerative), mettendo in discussione la stabilità della curva di Phillips. Se gli agenti, infatti, sono in grado di aggiornare le loro aspettative sui prezzi futuri (ad esempio, al periodo t+1) incorporando il tasso di inflazione atteso (ad esempio, e ancora in termini adattivi seppur accelerativi, quello realizzato nel periodo corrente t), allora un aumento dell’inflazione fa slittare verso l’alto la curva di Phillips (corretta per le aspettative). Ciò implica che l’efficacia delle politiche economiche è limitata al breve periodo, ovvero quel lasso di tempo necessario agli agenti ad adattarsi al nuovo tasso di inflazione. Se, ad esempio, il governo decidesse di aumentare la spesa pubblica al fine di ridurre la disoccupazione, ciò nel breve periodo condurrebbe a minor disoccupazione e maggior inflazione, dato il trade-off tra le due variabili stabilito dalla curva di Phillips (di breve periodo); ma una volta che gli agenti abbiano aggiornato le loro aspettative sul livello futuro dei prezzi (ad esempio, perché i lavoratori vogliono preservare il potere d’acquisto derivante dal salario reale), allora il sistema ritorna al tasso di disoccupazione precedente (ovvero al «tasso di disoccupazione naturale»), a meno che non ci siano ulteriori interventi espansivi (fiscali o monetari), che però potrebbero innescare una spirale inflazionistica. Un modello, quindi, che proponeva una possibile interpretazione della stagflazione e che tendeva a trovare in scelte scorrette di politica economica una possibile spiegazione della crisi.

Il ruolo delle aspettative viene ulteriormente approfondito dalla «nuova macroeconomia classica». Un contributo fondamentale in questa direzione è quello di Muth con le «aspettative razionali»16. In estrema sintesi, questa ipotesi implica che gli agenti (razionali) che compongono il sistema economico conoscano il modello (e sono in grado di calcolarne l’equilibrio), riuscendo così ad anticipare gli effetti delle politiche economiche. Ad esempio, nel caso in cui il governo decidesse di aumentare la spesa pubblica per ridurre la disoccupazione, gli agenti anticiperebbero il previsto aumento dell’inflazione, conducendo il sistema «istantaneamente» sull’equilibro di lungo periodo o «tasso naturale di disoccupazione». In questo contesto, quindi, la politica economica non è efficace neanche nel breve periodo e l’economia si trova sempre in corrispondenza del «tasso naturale di disoccupazione»17. La conseguenza di un aumento della spesa pubblica, nel nostro esempio, sarebbe quindi quello di generare inflazione (e più debito pubblico con spesa fatta in deficit), senza conseguenze per l’economia reale, essendo quindi la politica fiscale espansiva del tutto inefficace rispetto all’obiettivo di espandere il reddito e ridurre la disoccupazione. Stesso discorso per la politica monetaria che, infatti, dovrebbe limitarsi a perseguire l’obiettivo dichiarato di crescita dei prezzi (inflation target), data la «regola» di crescita dell’offerta di moneta. In altri termini, la moneta è neutrale anche nel breve periodo (mentre è tale nel lungo periodo secondo il primo approccio monetarista). L’unica strada che rimane per ridurre in modo stabile la disoccupazione consiste nell’agire sui «fondamentali dell’economia», attraverso riforme strutturali in grado, ad esempio, di rendere più flessibile il mercato del lavoro, aumentare il grado di concorrenza dei mercati, incentivare la crescita della produttività18.

 

4. Un nuovo standard

La «rivoluzione delle aspettative razionali», all’interno della «nuova macroeconomia classica», e il conseguente approccio allo studio delle fluttuazioni economiche del cosiddetto «ciclo economico reale» (Real Business Cycle, RBC), hanno avuto un forte impatto sulla comunità degli economisti e sui policy maker, tracciando le linee di un vero e proprio nuovo standard di ricerca nella disciplina economica, che getta le sue radici nell’approccio neoclassico-marginalista e, in particolare, nell’equilibrio economico generale walrasiano. Gli elementi che definiscono questo standard sono: un approccio di equilibrio generale, nella sua formulazione inter-temporale (quindi, l’agente razionale massimizza una funzione obiettivo su un arco di tempo, che può essere infinito, sotto un vincolo di bilancio inter-temporale); micro-fondazioni della macroeconomia (seguendo un’impostazione basata sull’individualismo metodologico), in base alle quali il comportamento aggregato (macro) deriva dalle scelte (razionali) fatte dai singoli agenti (micro), anche se poi si ricorre tipicamente all’aggregazione delle scelte individuali in un unico «agente rappresentativo»; aspettative razionali; introduzione di disturbi (shock) stocastici che allontanano temporaneamente il sistema dall’equilibrio di “stato stazionario”; analisi quantitativa e procedure per la verifica empirica.

La teoria del «ciclo economico reale» sposta l’enfasi dalla disoccupazione (involontaria) e dalla gestione della domanda aggregata per il raggiungimento del pieno impiego, allo studio delle fluttuazioni economiche come reazioni ottimali degli agenti a shock esogeni (prima di natura monetaria con Lucas, poi prevalentemente di tipo tecnologico). In questo contesto, la capacità di ottimizzazione inter-temporale degli agenti e le aspettative razionali implicano l’inefficacia delle politiche (macro)economiche - a meno di interventi non previsti, come una «sorpresa inflazionistica» della banca centrale - e, di conseguenza, la scelta ottimale per i policy maker è quella di vincolarsi a determinate regole di politica economica, rinunciando alla discrezionalità19.

Questa nuova impostazione (che per diversi aspetti ritorna alla vecchia scuola pre-keynesiana) domina talmente la scena macroeconomica che anche la successiva risposta di coloro che ritornano ad ispirarsi a Keynes avviene sulla base di modelli che incorporano l’analisi di equilibrio inter-temporale e le aspettative razionali, accettando così la sfida delle micro-fondazioni della ma-croeconomia20. Ci riferiamo, in particolare, alle analisi proposte dai cosiddetti «nuovi keynesiani» (New Keynesians, NK) che tendono ad enfatizzare alcune limitazioni nel funzionamento perfetto dei mercati legati a «rigidità» nominali (ad esempio, vischiosità dei salari e aggiustamento imperfetto dei prezzi) e reali (ad esempio, rigidità del salario reale dovute al comportamento ottimizzante delle imprese che stabiliscono dei salari - di efficienza - più elevati rispetto al livello di market clearing), oppure a forme di concorrenza imperfetta nei mercati (ad esempio, la concorrenza monopolistica), indebolendo così il messaggio della «nuova macroeconomia classica»21. In questo contesto, si assiste anche al ritorno del tema della disoccupazione, seppur come conseguenza di rigidità del sistema economico e non come il risultato di una carenza di «domanda effettiva» à la Keynes. Un contributo di particolare interesse riguarda l’«informazione asimmetrica»22: ad esempio, una banca che si appresta a concedere un prestito ad un’impresa, non conosce esattamente le condizioni finanziarie del potenziale debitore; questo può condurre la banca a dover verificare la sostenibilità del debito e a basare la decisione di erogare il prestito sulla presenza di garanzie «collaterali». In sintesi, il tasso di interesse applicato sui prestiti contiene un «premio per il rischio», che tende a crescere all’aumentare della rischiosità del debitore (una proxy può essere data dal leverage), dando luogo al cosiddetto «acceleratore finanziario»23, cioè un meccanismo in grado di amplificare gli effetti degli shock che colpiscono il sistema economico. Si passa, quindi, da un modello baseline del «ciclo economico reale», nel quale uno shock di grandi dimensioni è necessario per riprodurre una deviazione rilevante dallo «stato stazionario» del modello, come una marcata recessione, ad un modello arricchito con la presenza di rigidità e meccanismi in grado di amplificare gli effetti degli shock, ovvero modelli nei quali anche uno shock di modesta portata può causare una recessione, dato qualche meccanismo di amplificazione (come, ad esempio, l’acceleratore finanziario)24.

La disciplina evolve così verso una nuova sintesi che coniuga lo standard della «nuova macroeconomia classica» e del «ciclo economico reale» (RBC) -che possiamo riassumere con l’etichetta DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium), ovvero un approccio di equilibrio generale inter-temporale caratterizzato dalla presenza di shock stocastici - con i nuovi spunti provenienti dalla «nuova economia keynesiana» (NK), legati al ruolo delle rigidità e delle imperfezioni dei mercati. Il nuovo paradigma NK-DSGE, rispettando ed ampliando lo standard di ricerca mainstream, consente allo stesso tempo una migliore interpretazione dei dati25, anche se non prevede un ruolo esplicito del settore finanziario nella versione più diffusa26. Inoltre, rispetto al risultato di totale inefficacia della politica macroeconomica associato ai modelli mainstream più «puri»27, l’apporto dell’approccio NK ripropone alcuni risultati di efficacia delle politiche, seppur limitata al breve periodo (mentre nel lungo periodo, generalmente, i modelli tendono all’equilibrio «naturale»). In definitiva, una «nuova sintesi»28 emerge combinando l’interesse della nuova economia keynesiana per gli effetti della politica economica in un contesto caratterizzato da imperfezioni/rigidità e l’approccio walrasiano ed intertemporale della teoria del ciclo reale con aspettative razionali. Ne consegue un ulteriore sviluppo dei modelli DSGE e la tendenza ad una sempre maggiore attenzione agli aspetti quantitativi, basata sull’impiego dei dati disponibili al fine di vali-dare empiricamente i risultati ottenuti29.

 

5. La recente crisi e il dibattito dipolitica economica

La Grande Recessione degli ultimi anni è l’episodio di maggiore intensità e durata dopo la Grande Depressione degli anni ‘30 del Novecento. Inizialmente, i problemi legati al mercato dei mutui immobiliari sub-prime negli USA sembravano, secondo alcuni, limitare la portata di quell’evento ad una crisi finanziaria, come altre ne sono avvenute. Ma dopo il fallimento della Lehman Brothers e la forte recessione in USA e nel resto del mondo è stato chiaro a tutti che non si aveva a che fare col «normale» ciclo economico, bensì con un prolungato episodio di recessione. Ciò ha richiesto l’intervento dei governi per salvare numerose ed importanti istituzioni finanziarie - trasformando così parte delle perdite private in debito pubblico -, e l’intervento delle banche centrali che, una volta esaurita la capacità di intervento tradizionale - avendo portato il tasso di rifinanziamento principale a zero - hanno inondato il sistema di liquidità, senza peraltro riuscire a contrastare la riluttanza delle banche a concedere prestiti in un momento di elevata incertezza. In questo contesto, si torna a parlare di «stagnazione secolare»30 - riprendendo la tesi di Hansen sulla Grande Depressione31 -, cioè di un persistente «eccesso di risparmi» (rispetto agli investimenti) che implica un tasso di interesse «naturale» negativo. Questo scenario conferma che la politica monetaria deve essere orientata al raggiungimento di una maggiore crescita dei prezzi (contrastando le tendenze deflattive), mantenendo bassi i tassi di interesse e continuando a fornire liquidità in abbondanza ai mercati. Ma ciò potrebbe non essere sufficiente e, allora, un intervento fiscale espansivo sembrerebbe necessario.

Eppure, almeno in Europa, si continua a parlare di austerità, dopo aver discusso anche di «austerità espansiva»32. Proprio questa ultima combinazione di parole, che fa pensare ad un ossimoro, stimola una discussione sul contenuto di politica economica della/e teoria/e attualmente dominante/i. La teoria dell’«austerità espansiva» prevede la possibilità di un effetto espansivo di politiche fiscali restrittive ed è stata presa come riferimento per supportare l’impianto di austerità33, in particolar modo neU’ambito dell’Eurozona. L’effetto espansivo deriverebbe dalle aspettative degli agenti che, ad esempio, osservando un netto taglio della spesa pubblica, si aspettano tagli all’imposizione fiscale e una riduzione dei tassi di interesse nel futuro, con un effetto stimolante sulla spesa in beni di consumo ed investimenti produttivi. Se ci rifacessimo, invece, ai risultati che tipicamente emergono in un corso introduttivo di macroeconomia, ci troveremmo davanti ad un altro scenario, quello che caratterizza la politica macroeconomica anti-ciclica: cioè, le politiche economiche espansive (restrittive), sia monetarie che fiscali, tendono ad avere effetti espansivi (restrittivi) sull’economia. Nel caso di recessione, quindi, la teoria che ancora si insegna ai corsi base di macroeconomia, rifacendosi all’impianto keynesiano, suggerisce di utilizzare politiche espansive proprio per contrastare la tendenza recessiva del sistema. L’austerità fiscale è invece consigliabile in periodi di espansione, ovvero quando l’economia è in pieno impiego (anche se poi c’è da mettersi d’accordo su come definire questo concetto). L’effetto espansivo dell’austerità, allora, andrebbe eventualmente confinato ad episodi di politiche fiscali restrittive perseguite durante fasi di espansione. D’altra parte è lo stesso Keynes a notare che «soltanto in condizioni di piena occupazione piena una bassa propensione a consumare conduce ad un aumento del capitale»34.

Seguendo la logica keynesiana, una volta che la politica monetaria diventa per niente o poco efficace (ad esempio, nel caso di «trappola della liquidità» e, quindi, di riluttanza delle banche a concedere prestiti), bisogna ricorrere a politiche fiscali volte ad espandere la spesa e/o i trasferimenti pubblici e/o a ridurre l’imposizione fiscale (anche se i diversi interventi possono avere effetti moltiplicativi sul reddito diversi in diverse fasi del ciclo economico), ciò anche al costo di ampliare il deficit pubblico, che può essere poi messo sotto controllo quando l’economia torna ad espandersi. D’altra parte, in un contesto di bassi tassi di interesse, i governi dovrebbero riuscire ad indebitarsi minimizzando la spesa per interessi. È importante notare, allo stesso tempo, che questa possibilità dipende dallo spread che si determina sui mercati finanziari (e quindi dal rischio associato alla probabilità di default di chi emette il debito, che fa salire il rendimento richiesto per acquistare i titoli). Ed è proprio per contenere il rendimento dei titoli pubblici (riducendo il rischio percepito dagli operatori finanziari) che i paesi periferici dell’Eurozona hanno seguito (ovvero, hanno dovuto seguire) una politica di austerità, con l’obiettivo di ridurre il peso del debito pubblico rispetto al pil, ipotizzando quindi che tale riduzione avrebbe comportato una riduzione dello spread. Piuttosto, un ruolo centrale nel contrastare la speculazione sui titoli pubblici durante la cosiddetta «crisi dei debiti sovrani» è stato quello svolto dalla BCE, specialmente a partire dal famoso discorso del whatever it takes di Mario Draghi, nel quale, appunto, la BCE ha annunciato che avrebbe fatto tutto il necessario per contenere il rendimento dei titoli pubblici. E dal quel momento, infatti, gli spread si sono ridotti. Ad ogni modo, l’obiettivo primario delle politiche di austerità è sembrato essere quello di contenere il peso dell’indebrtamento pubblico sul pil. Ma ciò non ha funzionato, o almeno l’austerità non ha funzionato in questa direzione. Semmai la restrizione fiscale, ovvero la mancata espansione fiscale, ha accompagnato la recessione nei paesi periferici dell’Eurozona, causando una riduzione delle importazioni (dato che queste dipendono dal reddito nazionale). Ed è soprattutto a causa della diminuzione delle importazioni, dovuta al calo del reddito, che la bilancia commerciale di questi paesi è migliorata, partendo da pesanti deficit commerciali verso l’estero, e raggiungendo, ad esempio nel caso dell’Italia, una situazione di avanzo commerciale. In questo senso, perseguendo cioè l’obiettivo di riequilibrare gli squilibri commerciali interni all’area dell’euro, secondo il modello mercantilista tedesco, l’austerità ha funzionato. Si è trattato, però, di un aggiustamento asimmetrico, che è avvenuto sulle spalle dei soli paesi debitori; mentre i paesi creditori, Germania in primis, hanno evitato di contribuire a tale aggiustamento attraverso, ad esempio, politiche fiscali espansive (che avrebbero potuto stimolare le importazioni, per via dell’aumento del reddito, coadiuvando gli sforzi dei paesi della periferia europea)35. Comunque, i rendimenti dei titoli pubblici sono scesi e restano per il momento sotto controllo, anche se ciò è dovuto soprattutto all’effetto della politica monetaria (compreso il quantitative easing ancora in corso)36.

Si potrebbe allora sostenere che l’austerità ha funzionato - almeno temporaneamente - nel ridimensionare i problemi legati agli squilibri commerciali dell’Eurozona, salvaguardando l’attuale equilibrio europeo che poggia sul modello mercantilista tedesco e che si inserisce nel più ampio modello di sviluppo capitalistico globale degli ultimi decenni. Dagli anni ‘80 del Novecento in poi, le economie avanzate sono state caratterizzate sia da un aumento delle disuguaglianze che da una espansione della finanza - tendenze di fondo simili, con i dovuti distinguo, a quelle di inizio Novecento che precedono la Grande Depressione37. In estrema sintesi, la finanziarizzazione dell’economia ha tamponato, a costo di una fragilità finanziaria crescente38, il problema di carenza di domanda aggregata che sarebbe potuto emergere a causa della possibile contrazione della spesa delle famiglie con redditi medio-bassi. La spesa, invece, è stata sostenuta proprio dalla maggiore disponibilità di credito - dal credito al consumo ai mutui immobiliari sub-prime -, risultando però in livelli crescenti del rapporto tra stock del debito privato e valore della ricchezza sottostante39. A livello globale, l’aumento delle disuguaglianze ha dato luogo ad un equilibrio, seppur instabile, caratterizzato dalla coesistenza di due mo-delli40: un modello di crescita basato sulle esportazioni (si pensi alla Cina e alla Germania) all’interno del quale una dinamica contenuta dei salari ha permesso di puntare su un’elevata competitività internazionale delle merci, e un modello di crescita basato sull’indebitamento (si pensi agli Stati Uniti e ai paesi della periferia europea) nel quale l’afflusso di capitali dall’estero ha contribuito a finanziare i consumi interni e le bolle immobiliari. La crescente instabilità del sistema internazionale ha però dato luogo ad una serie di crisi, con quella iniziata nel 2007-8 di proporzioni molto ampie.

L’ampio ricorso alla politica monetaria e, invece, la tendenza all’austerità fiscale, ovvero l’assenza di decisi interventi di stimolo fiscale, sembrano indicare la volontà di sistemare le falle del sistema per poi proseguire sulla strada tracciata dalle scelte politiche dei decenni precedenti. Lasciando così irrisolti i nodi di fondo, come l’elevata disuguaglianza e ^instabilità finanziaria. Suggerimenti di politica economica di natura più radicale, in grado ad esempio di redistribuire in modo più deciso i redditi e le ricchezze e di regolamentare con maggiore efficacia i mercati finanziari, seppur discussi nell’arena politica, restano marginali e non rientrano tra gli obiettivi dei policy maker. In altri termini, nonostante il forte impatto della recente crisi, l’impianto di politica economica resta ancorato allo standard teorico e metodologico emerso negli ultimi decenni, seppur con vari tentativi di rivedere dall’interno questa impostazione (sui quali torneremo a breve), legati proprio al ruolo della finanza e della disuguaglianza, oltre che alle potenzialità della politica monetaria «non convenzionale».

 

6. A mo ’ di conclusione: verso un nuovo paradigma?

Una crisi di larghe proporzioni come la Grande Depressione fu foriera di rilevanti cambiamenti nella teoria economica, in particolare con la Teoria Generale di Keynes e l’approccio keynesiano di politica economica che ne è conseguito e che ha accompagnato i Trenta Gloriosi. La stagflazione degli anni ‘70 del Novecento ha spianato la strada alla «rivoluzione anti-keynesiana» proposta dal monetarismo e, in particolare, dalla «nuova macroeconomia classica» (NMC) e dalla scuola del «ciclo economico reale» (RBC). Il modello macroeconomico più rappresentativo della sintesi tra quest’ultima impostazione e gli sviluppi proposti successivamente dalla «nuova economia keyne-siana» (NK), ovvero il modello NK-DSGE, ha dominato la scena negli anni pre-crisi, mostrando gravi falle nell’interpretazione dei fatti avvenuti dal 2007 in poi, oltre a non essere stato in grado di individuare le tendenze in atto che avrebbero portato, prima o poi, ad una grande crisi.

Eppure, quest’ultimo obiettivo non era fuori dalla portata dell’analisi economica. Come scriveva Paolo Sylos Labini alcuni anni prima dello scoppio della cosiddetta «crisi finanziaria»:

«In una relazione sulle prospettive dell’economia mondiale, che presentai nell’aprile del 2002 [...], esprimevo gravi preoccupazioni sulle prospettive dell’economia americana, che condiziona fortemente le economie degli altri paesi e, in particolare, quelle europee. [...] Da almeno due anni avevo notato alcune rassomiglianze fra la situazione che si era determinata in America negli anni Venti del secolo scorso, un periodo che sboccò nella più grave depressione della storia del capitalismo, e la situazione che si va delineando oggi in America. Le principali rassomiglianze consistevano nella rilevanza di certe innovazioni (elettricità e automobili negli anni Venti; elettronica, informatica e telecomunicazioni nel nostro tempo); nella formazione e nella diffusione di profitti alti e crescenti, dapprima nelle industrie nuove e poi via via nelle altre; nella speculazione di borsa, alimentata non solo dai profitti realizzati, ma anche dalle aspettative di profitti crescenti; nell’indebitamento a breve e a lungo termine legato alle occasioni, per le imprese, di investire in impianti e di acquisire nuove imprese e, per le famiglie, in beni di consumo durevoli, come gli immobili»41.

Un altro economista che aveva individuato delle tendenze preoccupanti nell’andamento dell’economia americana, ben prima che la crisi divenisse evidente a tutti, è Wynne Godley, sulla base di modelli con «coerenza tra flussi e stock» (stock-How consistent, SFC) di stampo post-keynesiano, fondati su regole adattive di comportamento dei settori (famiglie, imprese, banche) e, quindi, molto distanti dal moderno standard proposto e largamente condiviso tra gli economisti. L’approccio post-keynesiano, peraltro, essendo basato sull’ipotesi di moneta endogena, e cioè sulla capacità di creazione di mone-ta/credito ex nihilo delle banche - e non, quindi, sull’ipotesi che le banche siano dei semplici intermediari finanziari (che trasferiscono fondi da chi risparmia a chi investe) -, ha meglio interpretato il ruolo destabilizzante della finanza, a partire dalla creazione del credito del settore bancario ed arrivando anche a descrivere i rischi connessi alla diffusione di strumenti finanziari sempre più complessi nell’ambito della «finanza strutturata». Ciò che è mancato all’analisi mainstream è proprio la capacità di individuare delle tendenze di medio-lungo periodo, e quindi l’instaurarsi e l’evolversi di meccanismi che avrebbero potuto condurre a crisi di vasta portata, avendo invece ipotizzato l’esistenza di un equilibrio «naturale» e la presenza di meccanismi di convergenza verso di esso. Più in generale, sia per i Classici (da Smith a Ricardo e, con un approccio di critica all’economia politica, a Marx), che per Keynes, per Schumpeter, per Minsky e gli altri economisti post-keynesiani, la crisi, anche di grandi dimensioni, è un evento connaturato al processo di sviluppo capitalistico (con varie declinazioni circa la sua inevitabilità - ovvero la necessità di tale evento - e le possibilità di intervento pubblico). Su queste basi, sarebbe del tutto fuori luogo un’affermazione come la seguente: «[the] central prob-lem of depression-prevention has been solved, for all practical purposes, and has in fact been solved for many decades»42. Da tale affermazione non è passato molto tempo prima della deflagrazione finanziaria del 2007-8 e della conseguente Grande Recessione.

A distanza di dieci anni, la teoria macroeconomia standard ha proposto al suo interno una numerosa serie di contributi, anche come reazione alle problematiche fatte emergere dalla crisi, con l’introduzione di alcuni nuovi elementi come: il settore finanziario nei modelli DSGE e, quindi, lo studio delle interazioni tra finanza ed economia reale; un maggior ruolo per l’eterogeneità, con modelli che prevedono ad esempio due categorie di agenti nello stesso settore - tipicamente, due tipi di consumatori (una categoria standard capace di ottimizzazione inter-temporale e una categoria di agenti «non-ricardiani», che tendono a spendere l’intero reddito guadagnato in consumi), oppure un continuum di agenti eterogenei (Heterogeneous Agents Models, HAM) con redditi e ricchezze altamente differenziati (in linea con l’evidenza empirica); il nesso tra aumento della disuguaglianza e l’espansione del credito e quindi l’aumento della probabilità di crisi economica; l’introduzione di un motore di crescita endogena, la dinamica dell’innovazione e, quindi, una non più netta separazione tra breve e lungo periodo.

Secondo i più critici, tutto ciò potrebbe essere interpretato come l’aggiunta di nuovi «epicicli» al modello standard, che mai riuscirà ad essere utile per l’interpretazione della complessa evoluzione dello sviluppo capitalistico43. A voler essere più ottimisti, alcuni tentativi di rielaborazione della teoria main-stream sembrano essere promettenti. In questa sede, ci limiteremo a pochi esempi. Il primo riguarda i contributi di Michal Kumhof e co-autori relativamente al nesso disuguaglianza-finanza-crisi44, con risultati che, sulla base di ipotesi molto diverse, sono stati raggiunti anche nell’ambito della «macroeconomia con agenti eterogenei interagenti» (ovvero Agent-Based Macroecono-mics)45. Al di là dell’impostazione metodologica, quindi, questi lavori mostrano la rilevanza per l’analisi macroeconomica del tema della disuguaglianza e creano nuove basi per la discussione di politica economica. Un altro esempio riguarda i lavori di Xavier Gabaix sulla razionalità limitata e la loro possibile estensione ad un contesto macroeconomico46 che, seppur su piani ancora abbastanza lontani, possono essere accostati ai contributi di Leigh Tesfatsion sul ruolo dell’apprendimento (learning) in modelli agent-based47. Questi lavori, insieme ai risultati che derivano dall’«economia comportamentale e sperimentale» stanno contribuendo - ovvero potrebbero contribuire - a cambiare, seppur lentamente, il tradizionale impianto neoclassico. Quantomeno, è possibile riscontrare un certo grado di convergenza su alcuni temi di rilevanza macroeconomica e, di conseguenza, lo sviluppo di una nuova sensibilità per problemi che per decenni sono rimasti al margine della riflessione teorica in macroeconomia e del dibattito di politica economica.

In altri termini, si intravedono delle possibilità, o meglio le potenzialità, per un cambio di paradigma. Non è semplice riconoscere quale peso stia avendo e continuerà ad avere la Grande Recessione nello spiegare questa evoluzione del modello standard - che, sia chiaro, resta ancorato al paradigma della svolta anti-keynesiana, ed è quindi piuttosto distante dalle alternative più o meno radicali che il pensiero eterodosso propone (dalla moneta endogena al ruolo delle classi sociali, dall’eterogeneità degli agenti alla complessità delle loro interazioni nei network economici, finanziari e sociali) - e se, in effetti, la spinta di questa recessione sia sufficiente ad accelerare il processo di elaborazione della teoria macroeconomica verso i temi della disuguaglianza, dell’instabilità finanziaria e delle crisi di larga portata, come elementi connaturati allo sviluppo ciclico del processo di accumulazione capitalistica.


Note
1 J.R. Hicks, Mr. Keynes and the «Classics»: A Suggested Interpretation, «Econometrica», 5, 2/1937, pp. 147-159.
2 F. Modigliani, LiquidityPreference and the Theory of Money, «Econometrica», 12, 1/1944, pp. 45-88.
3 A. Leijonhufvud, On Keynesian Economics and the Economics of Keynes: A Study in Mone-tary Theory, New York, Oxford University Press, 1968.
4 In estrema sintesi, Keynes propose una stanza di compensazione basata su un sistema di aggiustamento simmetrico degli squilibri internazionali che prevedeva un’unica moneta internazionale denominata Bancor.
5 Si veda, ad esempio, L. Klein - A. Goldberg, An Econometrie Model of the United States, 1929-1952, Amsterdam, North Holland, 1955.
6 R.A. Mundell, Capital Mobility and Stabilization Policy under Fixed and Flexible Exchange Rates, «Canadian Journal of Economics and Politica] Science», 29/1963, pp. 475-485.
7 M.J. Fleming, Domestic Financial Policies under Fixed and under Floating Exchange Rates, «IMF Staff Papers», 9/1962, pp. 369-379.
8 Meno negli USA che in altri paesi, per una loro minor dipendenza dai prodotti energetici provenienti dai paesi dall’OPEC.
9 M. Friedman - A. Schwartz, A Monetary History of the United States, 1867-1960, Princeton, Princeton University Press, 1963.
10 M. Friedman, A Program for Monetary Stability, New York, Fordham University Press, 1960.
11 È questo un concetto che implica una spiegazione alternativa della disoccupazione e del suo legame con l’inflazione, rispetto agli insegnamenti di Keynes e alla rilettura della sintesi neoclas-sico-keynesiana, quest’ultima imperniata sulla validità della curva di Phillips. Vedremo a breve in che modo le aspettative degli agenti sui prezzi futuri giochino un ruolo centrale.
12 La stessa Grande Depressione può essere così collegata ad errori nella gestione della politica monetaria, come sostenuto da M. Friedman - A. Schwartz, A Monetary History of the United States, 1867-1960.
13 Come, ad esempio, la crisi del debito (in dollari) di molti paesi in via di sviluppo.
14 Si veda, ad esempio, R.E. Lucas Jr. - T.J. Sargent, After Keynesian Macroeconomics, «Quar-terly Review», 3, 2/1979.
15 R.E. Lucas Jr., Econometric Policy Evaluation: A Critique, «Canergie-Rochester Conference Series on Public Policy», 1/1976, pp. 19-46.
16 J.F. Muth, Rational Expectations and the Theory of Price Movements, «Econometrica», 29/1961, pp. 315-335.
17 A meno di “sorprese inflazionistiche” dovute a decisioni non prevedibili di politica monetaria.
18 Bisogna cioè influire sui fattori che determinano il livello di equilibrio del «tasso naturale di disoccupazione» o NAIRU.
19 F. Kydland - E. Prescott, Rules rather than Discretion: The Inconsistency of Optimal Planes, «Journal of Political Economy», 85/1977, pp. 473-491. Inoltre, due pilastri alla base dello sviluppo dei modelli del “ciclo economico reale”, che poi hanno ispirato la macroeconomia main-stream degli anni seguenti sono: F. Kydland - E. Prescott, Time to Builtd and Aggregate Fluc-tuations, «Econometrica», 50/1982, pp. 1345-1370; J. Long - C. Plosser, Real Business Cycles, «Journal of Political Economy», 94/1983, pp. 36-69.
20 Un modo alternativo di intendere la micro-fondazione della macroeconomia è quello che poggia sull’idea che l’economia sia un sistema complesso, le cui proprietà collettive emergono dall’interazione tra una moltitudine di agenti eterogenei. Una serie di contributi che si sono sviluppati lungo queste linee di ricerca, e che potremmo riassumere con agent-based computational economics, sono contenuti in L. Tesfatsion - K.L. Judd, Handbook of Computational Econo-mics, Volume 2: Agent Based Computational Economics, Amsterdam, North-Holland, 2006. In questo contesto, sarebbe fuori luogo ridurre il comportamento del sistema nel suo complesso a quello di un agente rappresentativo, come illustrato in A. Kirman, Whom or What Does the Re-presentative Agent Represent?, «Journal of Economic Perspectives», 6, 2/1993, pp. 117-136. D’altra parte, lo stesso Keynes era consapevole dei rischi insiti nell’idea di ridurre la dinamica di un sistema a quella di un suo componente: «[h]o dato alla mia teoria l’attributo di generale. Intendo con questo che mi occupo principalmente del comportamento del sistema economico nel suo complesso, di reddito aggregato, profitti aggregati, volume aggregato della produzione, occupazione aggregata, investimento e risparmi aggregati, e non dei redditi, dei profitti, della produzione, dell’occupazione, dell’investimento e del risparmio di singoli settori di attività o di singole imprese o individui. E sostengo che si sono compiuti gravi errori estendendo, al sistema nel suo complesso, conclusioni cui si era pervenuti correttamente, riguardo ad una parte di quel sistema isolatamente considerata» (J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), a cura di T. Cozzi - G. Berta, Torino, UTET, 2006, p. 180).
21 Per approfondire queste tematiche si vedano: M. Messori, La nuova economia keynesiana, il Mulino, 1996; A. Boitani - M. Damiani, Una nuova economia keynesiana, Bologna, il Mulino, 2003.
22 J.E. Stiglitz, Information and the Change in the Paradigm in Economics, Nobel Lecture, 2001.
23 B.S. Bernanke - M. Gertler - S. Gilchrist, The Financial Accelerator in a Quantitative Business Cycle Framework, in J.E. Taylor - M. Woodford (eds), Handbook of Macroeconomics, Amsterdam, North-Holland, 1999
24 Un’estensione del meccanismo dell’acceleratore finanziario, che a sua volta è ispirato all’approccio minskyano dell’instabilità finanziaria, è stato proposto da D. Delli Gatti - M. Gallegati - B. Greenwald - A. Russo - J.E. Stiglitz, The Financial Accelerator in an Evol-ving Network Economy, «Journal of Economic Dynamics and Control», 34, 9/2010, pp. 16271650. in questo contesto, metodologicamente alternativo a quello dominante, caratterizzato da imprese e banche con condizioni finanziarie eterogenee, che interagiscono in modo decentralizzato nel mercato del credito, generando un meccanismo (network-based financial accelerator) che amplifica ulteriormente le fluttuazioni economiche, poiché è in grado di tener conto dei crediti deteriorati (non-perfoming loan) e delle possibili catene di fallimento. Solo molto di recente queste tematiche cominciano a suscitare un qualche interesse in ambito mainstream, con particolare riferimento alla “teoria dei grafi” (network) per lo studio delle connessioni finanziarie (ad esempio, i legami del mercato interbancario) e del “rischio sistemico”.
25 F. Smets - R. Wouters, An Estimateci Dynamic Stochastic General Equilibrium Model of the Euro Area, «Journal of the European Economic Association», 1, 5/2003, pp. 1123-1175.
26 Proprio sul ruolo del settore finanziario, invece, si focalizzeranno molti contributi dopo la “crisi finanziaria” del 2007-8, con l’intento di sviluppare il modello NK-DSGE introducendo delle “frizioni finanziarie”.
27 Il riferimento qui è a quei modelli che non prevedono limiti al perfetto funzionamento dei mercati, come nel caso dei primi modelli di tipo RBC.
28 M. Woodford, Convergerne in Macroeconomics: Elements of a New Synthesis, «American Economie Journal: Macroeconomics», 1, 1/2009, pp. 267-279.
29 Peraltro, questo nuovo standard di ricerca si riflette anche sulle modalità di accesso e di pubblicazione delle ricerche scientifiche sulle più prestigiose riviste internazionali, come sottolineato in M. De Vroey - L. Pensieroso, The Rise of a Mainstream in Economics, Discussion Paper 26/2016, Louvain, Institut de Recherches Économique et Sociales de l’Université Catolique de Louvain, con pochissimi spazi per approcci alternativi a quello dominante.
30 L. Summers, U.S. Economic Prospects: Secular Stagnation, Hysteresis, and the Zero Lower Bound, «Business Economics», 49, 2/2014, pp. 65-73.
31 A.H. Hansen, Economic Progress and Declining Population Growth, «American Economic Review», 29, 1/1939, pp. 1-15.
32 F. Giavazzi - M. Pagano, Can Severe Fiscal Contraction Be Expansionary? Tales ofTwo Small European Countries, «NBER Macroeconomic Annual», 5/1990, pp. 75-111.
33 Congiuntamente ad altri contributi, ad esempio C.M. Reinhart - K.S. Rogoff, Growth in Time ofDebt, «American Economic Review: Papers and Proceedings», 100, 2/2010, pp. 573-578, che rilevava un effetto negativo di un elevato rapporto tra debito pubblico e pil sulla crescita economica - quest’ultimo articolo si è poi rivelato fallace per errori legati al trattamento dei dati. Peraltro le stesse stime dei moltiplicatori fiscali utilizzate a supporto delle scelte di austerità fiscale, ad esempio in Grecia, sono state poi riviste al rialzo, mostrando cioè un effetto recessivo pesante (in linea con l’interpretazione keynesiana) dell’austerità fiscale sulla crescita economica, come mostrato in O.J. Blanchard - D. Leigh, Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers, «NBER Working Papers», 1/2013, pp. 1-42.
34 J.M. Keynes, La fine del laissez-faire e altri scritti, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 110.
35 Anche se poi bisognerebbe capire se questa soluzione cooperativa di stampo keynesiano avrebbe realmente potuto funzionare. Ovvero, non è detto che un’espansione fiscale (e/o un aumento salariale) in Germania, riducendo il gap di competitività di prezzo, funzioni appieno nello stimolare le esportazioni dei partner europei, poiché l’efficacia di tale manovra dipende dalla sensibilità delle importazioni tedesche alle variazioni dei prezzi. E siccome le stime empiriche ci dicono che tale elasticità è bassa, allora ci potrebbe essere una limitata sostituzione di prodotti tedeschi con prodotti provenienti dalla periferia europea, come spiegato da S. Storm - C.W.M. Naastepad, NAIRUEconomics and the Eurozone Crises, «International Review of Applied Economics», 29, 6/2016, pp. 843-877.
36 È importante notare che, comunque, la BCE si è impegnata ad intervenire sulla base della rassicurazione da parte dei governi di tenere sotto controllo i bilanci pubblici, vincolando in qualche modo gli stessi governi a rispettare i vincoli imposti dall’austerità fiscale.
37 A. Russo, Introduction to the Special Issue on Large Economic Crises, «Journal of Economic Dynamics and Control», 81/2017, pp. 1-4.
38 H.P. Minsky, Can ‘It’ Happen Again? Essays on Instability and Finance, New York, Sharpe, 1982.
39 A. Russo, Elementi ofNovelty, Known Mechanisms and the Fundamental Causes of the Recent Crisis, «Journal of Economic Issues», 48, 3/2014, pp. 743-764.
40 E. Stockhammer, Rising Inequality as a Cause of the Present Crisis, «Cambridge Journal of Economics», 39, 3/2015, pp. 935-958.
41 P. Sylos Labini, Torniamo ai classici. Produttività del lavoro, progresso tecnico e sviluppo economico, Roma, Laterza, 2004, pp. 117-118.
42 R.E. Lucas Jr., Presidential Address to the American Economic Association, 2003.
43 Ad esempio, in A. Kirman, The Economic Crisis is a Crisis for Economic Theory, «CESifo Economie Studies», 4/2010, pp. 498-535, vengono presentate alcune posizioni, che si rifanno al paradigma della complessità applicato all’economia, secondo le quali la crisi economica del 2007-8 è anche una crisi della teoria economica.
44 M. Kumhof - R. Rancière - P. Winant, Inequality, Leverage, and Crisis, «American Economic Review», 105, 3/2015, pp. 1217-1245.
45 Come, ad esempio, in A. Russo - L. Riccetti - M. Gallegati, Increasing Inequality, Consumer Credit and Financial Fragility in an Agent Based Macroeconomic Model, «Journal of Evolu-tionary Economics», 26, 1/2016, pp. 25-47.
46 X. Gabaix, A Sparsity-based Model of Bounded Rationality, «Quarterly Journal of Econom-ics», 129, 4/2014, pp. 1661-1710.
47 E. Sinitskaya - L. Tesftasion, Macroeconomies as ConstructivelyRational Games, «Journal of Economic Dynamics and Control», 61(C), 2015, pp. 152-182.

Da Scienza & Politica, vol. XXLX, no. 57, 2017, pp. 85-103, ISSN 1825-9618
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