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La chimera del capitalismo di pieno impiego

di Roberto Lampa*

Non saranno le “cassette degli attrezzi” di questo o quell’economista a risolvere il problema della disoccupazione perché non si tratta di un problema tecnico ma di una questione meramente politica

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Come è stato possibile continuare per anni a imporre politiche economiche di flessibilizzazione e precarizzazione lavorativa, cioè misure  incoerenti sul piano teorico e non corroborate da risultati pratici?

Per quanto riguarda la teoria economica, spesso tirata in ballo per giustificare la fondatezza e l’ineluttabilità delle famigerate “riforme” o “jobs act”, Davide Villani ha richiamato efficacemente, su queste pagine, la controversia sul capitale e la cristallina dimostrazione della fallacia del principio di sostituzione fattoriale tra capitale e lavoro, pietra angolare della quasi-totalità delle pubblicazioni mainstream in materia. Teresa Battista ha poi aggiunto un importante tassello a questa premessa, ricordandoci come anche l’evidenza empirica smentisca categoricamente l’esistenza di una qualsivoglia correlazione tra processi di flessibilizzazione del mercato del lavoro e livello di occupazione, trattandosi invece dell’istituzionalizzazione dei rapporti di forza tra capitale e lavoro.

Alla luce di questi contributi, quella posta all’inizio appare quindi come una domanda cruciale, a cui però il sapere tecnico non è in grado di fornire una risposta. Curioso paradosso, in un’epoca nella quale gli economisti si ergono a depositari della verità assoluta, tanto da arrivare a tacciare di negazionismo economico chiunque osi sfidare le rigide implicazioni di politica economica che discendono dalla teoria economica.

Per poter delineare una risposta è dunque indispensabile uscire dagli schemi abituali e partire da un’importante constatazione. La teoria economica attuale – sia nella sua versione dominante che in quella “eterodossa” – assume come dato esogeno un elemento di cruciale importanza: l’esistenza di un sistema capitalista.

In un certo senso, si può perfino affermare che mai come oggi sia accettato acriticamente (e trasversalmente alle scuole economiche) il famoso aforisma di Milton Friedman secondo cui «non esistono l’economia ortodossa e quella eterodossa, ma solo l’economia buona e quella cattiva».

Assorbita dalla dimensione tecnica e formale dei propri lavori, la maggioranza degli economisti nega a priori la possibilità di discutere il ruolo delle istituzioni economiche e le possibili alternative al capitalismo. Non solo, ma ignora deliberatamente i contributi di quegli economisti (Oskar Lange; Abba Lerner; Michal Kalecki…) che a cavallo del Ventesimo secolo hanno discusso a lungo sulla compatibilità tra istituzioni capitaliste e obiettivi astratti della teoria economica.

 

Scienza naturale o scienza storica

In termini generali, si possono identificare due posizioni. L’una, decisamente dominante tra i moderni economisti, enfatizza la somiglianza dell’economia con le scienze naturali. Trattandosi di una scienza propriamente detta, la ricerca economica condurrebbe quindi a risultati oggettivi e universalmente validi, cioè indipendenti dal contesto storico, geografico, politico, sociale in cui si sviluppano. In maniera speculare alle scienze, la ricerca economica si caratterizzerebbe inoltre per la sua capacità predittiva, cioè la capacità di prevedere esattamente le conseguenze di una decisione (o politica) economica presa qui ed oggi.

Per sottolineare la popolarità di una simile posizione, vale la pena notare la trasversalità degli economisti che si identificano in essa: non si tratta dei “soliti noti” economisti neoclassici ma anche di buona parte degli economisti post-keynesiani. In questo senso, la disputa tra scuole economiche si riduce sovente a un’enorme caccia all’errore, nella quale ogni fazione cerca di screditare l’altra adducendo inconsistenze di tipo logico/formale e assume implicitamente che il proprio modello teorico astratto sarebbe invece in grado di funzionare correttamente e di dare risultati più soddisfacenti se solo le sue prescrizioni fossero tenute a mente dai decisori politicis.

L’altra posizione, decisamente minoritaria, può essere invece definita come political economy e va associata a una lunga serie di autori (dagli economisti classici a Marx, fino alla scuola storica tedesca, l’istituzionalismo e l’economia dello sviluppo) caduti nel dimenticatoio o studiati in discipline contigue all’economia.

In opposizione al punto di vista esposto in precedenza, questo variegato gruppo di scuole economiche sottolinea due aspetti principali. In primo luogo, la portata dei lavori degli economisti è storica, cioè circoscritta a uno specifico contesto storico, sociale e istituzionale e in nessun caso può essere generalizzata, sic et simpliciter. In secondo luogo, le istituzioni assumono un ruolo centrale nell’analisi economica, dato che il loro funzionamento/malfunzionamento definisce le condizioni di possibilità delle politiche economiche ed eventualmente la loro efficacia.

 

Il pieno impiego è un problema politico non tecnico

Questo breve inquadramento generale è indispensabile per abbozzare una risposta all’interrogativo di fondo della nostra discussione: perché, a dispetto di tutto, i dogmi legati al mercato del lavoro sembrano inscalfibili? Chiarite, ma invano, le inconsistenze logiche e le non corrispondenze empiriche, una risposta è possibile solo adottando il punto di vista della political economy e tenendo a mente un breve quanto esplosivo articolo, scritto dall’economista polacco Michal Kalecki tra il 1942 ed il 1943 sugli Aspetti Politici del Pieno Impiego.

Economista anomalo, Kalecki aveva intrapreso un percorso di formazione opposto a quello della totalità dei suoi colleghi, iniziando dalla pratica (cioè dalla raccolta ed elaborazione dei dati statistici, presso l’Istituto di Varsavia per lo Studio dei Prezzi e dei Cicli di Mercato) e arrivando, a ritroso, alla teoria. In questo modo, aveva potuto osservare un curioso paradosso: se da un lato le serie storiche dei principali indicatori economici mostravano chiaramente come la dinamica capitalista si caratterizzasse per le forti fluttuazioni economiche e le crisi, dall’altro la teoria neoclassica ignorava deliberatamente lo studio di questi fenomeni, limitandosi ad analizzare un’immaginaria quanto irrealistica economia statica in perfetto equilibrio.

Deluso dalla semplicistica descrizione fornita dagli economisti tradizionali, Kalecki aveva trovato così una base di partenza utile a spiegare il problema del ciclo economico (cioè dell’andamento oscillatorio e irregolare delle economie capitaliste) in una rilettura critica dei lavori eretici di Tugan-Baranovski e Rosa Luxemburg, che lo aveva infine condotto a Marx.

Una simile rottura metodologica divenne un passaggio centrale per i futuri sviluppi dell’opera di Kalecki. Grazie ad essa, il polacco poteva contrapporre alla visione romanzata degli economisti neoclassici – che concepivano il capitalismo come un assetto di potere stabile che tende spontaneamente all’equilibrio – un piano conflittuale e dialettico dell’analisi economica (lo studio del ciclo, appunto) in cui le fluttuazioni economiche diventano una manifestazione della soggiacente lotta tra le classi sociali per contendersi reddito e potere.

Dopo che la dittatura fascista della Falange prese il potere in Polonia, la fuga di Kalecki in Inghilterra rappresenta un secondo passaggio cruciale nella vita del polacco.A partire dal 1938 svolge un soggiorno di ricerca a Cambridge per poi stabilirsi ad Oxford. Proprio il soggiorno cantabrigense è alla base del suo articolo, che può essere legittimamente interpretato come una polemica contro Keynes e la teoria keynesiana.

Se per quest’ultimo il problema della piena occupazione era essenzialmente un problema tecnico e dipendeva dalla fallacia della teoria economica neoclassica e della sua eccessiva enfasi sulle rigidità del mercato, per Kalecki il pieno impiego è essenzialmente un problema politico, determinato dall’incompatibilità tra istituzioni (economiche e sociali) capitaliste e l’obiettivo della buona e piena occupazione.

Nella sua semplicità, il ragionamento di Kalecki coglie l’essenza della questione. Posto in termini analitici, il problema del pieno impiego è un banale esercizio che perfino un bambino potrebbe risolvere in maniera soddisfacente. Si tratterà infatti di aumentare la spesa pubblica, al limite ricorrendo al deficit di bilancio, e il conseguente stimolo sull’economia sarà di per sé sufficiente a riassorbire i disoccupati.

Una volta raggiunto il pieno impiego, i lavoratori vedranno poi aumentare la propria forza negoziale (perché verrà meno la concorrenza al ribasso esercitata dai disoccupati) e i salari aumenteranno vigorosamente: la piena occupazione diverrà così anche buona.

Tuttavia, Kalecki avverte che, lungi dal rappresentare una soluzione duratura ai problemi del mercato del lavoro, un simile scenario costituirebbe l’inizio di un periodo di crescente instabilità e fortissime tensioni sociali.

Il fronte dei capitalisti infatti vedrebbe minacciata la propria supremazia (legata a doppio filo alla fragilità e dunque alla ricattabilità dei lavoratori) e reagirebbe con l’arma più potente nelle proprie mani: il potere di fissare i prezzi delle merci. Gli aumenti dei prezzi si tradurrebbero così in una spirale inflazionistica che finirebbe con l’annullare l’effetto degli aumenti salariali, determinando il rallentamento dell’economia (o la recessione) e quindi il ripristino di un livello “soddisfacente” – per il capitale – della disoccupazione.

Ciò che merita di essere sottolineato è che, adottando un punto di vista rigidamente analitico, una simile condotta da parte dei capitalisti non troverebbe alcuna spiegazione “razionale”. Se è infatti vero che  l’aumento dei salari determinerebbe una diminuzione del margine di profitto su ogni singolo prodotto venduto, sarebbe altrettanto vero che l’aumento del potere d’acquisto dei lavoratori determinerebbe un fortissimo aumento della quantità totale di prodotti venduti. In altre parole, in virtù dell’aumento dei salari aumenterebbero i profitti totali pur in presenza di una diminuzione del tasso di profitto e ci si troverebbe in uno scenario win-win, cioè vantaggioso per tutte le parti coinvolte.

Ma il nocciolo della discussione per Kalecki è proprio questo: non saranno le “cassette degli attrezzi” di questo o quell’economista a risolvere il problema della disoccupazione perché non si tratta di un problema tecnico ma  di una questione meramente politica. Al venire meno della disoccupazione verrebbe infatti meno il principale fattore di disciplinamento dei lavoratori da parte dei capitalisti: l’esistenza di un esercito industriale di riserva, como lo definì Marx. Ed una simile minaccia basta ai capitalisti per agire repentinamente, anche a costo di sacrificare (seppur solo transitoriamente) i propri profitti.

 

Piena occupazione e conflitto sociale  

In altre parole, per Kalecki discutere di pieno impiego significa discutere della stabilità (o meglio, instabilità) dei rapporti di classe che presiedono a uno specifico ordine sociale. Per Keynes invece si trattava di una questione meramente tecnica e distributiva, che non intaccava i rapporti di potere su cui si fonda la società capitalista ma al massimo li ridefiniva all’interno della classe dominante, dove i rentier perdevano protagonismo a vantaggio dei capitalisti.

Sbagliava dunque Keynes a ritenere che con il semplice raggiungimento del pieno impiego si sarebbe risolto definitivamente il principale problema delle economie di mercato, il conflitto capitale/lavoro, attraverso una distensione delle relazioni industriali e sindacali.

Per Kalecki, il capitalismo sarà compatibile col pieno impiego solo in presenza di stati autoritari (come l’Italia fascista e la Germania nazista o, successivamente, la Corea del Sud ed il Giappone) che garantiscono la disciplina e la stabilità sociale attraverso la moderazione salariale, la repressione dei lavoratori e lo scioglimento dei sindacati. Viceversa, come confermarono gli eventi del maggio francese e dell’autunno caldo italiano vent’anni dopo l’articolo di Kalecki, il pieno impiego sarà foriero di crescenti tensioni sociali e violenti conflitti distributivi  in tutti gli altri casi.

Per comprendere a fondo l’attualità del lavoro di Kalecki è sufficiente focalizzarsi sulle sue implicazioni: sono le fasi di pieno impiego (e non le crisi, che tanto fascino esercitano ancora su una vasta intellettualità di sinistra) a rappresentare i momenti storici in cui le relazioni di forza si spostano a vantaggio dei lavoratori. E viceversa, la condizione necessaria per una ripresa del conflitto sociale e un miglioramento delle condizione lavorative è la riduzione della precarietà e dell’incertezza esistenziale dei lavoratori.

L’attualità italiana e di molti paesi europei si caratterizza invece per almeno due fattori che agiscono come un formidabile ostacolo per la ripresa del conflitto sui luoghi di lavoro. In primis, l’esistenza di ampie sacche di disoccupazione e sottoccupazione. In secondo luogo, la crescente precarietà, frammentazione e fragilità delle relazioni lavorative. Tornando all’interrogativo di fondo di quest’articolo, ha quindi poco senso cercare spiegazioni “tecniche” alla base delle riforme del mercato del lavoro dato che, oggi come ieri, esse continuano a rappresentare un prerequisito di carattere politico alla riproduzione capitalista più che una soluzione ai suoi guai.

Una volta inquadrato il problema in questi termini, diventa imprescindibile una breve discussione sul che fare. In particolare, attorno a quali proposte si dovrebbe creare un dibattito ed eventualmente costruire una piattaforma di lotta, qui ed oggi, se l’obiettivo è modificare i rapporti di forza sui luoghi di lavoro.

Il Piano del Lavoro lanciato dalla Cgil nel 2013 rappresentava un primo timido passo nella direzione corretta, dato l’obiettivo di riportare l’occupazione ai livelli pre-crisi (che, in termini politici, avrebbe significato annullare gli effetti regressivi della crisi sul piano delle relazioni sindacali).

Tuttavia esistono altri strumenti incentrati sull’idea di riplasmare i compiti dello Stato, trasformandolo in ciò che Federico Caffè (e prima di lui Hyman Minsky) definì occupatore di ultima istanza, nel creatore, cioè, di posti di lavoro statali attraverso un risoluto aumento quantitativo della spesa pubblica, una volta definiti qualitativamente i settori strategici per lo sviluppo economico e le politiche di regolazione finalizzate a rendere sostenibile il pieno impiego.

Più che in motivazioni tecniche, la proposta di Caffè trovava la sua ragion d’essere nello sfidare, su un piano politico, l’inscalfibile dogma dello spontaneismo, secondo cui lo sviluppo economico e quindi il livello dell’impiego debbano essere pensati univocamente, in Italia, come il prodotto incidentale del libero operare delle forze di mercato. Una simile visione è tutt’ora dominante e ben riassunta dalla massima “il lavoro lo creano le imprese” che ispirava, ad esempio, il cosiddetto Piano Giavazzi del 2012.

In opposizione a simili luoghi comuni, l’idea di un piano d’azione incentrato sull’idea di Stato “occupatore di ultima istanza” è alla base di diversi lavori appartenenti al cosiddetto filone del job guarantee-lavoro garantito.

In relazione al caso greco, ad esempio, è stato mostrato come destinando una somma di risorse (complessivamente moderata) pari all’1,5% del Pil alla creazione di posti di lavoro statali in settori strategici e remunerati in base al salario minimo si determinerebbe un sensibile effetto moltiplicatore sul livello generale dell’impiego. Ogni 200mila posti di lavoro creati dallo stato (a un livello di salario minimo pari a 586 euro) si genererebbero 62.268 posti addizionali nel settore privato. L’aumento del gettito fiscale derivante garantirebbe così la sostenibilità finanziaria del Piano. Inoltre, la crescente domanda di lavoro da parte del settore privato (che spingerebbe il salario offerto necessariamente a un livello superiore del minimo) farebbe sì che gli stessi lavoratori occupati dallo stato escano progressivamente dal settore pubblico in un orizzonte temporale di pochi anni, evitando così derive assistenzialiste alla Achille Lauro.

Tuttavia non si tratterebbe di semplici proposte “tecniche” (pur se i loro effetti pratici non sarebbero affatto disprezzabili) ma della strategia più sensata per rilanciare, nel breve-medio periodo, il conflitto sociale nel nostro paese. Dietro la bandiera del “Piano del Lavoro” può e deve crearsi una coalizione ampia di attori sociali e sindacali, unificando ciò che oggi è disperso in mille vertenze territoriali o assorbito dalla retorica anti casta e anti immigrati dei demagoghi di governo.

Pur con tutti i limiti e le potenziali contraddizioni di una proposta che nasce all’interno di un modello capitalista e produttivista, la lotta per la piena e buona occupazione ridefinirebbe l’agenda politica ed economica del paese riportando al centro del dibattito la dimensione della classe sociale e, perché no, dell’ormai archiviata (ma non certo dai capitalisti) lotta di classe.

Allo stesso tempo, rileggendo la storia contemporanea italiana attraverso Kalecki, gli eventuali successi su questo terreno avrebbero il merito di potenziare il conflitto sociale, permettendo di andare oltre i limiti iniziali della proposta. Così come non ci sarebbe stato nessun Autunno Caldo senza le lotte della Cgil di Giuseppe Di Vittorio nei due decenni anteriori (la prima delle quali fu proprio il Piano del Lavoro del 1949-50), non è possibile pensare a un futuro per la sinistra italiana senza cambiare il terreno dello scontro.

Solo sgomberando il campo dalla paura e dalla fragilità lavorativa sarà possibile aprire uno spazio per la trasformazione, in un senso non regressivo, della società italiana. Viceversa, cristallizzando le relazioni di classe esistenti attraverso elemosine o sussidi di dubbia natura, si negherà a priori la possibilità di invertire, seppur lentamente, l’attuale e tragico stato di cose.


*Roberto Lampa è professore di economia presso l’Università di San Martín di Buenos Aires. Si occupa di storia del pensiero economico.
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