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La crescita malata che crea infelicità

di Piergiuseppe Mulas

Le esternalità hanno rivestito, e tuttora rivestono, un ruolo cruciale all'interno della valutazione del paradigma neoclassico del mercato. Infatti, dalla loro presenza e rilevanza dipende criticamente la validità dell'assunto secondo il quale il mercato conduce ad un'allocazione efficiente delle risorse, così come dimostrato da Vilfredo Pareto. Ricordiamo infatti che l'economista italiano aveva provato come, partendo da dotazioni di risorse date, un sistema perfettamente concorrenziale conduca ad una situazione di ottimo allocativo, vale a dire ad una situazione nella quale non può essere migliorata la condizione di un individuo senza peggiorare quella di un altro. Le condizioni che permettono che una configurazione di mercato perfettamente concorrenziale sussista sono però molto stringenti e difficilmente riscontrabili nella realtà. In particolare l'esistenza di un tale sistema richiede che si verifichino determinate circostanze: l'assenza di monopoli e beni pubblici, nessuna asimmetria informativa tra i contraenti e nessuna esternalità positiva o negativa.

Diamo ora una definizione più precisa di quale fenomeno gli economisti intendano designare quando parlano di esternalità:

«un effetto che esiste nel consumo o nella produzione ogniqualvolta l'utilità del consumatore o la funzione di produzione di un'impresa dipendono dal consumo di un altro individuo o dagli input e output di un'altra impresa».

In altre parole l'esternalità è presente quando l'utilità delle persone o delle imprese viene ad essere influenzata da fattori che non sono sotto il loro diretto controllo, ma che dipendono dall'attività di terzi.

Facciamo alcuni classici esempi che ci aiutino a comprendere meglio.

Supponiamo che un vicino adori ascoltare la musica ad alto volume, ma che questa sua attività a noi invece non piaccia per niente. Questo è un tipico caso di esternalità negativa nel consumo, dato che un'attività posta in essere da terzi influenza direttamente il nostro benessere. Un esempio di esternalità negativa nella produzione è quella di una fabbrica che inquina l'acqua di un fiume a monte finendo per impedire la balneazione o la pesca di chi si trova a valle.

Un esempio positivo è quello di chi impianta un frutteto in prossimità di un'attività di apicoltura, dato che quest'ultimo trarrà un vantaggio da questa iniziativa senza sostenere un costo.

Per la teoria economica il problema può, almeno in astratto, essere sempre risolto qualora il danno (beneficio) arrecato possa essere in qualche modo rimborsato (sussidiato).

Una serie di imposte (sussidi), dette pigouviane dal nome dell'economista inglese Arthur Cecil Pigou che le ideò, possono sempre, almeno in linea teorica, ripristinare l'equilibrio. L'importante è che il costo pagato dai soggetti che generano l'esternalità sia uguale al danno marginale che essi cagionano alle terze parti.

Questo costituisce, ridotto nei termini essenziali, il problema delle esternalità dal punto di vista della teoria economica neoclassica dominante ai giorni nostri.

Recentemente però alcuni economisti hanno messo in luce come la presenza delle esternalità negative abbia in realtà un ruolo molto più pervasivo all'interno del sistema economico capitalistico, essendo, secondo questi studiosi, una delle determinanti più importanti nello spiegare la poderosa crescita economica dei paesi occidentali.

Con la scoperta del paradosso della felicità, noto anche come paradosso di Easterlin dal nome dell'economista che lo svelò, è diventato evidente come nei paesi industrialmente avanzati vi sia una correlazione nulla tral'aumento del reddito e la soddisfazione che le persone provano nei confronti della propria vita.

Ciò ha creato non poco sconcerto e imbarazzo in molti economisti, dato che era comune convinzione che l'aumento del reddito fosse un obiettivo irrinunciabile. Potevano esserci divergenze su come vada prodotto e distribuito tra i detentori dei fattori produttivi che concorrono alla sua formazione, ma non vi era praticamente nessuno che non considerasse l'aumento del reddito come un avvenimento di per sé positivo.

Il carattere paradossale della questione emerge poiché sarebbe logico attendersi che se all'aumento del reddito non è associato un maggiore benessere allora le persone dovrebbero smettere di perseguire tale obiettivo. Invece tale disincentivo non solo non funziona, ma è chiaramente evidente come l'aumento del reddito sia più che mai al centro degli interessi di individui e autorità pubbliche.

Secondo la teoria della crescita contemporanea, sia essa espressa attraverso i modelli a crescita endogena che esogena, essa dipende dall'aumento della produttività del lavoro. Tale aumento è a sua volta causato dall'accumulazione del capitale e dal progresso tecnico. Il problema sorge dall'elementare osservazione che l'aumento della produttività del lavoro non è una condizione sufficiente a generare la crescita: tale aumento potrebbe infatti benissimo essere destinato ad aumentare il tempo libero e non l'output.

Ed in effetti questo è proprio ciò che accade nei modelli che rendono endogena la scelta tra lavoro e tempo libero: la crescita tende a zero nel lungo periodo perché le preferenze degli individui fanno sì che essi decidano di destinare gli aumenti della produttività del lavoro ad accrescere il tempo libero anziché il reddito.

Nei modelli a crescita esogena invece si assume per dato ciò che viceversa dovrebbe essere spiegato, e cioè che l'aumento della produttività del lavoro verrà utilizzato per incrementare l'output e non il tempo libero. Ma tale assunzione lascia le porte spalancate ad alcuni elementari quesiti: perché gli individui dovrebbero far crescere l'output, se questa crescita è nella migliore delle ipotesi ininfluente per il loro benessere, quando non addirittura dannosa? Inoltre perché sceglierebbero di lavorare di più, dato che ciò sembra in netto contrasto con l'evidenza empirica che ci segnala un crescente malumore sociale nei confronti dell'impegno e dello stress lavorativo?

Per provare a superare l'impasse nel quale ci troviamo dobbiamo quindi volgere i nostri sguardi altrove. In una serie di modelli detti NEG (Negative Externalities Growth) StefanoBartoliniet al. hanno individuato la soluzione al paradosso della felicità indicando delle esternalità negative come motore della crescita. Esse sarebbero il tertium movens, che affiancate all'accumulazione e al progresso tecnico riescono a dipanare la matassa nella quale si trova la teoria.

Queste esternalità sono di due tipi: le prime sono dette posizionali, e sono associate alla considerazione che agli individui interessi più che altro la posizione relativa del loro reddito all'interno della gerarchia distributiva della società; le seconde sono quelle che riducono i beni liberi, cioè quei beni che sono forniti gratuitamente dall'ambiente sociale e naturale. La crescita cioè produrrebbe delle esternalità negative che influiscono sulla capacità dell'ambiente naturale e sociale di fornire beni liberi. Questo induce gli individui a ricercare beni privati come sostituti, accrescendo in tal modo l'output che a sua volta depaupera ulteriormente la disponibilità di beni liberi.

Si viene così ad innescare un processo che i biologi chiamano circuito a retroazione positiva, che è tipico degli equilibri precari, nel quale ogni parte agisce da rinforzo sulle altre.

Ricapitoliamo: secondo questo approccio teorico la crescita produce esternalità negative che a loro volta producono crescita. L'intuizione dalla quale prende spunto questo approccio è che il benessere delle persone dipenda in maniera considerevole da questi beni liberi, che non compaiono nell'aggregato del Pil, dato che esso misura solo i flussi di beni e servizi che hanno un prezzo. Questi beni liberi formano invece uno stock, la cui disponibilità è erosa sistematicamente dall'espansione del sistema economico che offre dei sostituti alquanto imperfetti di questi beni acquistabili sul mercato.

Ricordiamo che con il termine “beni” designiamo qualunque cosa sia in grado di soddisfare un desiderio umano. I beni “liberi” (o comuni) sono così definiti perché la loro acquisizione non è regolata dal meccanismo domanda-offerta-prezzo che è proprio del mercato, ma sono offerti gratuitamente dall'ambiente naturale e sociale.

Pensiamo alla bellezza del paesaggio e alla salubrità dell'ambiente in cui si vive, ma la categoria più importante è forse quella che riguarda la qualità delle relazioni sociali che si instaurano in una comunità. La disponibilità di questa categoria di beni sarebbe ridotta dal processo di crescita economica, spingendo così le persone a ricercare beni costosi come sostituti, ma agendo in tal modo la disponibilità dei beni liberi si riduce ulteriormente, inducendo le persone ad aumentare ancora il reddito per pareggiare la perdita di benessere che ne deriva e così via.

La crescita non sarebbe altro che un gigantesco processo di sostituzione di beni liberi con beni privati, vale a dire merci, ma il benessere non migliora perché i costi pagati in termini di beni liberi per le nuove unità di reddito aggiuntivo superano i benefici che ne derivano.

Facciamo ora alcuni esempi per spiegare meglio in cosa consista questo processo disostituzione. Supponiamo appunto che l'installazione di una nuova impresa inquinante non renda più possibile la balneazione nel fiume che scorreva vicino a casa. Ora per farmi un bagno sarò quindi costretto o a sobbarcarmi un lungo spostamento o a comperare degli ingressi per una piscina. In entrambi i casi sto operando una sostituzione di un bene libero con un bene privato, ed avrò bisogno di entrate monetarie aggiuntive. Ecco quindi come l'esternalità negativa inquinamento agisce come sostegno della domanda. Le persone sarebbero quindi spinte a lavorare ed accumulare reddito da questo meccanismo di sostituzione, che parrebbe essere il vero movente in grado di mobilitare la forza lavoro.

Ma vi è un ulteriore problema: i sostituti che il mercato offre spesso e volentieri sono alquanto imperfetti, qualitativamente di gran lunga inferiori.

Stiamo parlando delle relazioni sociali, la qualità delle quali dipende strettamente dal tempo che vi dedichiamo. La sempre crescente quantità di energia che viene assorbita dal lavoro, la flessibilità, la mobilità geografica, lo stesso modo in cui è concepita l'architettura urbana sono il prodotto di una visione che mette al centro la produttività a discapito della possibilità di avere delle relazioni umane soddisfacenti. Anche in questo caso si finisce per creare un circolo vizioso: cattive relazioni sociali forniscono lo stimolo a cercare attraverso il successo nell'attività professionale le soddisfazioni che sono state negate nella sfera affettiva, ma così facendo le relazioni peggiorano a loro volta, e il bilancio non può che rimanere negativo.

La spirale accrescitiva reddito-consumi ha come conseguenza e causa l'aumentodella competitività tra gli individui, a detrimento delle altre caratteristiche dell'uomo, divenendo di fatto il principale fattore di selezione all'interno della società. In pratica la società della crescita seleziona individui produttivi, ma analfabeti dal punto di vista relazionale. Difficilmente infatti le qualità che sono necessarie per emergere in una società iper-competitiva risulteranno utili nel processo di socializzazione.

Ci troveremo dunque di fronte ad un processo di “osmosi relazionale”: la società di mercato nel suo schema riproduttivo seleziona i comportamenti individualistici e competitivi a discapito di quelli improntati alla cooperazione e alla solidarietà, logorando tutte le relazioni che non sono mediate dallo scambio monetario.

È la cosiddetta mercificazione della società, la tendenza a trasformare ogni bene in merce. Molti beni però, come quelli affettivi, non possono essere mercificati senza che perdano il loro valore intrinseco.

Occorre a questo punto sottolineare che dal punto di vista dell'individuo considerato singolarmente l'aumento del reddito è una risposta razionale. Anzi è l'unica risposta possibile, dal momento che non ha bisogno della collaborazione degli altri individui per raggiungere quel fine. Le persone infatti, una volta che sono separate le une dalle altre, mettono in atto l'unica strategia che gli rimane, che verte sulla competizione per accaparrarsi la fetta più grande della torta.

Se qualcuno decidesse di recedere in maniera unilaterale dalla competizione economica vedrebbe la sua situazione peggiorare dal punto di vista della ricchezza privata, senza ottenere in cambio nessun apprezzabile miglioramento per quanto riguarda i beni pubblici, dato che ogni singolo incide in maniera infinitesimale.

Ci troviamo così davanti ad un problema che può essere risolto solo se le azioni dei singoli sono in qualche modo guidate e coordinate, quindi solo per via di una qualche forma di azione collettiva, cioè politica. Tutte le iniziative volte a sensibilizzare i consumatori rispetto alle loro azioni, o quelle che propugnano il ritorno a forme di vita più sobrie, per quanto stimabili da un punto di vista etico e morale sono inevitabilmente condannate all'irrilevanza se non si propongono l'obiettivo di creare un consenso sociale ampio intorno ad un nuovo modello sociale.

Solo poche persone saranno in grado di operare una scelta così radicale, che è in stridente contrasto con i valori socialmente accettati. Solo chi è dotato di una personalità molto forte e di una profonda coscienza del problema può operare una scelta che la maggior parte dei suoi simili giudicherà con disapprovazione. Perciò coloro che pensano che questi mali si possano risolvere convincendo le persone a scegliere liberamente percorsi di sobrietà volontaria sbagliano. L'unico risultato sarà quello di creare delle piccole “sette”, magari molto motivate e compatte, ma incapaci di incidere in maniera decisiva.

L'enormità della questione richiede quindi una battaglia politico-culturale in grado di sensibilizzare una massa critica che sia poi in grado di trasportare queste istanze all'interno delle istituzioni. Solo così potrà rinascere una società che metta veramente al centro del proprio interesse l'uomo e i suoi bisogni reali.

 
Riferimenti bibliografici
Bartolini Stefano, Una spiegazione della fretta e della infelicità contemporanee, in Bruni L., Porta P. L. (edd.), Felicità ed economia, Guerini e Associati, Milano, 2004.
Manifesto della felicità: Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere, Donzelli, Roma, 2010.
Bartolini Stefano e Palma Renato, Economia e felicità: una proposta di accordo, in Bruni L., Pelligra V. (edd.), Economia come impegno civile, Città Nuova, Roma, 2002.
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