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moneta e credito

Commento al dibattito Blanchard-Brancaccio

di Annalisa Rosselli*

Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio

scuola medioevoAbstract: Il dibattito tra Blanchard e Brancaccio suscita due riflessioni. La prima è relativa alla possibile alleanza tra economisti che appartengono a tradizioni culturali diverse per promuovere misure forti di rilancio dell’economia e di diminuzione della disuguaglianza per evitare conseguenze che potrebbero sconvolgere le nostre democrazie. La seconda riflessione riguarda la rarità di dibattiti tra economisti mainstream e non. Numerosi studi evidenziano che la professione di economista è oggi fortemente gerarchizzata, con uno stretto controllo su quello che è ritenuto ammissibile dal punto di vista del metodo, del campo di studio, dello strumento della diffusione dei risultati. La mancanza di pluralismo è una caratteristica unica dell’economia tra le scienze sociali.

* * * *

Cosa hanno in comune due economisti come Emiliano Brancaccio e Olivier Blanchard, aldilà della stessa origine europea? Apparentemente molto poco. Li separano gli anni di un’intera generazione, un oceano, diversità di formazione, idee e potere. Blanchard si è formato nella tradizione del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Solow e Modigliani, che ha creato il mainstream della macroeconomia del ventesimo secolo mantenendo una democratica attenzione per il problema della disoccupazione e una fiducia nella necessità e possibilità di intervenire a correggere i più clamorosi fallimenti del mercato. La tradizione culturale di Brancaccio è invece quella che è stata avviata più di mezzo secolo fa dagli italiani a Cambridge (UK) e che sopravvive in molte diverse versioni nelle riserve di alcuni dipartimenti del nostro paese, sfuggendo all’omologazione con il modello di importazione USA prevalente. È una tradizione che non ha espulso la storia – dei fatti e delle idee – dagli studi economici, che ha il coraggio di sfidare il pensiero dominante di cui non si stanca di mettere in rilievo i bias ideologici e che persegue la ricerca di un “paradigma economico alternativo” ( Blanchard e Brancaccio, 2019, p. 9).

Blanchard ha ricoperto un ruolo di primo piano nel Fondo Monetario Internazionale (FMI) nel periodo successivo al fallimento di Lehman Brothers e in piena crisi del debito sovrano, quando il FMI faceva il suo ingresso in Grecia con gli altri membri della troika. Brancaccio ha attivamente organizzato l’opposizione alle politiche di austerity e di feroce deflazione imposte ad alcuni paesi europei, rifiutandosi di accettare la vulgata che i problemi della UE fossero tutti riconducibili a eccessivi indebitamenti degli Stati. Blanchard è uno degli economisti più influenti dei nostri giorni. Generazioni di studenti in Italia e nel resto del mondo si sono formati e si stanno formando sui suoi manuali di macroeconomia. Una indagine della Società Italiana degli Economisti ancora in corso1 riporta che il suo libro di testo più recente, scritto insieme a Amighini e Giavazzi, è adottato dal 54 per cento dei corsi di base di macroeconomia nelle università italiane (Blanchard et al., 2016). Nessun libro di testo di economia ha percentuali così alte di adesioni e riscuote altrettanto consenso. Dunque, senza scomodare Keynes e la sua celeberrima affermazione che pochi riescono ad essere aperti a nuove teorie dopo l’età di venticinque o trent’anni, buon senso ci suggerisce che l’influenza di Blanchard è garantita per molto tempo a venire. Comprensibile quindi che Brancaccio, volendo attaccare il paradigma macroeconomico mainstream e le prescrizioni di politica economica che ne discendono, scriva un libro e lo intitoli polemicamente Anti-Blanchard, perché basta questo titolo per definire il programma (Brancaccio, 2017; Brancaccio e Califano 2018).

Eppure, perché un dibattito sia interessante – e questo dibattito che cortesemente sono stata invitata a commentare è indubbiamente molto interessante – un minimo di terreno comune ci deve essere a tenere alto l’impegno dei partecipanti verso il dialogo e il coinvolgimento degli ascoltatori fiduciosi che dal confronto nascano utili sviluppi. Il terreno comune Brancaccio lo individua in alcuni spiragli che porterebbero il più recente Blanchard, quasi a sua insaputa, ad oltrepassare la demarcazione che Brancaccio e la sua tradizione di pensiero tracciano per separare impostazioni teoriche alternative: quella, da cui Blanchard discende, che considera la distribuzione del reddito come determinata dalle caratteristiche strutturali e tecnologiche del sistema, così che ci sia un solo livello possibile di salario, interesse e profitto compatibile con la massima efficienza allocativa, e quella che invece introduce la possibilità che distribuzione del reddito e livelli di occupazione e produzione non siano soggetti a vincoli reciproci. Per questa seconda impostazione, una delle variabili distributive è determinata esogenamente al sistema di quantità e prezzi, introducendo così spazio all’influenza di fattori non solo economici nel caso della determinazione del salario, o al ruolo delle politiche monetarie nel caso della determinazione del tasso di interesse.

Non sono in grado di valutare quanto sia azzardata questa interpretazione che Brancaccio offre del pensiero di Blanchard successivo alle turbolenze dell’ultimo decennio. Alcuni riferimenti nell’intervento di Brancaccio mi lasciano perplessa facendomi sorgere il dubbio che si dia troppo peso all’aspetto formale del modello tralasciando le ipotesi implicite ed esplicite sottostanti. Per esempio, Brancaccio vede, nei modelli di Blanchard che ammettono una relazione non univoca tra livelli di produzione e distribuzione del reddito, un’apertura verso tradizioni teoriche “eterodosse”. Tuttavia, il riferimento all’errore logico che inficia la proposta di Hahn di leggere Sraffa come modello di equilibrio economico generale mi sembra indicare una tendenza alla sopravvalutazione del piano della somiglianza formale. Anche senza errore logico la proposta non reggerebbe. Ma ci sono molti indizi per pensare che Brancaccio stesso sia consapevole che l’analisi del solo piano formale non può essere esaustiva per il confronto tra paradigmi alternativi.

Comunque, sulla base degli scarni accenni riportati nel dibattito, non sono in grado di dire di più di queste parole di cautela. Nella sua replica, Blanchard stesso non insiste sul confronto teorico e preferisce basare le sue attuali posizioni anti-laissez-faire sulla convinzione che l’equilibrio efficiente può essere “naturale” quanto si vuole, ma è talmente instabile che appena ci se ne allontana di un epsilon l’intervento correttivo deve essere immediato prima che sia troppo tardi e il sistema si avvii inesorabilmente lungo sentieri divergenti da cui è difficile e faticoso richiamarlo indietro. Non è molto utile un equilibrio siffatto.

Da storica (delle idee e un poco anche dei fatti) vorrei suggerire però un altro terreno di contatto tra i due partecipanti al dibattito, che invece mi sembra sia più suscettibile di ulteriori utili sviluppi ed è quello di un’alleanza degli economisti meno imbevuti di ideologia liberista per costruire un fronte comune contro una tempesta di cui si vedono i segni premonitori. Sono passati dieci anni dallo scoppio della crisi e si fa finta che, sul piano economico, sia tornata la normalità, almeno quasi ovunque. In questa situazione è forte la tentazione di comportarsi come se non fosse accaduto nulla, è diffusa l’aspirazione a tornare, come dice Blanchard, al business as usual, alla politica delle banche centrali che hanno come unico obiettivo l’inflazione, a un limitato uso della politica fiscale e al progressivo allentamento delle regole che si è riusciti a imporre alle istituzioni finanziarie. Le lezioni che la crisi ha insegnato possono essere facilmente dimenticate così che la prossima recessione, che come sempre nessuno vedrà arrivare prima che sia troppo tardi, ci trovi ancora una volta impreparati.

Questa volta però il costo della crisi potrebbe essere molto più ampio e non solo purtroppo in termini economici. E qua intervengono gli ammonimenti della storia. Troppe volte si sono fatti paragoni tra gli anni che stiamo vivendo e il periodo tra le due guerre del secolo scorso. Ma, mentre la lezione della Grande Depressione sembra sia stata appresa e, con tempi più o meno rapidi e con le debite diversità da un paese all’altro, le autorità di politica economica hanno reagito per scongiurare le conseguenze più catastrofiche della crisi finanziaria, un’altra lezione non sembra ancora trovare altrettanti discepoli. La lezione è quella che è molto difficile gestire processi di cambiamento epocale nell’organizzazione della produzione mentre si attraversa una situazione di stagnazione. Nei primi decenni del secolo scorso l’industrializzazione, l’importazione di beni agricoli d’oltreoceano a basso prezzo, la produzione di massa di beni di consumo, l’avvento della grande distribuzione hanno determinato l’immiserimento di quella parte cospicua della popolazione europea che era fatta di artigiani, piccoli commercianti, micro proprietari terrieri, e classe media tradizionale. Questi, aldilà del conflitto mondiale, vedevano diminuire le loro fonti di reddito e radicalmente cambiare il loro tradizionale modo di lavorare, l’ambiente di vita a cui erano abituati, i valori culturali con cui erano cresciuti. I processi di urbanizzazione e industrializzazione su ampia scala e di abbandono della cultura tradizionale che saranno digeriti senza traumi negli anni dopo la seconda guerra mondiale, quando l’economia correva a gonfie vele, nel contesto di crisi del primo dopoguerra lasciarono sul terreno molte vittime. Gli sconfitti del cambiamento, invocato e sostenuto da chi ne vedeva i benefici di lungo periodo, cercarono allora rifugio in movimenti politici che promettevano protezione economica e sociale, la riduzione dello sbilanciamento dei governi percepiti come troppo a favore dei nuovi protagonisti della vita economica, l’allentamento dei nuovi regolamenti su salute e lavoro, avvertiti come imposti dall’alto, la riduzione della tassazione eccessiva e inegualmente distribuita tra le classi. Metà dei 13 milioni di voti che Hitler ottenne nelle elezioni del 1932 provenivano dal mondo rurale, dai “perdenti” di industrializzazione e urbanizzazione (Overy, 2009, p. 56). Fascismo e nazismo non auspicavano un ritorno al passato e non erano anti-moderni, ma promettevano una rigenerazione morale, la fine della corruzione, un nuovo ordine di armonia sociale sotto il controllo di un partito unico comandato da un “uomo forte” che non si lasciava intimorire dai condizionamenti stranieri, l’espulsione di elementi estranei dal corpo sano della Nazione. È contro queste tendenze che Keynes aveva concepito il suo programma riformista a favore della piena occupazione.

Brancaccio sottolinea come il pensiero di Keynes possa esser stato “forgiato dall’antagonismo tra capitalismo e socialismo” e possa essere interpretato come uno strenuo tentativo di sintesi tra quei due modelli contrapposti di vita sociale. Il punto da sottolineare, però, è che i veri nemici di Keynes erano le dittature con il loro corredo di nazionalismo e militarismo, poco importa se fossero quelle di Hitler o di Stalin (Dostaler, 2005, p. 177). Ma come Keynes dovette imparare negli ultimi anni della sua vita, non c’è niente di più difficile di un programma riformista che sembra sempre avere qualche possibilità di successo solo dopo immani tragedie. Ed è un successo che dura anche poco. La storia per fortuna non si ripete e ci sono molti spazi di libertà per le azioni umane. Speriamo che questa volta, come Blanchard auspica e Brancaccio predica da tempo, i governi imparino a guardare un po’ più lontano e gli economisti, almeno quelli più accorti, li aiutino davvero a farlo.

Ma c’è un altro aspetto per cui questo dibattito costituisce un evento raro e un’importante occasione di riflessione. In Italia ormai è sempre più infrequente che economisti di diversa formazione si confrontino e prevale anche nel nostro paese quella che Roberto Artoni, in un bel saggio dell’ormai lontano 2007 (Artoni, 2007), definiva l’impostazione “monistica” dell’economia, secondo cui soltanto l’adesione ad uno specifico modello di ricerca, ben definito nel metodo, nell’oggetto e nell’impostazione culturale, apre le porte alla professione di economista. Al di fuori del modello dominante non ci sarebbe niente con cui valga la pena di confrontarsi.

Il pluralismo scientifico dovrebbe essere un elemento imprescindibile per l’accrescimento della conoscenza, soprattutto in campi come l’economia e le altre scienze sociali, in cui è alto il rischio di travisamento ideologico e l’espansione della conoscenza non procede attraverso l’accumulazione progressiva di verità accettate come inconfutabili. Tuttavia, dal 2007 a oggi, il “monismo” di cui Artoni vedeva le premesse si è ulteriormente radicato. La disciplina ha esacerbato il controllo su quello che è ritenuto ammissibile come prodotto della ricerca dal punto di vista del metodo, del campo di studio, dello strumento della diffusione dei risultati. È stato notato (Fourcade et al., 2015) che nessuna scienza, tra le scienze sociali e non solo, esercita lo stesso stretto controllo gerarchico a livello globale e mantiene lo stesso consenso interno che si riscontra in economia. La rigida gerarchia top-down vede le posizioni di vertice saldamente e stabilmente occupate dai dipartimenti di élite delle università USA: dalle fila dei dipartimenti top five proviene il 72 per cento degli eletti negli organi dirigenti dell’American Economic Association; hanno conseguito un Ph.D. sotto la supervisione di loro membri una gran parte degli autori che pubblicano sulle prime cinque riviste per citazioni (l’economia è piena di Magnifici Cinque), secondo percentuali non riscontrabili in altre discipline e che raggiungono il 57,6 per cento per il Quarterly Journal of Economics (QJE). In effetti, ben due delle riviste top five hanno come base Harvard (e il vicino MIT) e Chicago e concedono uno spazio sproporzionato ai propri ex-studenti. E comunque l’83 per cento degli autori che hanno pubblicato nel 2011 nel QJE, JPE (Journal of Political Economy) e AER (American Economic Review) appartenevano a università degli USA o del Canada (Hamermesh, 2013, p. 164). La struttura piramidale è anche geografica.

In stretto ordine gerarchico avviene anche il reclutamento. Negli Stati Uniti non si assumono come giovani docenti dottorati da dipartimenti che appartengono a ordini inferiori, ma solo da quelli di pari livello o superiori. In altre parole, solo chi proviene dai dipartimenti di élite entra nei dipartimenti di élite. Fourcade, Ollion e Algan hanno evocato la struttura di clan studiata da Levi-Strauss: alcune alleanze sono preferite e concesse, mentre altre sono tabù e non sono nemmeno contemplate.

Fuori dagli Stati Uniti, ad un gradino della gerarchia più basso, il riconoscimento ottenuto dalle istituzioni USA è ampio titolo di merito e l’omologazione al modello importato è fortemente promossa come elemento dell’unica internazionalizzazione possibile. L’“adeguamento agli standard internazionali” è stato il mantra su cui si sta forgiando la professione anche in Italia. Il campo di indagine dell’economia e il suo metodo si sono fortemente ristretti. Via indagini qualitative (“dov’è il modello?” si sentono chiedere gli autori che studiano un fenomeno economico troppo complesso per essere formalizzato), via sconfinamenti in altre discipline sociali se non per esportare i propri assiomi di scelta razionale o metodi di analisi quantitativa (sentirsi dire di un proprio lavoro che è “sociologico” suona come condanna irrimediabile all’orecchio dell’economista). Dentro alla disciplina ufficiale invece è ammesso qualche esperimento ora che la behavioural economics ha acquistato legittimità ed è in ascesa, anche se i suoi pionieri in Italia avevano avuto vita difficile. Negli ultimi vent’anni, interi settori disciplinari sono stati progressivamente emarginati. La storia del pensiero economico, in cui l’Italia eccelleva, ha quasi abbandonato il campo per trovare rifugio nei settori di scienze umanistiche, la storia economica sopravvive al prezzo di travestirsi da economia che utilizza dati “antichi”, ma anche l’economia matematica non se la passa bene dopo il culmine del successo raggiunto negli anni Ottanta, quando rappresentava il livello più alto della ricerca economica. Del resto gli articoli classificabili come “Teoria” pubblicati nei primi tre giornali sopra menzionati – AER, JPE e QJE, – sono crollati dal 58 per cento del totale del 1983 al 19 per cento del 2011 (Hamermesh, 2013, p. 168) e il trend è decrescente. La rivoluzione empirica in corso, figlia dell’aumento della disponibilità di dati e della potenza degli strumenti di calcolo, ha decretato il trionfo della microeconomia applicata, anche se l’applicazione riguarda spesso problemi estranei al mondo della produzione e dello scambio, che un tempo non si sarebbero definiti di interesse per l’economista.

Oggi l’unico tipo di pubblicazione ammessa è l’articolo su rivista, essendo i libri riservati alla divulgazione o alla persuasione politica. Gli studenti di dottorato, che fino a una quindicina di anni fa dovevano scrivere una tesi-monografia, ora sono incoraggiati a concentrarsi sulla produzione di due o tre articoli, a volte anche di un solo articolo con qualche annesso, senza dover nemmeno una volta nella vita affrontare un problema economico nella sua complessità approfondendone tutti gli aspetti. L’articolo a sua volta sarà valutato sulla base della rivista che ne ha accettato o si spera che ne accetti la pubblicazione. Nei corridoi dei dipartimenti non si parla più di articoli scritti “su”, ma pubblicati “da”. Le scienze economiche e statistiche – l’area CUN 13 – sono le uniche che nella VQR 2011-2015, tramite un comitato nominato dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR), non hanno scelto come criterio di valutazione dei prodotti della ricerca la revisione tra pari o una misura delle citazioni ricevute dal singolo lavoro, così come hanno fatto tutti gli altri settori. Hanno scelto invece come criterio la sede della pubblicazione del prodotto, valutata secondo una classifica delle riviste divise in cinque gruppi, che si affianca alla classificazione delle riviste di fascia A per l’abilitazione scientifica nazionale. Tutte le discipline hanno una fascia A, l’economia ne ha due, ma questa abbondanza non ha aumentato le chance di inclusione per le riviste di orientamento eterodosso. Il gioco dei coautori e della valutazione tramite assegnazione di punti ha invece permesso di ottenere l’abilitazione a professore in materie economiche a un discreto gruppo di studiosi che sono ricercatori (e probabilmente dottorati) in materie come patologia vegetale o chimica analitica,2 sulle cui capacità di insegnare e far capire micro o macroeconomia è lecito nutrire qualche dubbio. Si noti che nessuno degli abilitati proviene dai ranghi dei filosofi o dei giuristi. Non sono materie rigorose, direbbe qualche economista. Nessuno scienziato quanto gli economisti ci tiene così tanto a proclamare il proprio rigore come segno di superiorità rispetto alle altre scienze sociali, probabilmente identificando il rigore con la costruzione di un modello matematico o statistico. Non si è mai sentito un fisico o un matematico vantarsi di essere “rigoroso”. E cosa altro può essere uno scienziato?

Il pluralismo non è solo una questione culturale; richiede parità di condizioni nell’accesso alle risorse e nelle possibilità di carriera. Nessun giovane o nessuna giovane economista, se non dotati di ampie risorse famigliari e grande spirito di sacrificio, può voler intraprendere una strada che non ha possibilità di successo. Questa parità di condizioni oggi in Italia è seriamente minacciata. La Società Italiana degli Economisti ha modificato quest’anno il proprio statuto e ha introdotto tra le sue finalità la “salvaguardia del pluralismo”. Non se ne era sentita mai la necessità prima.

In effetti, la struttura gerarchica dei dipartimenti italiani riproduce in piccolo quella dei dipartimenti USA del tipo “il vincitore prende tutto”. Da alcuni anni i finanziamenti alla ricerca economica in Italia – PRIN, dipartimenti di eccellenza, premialità – ricadono sulle stesse persone e sugli stessi dipartimenti creando ampie disparità aggravate dal contesto di forte scarsità di risorse che affligge chi è escluso dalla cerchia dei vincitori. Un’analisi dei dati raccolti dalla Società Italiana degli Economisti relativi ai PRIN del 2015 ha ricostruito i legami che intercorrevano tra valutatori e vincitori dei progetti in termini di affiliazione o luogo di conseguimento della laurea, evidenziando significative anomalie.3

C’è una risposta facile e ovvia a tutte queste osservazioni, ed è che la gerarchia riflette il merito. In un regime concorrenziale emergono i migliori e gli economisti sarebbero semplicemente stati più bravi di altri scienziati sociali a promuovere la meritocrazia così che chi occupa il vertice avrebbe meramente sostenuto le posizioni più valide nel mercato delle idee. Lo stretto controllo esercitato dalla gerarchia su finanziamenti, promozioni e reclutamento affonderebbe le sue radici nel consenso raggiunto all’interno della professione.

È il consenso che spiegherebbe il controllo e non viceversa. In economia non esisterebbero dunque paradigmi alternativi così come non esistono in medicina dove ci sono solo scienziati o ciarlatani.

Ci sono molte obiezioni che si possono sollevare e che sono state sollevate rispetto a questa posizione, che probabilmente nel nostro paese è più accettata per strategia di sopravvivenza che condivisa sulla base di convinzioni. Non entro nelle molte ragioni per cui l’economia è diversa dalla medicina, nonostante da 250 anni insegua l’aspirazione a essere considerata una scienza della natura. Anche solamente riportare i riferimenti alla letteratura in proposito occuperebbe troppo spazio. Mi limito a ricordare che la storia della disciplina abbonda di esempi di approcci scartati e poi ripresi. Un caso per tutti: quello del rapporto con la psicologia, bandita dall’economia sulla scia di Pareto per lasciare il posto all’ottimizzazione dell’agente razionale. Nel 1978 un Nobel a Herbert Simon ci provò a riportarla alla ribalta, ma sono stati necessari altri venticinque anni e un altro premio Nobel per decretarne la riammissione con trionfo tra gli interessi degli economisti.

La crisi del 2008 del resto, sulla spinta dell’indignazione popolare, sembrava aver introdotto qualche crepa anche nei vertici della gerarchia degli economisti. Tuttavia, dopo una qualche rispolverata di Keynes e una tardiva riabilitazione di Minsky, sembra che le acque si siano richiuse nel mare dell’autocompiacimento. Chi ha a cuore il futuro dell’economia, non solo come strumento per capire il mondo ma anche per migliorarlo, non può rallegrarsene. Per questo motivo sono benvenuti dibattiti come quello tra Brancaccio e Blanchard che abbiamo commentato. Speriamo che ce ne siano molti altri a venire.


*Università di Roma Tor Vergata, email: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Contributo al numero speciale di Moneta e Credito dal titolo “Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio”, ispirato dal dibattito tra Olivier Blanchard e Emiliano Brancaccio tenutosi presso la Fondazione Feltrinelli a Milano il 18 dicembre 2018. Numero a cura di Emiliano Brancaccio e Fabiana De Cristofaro.
L’autrice è Presidente della Società Italiana degli Economisti per il triennio 2017-2019. Le posizioni qui riportate non impegnano gli organi direttivi della SIE e sono espresse a titolo puramente personale.

Note
1 L’indagine, relativa al numero di studenti e corsi in scienze economiche, sarà pubblicata a ottobre 2019 nel sito della SIE tra i materiali della CURV, Commissione per l’Università, la Ricerca e la Valutazione: www.siecon.org/it/chi-siamo/organizzazione/commissioni/curv
2 Vedi l’indagine della Società Italiana degli Economisti sulla posizione attuale degli abilitati alla seconda fascia, consultabile in https://www.siecon.org/it/chi-siamo/organizzazione/commissioni/commissione-luniversita-la-ricerca-e-la-valutazione (ultimo accesso 25/8/2019).
3 La nota è consultabile in https://siecon3-607788.c.cdn77.org/sites/siecon.org/files/media_wysiwyg/nota-prin-2015-fin.pdf. Sulla base di questi dati, la Redazione di Roars ha scritto un articolo in cui si afferma: “I docenti della Bocconi sono il 5,1% dei docenti di economia (SSD da SECS/P-01 a SECS/P-13), ma il 77% dei fondi PRIN nel settore economico (SH1) vengono assegnati a progetti in cui la Bocconi coordina (36%) o collabora (41%). È davvero un caso che un membro del comitato dei garanti sia un alumnus Bocconi, il comitato di area SH1 sia formato da un bocconiano e da un alumnus e il 48% delle revisioni siano state svolte da bocconiani o da alumni?” (https://www.roars.it/online/i-bocconiani-sono-il-5-ma-il-77-dei-fondi-prin-sh1-va-ai-loro-progetti/).

Bibliografia
Artoni R. (2007), “Valutazione della ricerca e pluralismo in economia politica”, Rivista Italiana degli Economisti, 12 (2), pp. 191-204.
Blanchard O. e Brancaccio E. (2019), “Pensare un’alternativa. Dialogo tra Olivier Blanchard e Emiliano Brancaccio”, Micromega, 2, pp. 7-30; (cfr. anche Blanchard O. e Brancaccio E., “Crisis and Revolution in Economic Theory and Policy: A Debate”, Review of Political Economy, published online 6 August 2019).
Blanchard O., Amighini A. e Giavazzi G. (2016), Macroeconomia. Una prospettiva europea, nuova edizione, Bologna: Il Mulino.
Brancaccio E. (2017), Anti Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia, Milano: Franco Angeli. Brancaccio E., Califano A. (2018). Anti-Blanchard macroeconomics. A comparative approach. Edward Elgar. ISBN: 9781788118996.
Dostaler G. (2005), Keynes et ses combats, Parigi: Albin Michel.
Fourcade M., Ollion E. e Algan Y. (2015), “The Superiority of Economists”, The Journal of Economic Perspectives, 29 (1), pp. 89-114.
Hamermesh D.S. (2013), “Six Decades of Top Economics Publishing: Who and How”, Journal of Economic Literature, 51 (1), pp. 162-172.
Overy R. (2009), Crisi tra le due guerre mondiali 1919-1939, Bologna: Il Mulino.

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Franco Romanò
Thursday, 10 October 2019 10:53
Consiglio vivamente a chi si occupata anche non da professionista di economia di leggere questo articolo. Il dibattito Blanchard-Brancaccio è una spia della impossibilità del pensiero economico mainstream di continuare facendo finta di nulla e cioè che le ricette neoliberiste e le teorie economiche che le supportano sono delle aberrazioni. Questo aldilà delle singole tesi, anche di quelle di Brancaccio che mi sembrano concedere un po'm troppo all'autocritica di Blanchard e anche a ritornare su un vecchio cavallo di battaglia keynesiano. fondato infondo sulla possibilità anche all'intero di un sistema capitalistico di strategia di redistribuzione del reddito. Questo è stato vero per il modello fordista finito e che non tornerà. Il problema, come dimostrano anche le questioni ambientali e dell'inquinamento, non è la distribuzione del reddito ma il sistema della merce e del che cosa produrre. Per questo credo che il suo articolo di Annalisa Rosselli si soffermi troppo poco su quelli che chiama gli italiani i di Cambridge (in primis Sraffa ma che chi ha lavorato con lui, italiano o meno, e poi Garegnani Pasinetti ecc.) dove forse è possibile rintracciar e una proposta di equilibrio diversa e oggi quanto mai necessaria. Comunque un controbuto prezioso
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