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L’attività di produzione

Evoluzione delle forme di organizzazione dell’impresa capitalistica

di Andrea Fumagalli*

1. Introduzione

Nella teoria economica dominante, il concetto d’impresa è sinonimo di libera iniziativa privata, è l’esprit del capitalismo. Il termine stesso deriva da “intrapresa”, ovvero l’iniziativa del fare, legato all’attività individuale.

Nella Teoria dell’Equilibrio Economico Generale (Walras, 1974), l’attività d’impresa non a caso coincide con l’attività individuale. Il processo economico viene descritto come un’unica attività di scambio tra agenti economici (individui) che si scambiano le merci che possiedono, o perché proprie dotazioni iniziali, o perché accumulate nel passato al fine di ottenerne un guadagno (utile). Non esistono classi (aggregati) sociali né organizzazioni. Il sistema economico è così definito da un numero finito di agenti economici, il cui comportamento è caratterizzato da razionalità strumentale, “path-independency”, preferenze diverse e struttura informativa più o meno completa e perfetta. Ogni agente economico è in grado di individuare una funzione obiettivo, che si diversifica sulla base non solo delle preferenze ma anche delle dotazioni di partenza, retaggio del tempo passato. Preferenze e dotazioni, tuttavia, non costituiscono un vincolo alle potenzialità individuali. La storia passata non conta più di tanto e tutto il problema economico è racchiuso nel presente oppure, meglio, nell’attualizzazione delle attese future. Nella diversità, dunque, gli individui hanno pari opportunità e potenzialità, seguono cioè la stessa legge di comportamento senza alcuna discriminazione: sono individui liberi e potenzialmente uguali.

Il libero scambio, in tale contesto, diventa la condizione principale per la piena libertà individuale.

Ne consegue che, se il sistema economico è composto solo da individui e se il valore delle merci è determinato sulla base del principio della scarsità, non esistono organizzazioni sovra-individuali, ovvero non dovrebbero esistere le imprese ma solo singoli produttori.

Eppure il 1871, l’anno in cui Walras pubblicava i suoi Elements da cui ebbe origine la teoria del libero mercato, è anche l’anno in cui iniziano a comparire massicciamente sul mercato europeo e anglosassone le società anonime, cioè l’embrione della forma che avrebbe assunto, per antonomasia, l’impresa organizzata: la Società per Azioni (S.p.A.), ancor oggi la forma giuridica d’impresa dominante[1]. Paradosso della storia. Nello stesso anno in cui nasce la teoria del libero mercato, inteso come luogo neutro, superpartes, di selezione dell’attività imprenditoriale, individuale e privata, si sviluppa in forma compiuta  anche quell’istituzione complessa di nome impresa che lungi dal dipendere dal mercato, inteso come ambito neutrale, lo usa come luogo di ridefinizione continua della gerarchia del potere economico.

 

2. L’ impresa fordista

È solo con la diffusione del paradigma taylorista-fordista che la grande impresa diventa l’elemento strutturale del processo di accumulazione capitalista. Lo sviluppo della produzione di massa, standardizzata, automatizzata sostituisce la produzione artigianale, diffusa, di piccola dimensione che aveva contraddistinto la fase ottocentesca della produzione capitalista, soprattutto in Europa.

Il passaggio non è né repentino, né indolore, né scevro di contraddizioni. Già nell’ultima parte del secolo XIX, una grave crisi economica aveva sconvolto non solo il sistema economico della potenza dominante, l’Inghilterra, ma anche quello della nazione economicamente emergente, gli Stati Uniti. Le origini di tali crisi erano state più di natura finanziaria e politica che di natura reale. Gli scandali bancari che avevano segnato l’Inghilterra tra il 1860 e il 1880 e le economie europee continentali a cavallo del secolo avevano evidenziato l’inadeguatezza di una struttura creditizia ancora propensa alla raccolta del risparmio e della rendita terriera  piuttosto che al finanziamento dell’accumulazione industriale. Se teniamo conto del fatto che i maggiori proventi economici sino al 1880 derivavano ancora da attività industriali legate alla terra e al trasporto mercantile (miniere, derrate agricole, flussi commerciali), si vede bene la prevalenza della rendita e dell’interesse commerciale sul profitto industriale.  Il processo di globalizzazione coloniale del periodo 1870-1914 rappresenta la risposta politico-militare, che si manifesta con l’annessione diretta dei mercati minerari e delle materie prime su scala planetaria[2], alla crisi di liquidità e di rischiosità legata allo sviluppo delle attività manifatturiere. Crisi di liquidità monetaria che aveva portato, per usare le parole di Alfred Marshall, ad una “prolungata depressione dei prezzi, depressione degli interessi e depressione dei profitti. Soprattutto dei profitti” (Marshall,  1997, p. 43).

Di fronte ad una maggior organizzazione e combattività dei primi sindacati dei lavoratori, la risposta del sistema produttivo capitalistico era stata la metamorfosi dei rapporti di produzione e di finanziamento. Parallelamente all’instabilità politica e valutaria, che si dispiegherà con la I guerra mondiale, si reagisce lavorando su tre piani:

Lo sviluppo dell’impresa come organizzazione complessa, dotata di capacità strategiche autonome in grado di influenzare le dinamiche di mercato rappresenta il fattore chiave che consente la determinazione di un nuovo paradigma economico. I punti essenziali di questo processo sono i seguenti:

In un simile contesto, la grande impresa, prima nazionale e poi, via via, sempre più transnazionale, diventa il motore dello sviluppo economico. Si tratta di uno sviluppo economico che necessita di una crescita estensiva e quantitativa, i cui obiettivi sono al centro delle politiche economiche nazionali. Dopo la II Guerra Mondiale tutto questo troverà una sorta di imprimatur nella gerarchia internazionale sancita a Bretton Woods tramite il sistema di cambi fissi basato sul ruolo di moneta internazionale svolto dal dollaro Usa, l’unica valuta ad avere un rapporto (costante) con l’oro[3].

Insomma, mentre nella storia economica si affermava sempre più il ruolo centrale della grande impresa come organizzazione complessa in antitesi al ruolo svolto dal mercato, la teoria economica dominante affinava la teoria del libero mercato come unico luogo in cui l’attività di scambio, svolta da agenti economici individuali[4], poteva aver luogo.

 

2.1. L’approccio storico-evolutivo

I contributi più importanti per cogliere l’evoluzione e la trasformazione delle imprese sono quelli che si basano sull’approccio storico, a conferma del fatto che gli economisti raramente sono in grado di cogliere i processi di mutazione della realtà che avvengono sotto i loro occhi.

L’approccio metodologico in questione è sostanzialmente diverso da quello ortodosso. Si parte dall’analisi di fatti reali che vengono considerati rilevanti per cogliere i processi in atto, i cd. “fatti stilizzati”, che sono analizzati al fine di cogliere le tendenze dinamiche soggiacenti. Inoltre, a differenza dell’approccio neo-classico, oggetto di studio sono i “flussi” piuttosto che gli “stocks”.

Il primo fatto stilizzato che risulta evidente nei primi decenni del XX secolo è la massiccia diffusione delle società per azioni: processo che ha profondamente modificato il rapporto tra imprese e mercato. Se nella fase pionieristica del capitalismo – quella sino alla prima metà del secolo XIX – poteva avere senso, soprattutto in Europa, parlare di piccoli produttori, di stampo artigianale, che operavano in presenza di una concorrenza marcata che impediva loro di essere indipendenti dalla dinamica del mercato, non altrettanto si può affermare tre quarti di secolo dopo, quando la presenza di una struttura complessa e organizzata, in grado di sfruttare le economie di scala tecnologiche, di porre barriere all’entrata che impediscano l’accesso a potenziali futuri e pericolosi concorrenti, di operare autonomamente ed in modo strategico sulla determinazione dei prezzi di vendita, è diventata una realtà incontestabile.

Il dibattito teorico che si sviluppa negli anni Trenta aveva posto la questione della critica alla formazione dei prezzi di equilibrio di mercato e all’ipotesi della concorrenza perfetta. Tuttavia, poco era stato detto in relazione al rapporto gerarchico tra impresa e mercato. Di fatto, pur nelle diverse forme di mercato (concorrenza perfetta, oligopolio, monopolio, concorrenza monopolista), impresa e mercato convivevano tranquillamente come concetti fra loro separati ma legati da forme di interdipendenza che legittimavano entrambi.

Nel 1937, nel pieno del diffondersi del paradigma taylorista, Ronald Coase scrive su Economica un saggio dal titolo The Nature of the Firm, che rimarrà ignorato per un quarto di secolo, sino a diventare negli anni Settanta uno dei saggi più citati e consentire all’autore di ottenere il premio Nobel per l’economia nel 1991.  In quel saggio Coase pone una questione, che oggi appare ovvia ma che per molti è ancora dura da digerire: l’incompatibilità tra libero mercato e impresa. Per libero mercato, Coase intende, secondo la definizione data da Clark nel 1899, il luogo di scambio dove gli individui con un’offerta e una domanda si incontrano e nel quale si determina il valore delle merci scambiate (Clark, 1916). L’impresa è invece un’organizzazione sovra-individuale, complessa, più efficiente del mercato nello svolgere l’attività di scambio in presenza di incertezza, asimmetria informativa e costi di transazione (cioè i costi che occorre sopportare per dotarsi dei fattori produttivi e delle informazioni necessarie per svolgere l’attività produttiva).

Nell’individuare una precisa gerarchia tra impresa e mercato a favore della prima, Coase è molto esplicito: 

“Il carattere distintivo dell’impresa è il superamento del meccanismo dei prezzi” (Coase, 1937, p. 389).

Accanto alla distribuzione delle risorse operata dal mercato, vi è quella operata dalle imprese nel settore secondo il principio del mark-up. L’impresa è quindi un’alternativa al mercato, in grado di influenzare e indirizzare la determinazione dei prezzi. Il ruolo svolto dal mercato è così subalterno e non intacca l’attività di produzione ma, al limite, la sfera della distribuzione.

Anche Joseph Schumpeter, più o meno negli stessi anni di Coase, giunge alle stesse conclusioni. Ma l’analisi di Schumpeter è molto più approfondita e si basa sull’osservazione empirica, seguendo la struttura metodologica di Marx. Il punto di partenza di Schumpeter è la distinzione, infatti, fra ciò che è (la realtà) e ciò che appare o che si vuole che appaia (l’ideologia, come mistificazione della realtà).

Nella prefazione ad un libro di Zeuthen del 1930, Schumpeter scrive: 

“L’importanza del caso concorrenziale non dipende da alcuna ipotesi circa il suo essere regola della vita reale, ma da certe sue proprietà che ne fanno un utile punto di partenza per l’analisi, anche se la realtà non ha mostrato alcuna stretta somiglianza con essa” (Schumpeter, 1930, p. ix).

Anche nella prefazione all’edizione giapponese del 1936 del suo “Teoria dello sviluppo economico”, originariamente pubblicato nel 1912, Schumpeter afferma che la teoria dell’equilibrio economico generale è un ottimo esempio di analisi teorica rigorosa ma che ha poco da spartire con la realtà. Per comprendere i fenomeni reali del processo capitalistico, all’analisi statica di Walras è di gran lunga preferibile l’analisi dinamica svolta da Marx.

E proprio con riferimento allo studio dell’evoluzione dell’impresa, Schumpeter individua due momenti particolari, che definisce regimi: il primo è il regime innovativo, nel quale risalta la figura dell’imprenditore, propenso al rischio e quindi in grado di ottenere un profitto elevato, che è in grado di modificare gli assetti della produzione; il secondo è il regime d’impresa routinario, che si ha quando la spinta innovativa e propulsiva dell’attività imprenditoriale si attenua, le innovazioni tecnologiche, di prodotto, di processo o organizzative  iniziano a diffondersi tramite il meccanismo dell’adozione-imitazione e la struttura del settore tende a convergere verso uno stato di equilibrio.

Nell’analisi di questi due momenti, Schumpeter fa riferimento al ruolo della piccola impresa innovativa come motore del mutamento tecnologico, e alla mediazione dell’attività di finanziamento svolta dalle banche di credito (che operano in tal modo una sorta di selezione dei progetti innovativi). Ciò avveniva nel decennio della I Guerra Mondiale, quando le imprese nei nuovi settori della chimica, dell’auto, delle fibre, della meccanica, dell’elettronica, ecc. stavano diventando fattore di forte instabilità economica e cominciavano ad introdurre ed avviare un nuovo paradigma tecnologico e organizzativo (il taylorismo). Una volta consolidatosi e divenuto dominante, il nuovo paradigma si strutturerà sulla base delle grandi dimensioni, dello sfruttamento delle economie di scala, delle barriere pecuniarie e tecnologiche all’entrata, della gerarchizzazione spinta della struttura di mercato, ecc.

L’innovazione tecnologica è frutto di un processo costoso per l’impresa, cosicché sono soprattutto le grandi imprese che possono sostenerne gli oneri, ma anche ricavarne i profitti, rafforzando in tal modo la loro posizione oligopolistica. Con la tendenza verso la concentrazione industriale risulta difficile, per Schumpeter, inquadrare la grande impresa in un contesto d’economia di mercato. Anzi, per lui, la grande impresa, sempre più sinergica con le banche e sempre più multinazionale, alla fine conduce alla fine del capitalismo, o almeno di quel capitalismo che vede nella figura dell’imprenditore la principale ragione della sua esistenza (Schumpeter, 2001)[5].

In ogni caso, sia nel regime innovativo (dominato dalle piccole imprese) che in quello routinario (dominato dalle grandi imprese), il mercato è comunque subalterno e dipendente dal comportamento attivo o dell’imprenditore o del management. Per Schumpeter, è l’impresa (con la sua struttura gerarchica interna, il suo potere ed il suo comando) e non il mercato il vero soggetto economico di sviluppo, l’essenza del capitalismo, così come è l’attività di produzione a determinare e indirizzare in modo unilaterale l’attività di scambio.

L’approccio dinamico fondato sull’analisi della storia economica della grande impresa americana è pure al centro del contributo di Alfred Chandler, storico economico, che, insieme a Kenneth Galbraith, ha cercato di mettere a fuoco l’evoluzione delle forme organizzative delle imprese multinazionali. Sarà infatti intorno agli anni Sessanta e Settanta che Chandler (1976) e Galbraith (1968), prima, e Williamson, poi, saranno in grado di proporre una sorta di teoria economica delle multinazionali dando vita ad un filone che prende il nome di “teoria dell’organizzazione e dei costi di transazione”. I riferimenti sono, oltre Schumpeter, Marx  e Coase.

Galbraith pone in evidenza il rapporto tra politica economica nazionale e grande impresa. Studia lo sviluppo della politica industriale intesa come intervento statale a vantaggio della competitività internazionale dei grandi gruppi industriali. Il periodo storico  è quello degli anni Sessanta e del kennedysmo, in una fase in cui l’egemonia Usa tende a basarsi più sul controllo delle risorse economiche unito al controllo dei governi locali piuttosto che sull’ingerenza diretta militare. Ciò però vale solo in prima istanza in un momento in cui le lotte di liberazione portano al disgregarsi degli imperi coloniali formatisi nella prima fase della globalizzazione imperialista della seconda metà del XIX secolo. Infatti, in molte occasioni, nel Sud-Est asiatico e nell’America Latina, l’intervento diretto militare e golpista è stato preferito o si è reso necessario perché più efficace dell’intervento indiretto, più soft, ma non meno dittatoriale, del controllo economico del territorio.

In questo quadro, lo sviluppo di politiche protezioniste a livello statale è perfettamente congruente con lo sviluppo delle imprese multinazionali. Più la politica economica nazionale è funzionale allo sviluppo del mercato interno, alla difesa delle esportazioni e alla protezione dei confini nazionali, tanto più le imprese capitalistiche multinazionali sono libere di influenzare, controllare e soggiogare i mercati internazionali strategici, da quello delle materie prime a quelli dei prodotti tecnologicamente più avanzati.

Alfred Chandler, invece, divide in tre fasi principali lo sviluppo della grande impresa statunitense: la fase dell’accumulazione delle risorse (dal periodo di sviluppo della ferrovia alla I Guerra Mondiale), la fase  della razionalizzazione nell’uso delle risorse (il periodo della nascita e della diffusione del taylorismo), la fase dello sviluppo continuo (il secondo dopoguerra sino alla crisi degli anni Settanta). 

“La grande impresa industriale americana nacque e si sviluppò nel clima degli anni successivi alla guerra civile, quando l’economia andava rapidamente industrializzandomi e urbanizzandosi[6]. (…) Il boom delle costruzioni delle ferrovie (…) creò un grande nuovo mercato per le industrie del ferro, dell’acciaio e delle meccaniche. La costruzione di ferrovie richiedeva un largo impiego di capitali e questo ebbe come conseguenza lo sviluppo del moderno mercato finanziario e, con esso, la crescita delle banche di investimento che, più tardi, avrebbero facilitato il drenaggio, da parte degli industriali, di grossi capitali europei ed americani” (Chandler, 1976, p. 508).

Nell’ultimo decennio dell’ottocento l’espansione provocata dalla costruzione delle ferrovie si arresta. È allora che le banche di investimento, sviluppatesi sul commercio e l’amministrazione dei titoli ferroviari – e tra questi troviamo nomi assai attuali come la J. P. Morgan –,  cominciano a trattare titoli industriali.

Questa fase di accumulazione delle risorse finanziarie è anche accompagnata dallo sviluppo delle prime reti di distribuzione commerciale. Solo aziende in grado di produrre ampi volumi di merci possono permettersi di acquistare (o costruire) e mantenere una rete commerciale e di marketing estesa a livello nazionale. La fusione, e con essa la formazione di un reparto commerciale, viene generalmente seguita o accompagnata dalla costruzione di reparti acquisti e spesso dall’acquisizione del controllo sulle materie prime, necessarie per la produzione. Si assiste insomma ad un processo di integrazione verticale, a monte e a valle della produzione.

Come scrive Chandler: 

“Così, a partire dal 1890, nei settori chiave dell’industria americana un piccolo numero di grandi imprese giunse a controllare tutte le diverse fasi della produzione che fino a quel momento erano state gestite da numerosi commercianti all’ingrosso, industriali manifatturieri, trasportatori e produttori di materie prime, che gestivano aziende di dimensioni limitate” (Ivi, p. 510).

La costituzione di imprese verticalmente integrate rappresenta la premessa e la condizione per lo sviluppo dell’organizzazione scientifica del lavoro di stampo taylorista. L’opera dell’ingegnere F. Taylor diviene ben presto il punto di riferimento per la razionalizzazione del ciclo produttivo integrato e la programmazione dei flussi produttivi su base standardizzata. Se ciò risulta, tutto sommato, abbastanza agevole per la produzione dei beni intermedi delle fibre artificiali e dei nuovi materiali introdotti dal settore chimico, non altrettanto si può dire per le imprese che vendono articoli destinati al consumo, non ancora diventato di massa. In questo caso, infatti, la programmazione del flusso produttivo deve essere ancor più collegata alle fluttuazioni di breve periodo della domanda[7].

In tal modo, la necessità di adeguare efficacemente le risorse ai mutamenti del mercato porta alla creazione di una struttura amministrativa centralizzata e “dipartimentalizzata” (Ivi, p. 512).

Nel secondo dopoguerra, il processo di accumulazione del capitalismo americano esprime la sua massima forza. L’esistenza di una gerarchia internazionale stabile fondata sugli accordi di Bretton-Woods e sul dollaro, la politica protezionista sul mercato interno e aggressiva sui mercati dei paesi in via di sviluppo in fase di decolonizzazione, lo sfruttamento delle tecnologie meccaniche tayloriste e il dispiegarsi di una struttura di regolazione sociale e di welfare come stimolo alla domanda, sono tutti elementi che hanno consentito alle imprese americane, con il supporto dello Stato (Il nuovo Stato industriale, nelle parole di Galbraith (1968), o, per dirla con Baran e Sweezy: Il capitalismo monopolista), di essere il motore dello sviluppo economico americano e di posizionarsi sui mercati internazionali strategici, portando a compimento lo sviluppo dell’impresa multinazionale iniziato nei primi decenni del secolo.

La crisi degli anni Settanta porterà ad una riformulazione degli assetti organizzativi delle imprese multinazionali. A questo riguardo, risulta fondamentale l’analisi di Oliver Williamson, che riprende il contributo di Coase e  il discorso e la metodologia di Chandler. Williamson, dopo aver definito la struttura gerarchica dei mercati produttivi e terziari, analizza le trasformazioni delle forme organizzative della grande impresa e i diversi assetti gerarchici che si possono configurare. Dalla grande impresa unitaria (U-form), degli anni Cinquanta e Sessanta, organizzata con una gerarchia piramidale e disciplinare che prevede un decentramento delle decisioni su base funzionale e non molto estesa, si afferma, come risposta alla rigidità fordista-taylorista, il modello, più flessibile, multidivisionale (M-form), che prevede una forte autonomia delle singole unità dell’impresa, a livello anche decentrato e internazionale, ma dotata di un preciso controllo da parte del vertice, soprattutto sulle variabili considerate strategiche (finanza e tecnologia). Queste forme, già analizzate da Chandler (1981), si ricompongono e si ritrovano anche all’interno di strutture produttive più vaste, nate da fusioni e acquisizioni o da politiche di differenziazione del prodotto (le conglomerate e i gruppi) o dalla necessità di reperire le risorse finanziarie ed essere attivi sui mercati finanziari (holding). Se le prime, strutturate in forma multidivisionale, sono più presenti negli Usa, le seconde, unitamente alle U-form, rappresentano la maggioranza delle grandi imprese dell’Europa continentale.

In un secolo di evoluzione economica esiste un solo attore economico degno di essere analizzato e studiato: la forma impresa e la sua crescita dimensionale e organizzativa, la mano visibile, secondo Chandler. Il mercato come luogo di scambio è del tutto subalterno. Al limite, se di mercato si può parlare, esso è semplicemente l’arena dove le multinazionali M-form o U-Form, conglomerate, holding, ecc. stabiliscono le rispettive gerarchie.

 

2.2. Lo sviluppo delle multinazionali

La crisi del paradigma taylorista-fordista ha rimesso in discussione la gerarchia produttiva che vedeva nella grande impresa transnazionale il motore dello sviluppo e della potenza economica  nazionale. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, la rivoluzione dell’information technology ridefinisce i confini dell’organizzazione d’impresa. Le strategie manageriali devono far fronte all’eccessiva burocratizzazione e rigidità della grande dimensione che internalizza tutte le fasi della produzione.

Nell’ultimo quarto del XX secolo, i processi di trasformazione assumono connotati strutturali che possiamo riassumere, per brevità, nei seguenti punti:

In questo contesto, la ricerca di flessibilità (tecnologica, produttiva e del lavoro) diventa la variabile manageriale strategica. Le politiche di decentramento produttivo, la creazione di reti di imprese sul territorio, lo sviluppo dei distretti industriali, segnano il trionfo della piccola dimensione, in grado di coniugare flessibilità tecnologica con versatilità nella produzione.

La grande impresa diventa sinonimo di rigidità, burocrazia, eccesso di costi, staticità di azione. Il mito della piccola impresa riporta in auge la figura dell’imprenditore innovativo, in grado di cogliere le opportunità di guadagno, soprattutto se libero di operare senza vincoli imposti da un’eccessiva regolamentazione dei mercati, in primo luogo quello del lavoro. Privatizzazioni e deregulation del mercato del lavoro diventano le opzioni di politica economica e industriale dominanti e si diffondono al diffondersi dell’ideologia neo-liberista. La stessa tecnologia linguistico-comunicativa, rompendo le tradizionali barriere all’entrata e rendendo possibile lo sfruttamento delle economie di scala anche a livello di dimensione minore, facilita la crescita qualitativa della piccola impresa (in grado ora di competere in modo capitalisticamente più efficiente con la grande impresa) che fuoriesce dal ruolo di marginalità in cui il paradigma taylorista l’aveva condannata.

Nella seconda metà degli anni Ottanta, il dibattito teorico sulla grande impresa cessa quasi del tutto[8]. L’argomento principale nelle discussioni accademiche, è, al contrario, lo sviluppo e la diffusione del cosiddetto “modello di specializzazione flessibile” (Priore, Sabel, 1982), ovvero la crescita strategica della piccola impresa e la nascita di vari modelli di produzione decentrata (distretti industriali, aree sistema, catene di subfornitura, filiere produttive, ecc.).

Nello stesso periodo, tuttavia,  si assiste al più poderoso processo di concentrazione produttiva, tecnologica e finanziaria che la storia del capitalismo ricordi. Nel periodo che va dal 1975 a oggi la quota di produzione mondiale detenuta dalla grandi imprese multinazionali aumenta di quasi il 20% e le prime 330 multinazionali producono quasi il 40% del Pil mondiale.

Non solo, si è anche assistito ad una concentrazione spaziale della produzione. Uno studio, riportato sul Financial Times (28 gennaio 2002), sulle più grandi compagnie del mondo mostra che tra le prime 500 compagnie nel mondo, gli Stati Uniti ne contano 244, il Giappone 46 e la Germania 23. Anche se mettiamo insieme tutte le europee, il numero totale delle società dominanti è 173, ancora molto minore di quello posseduto e controllato dagli Stati Uniti.

L’aumento della potenza economica statunitense e il declino del Giappone dal 1989 si possono constatare dall’aumento di società statunitensi tra le Top 500, che passano da 222 a 244, e dalla caduta a picco delle società giapponesi, da 71 a 46. Questa tendenza si accentua nel corso degli anni successivi, poiché le multinazionali statunitensi sono in procinto di rilevare quote di molte imprese, non soltanto giapponesi ma anche coreane e tailandesi.

Se prendiamo in considerazione le 25 più grandi società, quelle la cui capitalizzazione supera gli 86 miliardi di dollari, la concentrazione della potenza economica negli Stati Uniti diventa ancora più chiara: oltre il 70% sono statunitensi, il 26% europee e il 4% giapponesi. Se guardiamo alle prime 100, il 61% sono statunitensi, il 33% sono europee e soltanto il 2% sono giapponesi (Petras, Veltmeyer, 2003, p. 62-63). Quanto al controllo dell’economia mondiale da parte delle imprese multinazionali, è evidente che gli Stati Uniti sono tornati la potenza dominante e in modo schiacciante. Fintanto che le grandissime compagnie sono le forze che guidano l’eliminazione delle imprese minori attraverso fusioni e acquisizioni, possiamo aspettarci che le imprese multinazionali con base negli Stati Uniti giochino il ruolo maggiore nel processo di concentrazione e nella centralizzazione del capitale.

Altro paradosso della storia. Nel momento in cui si vantano – anche a ragione -  le capacità competitive della piccola dimensione la grande impresa multinazionale, dopo un periodo di ristrutturazione,  è oggi più di ieri in grado di controllare, dominare e indirizzare la produzione mondiale.

Ma il primato attuale della grande impresa multinazionale assume caratteristiche nuove e diverse rispetto al periodo fordista-taylorista del secolo scorso.

 

3. Multinazionali, capitalismo cognitivo e internazionalizzazione selettiva della produzione

Quando si parla di globalizzazione si intende quel processo di evoluzione economica e produttiva indotto dai processi di ristrutturazione capitalistica una volta entrato in crisi il paradigma fordista-keynesiano del dopoguerra. Il periodo storico che interessa è l’ultimo quarto del secolo XX. In questa fase si verificano dei cambiamenti strutturali che incidono profondamente sulle modalità della produzione e della distribuzione del reddito.

Il processo di globalizzazione è l’esito di questi cambiamenti strutturali e contiene tutti questi aspetti in modo disomogeneo. Non esiste perciò un unico concetto di globalizzazione. Piuttosto è più utile parlare di diversi livelli di globalizzazione, non tutti tesi, comunque, a processi di liberalizzazione. Il punto centrale è proprio questo: all’interno di ciò che viene comunemente definito globalizzazione coesistono, infatti, spinte fra loro contrapposte ma interne al trinomio: liberalizzazione – concentrazione – potere. L’idea che alla globalizzazione corrisponda dunque un processo di liberalizzazione, nel senso di incremento delle opportunità e delle libertà civili, è un luogo comune che non corrisponde alla dinamica della realtà economico-sociale[9].

Per meglio comprendere questa affermazione, è necessario sviluppare la riflessione su diversi piani: quello della dislocazione della produzione delle merci materiali e immateriali, quello dei capitali e delle forme di proprietà, quello della tecnologia e dei saperi, quello delle forme della regolazione geo-politica e del controllo sociale.

 

3.1 Il processo di internazionalizzazione selettiva della produzione

Lo sviluppo delle tecnologie flessibili basate sul paradigma linguistico-comunicativo ha consentito il controllo della produzione a distanza. Si è trattato non solo di una rivoluzione tecnologica, ma anche e soprattutto organizzativa. Il venir meno del modello disciplinare taylorista progettazione à esecuzione à commercializzazione come unico paradigma di organizzazione d’impresa e del lavoro ha liberato una poliedricità di opportunità di produzione che ha il proprio referente nella struttura a rete e nella definizione di diversi livelli di gerarchia. La restrizione imposta dai modelli nazionali di produzione sulla base di differenti modalità redistributive[10] è stata abolita dai processi di internazionalizzazione della produzione lungo precise coordinate geo-economiche. Tra queste le più rilevanti sono le direttrici di delocalizzazione ed esternalizzazione lungo gli assi :

L’incremento della competizione per il controllo degli assi della subfornitura e del lavoro conto-terzi, ha portato alla ricerca spasmodica della riduzione continua e costante dei costi di produzione (sia salariali che ambientali), da un lato, e all’accentramento del controllo tecnologico e delle risorse strategiche, dall’altro. Ciò che potrebbe apparire un paradosso, vale a dire una produzione mercantile sempre più globale e un processo di concentrazione del controllo produttivo sempre più marcato tramite strategie di fusioni e acquisizioni (come mai si era verificato in due secoli di capitalismo), in realtà non sono altro che due facce della stessa medaglia. Questa tendenza era stata già messa in evidenza da alcuni studi francesi condotti nei primi anni Ottanta, in particolare dalla ricerca diretta da C. Palloix (1978, 1982) e dagli studi di G. Bertin  (1985) e S. Watt.

In questo quadro, appare fuori luogo parlare di vera e propria globalizzazione della produzione, in quanto tale processo non interessa l’intero pianeta, bensì solo specifiche aree geografiche. Ad esempio, il continente africano e alcune aree asiatiche, ne sono del tutto escluse. È più appropriato al riguardo parlare di internazionalizzazione selettiva della produzione.


3.2 La struttura della proprietà

Con l’implementarsi del processo di valorizzazione del capitale e realizzazione della produzione e con lo sviluppo dei mercati finanziari agli albori del fordismo, si verifica un primo forte cambiamento nella forme della proprietà. L’esigenza di garantire flussi di liquidità continui, non solo per il finanziamento della crescita della produzione (con moneta di nuova creazione), ma anche per la gestione quotidiana e per liberarsi in parte dal controllo bancario, porta alla diffusione delle prime società anonime che poi diventeranno le moderne Società per Azioni. La proprietà dei mezzi di produzione da unica si frammenta in più parti e si estende allargandosi a più soggetti, ma sempre fortemente centralizzato rimane il controllo dell’attività produttiva. Lo sviluppo del capitalismo manageriale anglossassone favorisce nuove forme di garanzia all’accesso della moneta (e quindi dell’accumulazione) non più solo tramite la diretta proprietà dell’impresa ma anche grazie all’attività di controllo e di management.

Si attua in tal modo un altro processo di smaterializzazione, che si aggiunge a quello relativo alla moneta: il passaggio dall’idea di proprietà (potere) intesa solo come possesso materiale all’idea di proprietà intesa come controllo immateriale (capacità di comando) (Marazzi, Fumagalli, Zanini, 2002).

Oggi siamo di fronte al fatto che – grazie anche allo sviluppo delle tecnologie di linguaggio e di comunicazione – la proprietà che conta ai fini dell’accumulazione capitalistica è quasi esclusivamente la capacità di controllo e di comando. Ed è colui che è in grado di attuare tale potere che gestisce il processo di accumulazione e quindi di generazione di ricchezza.

In conclusione, l’esigenza della valorizzazione del capitale e della realizzazione della produzione ha indotto una modifica della struttura della proprietà dei mezzi di produzione senza intaccare il comando sul lavoro, indotto dal controllo degli stessi mezzi di produzione. Lo sviluppo dei mercati finanziari, legato soprattutto alle società del nuovo ciclo tecnologico informatico-linguistico, ha fatto sì che si attuasse un processo di smaterializzazione della proprietà, per molti aspetti legato al processo di accumulazione flessibile e cognitivo.

Cerchiamo di spiegarci meglio. Se durante il fordismo si è assistito alla crescita “istituzionale” del potere d’acquisto dei salari in modo più o meno omogeneo, nel caso dell’accumulazione flessibile il calo dei salari reali può essere in parte compensato dai redditi da capitale, distribuiti però in modo disomogeneo e polarizzato. È possibile che si sviluppino immense ricchezze, ma tali situazioni non sono ovviamente generalizzabili.

Se nel fordismo la proprietà era potere, ora è il controllo ad essere fonte primaria di potere. E si tratta di controllo finalizzato ai flussi immateriali della produzione (tecnologia e comunicazioni/informazioni in primo luogo) e delle componenti immateriali della produzione (lavoro immateriale e cognitivo, e linguaggio). Dal momento che si può essere proprietari solo di qualcosa che è materiale, quando si parla di immaterialità  la proprietà si trasforma in controllo.

 

3.3 Il ruolo delle multinazionali

Come abbiamo visto, le multinazionali hanno cominciato a svilupparsi all’inizio del secolo XX, come esito delle politiche colonialistiche degli Stati dominanti. Sino alla fine degli anni Settanta, la forza delle multinazionali risiedeva in due aspetti:

In questa fase, parallelalamente alle trasformazioni degli assetti proprietari, si modificano anche le strategie organizzative delle multinazionali. Dall’organizzazione interna si passa all’organizzazione della rete esterna di subfornitura. Diverse sono le modalità organizzative in grado di consentire il controllo “indiretto” delle produzioni estere. Da questo punto di vista, il passaggio dal controllo diretto al controllo indiretto degli impianti produttivi rappresenta la cartina di tornasole del passaggio dalla disciplina al controllo sociale in un’ottica foucaultiana[11]. Per ciò che riguarda il controllo economico delle multinazionali, esso si attua tramite due aspetti fondamentali: il controllo della tecnologia e il controllo politico.

 

3.4 La tecnologia e i saperi

Il controllo delle traiettorie tecnologiche rilevanti (informatica, logistica di rete, biotecnologie, industria farmaceutica, aereospaziale, robotica) è la variabile strategica per eccellenza per essere in grado di competere su scala mondiale. Condizioni necessarie (anche se non sufficienti) per stare sulla frontiera tecnologica sono:

Si tratta di fattori che solo organizzazioni produttive complesse sono in grado di garantire e sviluppare. Non è un caso, quindi, che più dell’80% della spesa di ricerca e sviluppo per la creazione e generazione di nuove tecnologie sia svolta da imprese di medio-grandi dimensioni. Ciò non toglie che esistano piccole imprese schumpeteriane in grado di “bucare” la frontiera tecnologica. Ma esse hanno di fronte due alternative: crescere in fretta e divenire grandi oppure essere acquisite da imprese concorrenti di grandi dimensioni. La piccola dimensione, in seguito agli alti costi di apprendimento tecnologico e alle nuove barriere all’entrata dettate dalle economie dinamiche di scala, è quindi adibita alla diffusione dell’innovazione tecnologica, all’interno di strutture produttive a rete, con diversi livelli di gerarchia a seconda del grado di specializzazione della subfornitura o della rete di appartenenza. Il comando sulla piccola dimensione è essenzialmente comando tecnologico e finanziario, al quale la piccola impresa può ovviare con un elevato grado di efficienza capitalistica, vale a dire cosi di produzione più bassi e maggiore produttività (ossia maggior sfruttamento del lavoro). Ciò implica una sorta di divisione internazionale della produzione che vede il dominio tecnologico nelle grandi corporations del nord del mondo e l’attività produttiva materiale demandata agli assi internazionali e/o nazionali della subfornitura, in un rapporto di interdipendenza degli assetti produttivi. Non dimentichiamo che questi temi sono stati oggetto dell’incontro internazionale dell’Ocse tenuto a Bologna il 14-15 giugno del 2000, non a caso aperto anche ai principali paesi subfornitori del terzo e quarto mondo.

Ciò di cui, in quella sede non si è discusso è il comando sui saperi e sui brevetti detenuto dalle grandi imprese multinazionali. In particolare la questione dei “saperi” ha assunto un valore strategico. Ricordo che quando si parla di saperi è necessario distinguere tra saperi “codificati” e saperi “taciti”[12].

I primi sono l’essenza di ciò che comunemente viene definita “formazione professionale”. Più essi si diffondono, più coloro che ne sono portatori possono essere interscambiabili e ciò, all’interno di un crescente individualizzazione della prestazione lavorativa e contrattuale, porta all’incremento di concorrenza e flessibilità tra i lavoratori ad esclusivo vantaggio delle imprese con effetti depressivi sulle remunerazioni. Essi riguardano in maggior misura i settori che non si collocano sulla frontiera tecnologica e le prestazioni che meno richiedono esclusività di competenze[13].

I “saperi taciti”, invece, si riferiscono a quelle nozioni e competenze che, in quanto non codificati, rimangono patrimonio dell’individuo che li possiede, per un tempo più o meno limitato. Costui rappresenta l’“élite” del mercato del lavoro ed è essenziale soprattutto per la generazione e la creazione di nuove tecnologie nel campo della ricerca, dei prodotti e delle metodologie di produzione. È questo il sapere che è normalmente protetto da brevetti e non è scambiabile sul mercato dell’informazione. Esso costituisce il “core” della capacità tecnologica di un impresa e richiede continui investimenti di supporto, che solo le grandi multinazionali sono in grado di effettuare. È l’essenza del comando tecnologico e pertanto non è sottoposto a processi di globalizzazione e liberalizzazione.

L’aspetto del controllo dei saperi taciti e, pertanto, della generazione di nuove tecnologie è quello che viene meno citato dagli apologeti della globalizzazione. E non può essere altrimenti, visto che tale aspetto è la chiave interpretativa principale per comprendere le leve di comando delle imprese multinazionali del Nord del mondo sugli assi della produzione materiale del Sud del Mondo. L’unico aspetto che viene enfatizzato è, invece, la formazione professionale, cioè la conoscenza “usa e getta”, che facilita la flessibilità della produzione e la frammentazione del mercato del lavoro e non mette in discussione le gerarchie di comando.

 

3.5 La globalizzazione imperiale del controllo sociale e politico

I processi economici e sociali che abbiamo brevemente descritto sono molto complessi, non lineari e attraversati da contraddizioni e conflittualità che necessitano di una capacità di governo e indirizzo. Ciò che, con una parola oggi molto di moda, si potrebbe chiamare governance.

Tale governance si svolge prevalentamente su due piani: il livello politico-economico e il livello politico-militare.

A livello politico-economico, i paesi ricchi dell’area Ocse si sono trovati di fronte alla necessità di garantire una maggior stabilità valutaria e finanziaria, una volta venute meno le forme del tradizionale controllo economico svolto a livello nazionale e alla luce dell’anomia del mercato dei capitali e delle valute. L’esito è stato la tendenza a costituire aree monetarie e finanziarie omogenee, che fossero meno influenzabili dalle turbolenze speculative della finanza internazionale, non sempre direttamente controllabili dai governi nazionali e dalle istituzioni economiche internazionali. In particolare, dopo la crisi valutaria dell’Europa del 1992 e dopo la crisi messicana del 1994, che ha minato gli accordi di libero scambio del continente Nord-americano (Nafta), si è manifestata l’esigenza di controllare in qualche modo i flussi di capitale finanziario, attraverso la creazione di aree a moneta unica che eliminassero alla radice i rischi economici derivanti dalla speculazione valutaria. La gestione delle variabili monetarie-finanziarie si è così spostata dal piano nazionale ad un piano sovranazionale, sotto il diretto controllo delle Banche Centrali con respiro internazionale (Federal Reserve americana, Banca Centrale Europea, Banca del Giappone), preoccupate esclusivamente di garantire o la stabilità dei corsi azionari e valutari (Federal Reserve) o la stabilità dei tassi d’interesse a fini antinflazionistici (Bce)[14]. È interessante notare che tali obiettivi sono perseguiti senza tenere in minimo conto gli effetti che la politica monetaria può avere sulle variabili reali, come reddito e occupazione. La creazione di aree omogenee non è un fenomeno coordinato a livello internazionale ma è piuttosto il frutto di tensioni competitive tra le aree geopolitiche rilevanti. In particolare il confronto tra Europa e Usa è oggi sempre più ridotto al confronto tra euro e dollaro, non venendo posta in discussione la supremazia tecnologica e soprattutto militare degli Stati Uniti.

Nell’ultimo decennio, l’asse economico si sta sempre più trasferendo verso l’Est e verso Sud, con la Cina e l’India da un lato, e i paesi sudamericani (brasile in testa), in grado di influenzare e bypassare le scelte economiche dei vecchi paesi industrializzati. Se nell’ultimo decennio del secolo scorso, i possibili conflitti geo-economici era quasi tutti interni ai paesi occidentali, oggi, quasi alla fine del primo decennio del nuovo secolo, gli equilibri commerciali sono decisamene a favore dei paesi asiatici, con il risultato di indebolire la leadership economica statunitense e europea. Anche se le multinazionali occidentali sono ancora in grado di controllare le principali filiere produttive sopranazionali, tale capacità rischia sempre più di indebolirsi a vantaggio di nuove corporation asiatiche, in grado di affrancarsi anche alla dipendenza tecnologica.

E’ per questo motivo che il secondo livello di governance, quello politico-militare, sta diventando sempre più strategico come forma di controllo sociale sulle direttrici e le modalità di sviluppo. Al riguardo, si è assistito negli ultimi anni ad una evoluzione, da forme di pressione in dieta a forme più dirette e “persuasive” di intervento. Gli strumenti di pressione indiretta hanno operato essenzialmente negli ultimi venti anni del secolo scorso e sono rappresentati dall’intervento delle grandi istituzioni economiche sovranazionali (Bm, Fmi, Wto). Gli interventi economici di queste organizzazioni sono stati funzionali al controllo delle direttrici della subfornitura  internazionale e allo sviluppo di una divisione internazionale e specializzata del lavoro idonea al mantenimento delle gerarchie economiche internazionali. Il Wto controlla i flussi commerciali mentre il Fmi e la Bm, nel breve e nel lungo periodo, intervengono sui flussi creditizi, determinando in tal modo le capacità e le modalità di sviluppo delle varie aree mondiali. Solo con i paesi che non fanno parte  di queste istituzioni si ricorre in caso di interessi strategici all’opzione militare, che, in un contesto di stabilità economica, appare come ultima ratio, in quanto è sostituita in modo più che soddisfacente dal ricatto economico e dal ruolo di polizia mondiale esercitato dagli Stati Uniti. In una situazione, invece, di crisi e stagnazione economica come quella attuale, l’opzione militare può ritornare utile non tanto come arma di prevenzione di attacchi esterni, minacciati e/o effettuati da qualche fantomatico nemico, ma piuttosto come leva di crescita economica interna (Aa.Vv, 2002).

La novità dell’ultimo decennio del colonialismo imperiale – finalizzata alla regolazione economico-politica del mondo – sta proprio nel fatto che lo strumento d’intervento, da economico (indiretto), ha oggi assunto connotazioni militari (dirette). La crisi delle grandi istituzioni economiche mondiali deriva, così, dal fatto che esse non sono più le artefici principali di un piano di politica economica ma sono diventate subalterne ad una governance poliziesca-militare. Questi meccanismi di controllo geo-economico si reggono oggi solo in parte su i due “classici” pilastri tradizionali: il ricatto economico per i paesi poveri ed in via di sviluppo (minacce di embargo, ecc.) e l’ideologia del libero mercato nei paesi ricchi. Il mercato (e quindi le istituzioni economiche che lo rappresentano) viene presentato come variabile neutrale e oggettiva, quindi intangibile, mentre invece è lo specchio che nasconde la continua ridefinizione delle gerarchie del potere economico e militare. L’intervento diretto militare, governato agli Usa, ha cercato di far mantenere agli stessi Stati Uniti e ai suoi alleati la leadership della  gerarchia economica, ma tale risultato appare del tutto parziale e inadeguato a fronte della forza economica che sempre più si propaga ad Oriente.

Più l’economia si internazionalizza, quindi, più i centri del controllo economico-politico si concentrano e più si manifestano tensioni tra i varie centri di potere esistenti. La definizione di un nuovo assetto gerarchico stabile è ancora lontano a raggiungere, se mai potrà essere raggiunto. A differenza del capitalismo industriale-fordista, il capitalismo cognitivo non sembra per il momento in grado di evidenziare una stabile gerarchia di comando economico e politico, ma sembra piuttosto destinato ad una continua turbolenza economica (che si manifesta principalmente sui mercati finanziari e delle materie prime),  tipico di un assetto geo-economico imperiale senza testa.

 


* Tratto da A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo, Carocci, Roma, 2008, cap. 3.
[1] Si intende dominante per capacità di valorizzazione del proprio capitale e non per numero di aziende esistenti. Storicamente le prime S.p.A. sono le compagnie delle Indie; ma in seguito a malversazioni e scandali nel 1720 il Parlamento inglese approva il Buble Act che di fatto proibisce la costituzione delle S.p.A. rendendo necessaria una autorizzazione dello stesso Parlamento. Esso sarà abrogato solo nel 1862 con il Joint Stok Act. Negli Usa invece, l’impresa prende quasi subito la forma di Corporate.
[2] In Sud America, Africa, e Asia Orientale
[3] Cfr. il cap. 1 di questa parte.
[4] Questo approccio paradossale e anti-storico, ideologicamente funzionale a perorare la causa delle capacità taumaturgiche del sistema della concorrenza e dell’attività privata, pur se dominante, non era però l’unico. A partire dallo sviluppo del taylorismo e delle prime grandi Società per Azioni, un gruppo di economisti e di storici ha cercato di cogliere e analizzare i cambiamenti intervenuti sulla scena economica. Essi costituiscono un approccio eterodosso, formato da più correnti, in parte influenzato dalla dottrina marxista ed in parte da quella “liberal” (nel senso americano del termine). Nell’ambito del filone di derivazione marxiana, possiamo senz’altro  annoverare gli studi di Hilferding sullo sviluppo del capitale finanziario, e il gruppo della Monthly Review, raccolto intorno a Baran e Sweezy, autori del noto saggio Il capitalismo monopolista, che analizzarono in particolare lo sviluppo della grande impresa statunitense nel secondo dopoguerra. Nell’ambito del pensiero “liberal”, occorre distinguere tra approcci diversi. In primo luogo, nel corso degli anni Trenta, iniziano a svilupparsi i primi modelli di teoria economica critici nei confronti della asserita supremazia del mercato sulle imprese. Sraffa, Chamberlin, Robinson e Kaldor mostrano come le ipotesi della concorrenza di libero mercato non siano compatibili con l’esistenza di strutture produttive sovra-individuali, caratterizzate da rendimenti crescenti. In secondo luogo, Ronald Coase, nel 1937, in un saggio che segna l’inizio dell’Economia Industriale, The nature of the firm, evidenzia come tra impresa e mercato ci sia contraddizione e che la struttura di impresa sia più efficiente del mercato. Il contributo di Coase pone per primo, a livello accademico, la questione del rapporto tra impresa e mercato, intesi come due concetti fra loro irriducibili. Proprio per questo, rimarrà praticamente misconosciuto sino agli anni Sessanta e Settanta, quando, grazie alla riscoperta operata dagli studi di Williamson, il nome di Coase sarà legato allo sviluppo della teoria dei costi di transazione e delle gerarchie di mercato, ovvero la moderna teoria dell’organizzazione industriale. In terzo luogo, occorre ricordare i contributi degli studiosi che hanno analizzato le trasformazioni dell’organizzazione d’impresa, non tanto dal punto di vista analitico, bensì dell’evoluzione storica. Tra questi, vale la pena di segnalare Schumpeter (2001), Galbraith (1968) e Chandler (1976, 1981).
[5] Scrive Schumpeter: “L’unità industriale gigante perfettamente burocratizzata soppianta non solo l’azienda piccola e media e ne ‘espropria’ i proprietari, ma soppianta in definitiva l’imprenditore ed espropria la borghesia, come classe destinata a perdere tanto il proprio reddito quanto (cosa molto più importante) la propria funzione. I veri battistrada del socialismo non furono gli intellettuali o gli agitatori che lo predicarono, ma i Vanderbilt, i Carnegie e i Rockfeller”, pag. 130. Considerazioni analoghe sono state svolte da P. Drucker (1976) a proposito del ruolo socializzante dei fondi pensione, che intervenendo nella struttura proprietaria delle grandi imprese, tendono, a suo avviso, a eliminare la proprietà privata.
[6] La fine della schiavitù negli stati del Sud ha consentito la costituzione di un ceto proletario per le nascenti imprese degli stati del Nord: “Le ferrovie e il rapido sviluppo urbano fornirono a possibilità di lavoro ai lavoratori immigrati non qualificati, ai braccianti, agli ex-schiavi neri che si erano riversati nelle grandi città a partire dl 1850” (Chandler, 1976, p. 508-509).
[7] Le difficoltà maggiori riguardavano le imprese alimentari che producevano su larga scala beni deperibili, che non a caso furono le prime a scoprire sistemi statistici di stima delle fluttuazioni della domanda e a investire in pubblicità per diffondere una struttura di consumo massificata stabile, basata sul consumo di scatolette (è in questo periodo che nasce anche il primo McDonald). Interessante è anche il caso della General Motors e del consumo di elettricità (cfr. A. D. Chandler, 1976, cap. 3).
[8] La maggior parte degli studi, infatti, si indirizza sugli aspetti logistico-organizzativi, sempre più legati agli aspetti dell’internazionalizzazione della produzione e allo sviluppo delle reti di subfornitura. Vi sono, tuttavia, alcune rilevanti eccezioni: M. Casson,  1987, 1995, P. J. Buckley, M. Casson, 1985, R. E. Caves,, 1996.
[9] Negli anni di crescente presa del pensiero economico neo-liberista, rimane comunque un piccolo zoccolo duro di pensiero eterodosso, che continua ad analizzare il ruolo delle multinazionali, in chiave marxista e non, soprattutto in Francia. Al riguardo, cfr. C. Palloix, 1979 e 1982, G. Bertin, 1985.
[10] Il riferimento è ai modelli socialdemocratici dei paesi scandinavi e della Germania, alle nazioni anglossassoni, al modello giapponese e alle dinamiche redistributive più retrive (e pertanto più conflittuali) delle nazioni latine.
[11] Su questa tematica, cfr. DeriveApprodi, n. 17, inverno 1999, in particolare la parte monografica intitolata: “La società del controllo”.
[12]  Si veda il cap. 2 di questa parte.
[13] Il sapere codificato riguarda anche i settori ad alta tecnologia ed è estremamente flessibile. Al riguardo, risulta emblematica la vicenda dei numerosi tecnici richiesti dalle grandi imprese multinazionali dell’informatica e della logistica della comunicazione via rete (Intel, Cisco, Microsoft, ecc.) e poi facilmente rispediti a casa. Sul tema del lavoro cognitivo, cfr. F. Berardi (Bifo), 2001.
[14] L’art. 105 del Trattato di Maastricht dichiara esplicitamente che l’unico obiettivo della politica monetaria della Banca Centrale Europea è il mantenimento del tasso d’inflazione al di sotto del 2%. In tal modo la politica antinflazionistica è parte dello statuto di fondazione della Bce e quindi prescinde da qualsiasi strategia economica. L’autonomia della Bce sta solo nel decidere gli strumenti ottimali per raggiungere l’obiettivo imposto.  E non deve stupire che lo strumento finora utilizzato sia il controllo dell’offerta di moneta, secondo i dettami della più classica ricetta monetarista.
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