La ‘Ricetta senza ingredienti'
Riflessioni sulla funzione di produzione e le risorse naturali in margine all’esame di economia di mia figlia
di Giandomenico Scarpelli
Autore di questo articolo in due puntate è Giandomenico Scarpelli. Un dirigente della Banca d’Italia nella quale si è occupato principalmente del collocamento dei titoli di Stato, delle operazioni di politica monetaria e di sistema dei pagamenti. Ha pubblicato, tra l’altro, La ricchezza delle emozioni. Economia e finanza nei capolavori della letteratura, (Carocci, 2015)]. A titolo personale si è sempre interessato di questioni ambientali, ed in particolare di economia ecologica, studiando in particolare l’opera di Nicholas Georgescu-Roegen e Herman E. Daly. N.B. Le opinioni espresse in questo articolo sono del tutto personali e non impegnano in alcun modo l’Istituto di appartenenza
«Un’assurdità, tuttavia, non cessa di essere un’assurdità quando si sono svelate le apparenze ingannevoli che la rendevano plausibile».
John Stuart Mill, Principi di economia politica (1848)
Premessa
Qualche tempo fa mia figlia mi ha chiesto di aiutarla a preparare l’esame universitario di economia politica. Ho accettato di buon grado sia per rendermi utile sia per rinfrescare qualche concetto offuscatosi nella mia mente a causa del tempo trascorso dai miei studi di teoria economica. In questa occasione ho “ripassato” la funzione di produzione e ho così rammentato le critiche che alcuni economisti eterodossi hanno rivolto a questo strumento analitico per la mancata o errata considerazione delle risorse naturali. In questo articolo cercherò di sintetizzare queste critiche e svolgerò alcune riflessioni personali sul tema.
La funzione di produzione tradizionale: sembra proprio che manchi qualcosa
Com’è noto la funzione di produzione nella sua formulazione corrente indica la quantità di prodotto che un’azienda può fabbricare utilizzando diverse quantità dei fattori di produzione, lavoro e capitale. Se pensiamo ad esempio ad una fucina, questo strumento analitico rappresenta il fatto intuitivo che più sono i fabbri che vi lavorano (il fattore lavoro) e più sono le incudini, i magli e gli altri attrezzi a loro disposizione (il fattore capitale), più oggetti di ferro e di altri metalli saranno prodotti (almeno fino ad un certo punto, oltre il quale i rendimenti dei fattori diventeranno decrescenti).
La funzione viene espressa anche in termini aggregati con la nota formulazione Y = f (L, K), dove Y è il prodotto nazionale ed L e K rispettivamente i lavoratori ed il capitale impiegati per ottenerlo (1).
Da tempo la funzione di produzione aggregata – nella formulazione di cui sopra o in formulazioni più complesse – è immancabile nei manuali di macroeconomia e frequentemente utilizzata nella letteratura specialistica, soprattutto quella riguardante la distribuzione del reddito e la crescita economica. Eppure alla funzione di produzione aggregata sono state rivolte non poche critiche, alcune delle quali oggetto di lunghe diatribe tra gli economisti. Vi è però una critica che è quasi del tutto ignota, tanto che in un trattato di qualche anno fa di ben 400 pagine tutte dedicate alla funzione di produzione non se ne fa menzione (Felipe, McCombie, 2013). Per spiegarla in termini semplici torniamo in ambito “micro”, alla nostra fucina: oltre ai fabbri ed ai loro attrezzi la produzione di oggetti in ferro richiede pezzi di metallo grezzo che, per diventare malleabili, devono essere resi incandescenti bruciando carbone (o altro combustibile) nella forgia.
In altri termini la produzione necessita non solo del fattore lavoro e del fattore capitale, ma anche di materie prime ed energia, e ciò vale per l’officina dei fabbri come per qualsiasi altra azienda, ed evidentemente vale anche a livello “macro”. Ma nella formulazione della funzione di produzione sopra riportata − il più comune modello del processo produttivo elaborato dalla teoria economica standard − materie prime ed energia, cioè le risorse naturali, non compaiono (Daly, Farley, 2011, p. 148ss.). Com’è possibile? Sono forse incluse nel capitale?
Vediamo come stanno le cose.
Le risorse naturali e la funzione di produzione: breve storia di una sparizione
Prima che la funzione di produzione entrasse nella cassetta degli attrezzi dell’economista, l’importanza fondamentale delle risorse naturali per produrre beni materiali era pacificamente riconosciuta.
David Ricardo scrisse che «Non si può menzionare una sola manifattura in cui la natura non dia il proprio aiuto all’uomo» (Ricardo, 1821, p. 46n. ed. it.). Nassau Senior sottolineò che «i primari strumenti di produzione sono il Lavoro […] e quegli Agenti di cui la natura, senza aiuto dell’uomo, ci fornisce il soccorso» (Senior, 1836, p. 550 ed. it.). Pochi anni dopo John Stuart Mill confermò che «il lavoro e le materie prime del globo terrestre sono gli elementi primari e indispensabili» alla produzione ed aggiunse opportunamente che «la natura però, in realtà, non fornisce soltanto i materiali, fornisce anche l’energia» (Mill, 1848, pp. 208 e 114 ed it.). Marx scrisse che «i corpi delle merci sono combinazioni di due elementi: materia fornita dalla natura e lavoro» (Marx, 1867, p. 116 ed. it) ed anche che «La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!)» (Marx, 1875, p. 3 ed. it).
Dunque gli economisti classici e Marx ritenevano che le risorse naturali fossero indispensabili per l’attività economica e che fossero un fattore primario della produzione, insieme al lavoro.
Questa tesi venne accettata anche da Alfred Marshall, il quale riteneva che «In un certo senso, ci sono soltanto due fattori di produzione: la natura e l’uomo» (Marshall, 1920, p. 238 ed. it.). Anche Keynes riconobbe il ruolo delle risorse naturali in un passo della Teoria generale (2).
Le risorse naturali come fattore di produzione erano in genere indicate, per metonimia, col termine “terra” (3); sicché, quando la funzione di produzione aggregata iniziò a comparire negli articoli specialistici e nei manuali universitari oltre al lavoro ed al capitale tra i fattori di produzione venne inserita la “terra”. Ma alcuni economisti neoclassici iniziarono già all’inizio del Novecento a sostenere che il fattore “terra” poteva essere assimilato al capitale (così Wicksteed) o trascurato (così John B. Clark), per cui la funzione di produzione aggregata venne scritta sempre più spesso a due fattori, lavoro e capitale (cfr. Daly, Cobb, 1989, cap. 5; Metzemakers, Louw, 2005; Czech, 2013, p. 87; Ryan-Collins, 2017).
Così “semplificata”, essa divenne dalla metà degli anni ’50 del secolo scorso uno strumento fondamentale della teoria economica e soprattutto dei modelli di crescita (cfr. Solow, 1956). Ma in tal modo la “terra” venne di fatto considerata irrilevante, “confusa” tra i beni capitali e man mano dimenticata dagli economisti teorici; con essa vennero dimenticate le materie prime naturali ed il loro ruolo nella produzione. Il fattore capitale, che – come abbiamo visto – i classici e Marshall non consideravano un fattore di produzione “primario”, iniziò a dominare la scena.
Cosa spinse Wicksteed, Clark ed altri a relegare la “terra” (rectius, le risorse naturali) nell’oblio? Per quanto ne so, vi sono tre possibili spiegazioni, non alternative fra loro.
La prima, di carattere politico-fiscale, è molto interessante, ma per motivi di spazio per una sua trattazione mi limito a rinviare a Czech (2013, cap. 3) e a Ryan-Collins (2017).
Una seconda spiegazione è connessa alla “comodità”: la funzione di produzione aggregata a due fattori ben si prestava ad essere utilizzata nei modelli della sintesi neoclassica (questa spiegazione è solo apparentemente banale: al contrario, denota come nella teoria economica degli ultimi decenni la «mathematical convenience» spesso abbia portato a violentare la realtà).
La terza spiegazione attiene alla “visione del mondo” degli economisti mainstream, soprattutto quelli attivi dopo la Seconda Guerra Mondiale: essi ritennero (più o meno consapevolmente) che le risorse naturali potevano non essere considerate nei loro modelli in quanto la loro disponibilità non costituiva un vincolo: la terra aveva un costo costante, le risorse minerali erano abbondanti e l’ambiente nel quale riversare gli scarti era molto esteso (Nordhaus, 1974, p. 22). Il mondo era visto come un serbatoio di risorse disponibili in quantità di fatto illimitata; per utilizzarle si doveva trovare la combinazione ottima di capitale e lavoro, fattori che, in quanto scarsi, riguardavano l’economista.
Se qua e là una risorsa naturale fosse diventata molto scarsa o si fosse esaurita, essa avrebbe potuto essere sostituita agevolmente con un’altra risorsa, nella convinzione che «la natura impone scarsità specifiche, non un’ineluttabile scarsità generale» (Barnett, Morse, 1963, p. 11, trad. mia). Questa visione venne messa in discussione tra la seconda metà degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, quando l’economista anglo-americano Kenneth Boulding paragonò il nostro pianeta ad una navicella spaziale che ha riserve di risorse in quantità finita e spazi limitati per i rifiuti (Boulding, 1966).
Poco tempo dopo alcuni giovani ricercatori del MIT, nel Rapporto al Club di Roma intitolato The Limits to Growth (Meadows et al., 1972), lanciarono un grido d’allarme sulla disponibilità futura di alcune risorse di base e quindi sulle prospettive a lungo termine dell’economia globale. Il libro riscosse molto interesse ma ricevette anche aspre critiche (che spesso sconfinarono nell’insulto). Queste critiche però non colsero ‒ come scrisse Aurelio Peccei (fondatore del Club di Roma) – il punto sostanziale del Rapporto e cioè che «date le dimensioni finite del pianeta, esistono necessariamente dei limiti alla crescita umana» (Peccei, 1976, p. 105).
Come e perché il capitale iniziò ad essere considerato un «quasi perfetto sostituto» delle risorse naturali
Nello stesso periodo due importanti accademici, William Nordhaus e James Tobin, si chiesero se fosse legittimo tralasciare le risorse naturali nella rappresentazione del processo produttivo fornita dalla teoria economica. In un loro articolo scrissero:
«Il modello standard di crescita assume che non ci siano limiti alle possibilità di espansione dell’offerta di agenti di produzione diversi dall’uomo. È, fondamentalmente, un modello a due fattori in cui la produzione dipende solo dal lavoro e dal capitale riproducibile. La terra e le risorse, il terzo membro della triade classica, sono state generalmente eliminate. […] Presumibilmente la giustificazione tacita [di questa eliminazione, n.d.r.] è stata che il capitale riproducibile è un quasi perfetto sostituto della terra e delle altre risorse esauribili […]», mentre «il tacito presupposto degli studiosi dell’ambiente è che non siano disponibili sostituti per le risorse naturali».
Questa sostituibilità è dunque «di cruciale importanza per la crescita economica futura» (Nordhaus e Tobin, 1973, pp. 522-3, trad. e corsivo miei). Per chiarire se avesse ragione «il modello standard di crescita» oppure «gli studiosi dell’ambiente», Nordhaus e Tobin fecero una stima econometrica riferita ad un periodo passato e conclusero che «vi è una elevata elasticità di sostituzione fra le risorse e i fattori neoclassici» e che perciò «Se il passato è in qualche modo una guida per il futuro, non sembra esserci motivo di preoccuparsi circa l’esaurimento delle risorse che il mercato già considera come beni economici» (ib.).
Il «modello standard di crescita» di cui avevano scritto Nordhaus e Tobin era quello elaborato da Robert M. Solow alla metà degli anni ’50 del secolo scorso ed era basato proprio sulla funzione di produzione aggregata tradizionale; in esso non vi era quindi nessun riferimento alle risorse naturali (Ayres et al., 1997, p. 2; Daly, 1997, p. 261). L’economista ecologista Herman Daly ha scritto: «Una funzione di produzione è spesso paragonata ad una ricetta. Ma, a differenza della funzione di produzione neoclassica, le vere ricette nei veri libri di cucina iniziano sempre con una lista di ingredienti» (Daly, 2017, p. 93, trad. mia). Ma nel modello di Solow gli “ingredienti” mancavano: «la ricetta di Solow prevede che si faccia una torta solo con il cuoco e la sua cucina. Non abbiamo bisogno di farina, uova, zucchero, ecc., né di elettricità né di gas naturale, neppure di legna da ardere» (ib.).
Sulla base di questa logica Solow riprese la questione affrontata da Nordhaus e Tobin affermando che «il grado di sostituibilità è [pure] un fattore chiave. Se sostituire le risorse naturali con altri fattori è molto facile, allora in linea di principio ‘non c’è problema’. Il mondo può, di fatto, fare a meno [get along] delle risorse naturali, così l’esaurimento è solo un evento, non una catastrofe»; altrimenti «la catastrofe è inevitabile». «Fortunatamente», concluse Solow, «per quanto scarse, le evidenze suggeriscono che c’è elevata sostituibilità tra le risorse soggette ad esaurimento e le risorse rinnovabili o riproducibili» (Solow, 1974, p. 11,trad. mia).
Il brano riportato va esaminato con attenzione. Solow ipotizzò che il mondo possa «fare a meno delle risorse naturali» sostituendole con «altri fattori»; ma per poter fare a meno effettivamente della Natura questi fattori non dovrebbero derivare da quest’ultima. Da cosa, allora? Forse l’economista statunitense, credendo ciecamente nel progresso tecnologico, pensò a risorse “artificiali” prodotte dall’uomo, ma risorse del genere non potrebbero che essere create ex-nihilo. Lucrezio un bel po’ di anni fa scrisse: «Nil posse creari de nilo […]» (Lucrezio, p. 37), cioè «nulla può essere creato dal nulla»; si può discutere se una divinità possa farlo (Lucrezio pensava di no), mentre è incontrovertibile che noi mortali non possiamo creare un bel niente, come sappiamo dalla Legge della conservazione della materia-energia (o Primo Principio della termodinamica) e come sottolineato anche da qualche grande economista: «l’energia e la materia, a livello macroscopico, non possono essere né create né distrutte», scrisse Nicholas Georgescu-Roegen, geniale matematico, economista e filosofo romeno naturalizzato statunitense (1984, p. 205 ed. it.) (4).
E se le cose stanno così, appare evidente che tutte le attività economiche utilizzano necessariamente materiali prelevati dai “serbatoi” della Natura (Pearce, Markandya, Barbier, 1989, p. 26 ed. it.). Pertanto, aver scritto che il mondo può fare a meno delle risorse naturali, come fece Solow, fu una topica colossale, che Georgescu-Roegen commentò con le seguenti parole:
«Bisogna avere una visione molto errata del processo economico nel suo insieme per non rendersi conto che gli unici fattori materiali sono le risorse naturali. Affermare poi che “il mondo può, di fatto, fare a meno delle risorse naturali” significa ignorare la differenza tra mondo reale e paradiso terrestre» (Georgescu-Roegen, 1975, p. 46 ed. it.).
Veniamo all’altra affermazione di Solow, quella secondo cui «c’è elevata sostituibilità tra le risorse soggette ad esaurimento e le risorse rinnovabili o riproducibili». Per quanto riguarda le risorse naturali rinnovabili la sostituibilità con le risorse naturali esauribili effettivamente sussiste, anche se le cose non sono così semplici (5); ma cosa possiamo dire della sostituibilità con le risorse «riproducibili», cioè con il K della funzione di produzione? Secondo Nordhaus e Tobin il capitale è un «quasi perfetto sostituto della terra e delle altre risorse esauribili», ma quanto c’è di vero in questa affermazione?
Torniamo nella nostra bottega di fabbri ed osserviamo l’incudine, il maglio e le altre attrezzature: di cosa è costituito questo capitale? Di metallo e di legno, cioè di risorse naturali. Se si esaurissero le miniere di ferro, i fabbri, per non chiudere bottega, potrebbero sostituire il ferro grezzo con il proprio capitale? Forse sì, fondendo l’incudine ed altri parti metalliche del loro capitale, ma in tal modo essi rimarrebbero senza la loro attrezzatura ed il problema della scarsità della risorsa non sarebbe affatto risolto. In molte altre produzioni, poi, questa sostituzione della materia prima col capitale è del tutto impossibile: le apparecchiature per la produzione di benzina non possono certo sostituire il petrolio!
I grandi economisti del passato avrebbero considerato assurdo pensare che le risorse naturali impiegate nella produzione possano essere interscambiabili col capitale; come abbiamo visto essi ritenevano che la “terra”, oltre al lavoro, è il fattore di produzione “primario”, mentre il capitale è un fattore “secondario”, essendo «una trasformazione fisica di risorse naturali che provengono dal capitale naturale» (Daly, 1996, p. 105 ed. it.).
Knut Wicksell fu molto chiaro in proposito, quando scrisse che «Tutti i beni capitali, per quanto possano apparire diversi, in ultima analisi possono ridursi sempre al lavoro e alla terra» (Wicksell, 1901, p. 149 ed. 1935, trad. mia). Tutto questo venne dimenticato all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, quando i vari Nordhaus, Tobin e Solow (anni dopo tutti insigniti del Premio Nobel per l’economia) intendevano mandare un messaggio rassicurante ai governi ed all’opinione pubblica e dimostrare che gli Autori di The Limits to Growth ed i pochi economisti “pessimisti” sbagliavano a preoccuparsi. Essi osservarono che nel tempo vi era stata una crescita del prodotto ottenuta con un incremento dello stock di capitale a fronte di un minor utilizzo di materie prime ed energia per unità di prodotto, e, manipolando un po’ di matematica, conclusero: “Bene, il capitale sostituisce le risorse naturali!” (6).
«In tutta l’economia matematica», commentò Georgescu-Roegen, «non esiste un altro esempio di una simile profusione di peccati di vuoto formalismo come nell’argomentazione a sostegno di questa tesi» (Georgescu-Roegen, 1979, p. 129 ed. it.). Eppure essa ha avuto un grande successo tra gli economisti mainstream.
La questione della sostituibilità e la funzione di produzione
Come abbiamo visto, nel tempo «la terra e le risorse, il terzo membro della triade classica» erano state «generalmente eliminate» (per usare le parole di Nordhaus e Tobin), e giustamente qualcuno aveva obiettato. Così, per tener conto di queste critiche, nel 1976 l’allora giovane e semi-sconosciuto Joseph Stiglitz (anche lui in seguito vincitore Premio Nobel) propose una funzione di produzione Cobb-Douglas (per un’introduzione ad essa cfr. Perone, 2018) nella quale compariva di nuovo il “terzo fattore”, cioè appunto le risorse naturali (Stiglitz, 1976).
Questa operazione aveva il merito di richiamare l’attenzione sull’esistenza e sull’utilità del capitale naturale − ovvie nel mondo dell’economia produttiva ed in quello della politica internazionale, ma trascurate nei modelli degli economisti (almeno in quelli basati sulla funzione di produzione); di fatto però non era che una formalizzazione dell’idea che le risorse naturali possono essere sostituite con il capitale fabbricato dall’uomo, come Georgescu-Roegen fece subito rilevare.
Le caratteristiche matematiche della funzione Cobb-Douglas sono infatti tali da consentire l’ottenimento del prodotto anche con la quantità di uno dei fattori tendente a zero, purché gli altri fattori aumentino in misura adeguata (Georgescu-Roegen, 1979, p. 130 ed. it.).
Mauro Bonaiuti, uno dei massimi studiosi del pensiero di Georgescu-Roegen, ha scritto al riguardo: «Se, come affermano i neoclassici, la funzione di produzione altro non è che una ricetta, Solow e Stiglitz implicitamente affermano che sarà possibile, riducendo la quantità di farina, cuocersi una pizza più grande semplicemente utilizzando un forno più ampio (oppure due cuochi al posto di uno)» (Bonaiuti, 2003, p. 35).
Qualsiasi persona di buon senso comprende l’assurdità di una cosa del genere. Alla base di questa assurdità c’è il fatto che il processo produttivo è profondamente legato alla Natura: «La produzione», scrisse Karl Polanyi, «è un’interazione tra l’uomo e la natura» (Polanyi, 1944, p. 167 ed. it.). In quale modo avviene questa interazione? Con la trasformazione delle materie prime (la farina e gli altri ingredienti) effettuata dal lavoro umano (quello del pizzaiolo) con l’applicazione di energia pure offerta dalla Natura (l’energia termica della legna che brucia nel forno) e con l’utilizzo di capitale, cioè di strumenti (il forno e la pala) che derivano da risorse naturali “lavorate” in precedenza (Daly, 2014). Se la quantità impiegata di ingredienti “tende a zero”, cosa possibile secondo la funzione di produzione Solow-Stiglitz, per quanto L e K crescano non c’è nulla da trasformare e, semplicemente, non c’è produzione. Dunque ritenere che l’impiego delle risorse naturali in un processo produttivo possa diminuire fino ad annullarsi grazie a maggiori quantità di capitale (o magari di lavoro) vuol dire non comprendere l’essenza stessa della produzione, che è appunto quella di una trasformazione delle materie prime derivanti dalla Natura.
Questa essenza era ovvia per gli economisti del passato (7).
Per fortuna qualche economista eterodosso ha tramandato l’antica saggezza fino a tempi a noi più vicini: ad esempio Oskar Lange, grande economista polacco, scrisse: «La produzione […] ha luogo tramite l’estrazione delle risorse trovantisi in natura, la loro lavorazione e la trasformazione delle loro caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche» (Lange, 1961, Vol. I, p. 3 ed. it.).
La critica di Georgescu-Roegen metteva in evidenza che le risorse naturali non possono essere messe sullo stesso piano del lavoro e del capitale e non possono essere sostituite da quest’ultimo, in quanto hanno un ruolo specifico nel processo produttivo (8): per dirla con Aristotele, esse sono la causa materiale del prodotto, mentre lavoro e capitale ne sono la causa efficiente (Daly, 1996, p. 105 ed. it.).
Marx, non a caso, distinse gli oggetti di lavoro «preesistenti in natura» dai mezzi di lavoro, cioè gli attrezzi con i quali «l’attività umana provoca […] un cambiamento, voluto e perseguito a priori», negli oggetti di lavoro (cioè nelle risorse naturali) (Marx, 1867, pp. 274 e 277 ed. it).
Con la terminologia di oggi diciamo che il lavoro, servendosi del capitale, trasforma materie prime in prodotti (nonché in scarti, come vedremo più avanti); per questa trasformazione si utilizza (cioè si consuma) energia. Lavoro e capitale sono agenti di quella trasformazione e non possono quindi essere interscambiabili col materiale da trasformare: come può la pala del pizzaiolo sostituire l’acqua e la farina? E, se davvero il capitale fosse un «quasi perfetto sostituto della terra e delle altre risorse esauribili», queste ultime sarebbero logicamente un quasi perfetto sostituto del capitale; ma allora perché ci si sarebbe presi la briga di accumulare capitale nel corso dei secoli? Si sarebbe potuto farne a meno utilizzando un «quasi perfetto sostituto», cioè il legno delle foreste, il ferro delle miniere, il petrolio dei pozzi e via dicendo, senza faticare per costruire seghe, picconi ed impianti estrattivi del greggio (9).
Herman Daly notò: «Deve essere chiaro a chiunque possa vedere oltre le operazioni carta-e-matita su una funzione di produzione neoclassica, che il materiale trasformato e gli strumenti della trasformazione sono complementari, non sostitutivi» (Daly, 1990, p. 3, trad. mia). Il fatto che il capitale “riproducibile” (K) derivi in ultima analisi dalle risorse che la Natura ci mette a disposizione fa sì che l’eventuale esaurimento di risorse naturali non rinnovabili, per non diventare la «catastrofe inevitabile» di cui aveva scritto Solow, non può essere affrontato ricorrendo al capitale “riproducibile” e neanche a fantomatici «altri fattori» non derivanti dalla Natura, bensì solo a risorse naturali rinnovabili, nei limiti in cui ciò è possibile.
Se la diversità delle materie prime (cioè delle risorse naturali) rispetto al capitale manufatto o “riproducibile” (K) – e quindi la non sostituibilità delle prime col secondo – non fosse ancora chiara, si consideri la semplice definizione di capitale che diede Vilfredo Pareto: «Diciamo capitale qualsiasi bene economico che serve più d’una volta alla produzione» (Pareto, 1896, p. 50 ed. it.). Nella nostra bottega di fabbri il maglio, l’incudine e la forgia sono usati più d’una volta e sono dunque “capitale”, mentre i pezzi di ferro da battere ed il carbone per scaldarli (cioè la materia prima e la fonte di energia) vengono usati una volta sola, poiché al termine del processo produttivo diventano altro, e cioè prodotti finiti (ferri di cavallo, ringhiere ecc.) e scarti (cenere, fumo, frammenti inutilizzabili ecc.).
Le idee sopra sintetizzate di Marshall, di Pareto, di Lange e di Georgescu-Roegen rispecchiano la realtà della produzione e, in fondo, il senso comune; eppure se molti economisti notissimi e prestigiosi le accettassero le conseguenze per loro sarebbero pesanti: essi, come vedremo più avanti, dovrebbero riscrivere interi pezzi dei loro testi universitari e dovrebbero ammettere che tanti modelli che utilizzano la funzione di produzione (nelle sue varie formulazioni) sono privi di senso, poiché assumono di fatto che le risorse naturali sono ininfluenti sulla formazione e sulla crescita del prodotto; questa può essere un’approssimazione accettabile per analisi parziali e di breve periodo, non certo per analisi della crescita nel lungo periodo, nel quale deve essere necessariamente considerata la crescente scarsità (o, meglio, utilizzabilità) di molte risorse naturali (10).
La “sostenibilità debole”: molto debole
La tesi della sostituibilità delle risorse naturali col capitale manufatto ebbe un periodo di particolare fortuna quando, circa quaranta anni fa, si iniziò a parlare di sviluppo sostenibile. Il criterio di sostenibilità che incontrò più favore fu infatti quello cosiddetto “debole”, secondo il quale ogni generazione dovrebbe lasciare alla successiva uno stock di ricchezza non inferiore a quello ereditato dalla generazione precedente, senza riguardo a quanta di quella ricchezza è costituita da risorse naturali e quanta da capitale fabbricato dall’uomo (cfr. ad es. Tiezzi, Marchettini, 1999, in part. p.42; Guttmann, 2018, pp. 111-3).
Dunque, secondo questo criterio, se le foreste (componente del capitale naturale) lasciate ai nostri figli saranno in quantità inferiore a quelle che ci hanno lasciato i nostri genitori ciò non pregiudicherà la sostenibilità se la differenza sarà compensata da un maggiore stock di seghe e segherie (capitale “riproducibile” fabbricato dall’uomo); allo stesso modo, le risorse ittiche depauperate potrebbero essere compensate con una più ampia flotta di pescherecci ed i giacimenti petroliferi esauriti potrebbero essere sostituiti da impianti per l’estrazione di greggio. L’idea, dunque, è a dir poco bizzarra, ma anche funzionale: con la “sostenibilità debole”, riproponendo la sostituibilità del capitale naturale con il K della funzione di produzione (cfr. Pearce, Markandya, Barbier, 1989, pp. 56-7 ed. it.), si rende “inoffensivo” il concetto di sviluppo sostenibile ai fini della tutela delle risorse della Natura.
Se, tanto per dire, per modellizzare la produzione di tonno in scatola si utilizza uno strumentario analitico che contempla solo lavoratori e macchine inscatolatrici, ma non tonni pescati, e si sostiene (più o meno apertamente) che quelle macchine possano sostituire i tonni, il problema dell’overfishing non si pone per definizione.
Anni fa Herman Daly richiamò l’attenzione degli economisti sull’assurdità di questo approccio, riproponendo la critica di Georgescu-Roegen (Daly, 1997); ne seguì un breve dibattito (sul quale cfr. Bonaiuti, 2001, pp. 108-115; Couix, 2018, pp. 25-6), ma le cose non cambiarono: i non molti economisti ortodossi che si occupano delle risorse naturali infatti s’interrogano ancora oggi se esse siano «essenziali» (cfr. Perman et al., 2003, p. 474-5); sono convinti che la questione vada impostata in base alle elasticità di sostituzione tra esse ed il capitale (ib., p. 475ss.) e concludono che le evidenze indichino «possibilità di sostituzione ragionevolmente elevate» (ib., p. 478, trad. mia).
La sostituibilità, in realtà, sussiste tra i diversi beni capitali; e sussiste ‒ anche se molto meno di quanto afferma la teoria neoclassica con i suoi isoquanti ‒ tra capitale e lavoro; sussiste infine tra le diverse risorse naturali utilizzabili nella produzione: l’alluminio può sostituire l’acciaio (lega di elementi naturali) nella fabbricazione di autoveicoli, la pietra può sostituire il legno nella costruzione di edifici, ecc. La sostituibilità non sussiste invece (se non in modo episodico e trascurabile) tra il lavoro ed il capitale da una parte e le materie prime dall’altra: se il responsabile della fucina resta senza pezzi di ferro grezzo e carbone non può rimediare assumendo più apprendisti e/o comprando più attrezzi, ma deve cessare la produzione, proprio come si legge in un romanzo di Ken Follett: «La fucina era inattiva da un mese perché non avevano più metallo per fabbricare ferri di cavallo e utensili» (Follett, 1995, p. 394 ed. it.).
Che senza materia prima non si possa produrre alcunché è così ovvio che capire perché tanti economisti non ne tengano conto è un interessante oggetto di riflessione (Daly, 1999, pp. 89-90). Proviamo allora a farla, questa riflessione: che le risorse naturali siano indispensabili per la produzione e che il capitale non può sostituirle in quanto esso stesso ne è costituito ( e comunque ha una funzione diversa da esse), è stato pacifico per gli economisti fin quando qualcuno ha iniziato coraggiosamente a denunciare che le risorse naturali sono sottoposte ad una «rack and restless spoliation» (per usare le parole di Pigou, 1932, p. 30); allora le risorse naturali − già avvolte da una cortina fumogena dai neoclassici all’inizio del Novecento − non sono state più considerate indispensabili (dalla teoria economica, beninteso), bensì sostituibili con chimerici «altri fattori» o con il fattore capitale.
A nulla valgono il buon senso, i contributi empirici (cfr. ad es. Malaczewski, 2019) e gli ammonimenti di esperti di varia estrazione, come quelli che nel 2019, nel loro rapporto al Segretario generale dell’ONU, hanno affermato che «la gran parte del capitale naturale non può essere completamente sostituito da infrastrutture fabbricate dall’uomo» (Independent Group of Scientists, 2019, p. xxix, trad. mia).
Le “ricette senza ingredienti” dei manuali di economia
La funzione di produzione come abbiamo visto è paragonabile ad una ricetta, ma una ben strana ricetta, nella quale si prevedono il cuoco (L), le padelle, il forno ed i fornelli (K), ma non gli ingredienti: è una «recipe with no ingredients» (Daly, 1999, p. 91). Gli economisti (quasi tutti) non trovano nulla di strano in questo, dato che si formano su testi che assumono come un dato l’assenza degli “ingredienti”, cioè delle risorse naturali.
Anni fa Herman Daly fece «una ricerca sugli indici analitici di tre fra i testi di macroeconomia più frequentemente adottati11» e verificò che le risorse naturali non erano mai menzionate. Daly concluse: «evidentemente si ritiene che la crescita del Pil sia indipendente dalle risorse naturali» (Daly, 1996, p. 62 ed. it.). Di uno di questi testi – quello, molto diffuso tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, scritto da due noti economisti, Rudiger Dornbusch e Stanley Fischer – possiedo l’edizione italiana; l’ho tirata fuori dalla mia libreria (alzando un po’ di polvere) e ho letto: «Quali sono le fonti di sviluppo del reddito reale nel corso del tempo? La risposta è semplice: in primo luogo, la crescita nella disponibilità dei fattori di produzione e, in secondo luogo, il progresso tecnologico» (Dornbusch, Fischer, 1978, p. 580 ed. it.); i fattori di produzione per gli Autori sono, come prassi, lavoro e capitale (ib., p. 17 ed. it.) e quindi se ne deduce che per essi le risorse naturali non servono alla produzione e quindi “a sviluppare il reddito reale” 12.
Dai tempi della rilevazione di Daly è cambiato ben poco: è già tanto riuscire a trovare qualche manuale universitario di macroeconomia che ammetta che le risorse naturali o le materie prime esistano. Nel celeberrimo Economics di Paul Samuelson, ora co-firmato da Nordhaus, le risorse naturali sono considerate, anche se vengono ritenute un fattore di produzione sullo stesso piano del lavoro e del capitale (Samuelson, Nordhaus 2010, p. 268), confondendo così gli agenti della trasformazione con ciò che viene trasformato. In altri testi scritti da economisti molto autorevoli, come in quello di William Baumol e Alan Blinder, natural resources e raw materials sono giustamente considerati input del processo produttivo (Baumol, Blinder, 2011, pp. 22 e 42), però quando essi utilizzano la funzione di produzione (pp. 102-3) l’analisi riguarda solo lavoro e capitale, le risorse naturali spariscono e sembra non servano più a generare il PIL. Stesso discorso per il testo di Olivier Blanchard e David R. Johnson: qui la funzione di produzione aggregata è introdotta avvertendo che le imprese utilizzano “anche” materie prime (Blanchard, Johnson, 2012, p. 153), ma poi gli Autori le dimenticano nella loro trattazione13.
Nei testi sopra menzionati alle risorse naturali viene dunque riconosciuto un ruolo, sebbene fortemente sottovalutato e non correttamente considerato, mentre in molti altri testi esse sono del tutto ignorate, come ai tempi della rilevazione di Daly. Il diffuso ed apprezzato manuale del docente di Harvard N. Gregory Mankiw, spiega che «la produzione di beni e servizi di una economia, cioè il suo PIL, dipende da: (1) la quantità di fattori di produzione di cui dispone; e (2) dalla sua capacità di trasformare questi fattori, rappresentata dalla funzione di produzione» (Mankiw, 2003, p. 35 ed. it.). Dunque la produzione, secondo questo economista, non dipende anche dalle materie prime e dalle risorse energetiche disponibili, le quali non sono considerate un fattore a sé, né sono incluse nel capitale (la definizione che viene data del capitale non le comprende): semplicemente esse non esistono, ed infatti non sono mai menzionate; l’unica cosa “naturale” di cui si occupa questo testo è il tasso di disoccupazione14. Si noti inoltre l’affermazione sopra riportata, secondo la quale l’economia trasformerebbe i fattori in prodotto. Il concetto viene ribadito con queste parole: «[…] molti economisti considerano la funzione di produzione Cobb-Douglas una buona approssimazione delle modalità con cui il sistema economico trasforma capitale e lavoro in beni e servizi» (ib., p. 331 ed. it., grassetto mio). Lo stesso affermano i menzionati Baumol e Blinder: «È utile pensare al sistema economico come ad una macchina che prende inputs, come lavoro ed altre cose che chiamiamo fattori di produzione, e li trasforma in outputs, cioè nelle cose che le persone desiderano consumare» (Baumol, Blinder, 2011, p. 22, trad. mia). Gli studenti che si formano su questi testi, dunque, imparano che al fabbro non occorrono né ferro grezzo né carbone: questi materiali possono restare nelle miniere, poiché ciò che il bravo artigiano fa è trasformare sé stesso, l’incudine ed il maglio («lavoro ed altre cose che chiamiamo fattori di produzione») in ferri di cavallo e ringhiere metalliche; ed in una fabbrica di tonno in scatola gli operai e le macchine inscatolatrici si trasformerebbero, secondo Mankiw, in gustosi tranci di tonno. Il processo produttivo sarebbe cioè una sorta di “trasmutazione della materia”. Mankiw, come abbiamo visto, afferma che «molti economisti» la pensano così, ma appare fin troppo ovvio che questi «molti» sbagliano, dato che, come si è detto, non è il sistema economico (non meglio identificato) a trasformare capitale e lavoro in prodotti, bensì sono capitale e lavoro a trasformare le materie prime (risorse naturali) in prodotti, consumando energia. C’è da aggiungere che per fortuna le cose vanno così, perché i lavoratori non sarebbero affatto contenti di essere trasformati in beni o in servizi!15
A conferma della sua concezione Mankiw fa il seguente esempio: «Considereremo il processo produttivo di un panificio: il forno e le altre attrezzature sono il capitale; i lavoratori assunti per fare il pane sono il lavoro; le pagnotte sono il prodotto. La funzione di produzione del panificio mostra che il numero di pagnotte prodotte dipendono [sic] dalla quantità di attrezzature produttive e dal numero dei lavoratori» (Mankiw, 2003, p. 36 ed. it.). E non anche dalla farina, dal lievito, dall’acqua e dal combustibile per scaldare il forno? Analogo l’esempio che si legge nel manuale di Charles I. Jones (docente alla Stanford University), che riguarda la produzione di gelati: anche qui il “messaggio” è che i gelatai (il fattore lavoro) producono gelati senza acqua né latte né zucchero né cioccolato (né polverine), ma solo con le gelatiere (il capitale)… però ferme, dato che di energia non si parla (Jones, 2014, p. 70).16
Di fronte ad argomentazioni di questo tipo, Herman Daly scrisse che «la funzione di produzione neoclassica è peggio dell’alchimia […] Gli economisti neoclassici, senza arrossire, scrivono equazioni nelle quali per ottenere flussi di output di materia non sono richiesti flussi di materia come input» (Daly, 1999, p. 91, trad. mia). 17
Un (altro) caso di rimozione kuhniana
Com’è possibile che importanti economisti scrivano simili spropositi?
Per rispondere a questa domanda credo sia utile rammentare quanto accadde dopo che alcuni economisti − ed in particolare Joan Robinson, Luigi Pasinetti e Pierangelo Garegnani − mossero nei confronti della funzione di produzione aggregata la critica al concetto di capitale (cfr. Pasinetti, 2000; Perone, 2018). Questa critica faceva vacillare la teoria della distribuzione neoclassica, per cui gli economisti che si richiamavano a quella scuola di pensiero, ammettendo l’esistenza di quella “crepa” nel loro mirabile “edificio”, cercarono escamotages per “puntellarlo”; quindi si arresero e accantonarono per un po’ le funzioni di produzione aggregate; infine hanno tranquillamente ricominciato ad usarle come se nulla fosse accaduto (Pasinetti, 2000; Felipe, McCombie, 2013, pp. 5-7). Si è trattato dunque di «Un fenomeno esteso di diffusa amnesia», che «può solo spiegarsi in termini più appropriati di ‘soppressione’ o ‘rimozione’. Si tratta forse di uno degli esempi più interessanti di quel processo descritto da Kuhn (1962), mediante il quale la scienza “normale” dominante sopprime, e quindi ignora, i casi di contraddizione e di anomalia al suo interno» (Pasinetti, 2000, p. 215).
Herman Daly ha dato una spiegazione analoga del comportamento degli economisti che hanno usato e continuano ad usare la funzione di produzione con formulazioni nelle quali le risorse naturali non esistono oppure sono considerate sostituibili col capitale: gli economisti ortodossi non si accorgono (o fanno finta di non accorgersi) quanto ciò sia assurdo perché il loro paradigma kuhniano o, se si preferisce, la loro schumpeteriana “visione preanalitica” (Schumpeter, 1954, pp. 51ss. ed. it.; Daly, 2017, p. 87), glielo impedisce.
Inserire in modo corretto le risorse naturali nella funzione di produzione (o abbandonarla) costringerebbe gli economisti ad affrontare problemi che per vari motivi è più “comodo” lasciar perdere. Piuttosto che ammettere di insegnare e sostenere una teoria priva di fondamento, e cambiare paradigma, è più facile dare ad intendere che il processo produttivo funzioni come il panificio di Mankiw. La cosa viene talvolta fatta passare come un’innocua ipotesi semplificatrice: il menzionato ponderoso trattato sulla funzione di produzione − che pure sottolinea i tanti altri problemi che essa comporta − inizia così: «Assumiamo che non ci sia alcun input materiale (questo semplifica la trattazione ma non incide sull’argomentazione)» (Felipe, McCombie, 2013, p. 24, trad. mia). Se si ammette che la produzione non ha alcun input materiale (cioè naturale), si finisce per credere che per la crescita servano solo più capitale, più lavoro (purché “flessibile”…) ed una buona dose di progresso tecnologico: «Possiamo pensare che le fonti della crescita siano costituite dall’accumulazione del capitale e dal progresso tecnologico […] Una crescita sostenuta richiede un progresso tecnologico sostenuto», scrivono in un loro testo Blanchard, Amighini e Giavazzi (2016, p. 297); non c’è dubbio, ma richiede anche un consumo “sostenuto” di capitale naturale (miniere, pozzi di petrolio, falde acquifere, foreste, ecc.).
Adam Smith, al quale così spesso gli economisti ortodossi si richiamano per esaltare le virtù del mercato, scrisse che (quello che lui chiamava) il “capitale circolante” (in pratica i semilavorati necessari alla produzione dei beni finali) «richiede un’alimentazione continua senza la quale cesserebbe presto di esistere. Questa alimentazione deriva principalmente da tre fonti: il prodotto del suolo, delle miniere e della pesca» (Smith, 1776, p. 396 ed. it.). Il “padre Adam” non avrebbe potuto essere più chiaro! E gli storici dell’economia confermano che «il capitale naturale è una determinante fondamentale dello sviluppo economico» (Willebald et al., 2015, p.1, trad. mia). Invece, come abbiamo visto, celebri economisti elaborano modelli nei quali la dotazione del capitale manufatto può essere aumentata senza un corrispondente aumento delle risorse naturali impiegate, cosa che è «uno splendido trucco da prestigiatore» (GeorgescuRoegen, 1979, pp. 130 ed. it.).
L’approccio mainstream, utilizzando la funzione di produzione aggregata, evita di porre l’attenzione sul fatto che per produrre beni e servizi è necessario un continuo input di risorse naturali e che quindi per far crescere quella produzione anche quell’input deve crescere; e se quell’input cresce viene consumata rapidamente ed in modo irreversibile la componente non riproducibile del capitale naturale (è il caso per esempio del petrolio, ma non solo18) e si sfrutta la componente riproducibile oltre le sue capacità di rigenerarsi (per esempio le foreste: ogni secondo – sottolineo, ogni secondo – nel mondo viene distrutta un’estensione di foresta pari ad un campo di calcio). Da tempo è stato osservato che «ci “mangiamo” il capitale naturale che abbiamo ereditato, a svantaggio del nostro futuro e di quello dei nostri figli» (Mishan, 1984, p. 126 ed. it.), ma gli economisti mainstream non se ne curano: alcuni ritengono che la tecnologia eliminerà ogni scarsità facendo trovare risorse oggi inaccessibili (a quali costi? E con quale e quanta energia?); altri pensano che, sempre grazie a nuove tecnologie, si realizzerà il cosiddetto decoupling, cioè il “disaccoppiamento” tra crescita della produzione e consumo di risorse (se ne parla da almeno cinquant’anni ed a livello globale non si è affatto verificato); altri ancora sono ottimisti sul futuro delle risorse perché ritengono che l’economia del futuro ne consumerà meno perché sarà sempre più basata sui servizi (come se la difesa, l’istruzione, la finanza ecc. non avessero bisogno di materiali ed energia).
Nell’attesa che queste previsioni si realizzino (cosa che potrebbe non verificarsi mai), il capitale naturale continua ad essere consumato o danneggiato sempre più: «Lo stock di capitale naturale attualmente si sta deteriorando ben oltre il suo tasso di rigenerazione» ‒ si legge nel menzionato rapporto al Segretario generale dell’ONU ‒ e ciò «sta portando a cambiamenti potenzialmente irreversibili e sta mettendo a rischio la stabilità del sistema della Terra» (Independent Group of Scientists, 2019, p. 94, trad. mia); ma questo deterioramento irreversibile e pericoloso del capitale naturale viene considerato non un costo, ma un beneficio, in quanto fa aumentare il PIL (la Y della funzione).
Cosa viene prodotto – quando si produce – oltre ai prodotti
La produzione di beni e servizi genera scarti, e quando gli scarti sono costituiti da fumi, rifiuti tossici, radiazioni ecc., si verificano quelle che in microeconomia sono dette “esternalità”. Ogni testo di microeconomia ha il suo bravo capitolo sulle esternalità, nel quale il professore di turno ammette, spesso con riluttanza, che l’attività di un’azienda può avere effetti negativi sull’ambiente, sulla salute e sull’attività di altri; poi, quando uno studente o una studentessa come mia figlia, fatta indigestione di curve d’indifferenza e saggi marginali di sostituzione, passa al libro di testo di “macro”, nota che un siffatto capitolo manca: l’attività della totalità delle aziende misteriosamente non produce più scarti e non ha quindi alcun effetto sull’ambiente. I macroeconomisti, infatti, non solo pensano di “preparare cibi senza ingredienti” come Mankiw con le sue pagnotte e Jones con i suoi gelati ma, utilizzando la funzione di produzione, non considerano neanche gli scarti di quel forno e di quella gelateria.
Come nel caso del ruolo delle risorse naturali, anche per gli scarti della produzione è stato così dimenticato l’insegnamento dei Maestri del passato: quello di Marx, ad esempio, che scrisse della «devil dust» derivante dalla lavorazione del cotone e degli altri «escrementi del processo lavorativo» (Marx, 1867, p. 304 ed. it); e quello di Jevons, che trattò degli oggetti con valore nullo e negativo scrivendo tra l’altro che «ogni fornace produce ceneri, rifiuti o scorie» (Jevons, 1888, p. 127,trad. mia). Invece, nella bottega del fornaio di Mankiw e nelle “cucine” degli economisti che la pensano come lui «Non ci sono croste, bucce, gusci, conchiglie, o residui, né c’è calore residuo del forno da sfiatare» (Daly, 1997, p. 261, trad. mia).
Fuor di metafora, «gli scarti, proprio come le risorse naturali, non sono in alcun modo rappresentati nella funzione di produzione standard» (Georgescu-Roegen, 1975, p. 38 ed. it.). E poiché quegli scarti molto spesso provocano inquinamento ambientale, nei modelli basati sulla funzione di produzione, oltre a non essere considerato il consumo di capitale naturale e quindi l’eventualità che risorse naturali indispensabili possano diventare scarse o possano esaurirsi, è anche esclusa per definizione la possibilità del verificarsi dell’inquinamento e del cambiamento climatico. Gli economisti però continuano ad utilizzare la funzione di produzione perché, anche se non possono più negare la gravità dei problemi ambientali (cosa che fino a non molto tempo fa molti di loro facevano), sono convinti che con qualche tassa o qualche accordo tra “inquinatori” ed “inquinati” si possa sistemare tutto; aggiungono che con più crescita avremo i fondi per le spese di disinquinamento (cfr. ad es. Ciocca, 2020) e concludono che grazie alle mirabolanti tecnologie del futuro il problema si risolverà da sé: «l’estrazione dei materiali e la formazione di inquinamento dapprima raggiungeranno un picco, poi tenderanno ad azzerarsi [asymptote to zero]» (Liebreich, 2018, trad. mia).
In realtà l’assunto che il progresso tecnologico risolverà ogni problema ambientale si basa su due presupposti fallaci. Il primo è che in futuro si adotteranno solo tecnologie “buone”, mentre nel corso della Storia nuove tecnologie hanno contribuito in molti casi non ad inquinare meno, bensì di più, e non si comprende perché le cose in futuro dovrebbero andare diversamente.19
Il secondo presupposto fallace è di tipo scientifico: quand’anche venissero adottate solo tecnologie “verdi”, l’inquinamento non potrà mai azzerarsi poiché quegli «scarti [che] non sono in alcun modo rappresentati nella funzione di produzione standard» sono un effetto necessario ed ineliminabile dell’attività economica. Perché? Torniamo al verso di Lucrezio, in precedenza citato solo a metà: «Nil posse creari de nilo neque quod genitum est ad nil revocari», cioè «Nulla può essere creato dal nulla né, una volta nato, ritornare al nulla» (Lucrezio, p. 37). Proprio così: il processo economico è assoggettato alla menzionata Legge della conservazione della materia-energia: come ha scritto il compianto Giorgio Nebbia, «i cicli economici consistono nel prelevare dei beni materiali dai corpi naturali – aria, acque, suolo, depositi o stocks di minerali, rocce, combustibili fossili – nel trasformarli in oggetti utili, con inevitabile formazione di scorie e di rifiuti che finiscono nei corpi naturali» (Nebbia, 2007, grassetto mio). E se produzione e consumo implicano necessariamente un certo volume di scarti, cioè inquinamento, un maggior volume di produzione e consumo (cioè la tanto agognata crescita del PIL) implica necessariamente un inquinamento maggiore20. Questo effetto si potrà limitare grazie all’utilizzo esteso di tecnologie più rispettose dell’ambiente e che favoriscano processi di riciclaggio (sempre che vengano messe a punto ed effettivamente applicate), ma non annullare, poiché nessuna tecnologia potrà consentire all’uomo di violare una legge della fisica (e di contraddire Lucrezio).
Conclusioni
Schumpeter scrisse: «[…] è pratica comune ragionare come se esistesse una funzione di produzione sociale […] [ma] il diritto logico di usare questo concetto dev’essere acquisito mediante prova» (Schumpeter, 1954, Vol. III, p. 1262 ed. it.). Schumpeter non fu il solo grande economista del passato ad aver preso le distanze da questo strumento di analisi. Eppure la funzione di produzione aggregata oggi «è indubbiamente uno dei concetti più largamente usati nella teoria economica» e «il core della teoria macroeconomica neoclassica si basa sulla funzione di produzione aggregata, in una forma o in un’altra» (Felipe, McCombie, 2013, pp. 1, 3). Ma questo modello occulta il fatto che la produzione richiede il consumo – in larga misura irreversibile − di capitale naturale.
Utilizzando la funzione Y = f (L, K) (o formulazioni analoghe) gli economisti assumono – a volte esplicitamente, a volte senza rendersene conto − che il capitale naturale non serva a nulla, oppure possa essere sostituito da “cose” fabbricate dall’uomo, oppure possa essere tralasciato in quanto disponibile all’infinito, magari grazie alla forza del pensiero21. Inoltre, la funzione di produzione occulta la formazione degli scarti, cioè l’inquinamento ambientale: i 35 miliardi di tonnellate di CO2 che vengono immessi ogni anno nell’atmosfera alterando il clima e gli 8 milioni di tonnellate di plastica che arrivano ogni anno negli oceani avvelenandoli (e avvelenandoci), derivano da processi produttivi, ma per la funzione di produzione, e quindi per i modelli che su di essa si basano, non esistono.
Gli ecological economists hanno perciò da tempo criticato la funzione di produzione, ma pur avendo salde fondamenta logiche e scientifiche, e pur sollevando questioni centrali per il futuro del genere umano, quelle critiche non sono state prese in considerazione: gli scritti di Georgescu-Roegen, Herman Daly, Juan Martinez-Alier e di pochi altri economisti ecologisti (nessuno di loro premiato col Nobel, ça va sans dire) sono stati abbandonati «alla critica roditrice dei topi». Questo dovrebbe al contrario essere il destino della funzione di produzione tradizionale, in quanto essa fornisce una rappresentazione della realtà incompleta, distorta e pericolosa. Noi invece «abbiamo bisogno di modelli economici che riflettano correttamente le basi fisiche ed ecologiche dell’attività economica», come scrissero alcuni economisti ambientalisti nell’ormai lontano 1997 (Ayres et al., 1997, p. 15, trad. mia) e come in sostanza è stato ribadito a distanza di oltre vent’anni in un rapporto dell’OCSE (OECD, 2019, pp. 13-4).
Ci si potrebbe, alla fine, chiedere: perché questo penoso annaspare oltre i limiti della ragionevolezza scrivendo che si può fare a meno delle risorse naturali o che è possibile sostituirle col capitale? Perchè continuare a proporre «equazioni nelle quali per ottenere flussi di output di materia non sono richiesti flussi di materia come input»? La risposta è nell’approccio degli economisti mainstream, fermi nella convinzione che la crescita del PIL possa e debba proseguire all’infinito22. Kenneth Boulding a questo riguardo disse: «Chiunque creda che la crescita esponenziale possa continuare per sempre in un mondo finito o è un pazzo o è un economista»23. Questo accostamento ai pazzi non ha però turbato gli economisti (non saprei dire se l’accostamento agli economisti abbia turbato i pazzi). Così, sono pochi quelli che si occupano degli effetti dell’attività economica sull’ambiente e pochi quelli disposti ad ammettere che la finitezza della Terra implica che il suo utilizzo come serbatoio di risorse e come pattumiera abbia dei limiti, e che questi limiti in molte aree del Pianeta sono stati già superati. Sono invece tanti quelli intenti a discettare sui decimali di PIL del prossimo trimestre e tanti quelli che, di fronte ai rischi ambientali, non sanno far altro che ripetere due stupidi luoghi comuni: “la tecnologia risolverà ogni problema“ e “da Malthus a The Limits to Growth i profeti di sventura hanno sempre sbagliato e quindi continueranno a sbagliare”24.
Gli economisti dovrebbero viceversa riconoscere che l’economia deve avere una scala appropriata alle dimensioni dell’ecosistema e trarne le conseguenze teoriche e fattuali. Jørgen Randers (uno dei coautori di The Limits to Growth) ha scritto al riguardo: «Nel lungo periodo l’umanità non può usare più risorse e generare più emissioni di quante la natura può fornire o assorbire in maniera sostenibile. In altre parole l’impronta ecologica non può crescere indefinitamente perché il pianeta è fisicamente limitato. Per forza di cose il superamento è temporaneo. Ogni volta che sfora, l’umanità deve rientrare in un territorio sostenibile, o attraverso un declino controllato o con un collasso indotto dalla natura (o dal mercato)» (Randers, 2013, cap. 11 punto 5).
Fisici, climatologi, ecologi ed altri scienziati hanno tante volte avvertito che proseguendo le tendenze in atto della produzione e del consumo quel collasso arriverà (cfr. ad es. Ripple et. al., 2017). Di fronte al profilarsi di questi scenari globali drammatici, la sensibilità su questi temi di recente è molto cresciuta (anche se in concreto si fa molto poco): si pensi ai Fridays for Future, alle iniziative di diversi governi ed organizzazioni internazionali, all’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco… Perciò è deprimente che tanti importanti economisti rifiutino di adottare «modelli economici che riflettano correttamente le basi fisiche ed ecologiche dell’attività economica», continuando a rappresentare nei loro testi e nei loro modelli un mondo inesistente nel quale è possibile produrre pagnotte senza ingredienti e senza combustibile per il forno, e nel quale quella produzione non genera fumi né rifiuti di alcun tipo.
Mi consola un po’ il fatto che mia figlia abbia preso un buon voto all’esame di economia politica.
Comments
L'autore con una certa umiltà e espediente retorico lo presenta come una occasionale rivisitazione di studi, ma in realtà si tratta della conclusione di una erudita, ricca e sofisticata rassegna sulla funzione di produzione e sull'impiego delle risorse naturali disponibili e/o tecnicamente rese economiche.
Una limitativa nota politica marxiana a margine può richiamare il fatto che la classe dominante ha programmaticamente imposto la antiscientifica e pseudo-metafisica neoclassica e quindi la specifica funzione di produzione per motivi ideologici. E ciò, tra patentesi, non ha mai disturbato i pretoriani della sinistra, anzi.
Tenuto conto della violenta controreazione del capitale e della classe dominante a inizio anni settanta, con tutte le disastrose conseguenze neoliberali, quando respinsero ogni ammodernamento politico del capitalismo, per promuovere all'opposto una intensa retrocessione medievale, ogni riflessione razionale sulla gestione del capitalismo in rapporto alle risorse vive e materiali va modulata su quello che è possibile fare nel capitalismo attuale, della autonomizzazione del capitale fittizio e della moneta fittizia, e del riduzionismo a asset finanziario di ogni realtà mondana e pure extra-mondana.
Altrimenti la riflessione razionale rischia di esulare nell'astrattismo, assumendo che le zampe dei cani, come le gambe del capitalismo, siano assiomaticamente e pseudometafisicamente diritte.