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poliscritture

Sraffa e il valore

di Franco Romanò

sraffa y gramsciEsergo

“Tutte le epoche in regresso e in dissoluzione sono soggettive, mentre tutte le epoche progressive hanno una direzione oggettiva.” W. Goethe nei colloqui con Eckermann

«La posizione consapevole significa che lo scopo precede il risultato. Questo è il fondamento dell’intera società umana» (14). 14 Ont. II, p. 739. Lukacs

Sraffa dopo Graziani di Emiliano Brancaccio

L’interpretazione del sistema sraffiano suggerita da Augusto Graziani può essere intesa non come un’alternativa ma come un possibile complemento delle analisi tradizionali di tipo classico-keynesiano. La chiave di lettura grazianea sembra particolarmente adatta a descrivere la dura realtà del comando capitalistico contemporaneo e pare suggerire una interpretazione dello schema di Sraffa in chiave “rivoluzionaria”, critica verso le concrete possibilità del riformismo politico.

 

Premessa

Il punto di partenza scelto, per ricostruire l’opera di Piero Sraffa, sono Le note di lettura sulle teorie avanzate del valore. Si tratta del resoconto trascritto delle sue lezioni, alternate da altre note e riflessioni. Si tratta di un corpus fortemente magmatico, spesso colloquiale, non sempre chiaro. Il testo su cui ho lavorato è quello che si trova in rete a questo link:

Sraffa Papers Trinity 2.0 Arrangement D2/4 Lecture Notes on the Advanced Theory of Value, 1928-31. Arrangement and Transcriptions by Scott Carter*

Il primo problema da affrontare riguarda naturalmente la traduzione e questo a sua volta presuppone una riflessione preliminare sullo stile di Sraffa, che mette a dura prova per le sue caratteristiche fortemente ellittiche, che contraddistinguono peraltro la sua intera opera, a parte Produzione di merci a mezzo merci, che tuttavia sarà scritto nel 1960, dopo un lungo peregrinare fra teoria economica, urgenze politiche e crisi personali. Sraffa inizia spesso un discorso per poi abbandonarlo con improvvise mosse del cavallo che portano in un’altra direzione, le quali non sembrano avere nessi con quella precedente. In realtà non è così, c’è sempre uno scopo che pian piano viene alla luce, ma seguirlo nelle sue peregrinazioni implica sempre il rischio di perdersi. Considerando l’insieme della sua opera, l’immagine migliore che mi viene in mente è quella di un grande laboratorio, non troppo diverso dai Grundrisse e, come in quel caso, è tempo perso soffermarsi sulle contraddizioni – che è scontato si trovino – ma bisogna piuttosto cercare d’individuare i percorsi diversi e gli intrecci possibili che ne possono o derivare e di cui il libro del 1960 costituisce di certo un punto fermo per Sraffa, ma non necessariamente per chi si dedica all’insieme della sua opera. Tuttavia, per cominciare bisogna per forza fare delle scelte e ho pensato che tradurre tutto sia troppo dispersivo, anche perché alcuni passaggi sono poco chiari e lo stesso trascrittore si trova in difficoltà. Ho deciso allora di operare per tagli – a volte molto lunghi. Le parti tradotte sono seguite da riflessioni e commenti sul testo. La versione inglese trascritta, tuttavia, viene pubblicata per intero come appendice, suddivisa in capitoli, così che ognuno potrà, volendolo, avere un’idea completa del testo alla fonte Il criterio seguito per arrivare a tale suddivisione è molto semplice: quando è Sraffa medesimo a dire con chiarezza che si cambia argomento. Leggendolo si capirà per quale ragione lo stesso trascrittore Scott Carter sia costretto a continue note redazionali, cui pure io ho dovuto fare ricorso.

Tuttavia anche tale criterio, permette di superare alcune difficoltà, ma non tutte. La prima consiste in questo: mentre teneva le Lezioni, Sraffa scriveva anche altro e altrettanto importante. Ho pensato allora che fosse necessario adottare anche una sorta di sguardo laterale che sarà rivolto ad alcune ricerche di chi ha già messo da tempo le mani nell’archivio di Sraffa, scegliendo però un approccio che, pur nella flessibilità necessaria, vuole essere il più possibile coerente e rigoroso: privilegiare quegli autori e quelle riflessioni e analisi che prendono in considerazione gli scritti di Sraffa coevi alle Lezioni, ma non sempre consonanti con le medesime. Infine, arriviamo alla terza e ultima difficoltà. La ricerca di Sraffa è segnata da una cesura temporale – gli anni che dedica alla cura dell’opera omnia di Ricardo – e dalla ripresa negli anni ’40, quando riparte dallo stesso punto dove si era interrotto, ma in una situazione molto cambiata. Anche la ripresa può essere suddivisa in due momenti distinti: la pubblicazione dell’introduzione all’opera di Ricardo del 1951 con un saggio altrettanto importante di Giorgio Gattei, infine Produzione di merci a mezzo merci del 1960. Anche in questo caso. è impossibile rivolgersi al testo del 1960 senza considerare il precedente. In sostanza, l’unico modo di approcciare un’opera così singolare come quella di Sraffa, è di aderire a propria volta a un metodo ellittico quanto il suo, fatto di accostamenti paratattici e analogie.

La convinzione che mi sono fatto è che la sua opera vada vista non solo come un ritorno all’economia classica e un rifiuto dell’aberrazione marginalista, ma come un tentativo grandioso e non importa se pienamente riuscito o meno, di fondare su basi diverse la scienza economica come strumento di riorganizzazione di una società piuttosto che come semplice critica dell’economia politica capitalistica; dunque un tentativo di sottrarre l’economico al giogo capitalistico per ricondurlo a strumento di organizzazione di una società. Un ulteriore chiarimento è forse necessario. Quando Sraffa parla di società o addirittura di comunità non intende un organismo armonico, sebbene l’armonia sia una delle sue aspirazioni. Sraffa non ignora che la società è terreno di conflitti e lo dice esplicitamente anche nelle note sulle lezioni. In Produzione di merci a mezzo merci e precisamente nel capitolo in cui sostiene che la ripartizione del reddito fra salari e profitti dipende dai rapporti di forza, si esprime a mio avviso in modo più che chiaro. In questo senso Sraffa a me pare si collochi nel solco di Marx, ma per andare oltre, ragionando cioè come un uomo, un pensatore e un economista che si trova già nella fase di transizione e non più solo in quella di messa punto degli strumenti di una critica dell’economia politica. Quello era stato il compito prevalente di Marx e dei primi che si posero anche il problema di coprire i vuoti o le aporie lasciate dal Moro, in primis Rosa Luxemburg. Sraffa, comunista anomalo, come lui stesso si definisce, va considerato a mio avviso come un pensatore della transizione dentro la transizione. L’attenzione dimostrata dalle sue continue discussioni con Keynes sull’Urss, nonostante l’insofferenza del secondo, sono un’ulteriore conferma del suo spirito, per niente solo accademico. Più andavo avanti a leggerlo e più mi domandavo se la ragione del suo interesse per il campo socialista fosse determinato dalla convinzione che la rottura del 1917 sarebbe stata irreversibile, come peraltro hanno creduto in tanti anche fuori dal campo comunista, oppure proprio il contrario! A livello di semplice ipotesi iniziale potrebbero essere vere entrambe, ma spero che nel percorso si chiarirà quale delle due abbia maggiore probabilità di esserlo.

 

Parte I. Le lezioni e le note di lettura

La prima citazione, dopo i saluti di rito e alcune indicazioni su testi contemporanei di economia, sembra a prima vista solo un preambolo colloquiale:

Poi, naturalmente ci sono gli Economisti Classici. La miglior cosa da fare sarebbe di leggerli in originale – sono sicuro che li trovereste più leggibili e meno astrusi dei moderni economisti. Tuttavia, suppongo che ci siano poche probabilità che qualcuno si senta indotto a farlo. In mancanza di questo, una lettura eccellente è quella del professor Cannan: Storia delle teorie della Produzione e della Distribuzione nella Politica economica inglese dal 1776 al 1848. Se leggete questo libro vi invito a una certa cautela riguardo ai commenti del professore, assai critico verso gli Economisti Classici; anzi, pensava che fosse tutto un nonsenso …

Sraffa fa abbondantemente uso dell’ars retorica in questo passaggio, ma nel suo nucleo, se posso usare questa metafora, compare – sotto traccia – ciò che in una partitura musicale si definisce come chiave. Il contesto è decisivo. Sraffa ha già scritto alcune delle equazioni (probabilmente nel 1927 se non addirittura prima), che entreranno in ‘Produzione di merci a mezzo di merci‘ decenni dopo e le ha già sottoposte a Keynes; ma, cosa ancor più importante, è già convinto che il marginalismo – che nel brano citato viene indicato come moderni economisti – non sia una nuova teoria economica ma un’aberrazione. Tuttavia il marginalismo è dominante in ambito accademico e non solo. D’altro canto, su alcune questioni nevralgiche – per esempio la teoria del valore lavoro – Sraffa ha molti dubbi e si trova dunque in una posizione assai scomoda: rifiuta il marginalismo, ma un semplice ritorno ai classici e a Marx non gli sembra possibile. L’ars retorica viene allora in soccorso, ma non è un escamotage. Non è difficile pensare che molti di quegli studenti cui si rivolgeva siano andati poi a leggerli in originale i classici ed era proprio quello che voleva. Lo voleva anche per sé, sebbene una direzione chiara su dove andare probabilmente non l’avesse affatto in quel momento. Tuttavia, questo non gli impedisce di affrontare le questioni di petto come si evince subito dal passaggio successivo.

‘La teoria generale del valore essendo intesa in modo da rendere conto delle caratteristiche comuni e delle diverse condizioni in base alle quali i valori delle diverse merci sono determinate, è necessariamente astratta nei suoi caratteri. Essa si muove a partire da un ristretto numero di assunti e da esse deduce il modo in cui si arriva a raggiungere un equilibrio. Inoltre, potrebbe sembrare a prima vista che tale teoria sia una costruzione puramente logica e dunque che l’attitudine da tenere nei suoi confronti al fine di comprenderne le implicazioni, sia prima di tutto quella di cercare in che misura corrisponda ai fatti, dal momento che le conclusioni saranno rappresentative nella stessa misura; solo in un secondo tempo si seguirà il processo logico di deduzione. Se così è, avere contezza della storia delle dottrine, avrebbe un valore in sé, ma non sarebbe affatto richiesto per la comprensione della teoria in quanto tale. La storia sarebbe semplicemente il report di una serie di errori che sono stato corretti successivamente. Alcuni fra coloro che hanno scelto tale strada hanno stabilito definitivamente che la storia delle dottrine economiche dovrebbe essere solo una storia delle dottrine veritiere …. Ovviamente un punto di vista come questo implica una fede assoluta nella finalità delle dottrine attuali; inoltre esso sorvola sul fatto, almeno così penso, che le dottrine economiche, sia quelle antiche sia moderne, non sorgono soltanto dalla curiosità intellettuale, di scoprire le ragioni di ciò che accade dentro una fabbrica oppure nel mercato. Esse sorgono da problemi pratici che si presentano alla società e alla comunità e che richiedono di essere risolti. Ci sono interessi opposti che supportano una soluzione o l’altra e cercano teoricamente – è un dato universale – argomenti per provare che la soluzione da essi indicata è conforme alle leggi naturali, o all’interesse pubblico generale, oppure all’interesse della classe dirigente o qualunque sia l’ideologia in quel particolare momento dominante’.

Questo brano è più che sufficiente per togliere di mezzo tutta una serie di sospetti su Sraffa, duri a morire, primo fra tutti l’accusa di avere scritto una teoria algida e sostanzialmente asettica, quasi una trasposizione nella teoria economica dei procedimenti delle scienze dure. Vero è che alcune affermazioni e scelte di studio di quegli anni possono fuorviare – risale a quel periodo l’interesse di Sraffa nei confronti della fisica di Poincaré – ma si vedrà successivamente come tale interesse dipende sia un problema specifico – la necessità di avere a disposizione strumenti matematici più sofisticati per la soluzione dei problemi economici – ma più in generale per la vastità dei suoi interessi culturali. Non è il caso di discuterne qui, almeno per il momento, ma prima o poi bisognerà pure prendere in considerazione l’influenza che le discussioni con Wittgenstein ebbero su di lui e viceversa. Inoltre, Sraffa ha ben chiaro, come si evince dal brano citato, che l’economia e la politica economica sono necessariamente oggetto di controversie e di scontri politici ed è impossibile separare la scienza dagli interessi che si coalizzano intorno a una teoria o a un’altra, come ribadisce anche nel prosieguo.

Una volta sorte così le teorie si sviluppano in un modo che è in una certa misura indipendente dagli interessi pratici che le avevano originate. Naturalmente questo è solo parzialmente vero e non segna la fine delle connessioni con le politiche pratiche: nella maggior parte dei casi una teoria che in origine fu usata per supportare una politica data acquisisce gradualmente un aspetto scientifico, cioè si distacca dal problema pratico da cui era sorta. Questa è la ragione per cui essa acquista una grande autorità e finisce per essere considerata come il risultato di ricerche imparziali. Ne consegue che, proprio in ragione dell’indipendenza e del prestigio che ne deriva, la sua solidità nel supportare oppure opporsi a una certa politica ne risulta ancor più accresciuta; perciò e inevitabilmente, la teoria diventa di nuovo oggetto di controversie di carattere pratico. C’è pure un’altra ragione per affermare la necessità della conoscenza della storia delle origini delle teorie economiche al fine di comprenderle. Ogni economista considera che il pubblico cui si rivolge abbia già scoperto, giusta o sbagliata che sia, una spiegazione dei fenomeni economici; perciò un larga parte del suo lavoro è volto alla correzione delle opinion popolari e a dissolvere la vastità dei pregiudizi … Quando poi la teoria si è cristallizzata e si sono dimenticate le modalità in base alle quali è cresciuta, siamo portati a sovrastimare l’importanza di certi elementi perché si sono scordate le ragioni storiche che determinano una larga parte dell’accettazione di una certa teoria. Un elemento di ulteriore disturbo è dato dal fatto che nel background di ogni teoria del valore c’è una teoria della distribuzione. Il problema reale da risolvere e cioè “Perché una merce si scambia con un’altra a una certa ratio?” si trasforma costantemente in un altro quesito: “In che modo il prezzo ricevuto si distribuisce fra i diversi fattori della produzione?” C’è il continuo tentativo di visualizzare nel microcosmo di una particolare merce un processo che invece avviene in tutte le merci, considerate simultaneamente, cioè in una società considerata come un insieme. Spesso le teorie della distribuzione, a loro volta, non sono prese in considerazione come un mezzo per analizzare il processo in base al quale il prodotto viene distribuito fra le diverse classi sociali, ma come un mezzo per dimostrare che il sistema è attuale è sbagliato e bisogna cambiarlo, oppure al contrario e che esso è giusto e deve essere conservato. In questo, invece di un’analisi di ciò che esiste le teorie diventano forme di propaganda …

Contemporanee a queste prime affermazioni affidate alle Lezioni, la ricerca di Sraffa corre su un binario parallelo, sul quale egli affronta di petto la teoria del valore-lavoro, espressione che – sia detto per inciso – Marx non ha mai adoperato. Su questa parte delle riflessioni del nostro, Neri Salvadori e Heinz Kurz hanno scritto un importante saggio di cui mi servirò, anche perché esso riporta citazioni di Sraffa, significative e in dialogo a volte concorde e a volte discorse, con le Lezioni medesime. Questo percorso parallelo confluirà nel libro del 1960. Nel capitolo quarto dell’Introduzione, intitolato La critica di Sraffa alla teoria del valore lavoro, Salvadori e Kurz ricordano che nella prima fase della sua ricerca, fino al 1929 e dunque coeva alle lezioni, Sraffa si oppose all’impiego del concetto di lavoro come quantità di nelle sue equazioni e insistette nell’affermare:

È l’intero processo di produzione che deve essere definito con “lavoro umano” e per questa ragione esso è causa di tutti i prodotti e di tutti i valori. Marx e Ricardo usano la parola lavoro in due diversi significati: il primo è quello già detto il secondo è considerare il lavoro come uno dei fattori della produzione (ore di lavoro, quantità di lavoro ecc). La confusione fra questi due diversi significati portò a un intreccio che considera il valore in termini di quantità proporzionali di lavoro incorporato mentre avrebbero dovuto dire “dovuto al lavoro umano), ma nel primo senso e cioè come quantità non misurabile o piuttosto per nulla una quantità.

Il punto di vista qui espresso da Sraffa in merito alla quantità di lavoro è destinato a mutare, ma la parte più interessante dell’argomentazione, destinata a rimanere, sta nel definire l’intero processo di produzione come “lavoro umano” . L’affermazione ha un profondo senso antropologico e storico (e non vi è dubbio su questo, visto che proprio in quegli anni, Sraffa indirizzerà i suoi studi anche in quella direzione), ma si riferisce al lavoro dell’ente generico (Gattungswesen in Marx), su cui aveva scritto pagine mirabili anche Engels in Dialettica della natura, per esempio riferendosi all’evoluzione della mano. In questo senso è vero che si tratta di una qualità (o niente affatto di una quantità come scrive Sraffa) non calcolabile: non è possibile calcolare in quale momento preciso dell’evoluzione il pollice opponibile ha fatto compiere agli umani il salto che li separa dagli altri primati, oppure quando la mano capace di scolpire l’ossidiana ha scoperto che poteva fare la stessa cosa con il legno. Sappiamo che questo è avvenuto e appartiene all’umano come ente generico, cioè non specializzato, come lo sono invece le api o le termiti. Quando però si esamina cosa sia il lavoro nell’ambito del sistema capitalistico, esso non appare più soltanto come una prerogativa antropologica dell’ente generico, ma viene alienato nella produzione da un comando specializzato che si pone come automa dotato di tecniche specifiche in quanto detentore dei mezzi di produzione ed è in quel momento che diviene anche calcolabile come fattore della produzione. Il ragionamento di Sraffa ha dunque una sua pregnanza che lo porterà a cercare di definire in termini fisici i mezzi di sussistenza, che è uno degli aspetti – per molti – fra i più indigeribili della sua teoria, almeno se ci limitiamo a Produzione di merci a mezzo di merci. Anche il suo scrivere di sussistenza è stato equivocato, anche da me, che in un primo tempo ho pensato a un uso improprio della parola. Oggi sappiamo invece che Sraffa studiò proprio le società primitive: l’equivoco, in parte generato da lui stesso, sta nel fatto che le quantità indicate nelle prime equazioni non si possono riferire a una società primitiva. Sraffa lavora su un doppio registro e non sempre chiarisce quando usa l’uno o l’altro. Nel momento in cui scrive le equazioni ha in mente la nostra società, ma allora cosa cerca Sraffa nelle società primitive e perché parla di sussistenza in due accezioni diverse? Credo che la sua ossessione fossero l’equilibrio e persino l’armonia, che vengono invece sconvolte quando si produce un surplus. In effetti lo dice espressamente ed è questo che rende comprensibili le affermazioni che seguono:

…. Sono invece le quantità di mezzi di sussistenza destinati ai lavoratori ad avere un significato senza alcuna ambiguità, mentre tale ambiguità esiste rispetto al lavoro quantificato. …

Commentando quest’ultimo passaggio Neri Salvatori e Kurz scrivono:

Durante gli anni ’20 in tutte le note e gli scritti di Sraffa compare tale critica a Marx per poi ritornare a Petty e ai Fisiocratici … ‘Essi consideravano la produzione come un flusso circolare (come gli economisti austriaci), piuttosto che una sequenza unidirezionale che dagli originali fattori della produzione porta alle merci finali. …’

Neri Salvadori e Kurz hanno ragione a sottolineare questo passaggio, ma mi convince di meno, invece, l’affermazione che la mancanza di una quantificazione del lavoro, sia ovvia nelle equazioni a prodotto unico e senza surplus, dal momento che tale quantificazione non sarebbe affatto necessaria in quel contesto. Penso infatti che il problema sia da porre in altro modo e lo faccio ponendo un interrogativo: la parola lavoro ha lo stesso significato in una economia in equilibrio statico e in una in cui si produce un surplus? In ogni caso, anche nel caso in cui si decidesse di usare il termine, non si tratterebbe di lavoro salariato.

 

Appendice parte I

Il testo inglese qui di seguito è la trascrizione delle Lezioni di Sraffa sulle Teorie del valore. Si tratta di un testo laboratorio non sempre chiaro. Lo pubblichiamo per intero, a differenza della traduzione italiana, seguendo però l’ordine dei commenti e delle riflessioni contenute nel testo italiano tradotto.

* Sraffa Papers Trinity 2.0 Arrangement D2/4 Lecture Notes on the Advanced Theory of Value, 1928-31. Arrangement and Transcriptions by Scott Carter

Then there are of course the Classical Economists. The best thing would be to read them in the original - I'm sure you would find them more readable and less abstruse than modern economists. But I suppose there is very little chance of inducing anyone to read them. Failing this, an excellent summary, with brilliant criticism, is given by Professor Cannan, History of the Theories of Production and Distribution in English Political Economy from 1776 to 1848. If you read this book you should be careful to take sys towards prof. Cannan's comments an attitude almost as critical as that which he takes towards the Classical Economists - in fact he thinks it is all nonsense. The general theory of value being intended to take into account the common characteristics of the most diverse conditions under which values of different commodities are determined, it is necessarily very abstract in character. It moves from a relatively small number of assumptions and deduces from them the way through which an equilibrium is reached. It might therefore appear at first sight that the theory is a purely logical construction and that the attitude to take towards it in order to understand its implications is simply first to find out to what extent its assumptions correspond to the facts, since the conclusions will be to same extent representative, and then to follow the logical process of deduction. If that were so, then acknowledge of the history of the doctrine would have an importance for its own sake, but it would not be required for the understanding of the theory as it stands. The history would be simply the record of a series of mistakes which have been successively corrected. Of course, this point of view implies an absolute belief in the finality of present doctrines; besides, it overlooks, I think, the fact that economic theories, whether ancient or modern, do not arise out of the simple intellectual curiosity of finding out the reasons for what is observed to happen in the factory or in the market place. They arise out of practical problems which present themselves to society the community and which must be solved. There are opposite interests which support either one solution or the other and they find theoretical, that is universal, arguments in order to prove that the solution they advocate is conformable to natural laws, or to the general public interest, or to the interest of the ruling class or to whatever is the ideology which at the particular moment is dominating. Once they have arisen in this way, theories transform and develop in a way which to same extent is independent from the practical interest from which they have originated. This however is only partially true. But this is not the end of their connection with the practical policies: in most cases a theory which in its origin was used in support of a given policy gradually acquires a scientific aspect, that is, it becomes detached from the practical problem out of which it has arisen. But for this very reason the theory acquires greater authority and comes to be regarded as the result of impartial inquiries. Then, by reason of this independence and of the prestige it derives from it, its effectiveness for supporting or opposing a particular policy is again increased, and thus inevitably the theory again becomes the object of controversies of a practical character. There is also another reason for the necessity of the knowledge of the history of their origin in order to understand economic theories. Every economist finds that the public to whom he addresses himself has already found for himself an explanation, whether right or wrong, of economic phenomena; and therefore a large part of his work is directed to correct popular opinions and to dispel widespread prejudices. Thus every economist tends to frame his theories in such a way that certain elements acquire in them an importance which is entirely out of proportion of the part they play in real life; but reflects the necessity of in which the economist has been of opposing obsolete theories or popular prejudices. And when the theory has crystallized and we have forgotten the way in which it has grown, we are often inclined to over-estimate the importance of certain elements simply because for long forgotten historical reasons they play a very large part in accepted economic theory. A further disturbing element is that in the background of every theory of value there is a theory of distribution. The real problem to be solved by a theory of value, that is: “Why is a commodity exchanged with another in a given ratio?” is constantly transformed into the entirely different one: “How is the price received for the product distributed between the factors of production?”. There is a continuous attempt at visualizing in the micro cosmos of any one particular commodity a process which takes place only in all commodities as a whole, considered simultaneously, that is in society as a whole. And often theories of distribution in their turn are meant not so much as a means to analysing the actual process through which the product is distributed between different classes as for showing either that the present system is wrong and should be changed, or that it is right and should be preserved. Thus from an analysis of what is, it the theory becomes a form of propaganda for what ought to be. Now, the influence of these disturbing elements can be traced in the works of all economists. We must remember that this fact tends to be obscured by the difference between our the modern notion of natural laws and the notion that Adam Smith had, which was typical of eighteenth century thought. We conceive a natural law as the way in which a particular class of events takes place, such that it is inconceivable that they could happen otherwise. But Adam Smith regards natural law as a sort of external force directed to beneficent and harmonious ends, to whose operation it is however possible to escape on condition of becoming liable to a sanction. Now this notion is very well suited when a particular policy, which is advocated, has to be represented as a natural law, in a way in which the modern conception could not possibly be used.

* * * *

Parte II. Sraffa, il valore, il lavoro

Torniamo ora alle lezioni di Sraffa. Le abbiamo lasciate in un momento che possiamo ancora considerare un preambolo, che continua con una divagazione che riguarda in particolare Adam Smith e i presupposti della sua ricerca, che Sraffa vede nella necessità di attaccare il mercantilismo. Nel prosieguo, il discorso si allarga alle concezioni filosofiche ed è proprio su questo argomento che Sraffa fa questa affermazione:

… Dobbiamo ricordare … la differenza fra la moderna e nostra concezione della legge naturale e quella che ne aveva Smith … Noi concepiamo la legge naturale come il modo in cui una particolare classe di eventi si verifica, tale che essa non possa avvenire in nessun altro modo. Per Smith la legge naturale è una sorta di forza esterna direzionata verso fini benefici e armoniosi, ai quali è tuttavia possibile sfuggire, a condizione che si diventi però passibili di una sanzione … Tale nozione è particolarmente adatta quando una particolare politica chiamata in causa deve essere rappresentata come una legge naturale, in un modo cioè che la moderna concezione di legge naturale rifiuta.

Smith era davvero così ingenuo? In realtà, il bersaglio polemico di Sraffa è più vasto. L’idea di far credere che una teoria economica sia conforme alle leggi naturali era certamente il sogno di Smith, tuttavia, la ricerca di Sraffa, non coltiva l’illusione – scientista – di eliminare qualsiasi elemento ideologico (cosa impossibile), ma di ridurne al minimo la presenza in una teoria. Il progetto di preparare l’armatura o lo scheletro di una teoria che almeno nelle sue equazioni di base eliminasse il più possibile l’area dell’arbitrarietà, non è affatto un progetto asettico o neutro, perché è comunque ancorato alla consapevolezza che ciò è possibile fino a un certo punto. Dopo Smith, le Lezioni non potevano che riprendere da Ricardo, cui tuttavia Sraffa dedica poche e scontate affermazioni in questa fase, per concludere poi con Torrens:

… Gli interessi pratici di Ricardo sono più ovvi. Era un uomo d’affari che trascorse gran parte del suo tempo nello Stock Exchange. Il suo interesse nei confronti della politica economica nasceva dalle controversie quotidiane in cui era coinvolto … Solo in tarda età s’interessò di teoria economica e lo fece per un suo personale piacere, scrivendo i Principi di Economia Politica … Il suo focus è interamente dedicato alla distribuzione e la sua teoria del valore va compresa considerando tale punto di vista; perciò essa guarda molto di più al valore dei fattori della produzione piuttosto che al prezzo dei prodotti (a differenza di Smith ndr) … In una lettera a Malthus egli scrive: “Voi pensate che la politica economica sia lo studio sulla natura e le cause della ricchezza; io penso invece che si tratta di uno studio sulle leggi che determinano la divisone del prodotto di un’impresa fra le classi che concorrono alla sua formazione.” …

Nella prefazione dei suoi Principi ritorna sulla questione: “… il problema principale della Politica Economica è quello di determinare le leggi che regolano la distribuzione del prodotto della terra, tutto ciò che viene dalla sua superficie, unito al lavoro, alle macchine e al capitale, fra le tre classi sociali della comunità: i proprietari terrieri, i possessori di capitali necessari alla coltivazione, i lavoratori”.

Le parole usate in tale definizione sono assai significative. S’intende infatti con esse applicare tale definizione alla distribuzione dell’intero prodotto nazionale, ma egli nomina solo i prodotti della terra … Tale teoria della distribuzione costituiva un argomento moltoforte contro le Leggi sul Grano e la controversia che ne sorse … Nelle successive edizioni dei Principi si possono trovare affermazioni opposte a supporto di entrambi i punti di vista … Tuttavia, qualunque cosa egli avesse in mente, la sua teoria del valore fu intesa dai contemporanei in questo modo: che la quantità di lavoro era la sola causa del valore ed è questo in definitiva che importava … Nel conflitto fra lavoro e capitale essa diventava ovviamente un argomento molto forte a favore del lavoro. … Per Torrens, invece, non è il lavoro diretto a determinare il valore, ma il lavoro indiretto, cioè accumulato, che egli identifica con il capitale … Tale affermazione gli permette di sostenere che solo il capitale determina il valore e di dare nello stesso tempio l’impressione che egli consideri anche il lavoro, ma si tratta di una soluzione puramente verbale. McCullogh … cambia la definizione della parola ‘lavoro’ e include in essa ogni cosa suscettibile di influenzare il valore del prodotto e afferma: “Il lavoro può essere propriamente definito come qualsiasi operazione o azione, sia essa compiuta da esseri umani, animali, macchine o agenti naturali che tendono a portare a un certo risultato desiderato”

Ma in questo modo, se i materiali vengono misurati come costo del lavoro, ma direttamente come materiali, ci sarebbe quella stessa omogeneità con la teoria del costi fisici di Petty e dei Fisiocratici …

Il modo in cui affronta il pensiero di Ricardo permette di ribadire il metodo e gli obiettivi che Sraffa si propone. Il suo intento, che è poi la chiave delle Lezioni, sta nel separare le questioni datate dal nucleo veritativo che le proposizioni classiche, tutte – e quindi a partire dai fisiocratici – mantengono ancora, per poterle usare contrapponendole alle teorie marginaliste e alla scuola austriaca. Per questo la sua disamina, vasta e a volte pedante, è tuttavia necessaria. In Produzione di merci a mezzo merci tutto questo lavorio di decenni sfocerà tuttavia in un giudizio molto chiaro contenuto nella Prefazione del libro e ripreso nel capitolo finale intitolato Sulle fonti. Nella prima Sraffa scriverà:

… L’indagine riguarda esclusivamente quelle proprietà di un sistema economico che sono indipendenti da variazioni nel volume della produzione, e nelle proporzioni fra i “fattori” impiegati. Questo punto di vista, che è quello degli economisti classici da Adamo Smith a Ricardo è stato sommerso e dimenticato in seguito all’avvento della teoria “marginale” …

Nel capitolo finale fra i classici verranno recuperati anche Torrens, i fisiocratici e Marx. Il secondo aspetto del suo metodo è basato anche su una sorta di applicazione flessibile del rasoio di Occam. Lo vediamo proprio quando si riferisce al modo in cui vengono recepite le affermazioni di Ricardo: non è tanto importante capire fin nel dettaglio cosa intendesse dire, ma il modo in cui una definizione decisiva come quella del valore che dipende solo dalla quantità di lavoro incorporato è stata recepita. Del resto, tale definizione è addirittura il titolo di un capitolo dei Principi di Ricardo e dunque difficilmente può essere equivocata in quel contesto. Sraffa ritorna sempre a ripetere in forme diverse che una teoria economica non può che risentire dei conflitti sociali che sottostanno ad essa e il problema della distribuzione del reddito fra le diverse classi era ed è il problema dei problemi e lo sarà naturalmente per Marx. Le note che seguono le riflessioni precedenti sono dedicate a Malthus e altri. Pur importanti da un punto di vista storiografico, si possono tralasciare per giungere a una prima svolta nelle Lezioni. In ogni caso e come sempre il testo inglese in Appendice è completo.

… I primi anni settanta costituiscono un momento di svolta nella storia dell’economia. Da un lato Marx pubblicò Il Capitale, dove la critica al sistema capitalistico è interamente basata su McCulloch, una soluzione che sembra sciocca a prima vista; ma lo è davvero? Naturalmente, dal punto di vista della distribuzione, ci sta in essa tutta la differenza fra lavoro umano e lavoro di un cavallo: il consumo di un uomo è parte del prodotto nazionale, quello di un cavallo no. Perché, tuttavia, dovrebbero avere un diverso effetto sul valore del prodotto, nel caso in cui essi svolgessero un compito simile?…

Può sembrare un approccio minimalista l’esempio scelto da Sraffa, tuttavia nella sua affermazione, egli riconosce che la svolta degli anni ’70 gira intorno alla pubblicazione del Capitale. È quanto afferma nel finale, pur lasciando in sospeso una questione rilevante che viene posta dall’interrogativo conclusivo sulla differenza fra il lavoro di un cavallo e il lavoro umano. Tuttavia, subito dopo, egli comincia ad affrontare un’altra questione: la nascita del marginalismo, infatti, è di poco successiva al diffondersi del pensiero di Marx ed è proprio a questa teoria che si rivolge nel prosieguo, con una nuova mossa del cavallo che lascia in sospeso cosa egli pensi veramente, aldilà della battuta su McCulloch, che non riprende esattamente la formula di Marx e anche a questo dovremo dedicare attenzione. Si può anticipare che i problemi che Sraffa lascia in sospeso anche nelle Lezioni, verranno ripresi nel 1940 quando la cura dell’opera omnia di Ricardo sarà conclusa. Così prosegue Sraffa:

… Sull’altro versante, la nuova teoria del valore basata esclusivamente sull’utilità marginale, fu inventata quasi simultaneamente e indipendentemente gli uni dagli altri, in Inghilterra da Jevons, da Menger in Austria e da Walras in Francia, il solo ad essere consapevole di quanto lontano si andasse con il marginalismo e nella prefazione della sua Teoria di Economia Politica afferma che occorreva rovesciare completamente tutte le dottrine nate intorno al binomio Ricardo-Mill e ricominciare daccapo … Il fatto realmente nuovo e che costituì una rottura nella tradizione della Politica economica, era che la teoria marginale fosse proposta da economisti professionali mentre i precursori erano soltanto degli amateurs della materia o peggio … A questo proposito preferisco la visione del problema che hanno il professor Fetter e sir Ashley, e cioè che esiste una stretta relazione fra l’apparire del marxismo e la pronta e straordinaria accettazione della teoria dell’utilità marginale fra gli economisti ortodossi i quali essendo dei conservatori erano soltanto felici di sbarazzarsi della teoria del valore lavoro, nonostante l’enorme autorità della tradizione economica classica.

L’ironia con cui Sraffa ricostruisce tale passaggio storico, mi sembra degna di nota. Il marginalismo, cioè il ritorno all’economia volgare da parte di quelli che chiama amateurs (ma in altre occasioni usa parole ancora più forti), viene fatta improvvisamente propria da illustri accademici. Siamo cioè in un contesto ben diverso da quello descritto in precedenza, laddove Sraffa parlava della cristallizzazione della teoria che porta con sé scorie ideologiche. Nel caso del marginalismo la falsa coscienza è il punto di partenza non la sua deriva e Sraffa in fondo lo dice con tale affermazione, niente affatto neutra e che mi sembra utile riprendere:

… esiste una stretta relazione fra l’apparire del marxismo e la pronta e straordinaria accettazione della teoria dell’utilità marginale fra gli economisti ortodossi i quali essendo dei conservatori erano soltanto felici di sbarazzarsi della teoria del valore lavoro, nonostante l’enorme autorità della tradizione economica classica …

Una ragione dunque del tutto ideologica e connessa con l’osservazione precedente riguardante la svolta degli anni ’70 che si coagula poi intorno alla pubblicazione del Capitale. A questo punto si pone tuttavia un interrogativo. Vista la nettezza con cui Sraffa si esprime nei confronti di una teoria che definirà con il termine di aberrazione, cosa gli impedisce di dichiarare apertamente il suo ritorno all’economia classica e a Marx? La risposta si trova in parte negli scritti coevi alle Lezioni, su cui è necessario ritornare, chiarendo tuttavia che una soluzione definitiva dei dilemmi in cui Sraffa si trova impigliato, la troveremo solo con molta pazienza e molti anni dopo. Peraltro, tale dilemma lo conosciamo già perché è il solito e cioè come tenersi in equilibrio fra la critica radicale del marginalismo e un ritorno sic et simpliciter ai classici, che egli ritiene altrettanto improponibile.

Torniamo allora per la seconda volta al saggio di Neri Salvadori e Kurz dedicato agli scritti coevi alle Lezioni. Nel capitolo del loro saggio intitolato Ulteriori osservazioni, essi così si esprimono:

Per Sraffa la teoria del valore lavoro era la più importante di una singola-ultima-causa-della teoria del valore, prima dell’avvento del marginalismo. Tuttavia, essendo critico nei confronti del marginalismo egli valutava la teoria assai prossima a quel nucleo dell’approccio fisico al problema del costo reale, dal momento che basava la sua spiegazione sullo stesso set di dati fisici: il sistema della produzione in uso, espresso in termini di quantità di prodotto consumato e prodotto, e il salario reale, dati che avevano una esistenza oggettiva e potevano essere misurati fisicamente. … In questo studio noi forniremo alcune evidenze che si trovano negli SP (Sraffa papers ndr), che hanno a che fare con questo tema. In primo luogo, considereremo il primo approccio di Sraffa al problema, quando si domanda se sia solo il lavoro umano a creare valore …

Nella Nota 18, Neri Salvadori e Kurz riportano un documento del ‘29 in cui Sraffa specificò le quantità da prendere in considerazione nella teoria economica in questo modo:

tali sono le quantità di diversi materiali usati o prodotti, terra, quantità di lavoro, lunghezza del periodo. Queste sono le sole quantità che devono entrare come costanti un teoria economica e questo vanno assunto come conosciute e date

Questo dimostra che già dal 1929 Sraffa s’interrogava in materia di lavoro e sulla possibilità di considerarlo come una costante data e dunque da quantificare e come produttore di valore: il suo dubbio riguarda se il lavoro sia il solo elemento a determinare il valore. Anche Neri Salvadori e Kurz fanno risalire agli interessi scientifici che Sraffa coltiva in quegli anni certe sue affermazioni:

Molto probabilmente Sraffa studiò La scienza e l’ipotesi di Henry Poincaré del 1902 e giunse alla conclusione che gli economisti non potevano ignorare le leggi fisiche chimiche e biologiche. Anche questo lo spingeva nella direzione di considerare l’approccio fisico al costo reale piuttosto che una teoria basata sul lavoro e così scrive:

“… la differenza fra costi fisici reali e l’ipotesi di Ricardo e Marx riguarda la teoria dei costi-lavoro, sta nel fatto che la seconda non include nei costi le risorse naturali che vengono usate nel corso della produzione (ferro, carbone ed esaurimento della terra, aria acqua ecc. … Questo perché parlano di energia umana e altre questioni metafisiche”.

Da questa citazione sembrerebbe che Sraffa rifiuti implicitamente il discorso dell’umano come ente generico, dal momento che attribuisce a Marx intenti addirittura metafisici; ma probabilmente la sua è una risposta polemica da leggersi come il riproporsi della consueta oscillazione che è tuttavia destinata risolversi negli anni ’40. Sempre nel 1928, infatti, Sraffa si sofferma su un frammento di Eraclito che recita così: “Ogni cosa si contraccambia con il fuoco, ed il fuoco in ogni cosa come l’oro in merci e le merci in oro.” Riprendono Neri Salvadori e Kurz:

Sraffa scrisse della necessità di trovare un terzo comune in un appunto degli anni ’20. … In esso cercava di chiarificare la relazione fra due diverse teorie del valore. Con la prima si cercava di stabilire come i valori di una merce si rapportino le une con le altre in un luogo e in tempo dati e dunque simultanei, un’altra che prende in considerazione i cambiamenti di valore in una successione di tempi. … La conclusione cui arriva però è assai interessante: porre la questione in questi termini è un trucco verbale

Certo, si può affermare che c’era molta oscillazione e anche molta confusione in queste citazioni degli anni ’20 e infatti Sraffa, agli inizi degli anni’30, si trovava effettivamente in una condizione anche personale di crisi e di difficoltà nello scegliere che strada prendere: anzi, si trovava in uno stallo vero e proprio. Non ringrazieremo mai abbastanza Keynes che, proprio allora, forse intuendo le difficoltà del nostro, ebbe la sagacia di proporgli di curare l’opera omnia di Ricardo, consistente di ben 17 volumi. Sraffa accettò. Fu una cesura salutare che gli permise una via d’uscita, quel tertium che andava cercando anche nella teoria economica. Tornò al problema della sostanza comune alle merci come tertium comparationis nel 1940, dopo che aveva concluso l’impresa monumentale e quando fu internato nell’isola di Man, dove si dedicò alla lettura dell’edizione appena ripubblicata del primo libro del Capitale. Scrisse alcune note che si trovano proprio nella sua copia personale del libro. Esse riguardano il primo capitolo del primo libro, laddove Marx s’interroga sulla sostanza comune delle merci.

 

Appendice parte II

Ricardo’s practical interests are much more obvious. He was a business man and spent most of his life in the Stock Exchange. His interest in political economy originated in the political controversies of his day in which he took part, and

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for many years his contributions to economics were pamphlets of a practical character. Only in the later years of his life did he take an interest in theory for his own sake and wrote his Principles of Political Economy. His theoretical work, notwithstanding its abstract appearance, is deeply influenced by his practical interests. In the first place his interest lies entirely in distribution, and his theory of value is to be understood from this point of view; that is, it is concerned much more with the value of the factors of production than with the price of particular products. The wording of this definition is remarkable; it is intended meant to apply to the distribution of the whole of the national income, but it only mentions the produce of the

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surface of the earth, and regards all capital and all the labourers as only engaged in its cultivation. In one of his letters to Malthus he says: “Political economy you think is an enquiry into the nature and causes of wealth; I think it should rather be called an enquiry into the laws which determine the division of the product of industry amongst the classes who concur to its formation.” And again in the Preface to the Principles he declares that “the principal problem in Political Economy is to determine the laws which regulate distribution”, that is the distribution of “the produce of the earth, all that is derived from its surface by the united application of labour, machinery and capital…among the three classes of the community, namely the proprietor of the land community, namely the proprietor of the land, the owner of the stock or capital necessary for its cultivation, and the labourers by those industry it is cultivated.” The wording of this definition is remarkable; it is intended meant to apply to the distribution of the whole of the national income, but it only mentions the produce of the

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surface of the earth, and regards all capital and all the labourers as only engaged in its cultivation. Ricardo was a city man, in fact he was in his outlook a typical representative of the commercial and manufacturing classes and was not likely to over-estimate the importance of agriculture, as the French physiocrats did, so as to make it include all productive industry. This definition is in fact characteristic of Ricardo’s main interest which was not so much distribution in general between all those who take a part in it as distribution between the landlord on one side and all the others on the other. As Professor Cannan has shown, the origin of the Ricardian theory of distribution is entirely to be found in the Corn Controversy of 1813-15. Ricardo’s scientific interest in economics has already been {?} established in his pamphlets. This theory of distribution was an extremely effective argument against the Corn Laws. “The divergence of interests with regard to the Corns Laws was a typical divergence of the interests of classes, and not of individuals. It was not a question of the rich against the poor, but of the land-owning class against the commercial and manufacturing class.” Ricardo’s theory regarded as the fundamental problem, connected with the cost of production and value, the distribution between the landlord and the other classes; when this was done the division of their share between capital and labour would take place on entirely Corn Laws

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different principles, but changes in the proportions of this distribution would not materially affect the value of the product. The general drift of his argument led up to the conclusion which he often states, that “the interest of the landlord is always opposed to the interest of every other class in the community. His situation is never so prosperous as when food is scarce and dear; whereas all other persons are greatly benefited by procuring food cheap.” This fact is to be kept in mind when we try to interpret Ricardo’s theory of value. The essential thing for Ricardo’s practical purposes was to prove that rent does not enter into the cost of production of that final part of the product which regulates value. For this purpose it was indifferent whether cost of production included only labour or all sorts of also the use of capital; and this explains the carelessness of Ricardo in stating his position in this respect. At a later stage we shall go into the details of the peculiar position which land occupies in economic theory, and we shall see how the modern tendency is to look upon it in very much the same way as upon any other means of production; thus reducing the problem of distribution to the division between incomes from property and incomes from work. But for well over a century the traditional grouping of the classes that take part

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in distribution has been three-fold; that is, it has regarded distribution as taking place between labour, capital and land. The origin of this classification is mainly to be found in the Corn Law controversy in which Ricardo took part. The question whether the Corn Law should be passed or not turned upon the question whether the prosperity of agriculture should be acquired at the cost of an increase in the price of food and therefore through the increase of the manufacture’s costs of production, at the cost of with the result of an industrial depression – or agriculture should have been sacrificed to the prosperity of industry by allowing cheap foreign corn to be imported freely. From this point of view Ricardo’s theory of value, based upon a cost of production from which rent is excluded, was an effective weapon against the Corn Laws. The whole significance of the question whether a given element of expence does or does not “enter into cost of production” being that in the negative sense if it does not it can be taxed or taken away altogether from its recipient, without causing any reaction upon production; whereas if it enters into cost it cannot be taxed without causing a decrease of production. For Torrens, for instance, This, enabling him to say that only capital determines value, gives the impression that he is taking into account both capital and labour; but in fact is solution is purely verbal. McCulloch … changes the definition of the word ‘labour’ so as to make it include everything that may possibly influence the value of the product: “Labour may properly be defined to be any sort of action or operation, whether performed by man, the lower animals, machinery, or natural agents, that tends to bring about any desiderabile result” … But if the materials were not measured by the labor they cost, but directly as material, there would be homogeneity in the theory (physical cost) similar to that of Petty and Physiocrats. The early seventies mark a turning point in the history of economics. On the one hand Marx published the Capital, in which his critique of capitalism is entirely based upon McC. solution seem very silly at first sight. But is it really? Of course, from the point of view of distribution there is all the difference between the work of a man and of a horse: the consumption of man is part of nat. income, that of horse not. But why should they have a different effect on value of product, in cases in which they perform a similar task?

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What Ricardo’s views were on this point is rather obscure, and it would be hard to say whether his theory of value based on the quantity of labour must be taken literally or interpreted as including the use capital amongst costs. Probably, as Professor Hollander as shown in his book on Ricardo, he held different views at different times, and this changing views having been embodied in successive editions of the Principles, the result is that opposite passages from them can be quoted in support of both views. But however the historical point as to the interpretation of Ricardo is settled, it is, I think, true to say that Ricardo’s views on this point are not very important; they play a secondary part in his theory, and, as the question had no practical importance in his time, he certainly gave little thought to it. But soon after the death of Ricardo, with the growth of manufactures and the rapid introduction of machinery, another conflict in the distribution of the national product, the conflict between manufactures (i.e. employers) and their workers, began to take the place of the old conflict between landlords and manufacturers. Up to that time the question of the distribution between capital and labour had remained in the background, both in real life and in economic theory. It now became the central issue

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in both fields. Ricardo’s theory of value, whatever may have been in the back of his mind, or in his footnotes and in his private letters to Malthus and McCulloch, was understood by everybody in his time to mean that quantity of labour was the only cause of value, and this is what in practice mattered. In a conflict between landlords and manufacturers, particularly when this word is meant to include both employers and workers, the theory works in the interest of the manufacturers. But in a conflict between labour and capital it obviously becomes a strong argument in favour of labour. A Socialist school arose in the twenties and thirties of last century which ceased seized this opportunity of using against the capitalist the teaching of what was at the time the most orthodox political economy. The best known of these socialists are William Thompson, who wrote The Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealth most Conducive to Human Happiness, and Thomas Hodgskin, author of Labour Defended against the Claim of Capital; their argument was very simple – since, as Ricardo has proved, all values is produced by labour, all the product must go to labour and nothing must remain for the capitalist and landlord who have produced nothing. This caused a good deal of confusion amongst the orthodox Ricardian economists, who saw their doctrines used in such an unexpected way; and who, as a matter of fact, were already

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realising the difficulty of explaining by the labour theory of value the fact that for commodities which take different periods of time to be produced or require different proportions of fixed and circulating capital, the value is not proportional to the labour required for their production. In this country the prestige of the Ricardian theory was far too great to enable it to be discarded altogether as being, in the circumstances, definitively mischievous. But in America and on the Continent, where Ricardo had had a considerable influence, new schools were formed which were definitely opposed to everything Ricardian. I shall only quote in this respect the opinion of Carey, an American economist who wrote in the forties: “Mr Ricardo’s system is one of discords…its whole tends to the production of hostility among classes and nations…His book is the true manual of the demagogue, who seeks power by means of agrarianism, war, and plunder…The sooner (the lessons which it teaches) shall come to be discarded the better will it be for the interests of landlords and tenant, manufacturer and mechanic, and mankind at large.” But the English Ricardian economists made a whole series of attempts In order to save the substance of the labour theory of value and at the same time taking away from it the anticapitalist implications. Torrens, for example, tried to explain that it is not the labour directly spent in the production of a commodity Carey on Rent in a new continent

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that determines its value; but only the indirect labour, that is, the accumulated labour which enters into its production, which he identifies with capital. This accumulated labour that a product costs is, according to Torrens, the labour which its raw material costs to produce, plus the labour which the machinery employed costs, plus – not the labour actually employed upon it – but plus the labour which the subsistence of this labour costs to produce. Thus he concludes that: “It is always the amount of capital or quantity of accumulated labour and not the sum of accumulated and immediate labour expended on production, which determines the exchangeable values of commodities.” This, enabling him to say that only capital determines value, gives the impression that he is taking into account both capital and labour; but in fact his solution is purely verbal. He remains faced by the same difficulty as the usual form of the theory, since the capital thus defined is proportional to labour. McCulloch has a much more extraordinary way of overcoming the difficulty; he changes the definition of the word ‘labour’ so as to make it include everything that may possibly influence the value of the product: “Labour may properly be defined to be any sort of action or operation, whether performed by man, the lower animals, machinery, or natural agents, that tends to bring about any desiderable result”. The distinction between the operations of man and those of machinery and natural agents is “on the whole objectionable because it gives countenance to the idea that there is some radical difference between the labour of man and of machinery, etc. whereas in so far as the doctrines and conclusions of political economy are concerned they are in all respects the same.” (Princ. P.E., III, p. 313-317 quot by Malthus) But if the materials were not measured by the labor they cost, but directly as material, there would be homogeneity in the theory (physical cost) similar to that of Petty and Physiocrats

11 ott 192

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Malthus’s criticism of this solution is worth quoting “There is nothing that may not be proved by a new definition. A composition of flour, milk and stones is a plum pudding; if by stones we meant plums. Upon this principle Mr McCulloch undertakes to show that commodities do really exchange for each other according to the quantity of labour employed upon them: and it must be acknowledged that in the instance which he has chosen he has not been deterred by apparent difficulties.” (Definitions P.E., 100-1) The difficulty was finally met by the introduction into economics of the notion of abstinence, the sacrifice contributed by the capitalist to production, as the counterpart of labour, the sacrifice of the worker. But with Senior, who first introduced it, this remains purely in the form of an attempt to give a moral justification of interest on capital, as the legitimate reward of the capitalist: this is of course entirely different from trying to prove that abstinence enters into the cost of production, in the sense of determining its value – and this Senior did not attempt. However, the notion of abstinence entered permanently into the body of orthodox economics when Mill made of it a part of his own version of the Ricardian theory of value. Thanks to the influence of Mill, the Ricardian theory, although considerably qualified and changed in important respects, dominated political economy up to the seventies. The early seventies mark a turning point in the history of economics. On he one hand Marx published the Capital, in which his critique of capitalism is entirely based upon McC. solution seems very silly at first sight. But is it really? Of course, from the point of view of distribution there is all the difference between the work of a man and of a horse: the consumption of man is part of nat. income, that of horse not. But why should they have a different effect on value of product, in cases in which they perform a similar task? (Ricardo once takes this view when he says that substituting a horse for a man does not decrease the gross revenue). Abstinence for S. takes place only at one instant when the wealth is produced: then it can be either consumed or saved, once and for all: thus only he who has originally produced and earned it can ave it: who inherits it, e.g., does not practice abstinence. Of course, the modern interpretation of abstinence, is that it takes place all the time so long as the capital is being employed in production: and this is the only conception relevant to the theory of value. Senior’s is purely a moral justification

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Ricardo’s theory of value, although of course he interpreted it in an entirely different way from the early Utopian socialists. On the other hand, the entirely new theory of value, based exclusively on marginal utility, was found (or invented) almost simultaneously and independently by Jevons in England, Menger in Austria, and Walras in France. We hardly realize at present how deep and far-reaching the change has been. But Jevons, for instance, was fully conscious of it. In the preface to his Theory of Political Economy he plainly declared that it was necessary to overthrow all the principal doctrines of the Ricardo-Mill economics and to start anew: “The conclusion to which I am ever more clearly coming is that the only hope of obtaining a true system of economics is to fling aside once and for ever the mazy and preposterous assumptions of the Ricardian school.” This will appear even more plausible if we think that But the real novelty was not really in the conception itself. In fact the theory of marginal utility had already been discovered independently over and over again before the time of Jevons, by Cournot in the thirties, by Dupuit in the forties and by Gossen in the fifties; but nobody had taken the slightest notice of it. And although Gossen, for example, was so much conscious of its importance that he announced it as a discovery comparable to that of Copernicus he felt obliged to withdraw his book from circulation owing to its complete failure.

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On the other hand, the entirely new theory of value, based exclusively on marginal utility, was found (or invented) almost simultaneously and independently by Jevons in England, Menger in Austria, and Walras in France. We hardly realize at present how deep and far-reaching the change has been. But Jevons, for instance, was fully conscious of it. In the preface to his Theory of Political Economy he plainly declared that it was necessary to overthrow all the principal doctrines of the Ricardo-Mill economics and to start anew …

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The really new fact was in the first place that these ideas, which meant an absolute break in the tradition of Political Economy should be propounded by professional economists such as Jevons, Menger and Walras. The forerunners I have mentioned were either cranks or amateur economists … I rather prefer to accept prof. Fetter’s and Sir W. Ashley view, that there is a close relation between the appearance emerging of Marxism and the extraordinarily

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ready acceptance which the theory of marginal utility [gained] amongst orthodox economists. And that conservative minded people were only too glad to seize an opportunity of getting rid of the labour theory of value, notwithstanding the enormous authority it derived from the tradition of the classical economists

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