La dolorosa nascita dell’economia*
di Paolo Di Marco
1- l’invenzione di Adam Smith
‘Il fattore cruciale è la capacità del denaro di trasformare la moralità in una questione di impersonale aritmetica-e così facendo, di giustificare cose che altrimenti sembrerebbero scandalose od oscene’..:.e questa quantificazione è strettamente intrecciata alla violenza, quella stessa da cui originano stato e mercato.
Graeber, David. Debt (p.29). Melville House.
Cercando di liberarci dai luoghi comuni che hanno finito per occupare abusivamente la nostra visione del mondo, e in particolare quella dell’economia, ci imbattiamo subito in chi quella teoria ha fondato collo scopo precipuo di liberare la mente dei propri concittadini da un’errata concezione del denaro.
Quello che sembrava allora ovvio era che il denaro coniato dalle reali zecche lì stesso si originasse, quindi dallo stato e dal sovrano in prima istanza. E ciò che Adam Smith si accingeva invece a dimostrare era come il denaro fosse il frutto del lavoro e dell’attività imprenditoriale in primis, e che il compito del governo era solo quello di assicurare la quantità necessaria di conio, lasciando all’industria la libertà di fare il proprio mestiere senza vincoli dannosi.
Così nel 1776 il professore di Filosofia Morale di Glasgow inventò l’economia, vuoi come disciplina vuoi come attività umana. Il procedimento richiama altri già visti recentemente (come Rousseau): si ipotizza una natura umana la cui precipua caratteristica è la propensione allo scambio: tutto è scambio, a cominciare dall’originario baratto dei primitivi fino alla logica e alla conversazione. È questa spinta allo scambio che a sua volta genera la divisione del lavoro, responsabile di tutto il progresso umano e della civilizzazione.(v. 4).
E così definito l’uomo come scambiatore ne discende la legittimità del suo studio come disciplina; e non semplice disciplina, ma vera scienza, sulle orme del recente Newton. E le leggi che la regolano sono allora come quelle dettate dal Grande Orologiaio, il luogo dello scambio, il mercato, governato da una ‘mano invisibile’ che altro non può essere che divina.
Ma in questo parto c’è una prima violenza: la nascita dell’homo oeconomicus separa brutalmente l’attività economica da tutto il resto della sfera umana, le emozioni, le relazioni, gli affetti, il sesso, le fantasie, l’ambiente.
E tutto costruito senza fondamenta, ché la narrazione di Smith- che ritroviamo ancor oggi nei testi di economia- immagina che la storia abbia seguito le necessità del suo percorso logico: dalla propensione allo scambio al baratto, da questo, per necessità contabile di scambio di beni diversi, alla moneta, e infine da questa il sistema del credito e del debito. Peccato che la storia, come gli antropologi hanno certificato definitivamente, si sia svolta al contrario (v.1, 2). La decifrazione della scrittura cuneiforme ha accertato che 3500 anni a.C., in Mesopotamia, ci fosse già la moneta, il cui scopo principale non era però per lo scambio ma per regolare i debiti. E il baratto: quello proprio non è mai esistito; perlomeno come elemento base di una civiltà; era solo un elemento occasionale quando si incontravano estranei o gruppi diversi di una tribù.
Val la pena entrare nel dettaglio, ché getta luce sul rapporto tra l’economia e il resto della vita: l’incontro tra due gruppi di Nambikwara (nel secolo scorso) o meglio ancora, perché deprivato delle tensioni guerresche, tra i Gunwinngu dell’Australia, negli anni ’40, lo dzamalag:
Quella che segue è uno dzamalag degli anni ’40, descritto dall’antropologo Ronald Berndt:
Inizia quando degli stranieri, dopo una trattativa iniziale, vengono invitati al campo degli ospiti. I visitatori erano famosi per le loro lance seghettate, gli ospiti disponevano di buone stoffe europee. Lo scambio inizia quando il gruppo in visita, composto da uomini e donne, entra nell’anello di danza del campo, e tre di loro iniziano ad intrattenere gli ospiti con la musica: due uomini cantano accompagnati dal terzo al didjeridoo. Dopo poco delle donne ospiti attaccano i musicisti: donne e uomini si alzano e cominciano a ballare. Il dzamalag inizia quando due donne ospiti danno dzamalag ai cantanti: offrono a ciascuno un pezzo di stoffa e lo colpiscono o lo toccano, lo spingono a terra chiamandolo marito di dzamalag e ci giocano eroticamente: lo stesso avviene anche al suonatore, e questo avvia lo scambio dzamalag. Gli uomini in visita siedono quieti mentre le donne ospiti li avvicinano, danno loro stoffe, li colpiscono e li invitano a copulare; si prendono con loro molte libertà, tra divertimento e applausi, mentre canto e danza continuano. Le donne cercano di disfare le mutande degli uomini o di toccargli il pene, e di portarli via dall’anello per copulare; gli uomini si fingono riluttanti ma si fanno portare dalle donne fra i cespugli lontano dai fuochi che illuminano i danzatori. Danno alle donne tabacco o perline. Quando le donne ritornano danno parte del tabacco ai loro mariti, che le avevano incoraggiate a fare dzamalag. Gli uomini a loro volta usano il tabacco per donarlo alle loro compagne di dzamalag. Appaiono nuovi cantanti e musicisti, gli assalti si ripetono e gli uomini incoraggiano le loro donne a non essere timide per mantenere alta la reputazione di ospitalità dei Gunwinggu; poi anche loro prendono l’iniziativa con le mogli dei visitatori, offrendo stoffe, colpendole, e portandole fra i cespugli. Le perline e il tabacco girano in circolo. Finalmente, quando tutti i partecipanti si sono accoppiati almeno una volta, e i visitatori sono soddisfatti delle stoffe ottenute, le donne smettono di danzare e si mettono in due righe mentre i visitatori si mettono in fila per ripagarle. Infine i visitatori danzano verso le donne ospiti per dar loro dzamalag: tengono puntate le lance facendo finta di trapassarle ma invece le colpiscono col piatto della lama “non vi trapasseremo perché lo abbiamo già fatto coi nostri peni” e offrono le lance alle donne. E la cerimonia termina con una grande distribuzione di cibo.
In altre parole, i Gunwinngu riescono a prendere tutti gli elementi più emozionanti degli incontri dei Nambikwara – la minaccia della violenza, la possibilità di intrighi sessuali – e li trasformano in un gioco divertente (un gioco che, osservano gli etnografi, è considerato un enorme divertimento per tutti quelli coinvolti). In una tale situazione, si dovrebbe supporre che ottenere il rapporto ottimale di stoffe-per-lance è l’ultima cosa nella testa della maggior parte dei partecipanti (e comunque, sembrano operare su equivalenze fisse tradizionali).
Si vede chiaramente che il baratto è una piccola parte di un’interazione assai più vasta e coinvolgente, e ci dà il sapore di quanto l’homo oeconomicus sia un’amputazione violenta della natura umana. (Per usare le parole di Graeber :”un sociopatico monomaniacale che può aggirarsi per un’orgia pensando solo ai tassi marginali di rendimento“)
2- ma Cappuccetto Rosso non si arrende mai
Nonostante le smentite più autorevoli (v.1) il dogma del baratto persiste: avendo l’economia buttato a mare di Smith sia la teoria del valore-lavoro sia la critica alle società di capitali a responsabilità illimitata, non si capirebbe perché non anche quella del baratto: il guaio è che la questione arriva al cuore non solo di ciò che è un’economia – la maggior parte degli economisti ancora insiste sul fatto che l’economia è essenzialmente un vasto sistema di baratto, dove i soldi sono un mero strumento (una posizione tanto più singolare, ora che la maggior parte delle transazioni economiche al mondo è arrivata a consistere nel giocare in un modo o nell’altro con i soldi) – ma anche, alla vera qualità dell’economia: è una scienza che descrive come gli esseri umani si comportano realmente, o è prescrittiva, un modo di informarli su come dovrebbero comportarsi? ( le scienze generano ipotesi sul mondo che dovrebbero essere verificate con delle prove o abbandonate se non dimostrano di prevedere quel che empiricamente accade).
Oppure l’economia è invece una tecnica per operare all’interno di un mondo immaginario che esiste solo nella testa degli economisti?
Rispetto a Smith, Jevons e Menger -i fondatori della teoria marginalista- hanno migliorato qualche dettaglio, soprattutto aggiungendo equazioni matematiche per dimostrare che un numero casuale di persone con desideri casuali poteva produrre non solo una singola merce da usare come denaro ma un sistema di prezzi uniformi. Utilizzando lungo il cammino tutto un impressionante vocabolario tecnico ma lasciando intatta una sostanza da cui era sparito non solo l’uomo ma anche il lavoro e il suo valore. Il guaio che tutta questa costruzione è ormai diventata la vulgata economica comune, della cui verità e saggezza nessuno dubita.
C’è una seconda violenza sottesa (che riprenderemo): lo stato e il mercato, queste entità antagoniste nella narrazione classica, in realtà nascono insieme, e il denaro diventa forma di potere violento, colla trasformazione del debito morale in contabilità impersonale ma garantita dall’uso della forza. Il prestito a interesse, proibito da molte religioni (come anche la chiesa cattolica del medioevo), viene difeso con la forza privata prima (anche contro la chiesa stessa..che poi si accoda), diventa affare di stato dopo. Quando la Francia invade il Madagascar nell’800 accolla alla popolazione malgascia le tasse per ripagare le spese dell’invasione, e ancora oggi i malgasci sono debitori dello stato francese, grazie alle truppe francesi prima, al FMI poi.
3- qualche conto a margine
Si potrebbe obiettare che teoria economia neoclassica/marginalista, nonostante il padre incerto e la madre dedita a cattivi affari, magari funziona. Ma come abbiamo visto nell’introduzione anche gli economisti più riflessivi come Keynes avevano seri dubbi, e i risultati predittivi (v. crisi del 2008) sono pessimi.(v.5).
E questo nonostante l’apparato matematicamente raffinato messo in campo. Andiamo a vedere più da vicino proprio questo apparato :
a) il sistema economico nel suo complesso
Possiamo rappresentare il sistema economico nella maniera più semplice possibile sotto forma di un’equazione matriciale (ovvero come tabelle cui abbiamo applicato delle regole di calcolo in modo tale da poter fare le solite operazioni: le tabelle comprendono tutti gli elementi: industrie sulle righe, fattori di produzione sulle colonne):
Se chiamiamo A lo stato del sistema economico all’inizio dell’anno e B il suo stato alla fine, p i prezzi e r il saggio del profitto, possiamo scrivere una relazione tra A e B di questa forma:
Ap(1+r)=Bp
È una equazione assai semplice. Ci dice che il prodotto alla fine dell’anno è uguale a quello all’inizio dell’anno aumentato di una parte corrispondente a r. Il tutto a condizione che esista una soluzione unica per r e p. E come tutti i sistemi di equazioni è risolubile se il numero di equazioni e di incognite sono uguali.
Però ci sono anche delle condizioni che vanno soddisfatte; elenchiamole:
1-la prima è banale, A e B devono essre matrici dello stesso ordine (stesso numero di righe e di colonne), p deve essere un vettore (una lista) conformabile, cioè con tanti elementi quanti sono i beni:
2-la seconda non si dichiara ma è fondamentale: ci deve essere un r, un saggio del profitto unico per tutto il sistema; e questo è un dibattito lungo e controverso, perché nulla ce lo assicura: o assumiamo qualche motivo esterno che ce lo garantisce (la mano di dio?) o lo diamo come ipotesi…e poi vediamo
3-la terza è altrettanto implicita ma non garantita: che ci sia un sistema di prezzi unico, che sia lo stesso all’inizio e alla fine dell’anno (questo si può lasciar cadere ma comporta complicazioni), e che sia unico per ogni valore del saggio di profitto (e anche questo è qualcosa da verificare di volta in volta): in altri termini i singoli capitalisti non sono liberi di aggiustare i prezzi individualmente..il che lo rende poco realistico, ma il prezzo altrimenti è una moltiplicazione delle incognite e quindi l’impossibilità di una risoluzione semplice
4-la quarta che affrontano sia Marx sia in maniera differente Sraffa è il rapporto tra i prezzi e quello che Marx chiama il valore, cioè la quantità di lavoro incorporato, che non è direttamente definita e che comporta tutto un percorso parallelo
5-La quinta è la riproducibilità fisica del sistema: ovvero il fatto che la soluzione non solo dia r e p positivi, ma anche che riproduca le quantità fisiche dei mezzi di produzione (almeno) in quantità superiore alla fine che all’inizio: condizione non garantita automaticamente; il che implica che la funzione esplicativa del modello va a scapito della sua capacità descrittiva e predittiva.
Dovremmo integrarlo con una matrice di Leontief del rapporto fra beni, ma nulla ci garantisce che corrisponda alla soluzione di equilibrio. Più aggiungiamo elementi che rendano il modello efficace meno siamo garantiti che questo soddisfi alla condizione base, l’esistenza di un saggio di profitto e sistema dei prezzi unico. E a sua volta questo implica che cambia la natura stessa delle quantità definite: una dinamica della produzione è ammissibile, una dinamica delle definizioni è il caos.
b) le curve della domanda e dell’offerta
Per semplicità prendiamo il modello Keynesiano
I fattori che agiscono sulla curva IS (beni) sono:
A: capacità di spesa autonoma
c: propensione marginale al consumo
t: tasso marginale di tassazione sul reddito
b: sensitività degli investimenti al tasso di interesse
I fattori che agiscono sulla curva LM (denaro) sono:
M/P denaro realmente disponibile
k: sensitività della domanda di denaro rispetto al reddito
h: sensitività della domanda rispetto al tasso di interesse
Lo rappresentiamo staticamente, anche se si può visualizzare come si comporta alla variazione dei parametri mediante un CDF di Mathematica (v. 3)
In forma statica non ci dice molto, ma la cosa interessante è un’altra. Già messa in luce da Sraffa nel ’26: e se non ci fosse un solo punto di intersezione?
Qui abbiamo delle rette, quindi è inevitabile un punto solo, ma nelle curve generali domanda/offerta non c’è garanzia che ci sia un solo punto di incontro; il che significa che non c’è un solo saggio di profitto…che non cè una situazione di equilibrio….
Tutto questo ci dice una cosa semplice: per quanto raffiniamo la matematica non possiamo metterci quello che non c’è.
Abbiamo visto che i caratteri ‘naturali’ dell’uomo su cui l’economia si basava, l’homo lupus di Hobbes e l’homo commutans di Smith sono immagini di fantasia che non corrispondono alla realtà storica. Ma creano un ‘mito fondativo’ il cui risultato sul mondo umano è una distorsione di visuale che gli toglie tutte le dimensioni tranne una; una distorsione prospettica che alla fine, fattasi luogo comune e introiettata, diventa una pressa da cui escono uomini a una sola dimensione. L’homunculus oeconomicus.
Incapace però anche di far tornare i conti.
Ma ci fermiamo ora a riflettere sui fondamenti, ancora una volta con Sraffa.
Comments
Perciò il risultato è contraddittorio, per generare alcune confusioni e malintesi, nonostante sia abbastanza chiara l'intenzione di superare il riduttivismo economicista, l'ideologia neoclassica spacciata per scienza e auspicare un oltrepassamento del quadro valoriale come definito dalla società capitalistica.
L'homo economicus è una invenzione dei pseudometafisici anti-classici, che sulla base di inconsistenti e antiscientifiche assunzioni astratte, come l'assioma della produttività marginale decrescente, già smontato dalla critica di Sraffa, come segnalato da De Marco stesso, fabbricano una apologia ideologica del capitalismo, il cui nome evitano accuratamente. Si tenga conto che una simile fantasiosa propaganda di fatto nel dopo guerra subí una sostanziale marginalizzazione, fù solo a partire dagli anni settanta, con la violenta restaurazione neoliberale imposta in modo truculento dalla classe dominante che divenne il pensiero unico. Una celebrazione dell'antiscienza, con le prime file occupate da quelli che una volta erano stati o avevano finto di essere di sinistra.
Piero Sraffa nel suo famoso sottile e denso libro del 1960 pretese continuare la sua critica all'economia degli anticlassici, per sostenere un approccio scientifico al capitalismo sulla base del modello dei classici, cioè un ritorno alla scienza e ai classici. Poi, per ironia della storia, il suo libretto divenne il pretesto da parte di molti, per attaccare e mistificare la teoria del valore di Marx, dato che matematicamente i prezzi si potevano ottenere in forma .duale. Perciò il suo spirito si perse e con il sopravvento della propaganda neoliberale e del pensiero unico nessuno sa più chi sia Sraffa, tutta una serie di grandi studiosi, a partire da Marx ovviamente, non fanno parte dei manuali propagandistici degli pseudometafisici neoclassici.
il grande Adam Smith, in pratica il fondatore dello studio scientifico del capitalismo basato sulla teoria del surplus, scrisse un monumentale libro di centinaia di pagine, che assai pochi hanno letto. Da filosofo morale, senza trascurare considerazioni antropologiche e istituzionali da una rappresentazione sociale e morale del capitalismo ben più lugubre e negativa di quella di Marx, senza una apparente prospettiva di redenzione. La citazione della mano invisibile, che compare una volta sola in tutto il tomo, è stata arbitrariamente estrapolata per due ragioni, per mistificare Adam Smith e occultarne il valore e significato scientifico e per riproporre uno slogan che fosse l'ennesima apologia del (misconosciuto) capitalismo.
Pertanto se De Marco vuole sviluppare una critica alla teoria economica e alla pseudometafisica neoclassica deve inizialmente seguire maggiormente Sraffa, che differenziò tra teoria scientifica e impostura.
Del resto come sarebbe stato possibile l'edificazione di stupefacenti strutture ciclopiche, di straordinari templi in un'economia basata sul baratto?