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L’italica debolezza  

di Massimo D'Antoni

Ho trovato molto stimolante la lettura dell’articolo apparso ieri in prima pagina del Corriere, a firma Michele Salvati. Salvati punta il dito sulla bassa crescita della nostra economia, che non nasce certo con la recente crisi, e dichiara la sua meraviglia per il fatto che su questo problema centrale “non rimanga permanentemente concentrata l’attenzione dei media e del governo, per non dire degli economisti italiani, che dovrebbero considerarla come la più grande sfida interpretativa da affrontare”.

Credo che dovremmo, tutti quanti, ciascuno dall’angolo offerto dalla propria sottospecializzazione disciplinare, raccogliere questa sfida. Qual è la natura della “malattia” dell’economia italiana? Quali le prospettive? Quali le possibili cure?

Ammetto di non avere una risposta. Ma posso dire che alcune delle risposte avanzate con insistenza in questi anni mi convincono poco. Ad esempio, sono d’accordo con Salvati sul fatto che il nostro settore pubblico, sebbene inefficiente in molti comparti e quindi bisognoso di riforme e ristrutturazioni, non possa essere considerato la causa principale della bassa crescita di produttività che ha caratterizzato il settore privato. Allo stesso modo, ho trovato negli anni scorsi piuttosto deboli le interpratazioni che attribuivano la nostra scarsa performance ad una carenza di liberalizzazione in alcuni servizi. Quasi che a far la differenza fossero i prezzi dei taxi o gli onorari di avvocati e notai. Suvvia.

Andando per esclusione, trovo poco convincenti anche altre due spiegazioni, che potremmo dire di demand side e di supply side, entrambe relative al reddito da lavoro.

L’interpretazione dal lato domanda è quella che immagina una ripresa della crescita guidata dalla dinamica della domanda interna, ovvero da una redistribuzione del reddito a vantaggio dei lavoratori e specialmente di quelli a basso reddito. Pur essendoci molte ragioni per attuare un intervento redistributivo, ciò che mi chiedo è se un tale aumento della domanda aggregata non finirebbe per risolversi prevalentemente nell’acquisto di beni a basso costo prodotti altrove (Cina?), con scarsi benefici per la nostra struttura produttiva.

La tesi in qualche modo speculare sul lato offerta è che il nostro svantaggio competitivo dipenda da un’eccessiva pressione fiscale sul lavoro. In un breve scritto di qualche anno fa (“L’Italia è un paese con alto costo del lavoro?”, Short Note Econpubblica, 21/11/2006), Giampaolo Arachi ed io abbiamo criticato sia i presupposti fattuali di questa analisi (mostrando che il cuneo fiscale non è particolarmente alto in Italia rispetto ai partner europei) che le sue premesse analitiche (argomentando che considerare i contributi pensionistici alla stregua di imposte è, nel caso dell’Italia più che altrove, un errore concettuale).

Cosa resta? Il principale indiziato, dal mio punto di vista, è lo stesso indicato da Salvati:

Non potrebbe essere dovuto, il ristagno, ad una struttura e una specializzazione produttiva inadeguate [del settore privato], nonché a misure, prese da questo o da precedenti governi, che non hanno indirizzato la sua evoluzione verso assetti più produttivi?

Io credo che questo punto debba essere messo al centro dell’analisi. Si tratta di una questione su cui convergono diversi aspetti: la politica industriale (?) degli ultimi decenni, il tipo di contratti di lavoro che hanno prevalso e le conseguenze che questi hanno avuto sugli investimenti in capitale umano, la struttura dimensionale delle imprese del nostro paese. Sotto quest’ultimo profilo, su cui sarebbe bene interrogarsi senza cullarci ancora una volta nell’idea che piccolo è bello perché dinamico e flessibile e perché valorizza l’italica arte di arrangiarsi, si potrebbe approfondire criticamente il ruolo svolto da: la difficoltà di accesso al credito e il ruolo delle banche, gli investimenti in ricerca e sviluppo, il diverso impatto dell’evasione fiscale e dell’evasione contributiva in relazione alla dimensione di impresa ecc. Come si vede, ce n’é per impegnare a fondo tutte le competenze della professione.

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Commenti:

Ennio Bilancini scrive:    

Il tema è certamente tra i più interessanti passati nella GoodwinBox.

Mi permetto di avanzare una tesi (affatto in conflitto con quella avanzata da Massimo) in forma di slogan: in Italia la rendita vince sul profitto e sul salario.

Detta altrimenti, le istituzioni sociali che regolano l’attività economica danno incentivi sbagliati premiando chi consuma risorse per procurarsi una rendita invece di premiare chi investe in attività produttive. Detta in altra maniera ancora, si bruciano troppe risorse per aver garatita una fetta della torta invece che investire per aumentare la torta (o, cosa forse maggiormente auspicabile, renderla più buona).

Esempi in piccolo: caste professionali, monopoli commerciali, nepotismo, condonismo.

Esempi in grande: gruppi industriali (es. Pirelli RE, in particolare la vicenda TELECOM), meccanismo di selezione delle elites (es. chi investe e perchè la propria vita nella lotta politica?), politiche fiscali (es. ICI, tassazione rendita finanziaria).

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Massimo D'Antoni scrive:    

Come ho già detto, non trovo persuasiva questa spiegazione, peraltro molto comune nei dibattiti. Uno dei motivi è che si sa che le rendite esistono ma è scarsamente verificabile la loro entità e rilevanza.
L’altro motivo, più generale, è che a meno di ipotizzare il mondo artificiale in cui tutti gli scambi avvengono in mercati perfetti (non per niente questo tipo di tesi è tipicamente “chicaghiana”), le rendite sono un aspetto connaturato al funzionamento stesso del capitalismo, in cui coesistono elementi di mercato ed elementi di controllo gerarchico (ricordo che le rendite sono per lo più un sottoprodotto dell’esistenza di potere gerarchico). Questo almeno ci insegna tutta la teoria economica dei giochi ripetuti, dell’informazione, nonché la teoria dell’impresa ecc.

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Ugo Pagano scrive:   

Non vorrei diventare troppo noioso ripetendo che, per lo meno dal 1994 in poi, la specializzazione produttiva si co-evolve con i diritti di proprietà intellettuale di un paese e che la specializzazione in certi settori permette extra-profitti monopolistici e sviluppo economico.

Purtroppo l’Italia ha frattanto abbandonato ogni politica della ricerca e ha quasi completamente smantellato il suo sistema di grandi imprese pubbliche che permetteva di bilanciare, in parte, il nanismo (e l’incapacità di giocare questa partita) di gran parte del suo settore privato.

Ho la spiacevole sensazione che queste riflessioni avvengano ormai ben oltre il tempo utile per un intervento efficace……

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Ennio Bilancini  scrive:    

Ciò che dice Ugo è molto convincente, così come l’idea di Massimo.

Quello che però andrebbe spiegato è come mai l’Italia ha seguito questo path di specializzazione e non un altro. Io dico che è il setting istituzionale ad essere stato cruciale. L’argomento non è molto diverso dalla “coevoluzione” indicata da Ugo, ma io lo estendo oltre la proprietà intellettuale.

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Ugo Pagano scrive:    

Finché i diritti di proprietà erano deboli e i poteri di monopolio globale erano più tenui, le piccole imprese italiane avevano svantaggi meno evidenti (si ci esaltava con “”il piccolo é bello!). E’ dopo gli anni 90 che il setting istituzionale italiano ha mostrato dei limiti notevoli. Frattanto, noi lo abbiamo anche alterato in modo ulteriormente sfavorevole rispetto alle nuove condizioni dell’economia globale. D’altra parte non siamo i soli che hanno patito i danni del binomio cinamerica (bassi costo del lavoro e monopolio intellettuale in sinergia globale). Noi non siamo nè Cina nè America e temo che abbia ragione Salvati: con buona pace di Zanella, ci siamo salvati finora solo grazie alle caute politiche di Tremonti…….

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Ronny Mazzocchi scrive:    

Mi ritrovo molto nel commento e nell’amara conclusione di Ugo.

Cito un caso che mi è piuttosto familiare: la Germania. Negli anni successivi alla riunificazione, la Germania ha condotto un graduale aggiustamento della propria struttura industriale alle innovazioni scientifiche e tecnologiche, delocalizzando le fasi meno intensive della ricerca e più intensive di lavoro a basso contenuto tecnico negli altri paesi della Mitteleuropa, compreso il Nord-Est italiano. In questo modo i tedeschi hanno potuto mantenere la loro presenza in industrie che altrimenti avrebbero dovuto abbandonare e contemporaneamente hanno potuto porsi nei comparti più tecnologicamente avanzati delle stesse industrie, conservando posizioni di predominanza sul mercato non grazie ai prezzi bassi, ma alla elevata qualità delle proprie produzioni. Tutto questo è stato possibile proprio grazie ad una politica industriale che ha visto la partecipazione sia delle autorità pubbliche sia della leadership industriale del paese. Naturalmente ci sono pure delle ombre sul modello tedesco (che Sergio Ceseratto ci ha più volte ricordato), ma credo che nessuno possa mettere in discussione la supremazia industriale tedesca.

Mi chiedo dove si trovasse Salvati negli ultimi 20 anni, quando i consiglieri dei vari principi occupavano le prime pagine dei maggiori giornali italiani per spiegarci che il sistema industriale italiano era poco competitivo perchè c’era l’articolo 18, il mercato del lavoro rigido, etc. etc.

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Massimo D'Antoni  scrive:    

Sulle cautele di Tremonti: più che da una chiarezza di intenti, mi sembrano discendere da un non saper che pesci pigliare. E poi siamo sicuri che la rappresentazione mediatica, quella di una politica cauta e rigorosa, sia corretta? Molti segnali fanno pensare ad un notevole calo delle entrate fiscali nel settore delle imprese (specialmente quelle soggette a studi di settore e altri sistemi di determinazione persuntiva dell’imponibile), ben oltre quanto sarebbe spiegato dall’andamento del ciclo. In questo caso, anche l’Italia avrebbe avuto la sua politica fiscale espansiva, sebbene “all’italiana”, ovvero nella forma di una maggiore tolleranza per fenomeni di evasione ecc. Non necessariamente il modo più efficace per generare crescita mediante disavanzi di bilancio.

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Luigi Bosco scrive:    

Anch’io trovo molto convincenti le argomentazioni di Ugo. Aggiungerei una considerazione di tipo squisitamente politico. Dalla fine degli anni settanta non si fa, ma nemmeno si progetta, in Italia una politica economica e/o politica industriale. E non solo per responsabilità politica, ma anche per responsabilità indiretta di molti economisti che da allora dominano sulle pagine dei grandi giornali (Salvati compreso) e che hanno venduto, molto bene, peraltro, il messaggio che tutto dipendesse dalla scarsa flessibilità del mercato del lavoro. Oggi penso che siamo tutti d’accordo che questo non fosse il problema dei problemi.
Eppure in Italia vi erano almeno due problemi strutturali che avrebbero meritato una politica più attiva. Il divario Nord-Sud che pesa come un macigno (i tassi di crescita del centro-nord non sono poi così bassi) sulla nostra crescita potenziale e il nanismo del nostro sistema industriale che non rende conveniente l’investimento in R&S delle micro imprese e l’investimento in capitale umano degli individui. A questo aggiungiamo il peso crescente delle rendite di posizione e dei circuiti familo-clientelari degli albi professionali, il cui ruolo fosse anche di segnalazione non sottovaluterei.
L’Italia peraltro soffre anche dell’inanità politica dell’Unione Europea che utilizzando spesso la retorica del libero mercato rende difficile, almeno ai Paesi con meno potere di contrattazione, di effettuare interventi mirati e selettivi di politica industriale, senza peraltro avere la forza di proporre sue politiche industriali e una sua politica del tasso di cambio.
Penso che sia venuto il momento di ripensare, senza pigrizia intellettuale e tabù ideologici, a forme più attive di politica industriale ed economica.

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Federico Parmeggiani scrive:    

Io credo che una ruolo cruciale nella nostra crescita quasi nulla sia dovuta alla totale mancanza in Italia di settori strategici e ad alto potenziale di sviluppo.
Ci sono ampi settori in Italia quali il software, il biotech, il nanotech che sono pressoché inesistenti, e sono i settori che sono e che diverranno sempre più strategici nei prossimi decenni, dai quali l’Italia è completamente tagliata fuori, in parte grazie alla miopia degli imprenditori italiani, che come novelli Mazzarò di Verga preferiscono restare piccoli e stagnanti, purché la “roba” resti in mano loro e dei loro familiari. In parte, come giustamente sottolineava il Prof. Pagano, si è ostacolato per anni il sorgere di grandi imprese a capitale misto che potessero avere le dimensioni per fare davvero ricerca ed essere competitors internazionali. Se pensiamo a quali sono le imprese italiane più importanti nel mondo oggi, se escludiamo Unicredit, abbiamo ENEL e ENI che sono proprio l’ultimo esempio di quelle grandi società a capitale misto.
Finché i nostri settori strategici rimarranno il manifatturiero e il meccanico, dove ancora la qualità conta meno della quantità prodotta e del prezzo, non potremo mai reggere la concorrenza di paesi quali Cina e India che hanno un costo del lavoro irrisorio.
Posto che la costituzione di nuovi giganti con soldi in parte pubblici sarebbe probabilmente sanzionata in sede CE, non vedrei male l’iniezione di nuovi capitali in ENI o ENEL per costituire al loro interno delle controllate che operano in settori hi-tech. Altrimenti finisce come per l’Università di Bologna, che ha un centro di ricerca all’avanguardia sulle nanotecnologie, ma che è costretta a vendere i brevetti all’estero. Così la ricerca finanziata con soldi italiani va ad arricchire economie straniere.

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Ennio Bilancini scrive:    

Io credo che per passare dalle riflessioni sulle cause all’identificazione di (alcune di) queste serva procedere ad una comparazione tra paesi.

Quali paesi si sono trovati in una situazione simile a quella dell’Italia di 20 anni fa e ne sono usciti bene? Perchè ci sono risuciti e l’Italia no?

Ronny suggerisce, se capisco bene, di considerare la Germania e spiega la differenza di risultato tra questa e l’Italia con le possibilità di delocalizzazione. E davvero tutto qui?

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Ugo Pagano scrive:    

No, Ennio ovviamente non é tutto qui…….
Il rafforzamento globale dei monopoli intellettuali (Trips agreement 1994, soprattutto) post-guerra fredda ha messo in crisi quei paesi che, fondandosi sulle innovazioni di base altrui, producevano imitazioni e miglioramenti marginali dovuti a una migliore abilità e competenza delle proprie maestranze. In questo contesto negli anni 90 Giappone e Germania si sono di colpo trovati in una situazione di forte svantaggio rispetto agli Stati Uniti (mentre negli anni 80 sembravano sopraffare il sistema americano).
Come dice giustamente Ronny, la Germania, dopo un periodo di notevole sofferenza, ha ristrutturato la sua economia in modo coerente con il nuovo quadro dell’economia internazionale e ha fatto, soprattutto nell’Europa dell’Est, qualche cosa di analogo a quanto gli americani hanno fatto in Cina. Il Giappone non ha, invece, reagito con lo stesso vigore.
L’Italia é semplicemente andata in direzione contraria a quanto era necessario fare e si trova stretta in una tenaglia fra paesi che sono forti grazie al loro grado di monopolio scientifico e tecnologico e paesi che sono competitivi grazie a un bassissimo costo del lavoro.

 

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