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Foto dal finestrino

di Il Lato Cattivo

Introduzione

ilc2645Nel corso dei quattro incontri dedicati alla presentazione del secondo numero de «Il Lato Cattivo», abbiamo tentato di delineare a larghi tratti i contenuti della rivista, nonché l'orientamento generale da cui questi discendono, nel modo il più possibile sintetico e adeguato all'esposizione orale. La forma stessa dell'incontro pubblico ha imposto un lavoro di scrematura sui materiali di partenza; ne è risultato un digest sicuramente schematico e alquanto impoverito: per dire tutto ciò che avremmo voluto, sarebbe occorso un giorno intero; e per dirlo nella maniera più soddisfacente, avremmo dovuto ricorrere ancora una volta alla parola scritta, che avrà pur tanti difetti, ma permette un margine di riflessione e una ricerca della giusta formulazione, che la parola parlata non concede. L'esercizio si è rivelato comunque stimolante. Sicuramente lo è stato per chi ha preparato ed esposto, e – si spera – anche per chi ha avuto la pazienza di ascoltare. Ad ogni modo, la traccia iniziale è stata ulteriormente rielaborata tenendo conto, da un lato, delle evoluzioni più recenti avvenute a vari livelli e, dall'altro, degli interventi fatti da alcuni compagni nel corso degli incontri – domande e osservazioni per le quali ci è parso di dover apportare ulteriori chiarimenti e precisazioni, o semplicemente ribadire per iscritto le risposte già date in sede di presentazione. Ciò che segue è quindi un piccolo condensato degli incontri di novembre 2016 (Torino e Milano) e marzo 2017 (Roma e Viterbo), di ciò che vi è stato detto e delle reazioni suscitate. In definitiva, ci auguriamo che risulti fruibile tanto per chi c'era, quanto per chi non c'era.

 

Ribadire i chiodi

«Il Lato Cattivo» è una rivista che viene editata da un ristretto nucleo di individui, formatosi a cavallo tra il 2010 e il 2011, sull'onda lunga della crisi e della rivolta greca del dicembre 2008, e sull'idea di fondo che questi due eventi (in particolare) avrebbero ridato un senso alla parola «rivoluzione», riattivando il legame effettivamente complesso e non automatico, ma comunque esistente, fra crisi e comunismo. Oggi questo nucleo, ridotto ai minimi termini, si divide fra Bologna e la regione parigina. In questi sei anni sono stati pubblicati due numeri cartacei della rivista, la cui cadenza è quindi decisamente irregolare. Oltre alla rivista curiamo un blog, in cui pubblichiamo materiali vecchi e nuovi che ci sembrano poter integrare, confermare o arricchire i contenuti della rivista, e con lo stesso intento editiamo e diffondiamo anche altro materiale cartaceo. Senza dilungarsi su questi aspetti un po' formali, basti dire che queste attività, per un nucleo ristretto come il nostro, implicano – tenendo conto del necessario lavoro di documentazione sulle vicende economiche e sociali attuali, di traduzione di testi provenienti dall'estero, di consultazione di archivi vari ed eventuali etc. – un impegno e un dispendio di tempo notevoli. Impegno e dispendio che se ambissero ad ottenere dei riscontri immediati, si sarebbero già esauriti da tempo. Questo per dire che lavoriamo ad effetto lontano.

La nostra rivista porta come sottotitolo Elementi di teoria del comunismo. È quindi opportuno spendere qualche parola per chiarire in cosa consistano il «comunismo» e la «teoria» cui facciamo riferimento. Poche parole-chiave basteranno:

Classismo. È nostra convinzione che la società attuale – il modo di produzione capitalistico (MPC) – sia essenzialmente strutturata dalle funzioni, reciprocamente dipendenti, di capitale, da una parte, e lavoro salariato produttivo di plusvalore (e quindi di capitale), dall'altra. Queste due funzioni essenziali fondano l'esistenza di due classi fondamentali, proletariato e classe capitalista, il cui conflitto – per quanto possa essere larvato e quasi impercettibile per la maggior parte del tempo – è nondimeno costante e, in quanto tale, costituisce la dinamica e la vita stessa del modo di produzione capitalistico. Questo tipo di conflitto, che senza alcun pathos particolare definiamo «lotta di classe», non è in sé e per sé nulla di speciale: è semplicemente la pressione che ogni classe esercita sull’altra per una più larga appropriazione del prodotto sociale, e quindi – nel MPC – una lotta attorno alla posizione del cursore che separa la massa dei salari e quella dei profitti. Questa lotta è, allo stesso titolo, la dinamica di tutti i modi di produzione esistiti fino ad oggi, e fornisce la chiave di comprensione della loro successione storica. Lo sfruttamento di una classe da parte di un'altra è la contraddizione1 che muove la storia, e per questo è giusto affermare – riprendendo l’incipit del Manifesto del Partito Comunista – che la storia di ogni società esistita fino ad oggi, è storia di lotte di classi. Questa contraddizione che è lo sfruttamento – nozione che non ha per noi alcuna accezione morale – si è riformulata e ristrutturata, a varie riprese, nel corso degli ultimi 20.000 anni; essa conferisce a questo segmento della storia umana il carattere di un processo orientato, che procede nel senso di uno sfruttamento del lavoro sempre più efficace e sistematico. E nondimeno questa contraddizione perviene – nella sua versione capitalistica – al suo stadio ultimativo, all'interno del quale essa diventa teoricamente pensabile e praticamente superabile. Affermare questo significa che essa potrà ancora perpetuarsi, riformularsi e ristrutturarsi all'interno del modo di produzione capitalistico, oggi arci-dominante su scala mondiale, ma che non potrà accedere ad alcuna forma diversa e superiore, dunque post-capitalistica, di sfruttamento del lavoro2. È questa la ragione per cui, diversamente dai modi di produzione anteriori – ad esempio il modo di produzione feudale, che ha generato internamente, dalle proprie viscere, la struttura essenziale del mondo di oggi – il modo di produzione capitalistico non può dare vita, al proprio interno, ad alcun embrione di un nuovo modo di produzione. Il suo superamento possibile non si apparenta perciò in nulla alle transizioni da un modo di produzione all'altro storicamente conosciute, configurandosi piuttosto come una rottura totale, senza precedenti, un autentico cambiamento di paradigma nella storia umana: generazione per via necessariamente violenta e insurrezionale di un mondo senza classi né Stati, in quanto privo di sfruttamento.

A quanti considerino obsoleto l'attaccamento alle coordinate dell'analisi di classe, alla lotta di classe come realtà strutturante, alla capacità rivoluzionaria del proletariato come prospettiva, non abbiamo granché da ribattere, se non che a) la gran parte delle manifestazioni della vita sociale in senso lato rimane collegata all'esistenza delle classi (ciò che la sociologia riformista chiama «le ineguaglianze»), anche laddove la determinazione di classe si combina con altri fattori; b) la partizione fra profitti e massa salariale complessiva (comprendente tutte le forme di welfare) resta, in forme certo diversificate, un braccio di ferro permanente, poiché mai dato una volta per tutte, attorno a cui ruotano ancora oggi un gran numero di «conflitti»; c) nella stragrande maggioranza dei tumulti, rivolte e insurrezioni che hanno agitato la società capitalistica nel corso degli ultimi due secoli, l'azione del proletariato è stata, se non esclusiva, quantomeno preponderante, e decisiva anche laddove le poste in gioco erano borghesi (liberazione nazionale, repubblica democratica, etc.). Nel corso della sua storia, il MPC ha vissuto una costante mutazione, senza però mutare in ciò che lo definisce più fondamentalmente: l'espansione mondiale del lavoro salariato lo mostra, così come la ricorsività delle crisi. Il nostro presente è, per l'essenziale, il risultato di questa storia plurisecolare, ed è quantomeno prematuro considerarlo emancipato dalle tendenze che lo hanno generato.

– Catastrofismo. Affinché una rottura rivoluzionaria possa verificarsi, è necessaria una destabilizzazione catastrofica della dinamica economica che regge e mena innanzi il mondo in cui viviamo; e la rottura rivoluzionaria stessa non potrà che essere a sua volta catastrofica, di portata immediatamente mondiale, e tale da mettere in movimento, con modalità molteplici e su linee di forza divergenti ed opposte, la stragrande maggioranza dei 7 miliardi e più di individui che abitano il pianeta. L'insistenza sulla nozione di catastrofe vuole evidenziare che la possibilità di un superamento radicale dell'assetto societario vigente verrà innanzitutto da un cambiamento profondo e accelerato delle circostanze e delle pratiche (di lotta, in primo luogo). L'agente, il «supporto umano» di questa rottura, è la classe che in ragione della sua posizione nella società, porta sulla schiena, oltre al peso della propria riproduzione come classe, il peso della riproduzione della società intera e di tutte le altre classi che la compongono. In questa cesura storica, la classe che il XIX secolo battezzò con il nome di proletariato, diversamente da quanto fa nelle proprie lotte di ogni giorno, non si affermerà come classe, non generalizzerà la sua condizione: la negherà immediatamente.

Rottura. Il rapporto tra le lotte quotidiane e il trapasso rivoluzionario è dunque un rapporto di vera rottura, non di progressione, e in quanto tale non è subordinato a un'accumulazione di esperienze o a una qualunque pedagogia. L'eccezionalità delle circostanze che sole possono «ospitare» una rottura, è tale da rendere impossibile la loro apprensione in periodi di riproduzione «normale» della società (anche in fase di recessione). Sebbene la storia non si ripeta mai uguale a se stessa, le crisi insurrezionali più significative hanno spesso avuto come sfondo ampli conflitti militari: guerra franco-prussiana 1870-’71, Prima Guerra Mondiale etc.

La rottura rivoluzionaria a venire conoscerà momenti organizzativi e di coordinamento a tutte le scale, dal livello «micro» a quello «macro», ma non sarà una questione di organizzazione, né di strategia, né la rottura sarà di natura politica, al contrario sarà schiettamente anti-politica. È questo tipo di processo che – sulla scia di formulazioni teoriche a noi prossime – chiamiamo comunizzazione, un termine che non ha nulla a che vedere – essendone anzi l'esatta antitesi – con quelle visioni che pensano di poter individuare o creare nella società attuale delle «isole» di comunismo, ed egualmente con quelle visioni che riducono il contenuto del trapasso rivoluzionario alla mera abolizione della proprietà privata, ovvero dei rapporti di distribuzione attuali, attraverso la socializzazione dei mezzi già esistenti di produzione e di consumo.

È bene chiarire che l'insieme di queste proposizioni è un risultato storico, che discende dalla vasta traiettoria dello sviluppo del capitale e delle lotte di classe che gli hanno dato forma. Non si tratta di «verità» che sarebbero mancate alle rivoluzioni fallite di ieri e con le quali la storia sarebbe potuta andare diversamente, ma di un prodotto della storia tale e quale si è svolta (ci ritorneremo).

In conformità con queste linee direttrici, la «teoria del comunismo» così definita si articola su tre assi, che si sviluppano tanto in parallelo che intrecciandosi fra loro: a) la critica dell'economia politica tale quale è stata fondata da Marx e sviluppata da una parte ultra-minoritaria della sua posterità; b) l'analisi della fase sulla base di questa critica; c) la proiezione teorica del superamento comunista, che non è invariante ma soggetto a potenti discontinuità storiche.

Il modo di produzione capitalistico, pur non mutando nella sua struttura essenziale, ha una storia che può essere suddivisa in grandi periodi – periodi che presentano delle caratteristiche omogenee in termini di modalità dello sfruttamento nel processo di produzione immediato, di modalità dell'accumulazione, di divisione internazionale del lavoro, di gestione della lotta di classe da parte dello Stato, e anche in termini di pratiche specifiche del proletariato nell’ambito delle sue lotte quotidiane, così come nei sommovimenti sociali di più ampia portata; e sono queste ultime che, in definitiva, forniscono il materiale a partire dal quale è possibile dedurre le fattezze e il contenuto rivoluzionari che possono manifestarsi ad un momento dato. I sedimenti dei cicli storici della lotta di classe si sovrappongono gli uni sugli altri come strati geo-archeologici; al di là di una certa soglia, questo processo impone alla teoria di coglierne le discontinuità, che sono anche discontinuità della teoria. Ad un certo grado del proprio sviluppo, ciò accade ad ogni forma di conoscenza della natura e della storia, la quale perde così la sua intuitiva «ingenuità» e «freschezza». È un fatto normale, che non ha nulla di inspiegabile.

I tre assi appena menzionati, costituiscono l'ossatura dell'attività teorica così come noi la concepiamo, ma non la esauriscono, poiché ogni aspetto della vita umana – alimentazione, sessualità, cultura, arte, rapporto uomo/natura e via discorrendo – può essere preso come bersaglio dalla teoria comunista, la quale – come il personaggio di Mefistofele nel Faust – afferma a chiare lettere che tutto ciò che esiste merita di perire. Anche a costo dell'isolamento, e senza temere l'accusa di utopismo: diversamente dagli auspici di Engels, che vedeva la storia del comunismo come un viaggio di sola andata dall'utopia alla scienza, e metteva in parallelo cristianesimo e comunismo come radioso e progressivo passaggio dall'underground della setta al mainstream della grande Ecclesia (all'epoca, la socialdemocrazia tedesca), dopo ogni grande sconfitta storica, sono le catacombe e lo spirito settario ad essere stati salvifici. Il divenire-istituzione, viceversa, è sempre stato sinonimo di sclerosi.

È legittimo chiedersi a che cosa serva il tipo di attività teorica fin qui descritta nei suoi grandi tratti. A costo di deludere i più, bisogna dire che la questione della sua funzione, della sua utilità, è destinata a restare un enigma. La teoria del comunismo non è un manuale per «fare la rivoluzione», né fornisce – ai suoi autori o ai suoi fruitori – alcuna garanzia sulla centralità che il loro operato potrà avere nell'ambito di un'eventuale situazione rivoluzionaria a venire. Lo stesso vale, più in generale, anche per le elaborazioni che, pur ponendo in maniera più o meno adeguata la questione del superamento violento dell'ordinamento sociale vigente, non si richiamano teoricamente al comunismo, ed egualmente, per tutti quegli indirizzi e percorsi che si possono qualificare come attivisti, e che fanno variabilmente riferimento alle lotte immediate nella sfera lavorativa o extra-lavorativa – che sia per «organizzarle», «rilanciarle», «estenderle» o «radicalizzarle». La rivoluzione non è monopolio privato di individui o gruppi, non se ne acquisiscono titoli di proprietà né in virtù di ipotetiche medagliette d'esperienza praticona («salvezza mediante le opere»), né in virtù di un sapere da dieci e lode preso per se stesso («salvezza mediante la fede»). Dobbiamo accettare l'idea di non avere garanzie. Posto questo, la teoria serve innanzitutto a coloro che la portano avanti: continuare, contro tutto e tutti, a pensare la società attuale come un fenomeno storico e transitorio, è già un modo di resistere, per quanto impercettibile, alla cappa oppressiva che questa stessa società esercita su ciascuno. E nella misura in cui – per ragioni difficilmente spiegabili, ma che non si riducono ad una questione di psicologia o di biografia personale – siamo stati condotti a porci il problema della rivoluzione e del comunismo, tanto vale farlo nella maniera più sistematica e rigorosa possibile. Questo detto, ci si può comunque chiedere perché ci rivolgiamo ad altri, e chi siano questi «altri». Quali che possano essere le difficoltà che si incontrano nella sua lettura, «Il Lato Cattivo» non si indirizza agli universitari e se se frega al più alto grado dell'accademia. In una prospettiva ampia nel tempo e nello spazio, nella quale bisogna innanzitutto riconoscere l'estrema pochezza delle nostre forze a fronte dell'immensità del mondo, la funzione immediata della rivista e degli altri canali di diffusione che utilizziamo, è quella di permettere degli incontri – incontri con compagni a noi affini, vicini e lontani, che altrimenti difficilmente potremmo incontrare. Più a medio termine, l'ambizione sarebbe quella di «piegare», di «torcere» e perfino di fratturare orizzontalmente, tutto l'ambiente che si definisce «anticapitalista», nel senso di una separazione più netta, più profonda, fra capitalismo e comunismo, fra rivoluzione e controrivoluzione. Ogni momento di ripresa rivoluzionaria conosce questo tipo di «divisione delle acque», dove le fratture a livello teorico o ideologico sono produttive, utili «come la febbre che libera l'organismo dalla malattia», perché esprimono tensioni profonde derivanti dalla crisi dello sfruttamento. In assenza o in attesa di simili tensioni, quando la controrivoluzione domina, è comunque possibile «limitare il disonore»: non cedere all'ideologia dominante, restare lucidi, partecipare alle lotte immediate quando l'occasione si presenta, sviluppare una comprensione coerente della realtà, attirare l'attenzione dei milieux più prossimi su questioni passibili di polarizzare o rivelare tensioni opposte che li attraversano: pro o contro l'alternativismo, le lotte di liberazione nazionale (o quel che ne resta), le nostalgie pre- capitalistiche, la memorialistica militante etc.? Sempre tenendo ben a mente che, così come ogni posizionamento rinvia più o meno direttamente a delle attività, la sua critica comporta egualmente un orientamento pratico – non fosse che in negativo (cosa non fare).

 

Parole di ieri, parole di oggi

Il rigetto delle nozioni di «periodo di transizione», di «socialismo inferiore», di «programma» etc., che integra il concetto di comunizzazione, non equivale a negare il carattere processuale del trapasso rivoluzionario o la mediazione temporale che esso necessariamente comporterà, come se una sorta di paradiso comunista già bell'e pronto possa cadere dal cielo da un giorno all'altro. La distruzione dei rapporti capitalistici su scala mondiale occuperà un lasso di tempo che durerà sicuramente alcuni decenni, forse di più. Parlare di comunizzazione, significa negare che il passaggio al comunismo possa risultare vittorioso, senza tendere nettamente e fin da subito alla negazione di tali rapporti. Più specificamente, ciò significa negare attualità e valenza rivoluzionarie a tutte le forme cripto-mercantili ipotizzate e talvolta praticate dalle tre correnti del socialismo storico (marxismo, anarchismo e sindacalismo rivoluzionario) per sostituire – non fosse che in via provvisoria, dopo la conquista o la soppressione dello Stato – i rapporti di produzione e di distribuzione capitalistici (sistema dei buoni di lavoro, scambio di prodotti fra imprese autogestite, etc.). Per quanto possa apparire tautologico, il passaggio al comunismo non verrà da nient'altro che dal comunismo stesso, ovvero dal fatto che masse umane significativamente grandi avranno iniziato a produrre senza alcuna contropartita materiale o monetaria. Di contro al buon senso comune, è solo su questa base che potrà emergere un consumo egualmente libero da contropartita, cioè «gratuito». Una simile trasformazione non può attendere di aver sconfitto militarmente questa o quella frazione della classe capitalista, in tale o tal altra area del globo, e ancor meno di averla sconfitta definitivamente su scala mondiale. La distruzione integrale dell'apparato statale borghese (parlamento, governo, amministrazioni, esercito, polizia) e la dispersione dei suoi sostegni all'interno della popolazione (corpi intermedi, etc.), non possono che essere simultanee ed intrecciate alla vera e propria «espropriazione degli espropriatori», la quale non si decreta come un atto di vendita o una nazionalizzazione (in ogni caso come un cambiamento della proprietà giuridica), ma si pratica materialmente come espropriazione di tutto ciò che serve alla vita e alla lotta dei proletari insorti. Per vincere, essi sono costretti a negare la loro condizione di «senza riserve»: se restano tali – insorti ma a mani nude, e separati dai mezzi per vivere – sono già morti. Il concetto di comunizzazione, differente in ciò da quello di socializzazione (dei mezzi di produzione), non indica né una trasformazione pacifica e/o graduale, né un atto di natura giuridica, attinente ai soli rapporti di proprietà: ci si riferisce chiaramente ad un contesto insurrezionale, di scatenamento della violenza (anche armata), e ad uno sconvolgimento nella maniera di riprodurre la vita materiale nel suo senso più «terrestre».

Affermando che il passaggio al comunismo non è una «transizione», almeno non nel senso che questo vocabolo ha assunto nella storia delle dottrine socialiste, ovvero quello della coesistenza tra un modo di produzione ascendente ed un modo di produzione declinante, intendiamo insistere sul fatto che il MPC – come già accennato – non genera al proprio interno alcun modo di produzione embrionale. In molti hanno voluto vedere i segni di un tale modo di produzione embrionale nel carattere sociale della produzione capitalistica, per opposizione all'appropriazione privata. In ciò, si fa della contraddizione fondamentale del MPC – tutta interna ai rapporti di produzione – una «contraddizione» tra produzione e distribuzione: basterebbe allora «socializzare» anche la seconda, e tutto sarebbe risolto. Sciocchezze! Lo scopo della produzione capitalistica è l'estorsione di plusvalore. Questo non si traduce unicamente nel rapporto di subordinazione che fa chinare la testa all'operaia davanti al dirigente o al capetto – rapporto ratificato dall'ineguaglianza dei loro rispettivi «poteri d’acquisto» fuori dal luogo di lavoro. Oltre all'operaia e a chi la comanda, c'è tutto un mondo intorno: il macchinario, la linea di produzione, la fabbrica, i trasporti, la città, l'appartamento, la famiglia, la spesa al supermercato etc. I rapporti di produzione plasmano e si rispecchiano in una configurazione materiale: il macchinario, la linea e la fabbrica sono concepiti privilegiando necessariamente certi criteri piuttosto che altri (la redditività anziché la salute, ad esempio); le merci disponibili al supermercato e la forma dell'abitazione devono permettere una ricostituzione rapida e poco onerosa della forza-lavoro, etc. Nessuno di questi aspetti avrebbe il privilegio di passare immutato sotto le forche caudine del passaggio al comunismo. La soppressione della separazione del lavoratore dai mezzi di produzione e di sussistenza, non verrà da una sorta di diritto storico o morale al prodotto del proprio lavoro, e non può più essere assimilata all'atto del «legittimo proprietario» che rimette le mani sul «maltolto»3. Se questa concezione è stata per tutto un periodo quella prevalente, ciò dipende dal fatto che il lavoratore, già separato dai mezzi di sussistenza, aveva però ancora in mano la qualifica, la padronanza del processo produttivo; essa perde di senso allorché il capitale procede alla dequalificazione del lavoro, trasferendo le sue forze sociali (cooperazione, divisione del lavoro, scienza) al capitale fisso.

Se, dopo il 1945, teorici come Bordiga o altri hanno potuto avanzare una visione del comunismo inteso non come proprietà sociale o collettiva, ma come negazione di ogni forma di proprietà4, ciò non è dovuto a una «migliore» lettura dei classici (ogni lettura, buona o cattiva, è storicamente determinata), ma innanzitutto al fatto che le mutate condizioni storiche portavano a leggere i classici con occhi diversi. Per quanto Bordiga si richiamasse alla più stretta ortodossia, ciò non basta a cancellare la novità.

Analogamente, il concetto di comunizzazione non è caduto dal cielo: è emerso da un'ondata di lotte di classe (quelle degli anni '60/'70) e dalla loro critica. Se è vero che quelle lotte non si avvicinarono nemmeno ad una rottura insurrezionale, esse fecero apparire il proletariato in una veste diversa rispetto a quella che gli era stata tramandata dalle generazioni precedenti, e permisero di intravedere la forma stessa del trapasso al comunismo, non più come creazione delle condizioni di un comunismo rimandato alle calende greche (gestione operaia della produzione, generalizzazione della condizione proletaria, sviluppo ulteriore della forze produttive etc.), ma come contenuto inerente all'avvio stesso del processo rivoluzionario. «Ogni passo di movimento reale è più importante di una dozzina di programmi.» (Marx a Bracke, 5 maggio 1875).

Le concezioni che vedono nella prospettiva comunizzatrice una sorta di scorciatoia opportunista rispetto al duro cammino già tracciato dai classici, hanno il difetto di considerare la rivoluzione come la linea – più o meno retta o spezzata – che conduce dal punto A (il capitalismo) al punto B (il comunismo), dimenticando che B non esiste ancora, e che la sua «posizione» precisa rispetto ad A è sospesa alla traiettoria della linea che vi condurrà. Ciò non significa affatto riportare in auge il famoso motto di Bernstein «il movimento è tutto, il fine è nulla», né desiderare un trapasso rivoluzionario «più facile» (chi ha mai detto che sarebbe più facile?), ma semplicemente tenere materialisticamente in conto il rapporto tra il «movimento» e il «fine». Se l'uno e l'altro non sono coestensivi, il primo non condurrà mai al secondo. Inoltre, il «fine» è esso stesso pregno di storia e soggetto al mutamento: l'«invarianza del programma comunista», dato una volta per tutte nel 1848, non resiste alla critica. L'idea comunista appare non appena la classe capitalista si installa alla testa della società e la sua traiettoria si separa da quella del proletariato. In questo senso, esiste tutta una storia pre-marxiana e pre-quarantottesca del «programma comunista», non riducibile alle utopie sociali dei Saint-Simon, Owen et Fourier, e rigettata dai successori come «abbozzo primitivo». Per chi sa leggere, Marx stesso lo scrive: «Del “partito”, così come me ne parli nella tua lettera, non so più niente dal 1852. Se tu sei poeta, io sono critico, e mi è davvero bastata l'esperienza dal 1849 al 1852. La Lega [dei Comunisti, ndr], come la Société des Saisons di Parigi, come cento altre società, non è stata altro che un episodio nella storia del partito, che nasce spontaneamente dal suolo della società moderna.» (Marx a Freiligrath, 29 febbraio 1860; da notare che la Société des Saisons fu attiva dal 1837 al 1839, ndr). La visione del «come sarà dopo» e di come giungervi non smette di riformularsi in concomitanza con ogni dolorosa ricaduta del «movimento reale», prima, attraverso e dopo Marx. Il comunismo agrario di Babeuf non era più o meno realizzabile della «rivoluzione permanente» (Marx) nella Germania del 1848, ossia della transcrescenza – sempre e ovunque fallita – della rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria. Anche qui, come altrove, «l'anatomia dell'uomo spiega l'anatomia della scimmia» (Marx, Introduzione a «Per la critica dell’economia politica», 1857), nel senso preciso che la forma più recente e sviluppata, supera la precedente senza essere l'approdo teleologico in essa inscritto ab originem. Ogni ciclo storico della lotta di classe riformula il contenuto del comunismo e la forma della sua instaurazione sulla base della sconfitta del ciclo precedente e della ristrutturazione del rapporto di classe che ne segue, la quale rimodella allo stesso modo la composizione di classe del proletariato, le modalità del suo sfruttamento, le sue pratiche nelle lotte immediate, le forme di gestione della lotta di classe da parte dello Stato, la struttura mondiale dell'accumulazione, le interazioni fra i suoi poli nello sviluppo ineguale e combinato. Ogni ciclo storico e ogni riformulazione del contenuto del comunismo hanno ragione di considerarsi, di volta in volta, gli episodi ultimi, più maturi e definitivi, della lotta delle classi, anche se la storia darà loro torto.

L'avvicendarsi dei cicli storici della lotta di classe illustra la tendenza, niente affatto aleatoria, alla crescente separazione fra il contenuto della rivoluzione borghese e il contenuto della rivoluzione comunista. Più il modo di produzione capitalistico si sviluppa nel tempo e nello spazio, più il contenuto del comunismo di volta in volta formulato dalla teoria brucia i ponti che lo legano alle rivoluzioni storiche della borghesia. In ciò, la visione del comunismo non diventa «ciò che sarebbe sempre dovuta essere», semplicemente si riformula a contatto con nuove condizioni. Dalla iniziale rivendicazione di una semplice ripartizione egualitaria dei beni e dei lavori, essa evolve verso la rimessa in causa di tutti gli aspetti della vita umana, inglobando nel raggio visivo della sua critica, divisioni e antagonismi (lavoro/non-lavoro, rapporto uomo-natura, identità sessuali) più antichi, che il modo di produzione capitalistico ha inglobato e rimodellato a propria immagine5. Dialetticamente, questo scisma contiene anche il suo contrario: il «passaggio del testimone» fra capitalismo e comunismo non si manifesta più nella continuità della forza produttiva materiale, ma piuttosto nell'impossibilità di un ritorno ad un'economia del bisogno e del valore d'uso. Subordinando a sé tutta la produzione di valori d'uso e facendone un momento del processo di valorizzazione, il MPC ha generalizzato e portato all'estremo la disconnessione tra il bisogno immediato ed il fine della produzione, tra l'apporto del lavoratore singolo al processo produttivo e la parte di prodotto sociale destinata a riprodurlo, tra la finitudine dell'individuo e l'infinità della «produzione per la produzione». Ristabilire un avere commisurato al dare, foss'anche per la sola fase di trapasso al comunismo, sarebbe una regressione storica. Il MPC non prepara un ritorno – tanto insulso quanto irreale – ad una situazione anteriore, in cui i beni e i bisogni immediati sarebbero di nuovo l'alfa e l'omega della produzione: nel comunismo, essi resteranno ancora un momento, un supporto, non più per soddisfare la sete di plusvalore, ma il bisogno della ricchezza più grande: il bisogno degli altri.

 

Classe media declinante e frustrata

Se è vero che nessuna crisi economica, per quanto profonda, è in se stessa portatrice di comunismo, è altrettanto vero che tutti gli episodi più significativi della lotta di classe degli ultimi due secoli si sono svolti nell'ambito di congiunture economiche ben precise, al termine di una lunga spirale recessiva, come nel caso del 1848 o della guerra civile spagnola, oppure in corrispondenza del punto di flessione di una fase di prosperità (1871, 1917-‘21, 1968-‘73).

La crisi del 2008, per quanto non abbia suscitato episodi comparabili a quelli appena menzionati, segna comunque una rottura storica: dall'inizio degli anni '80 del secolo scorso, e per quasi trent'anni, nessuna delle numerose crisi finanziarie (crisi messicana del 1994, crisi asiatica del 1997-‘98, «bolla» delle dot.com del 2001 etc.) ha provocato cambiamenti così rilevanti a tutti i livelli, dal prosaico «potere di acquisto delle famiglie» alle vette della geopolitica mondiale. Nonostante le speranze nostre e altrui, ciò che ne è seguito non è andato nel senso di una ripresa rivoluzionaria. Le convulsioni della classe media hanno dominato la scena.

L'emergere di una classe media salariata – in tutto e per tutto legata allo sviluppo del modo di produzione specificamente capitalistico – è uno dei fenomeni più importanti e meno indagati dalla teoria rivoluzionaria nel corso del Novecento, e ancora oggi costituisce una pesante lacuna che dà adito ai più flagranti qui pro quo. Cerchiamo allora di vederci un po' più chiaro.

Già a partire dalla fine del XIX secolo, ma in proporzioni realmente massive solo dopo la Seconda Guerra mondiale, nelle aree centrali del MPC ha preso corpo e proporzioni via via crescenti uno strato di lavoratori salariati che – in ragione delle funzioni esercitate nella divisione del lavoro, della natura della loro remunerazione, e anche del loro modo di vita – poco ha a che fare con il proletariato o la classe operaia nel senso abituale di questi termini. Evidentemente, l'emergere di questa classe «derivata» è inscindibile da quella fase di prosperità che viene generalmente definita «boom economico post- bellico» o «Trenta gloriosi». Ma è bene sottolineare che la sua linea di sviluppo non si interrompe con la fine del ciclo di accumulazione fordista entrato in crisi all'inizio degli anni 1970. La fase successiva – che solo con grandi riserve e precauzioni possiamo definire «post-fordista» – conosce sì un ridimensionamento del peso numerico della classe operaia delle aree centrali sotto i colpi delle delocalizzazioni e delle ristrutturazioni aziendali, ma soprattutto la sua invisibilizzazione sociale e politica. Quest'ultima non è il frutto di un complotto. Alla radice del fenomeno vi è un doppio «salto» evolutivo del MPC, a livello economico-sociale, da un lato, e a livello prettamente politico, dall'altro. Da una parte, nelle aree centrali, la quota dei salariati produttivi di plusvalore ha preso a diminuire in rapporto a quella degli improduttivi (tanto nell'ambito del proletariato attivo, tanto a livello della popolazione attiva salariata presa nel suo complesso). Il grafico sottostante tenta di rappresentare l'odierna distribuzione del lavoro produttivo in seno ad un'ipotetica formazione sociale centrale. Per comodità, i disoccupati sono stati computati dal lato della popolazione inattiva, benché figurino fra gli «attivi» nella contabilità degli istituti statistici come l’ISTAT. La parte striata rappresenta il lavoro produttivo di plusvalore che, come si vede, concerne anche una buona fetta della classe media salariata, oltre che una ristretta porzione di piccoli borghesi (agricoltori, artigiani, «padroncini») detentori di capitali talvolta microscopici, e che intervengono attivamente nel processo di lavoro. Se ne deduce non già una perdita di centralità del lavoro produttivo, ma la sua tendenziale eccentrazione rispetto al proletariato, che dipende a) dalla quota crescente di capitali improduttivi (sfera della circolazione del capitale); b) dalla crescita delle funzioni di inquadramento in seno all'economia privata, e quindi anche ai settori produttivi di plusvalore.

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D'altro canto, in queste aree centrali dell'accumulazione – che certo non esauriscono la dinamica del MPC, ma tuttavia ne guidano lo sviluppo – il baricentro della stabilità del sistema politico si è spostato «verso l'alto», ciò che si è tradotto, tra l’altro, nella fine delle opzioni politiche socialdemocratiche (o staliniste, poi convertitesi alla socialdemocrazia). Quelle opzioni – che non meritano alcuna nostalgia, giacché furono un prodotto genuinamente controrivoluzionario delle sconfitte del proletariato fra le due Guerre – significarono però un'integrazione reale di fette consistenti del proletariato all'interno del sistema rappresentativo.

Ora, lo scoppio della crisi nel 2008, ha reso manifesta l'obsolescenza – innanzitutto economica, ma anche politica e sociale in senso lato – di una simile configurazione. Le crisi generali (distinte dalle crisi locali) sono sempre crisi di sovraccumulazione: esse sgorgano sempre dal rapporto fra le due classi fondamentali, e sono date dall'insufficienza del plusvalore estorto in rapporto al capitale accumulato. Ma la maniera in cui la crisi si manifesta, in cui «sceglie» il suo punto di innesco – che questo si situi direttamente nell'ambito del capitale industriale, o piuttosto di quello produttivo d'interesse (finanziario), o commerciale, o rentier – non è puramente accessorio. Nel 2008, furono i mutui subprime negli USA, e dunque principalmente l'incapacità degli strati inferiori della classe media americana (anche della classe operaia, ma in misura decisamente minore), a fungere da punto di innesco. Questo fatto marca l'inversione nella curva di sviluppo della classe media salariata, quella stessa inversione che – sia detto en passant non avvenne con la grande crisi del 1973-‘74. Ovviamente l'attacco generale ai salari e alle condizioni di lavoro, dal 2008 ad oggi, ha investito tanto i proletari che la classe media; ma bisogna sottolineare che quest'attacco è stato moderato dai residui margini in materia di politica economica che i governi hanno potuto sfruttare – dai salvataggi delle banche fino all'inondazione di valuta – al fine di rinviare l'ora della verità, e senza i quali le conseguenze sulle attività industriali sarebbero state ben più importanti. Le crisi sociali vere e proprie, catatterizzate da proporzioni nazionali e da una riduzione drastica e repentina del tenore di vita generale, sono rimaste circoscritte. In questa situazione, l'impoverimento della classe media – reale o temuto – ha preso il sopravvento. Tale impoverimento – visibile nei dati sul reddito, nella svalutazione dei titoli di studio, nella crescente introduzione di processi di automazione della circolazione del capitale (banche, assicurazioni) etc. – non è ipso facto sinonimo di proletarizzazione: una classe media impoverita resta classe media; una classe media proletarizzata è una classe media che diventa proletariato non solo in relazione al livello di retribuzione, ma anche al tipo di lavoro (di esecuzione) o di non-lavoro (non tutti i disoccupati si equivalgono), e più in generale dal punto di vista del rapporto complessivo coi mezzi di sussistenza. Un vero processo di proletarizzazione della classe media si spalma su più generazioni, poiché gli effetti dell'abbassamento dei salari mediani e superiori sono compensati per un certo tempo dalla solidarietà fra generazioni e dalla trasmissione dei patrimoni.

In merito alla distinzione fra proletariato e della classe media, l'approccio proposto nel secondo numero de «Il Lato Cattivo», così centrato sulla questione del lavoro produttivo di plusvalore, è stato fonte di malintesi6. Nel XIX e per buona parte del XX secolo, l'importanza della questione del lavoro produttivo, in ambito marxista, si radicava nella possibilità di ricavarne in via approssimativa una distinzione di classe. Marx stesso, che pure ha più volte insistito sul carattere sociale e non individuale del lavoro produttivo (il lavoratore produttivo è il lavoratore combinato), sulla possibilità che anche un padrone possa essere, in date circostanze, un lavoratore produttivo etc., ha sempre e comunque privilegiato la definizione del proletariato come classe del lavoro produttivo, piuttosto che come classe dei «senza riserve». Oggi la prima definizione resta pertinente, poiché il lavoro produttivo resta in gran parte appannaggio del proletariato (sopratutto in un ottica mondiale), ma l'evoluzione storico-sociale delle aree centrali, e anche semi-periferiche, obbliga a rimettere qualche puntino sulle «i», non solo in ragione del peso numerico della frazione produttiva di plusvalore della middle class, ma anche della frazione improduttiva del proletariato e della sovrappopolazione relativa (i disoccupati).

«Con lo sviluppo del modo di produzione specificamente capitalistico, in cui molti operai collaborano alla produzione della stessa merce, il rapporto immediato tra il loro lavoro e l'oggetto della produzione deve essere naturalmente molto diverso. Per esempio i manovali di una fabbrica, ai quali abbiamo precedentemente accennato, non hanno direttamente niente a che fare con la lavorazione della materia prima. I lavoratori che hanno il compito di sorvegliare gli operai direttamente impegnati in questa lavorazione stanno un gradino più in alto; l'ingegnere si trova a sua volta in un altro rapporto, e lavora essenzialmente con la sola testa. Ma l'insieme di questi lavoratori, i quali possiedono capacità lavorative di valori differenti [...], produce il risultato che si esprime [...] in merce o in un altro prodotto materiale; e tutti insieme, in quanto maestranze della fabbrica, sono le macchine viventi per la produzione di questi prodotti, così come essi – considerando il processo complessivo – scambiano il loro lavoro contro capitale, e riproducono il denaro dei capitalisti come capitale, cioè come valore che si valorizza, come valore che si accresce.

«È appunto l'elemento caratteristico del modo di produzione capitalistico, quello di separare i diversi lavori, quindi anche i lavori intellettuali e manuali – ossia i lavori nei quali prevale l'uno o l'altro aspetto –, e di ripartirli tra diverse persone; e ciò tuttavia non impedisce al prodotto materiale di essere prodotto comune di queste persone, o di oggettivare il loro prodotto comune in ricchezza materiale, e ciò d'altra parte non impedisce nemmeno, ovvero non cambia per niente i termini della questione, che il rapporto in cui si trova ognuna di queste persone presa singolarmente, sia quello del salariato rispetto al capitale, e che in questo senso sia essenzialmente quello del lavoratore produttivo. Tutte queste persone non soltanto sono immediatamente occupate nella produzione di ricchezza materiale, ma scambiano immediatamente il lavoro col denaro in quanto capitale e perciò, oltre al loro salario, riproducono immediatamente un plusvalore per il capitalista. Il loro lavoro consta di lavoro pagato più pluslavoro non pagato.» (Karl Marx, Teorie del plusvalore, tomo I, Editori Riuniti, Roma 1993, pp. 442-3).

Tutto ciò che viene detto in questo passaggio è perfettamente giusto... salvo su un punto: la gerarchia di fabbrica dà luogo ad una gerarchia dei redditi che non corrisponde ai «valori differenti» delle diverse «capacità lavorative» dell'«insieme di questi lavoratori». In virtù della funzione che vi esercitano (inquadramento, sorveglianza, concezione), i segmenti intermedi della gerarchia accedono a livelli salariali che, lungi dal limitarsi alla stretta riproduzione della loro forza-lavoro, permettono la costituzione di riserve in ragione di un extra incluso nei salari mediani, che deve essere considerato come una frazione del plusvalore7. L'opzione tradizionale che consiste nel definire la classe media sulla base dello scambio di lavoro contro reddito (e non contro capitale), è dunque una falsa pista poiché: a) all'interno dei settori produttivi, questi segmenti intermedi sono in effetti produttivi di plusvalore, e scambiano il loro lavoro direttamente contro capitale; b) all'interno dei settori improduttivi (capitali improduttivi e pubblico impiego) alimentati dal plusvalore estorto in quelli produttivi, tenderà a generalizzarsi il medesimo meccanismo. Questo è in sostanza lo schema.

La «morale della favola» (ben poco favolistica) è che, nelle condizioni odierne, l'insufficienza di plusvalore in rapporto al capitale accumulato si traduce, fra il resto, in un restringimento più o meno importante della componente extra inclusa nella remunerazione della classe media – ciò che rende maggiormente intelligibile l'ondata di lotte che abbiamo definito interclassiste dal 2008 al oggi. Nei sommovimenti che hanno scandito questo lasso di tempo, la regola generale (che comporta evidentemente qualche eccezione), pur declinandosi in maniera diversificata, è stata la preponderanza della classe media nelle piazze. È ciò che si è visto nel movimento Occupy negli USA, nei movimenti di Indignados in Grecia e in Spagna, nella «rivolta delle tende» in Israele, nelle proteste a Hong Kong, etc. Fatte le debite distinzioni tra la composizione sociale di classe delle formazioni sociali semi-periferiche e quelle centrali, è quello che si è visto egualmente in Iran nel 2009, nei movimenti anti-governativi in Brasile, in Turchia, etc. In verità, solo nel corso delle primavere arabe di Tunisia e in Egitto, vi è stata una vera partecipazione operaia con cui le altri componenti sociali della protesta hanno dovuto fare seriamente i conti.

Per quanto l'attualità segnali una certa prosecuzione di quest'ondata (Corea del Sud, Romania, Venezuela, Brasile), sembrerebbe che ci siamo lasciati dietro le spalle il suo picco, il quale ha interessato – debolmente, ma tant'è – anche le zone centrali dell'accumulazione. Globalmente, si può affermare che nel quadro qui tratteggiato, il proletariato è rimasto muto: le sue lotte, dentro e fuori i movimenti interclassisti, ci sono state, ma al di là delle proporzioni spesso modeste (eccezion fatta per la Grecia, l'Egitto e la Tunisia), esse hanno quasi sempre riprodotto le caratteristiche che le erano già proprie prima della crisi del 2008, senza manifestare un cambiamento di pratiche tale da far intravvedere la possibilità di una rottura. Anche le rivolte da sovrappopolazione relativa come quelle scoppiate in Gran Bretagna nel 2011, per quanto importanti, non hanno mostrato fino ad oggi alcuna dinamica interna di auto-superamento, così come altrove le lotte sul posto di lavoro per la difesa dell'impiego, del salario e delle condizioni di lavoro. Di più, nel «ventre della balena» (Europa occidentale, USA e Giappone) il livello di conflittualità nei settori produttivi di plusvalore è molto basso; ed è difficile vedere una compenetrazione dei poli (esercito attivo ed esercito di riserva), se non in situazioni geograficamente lontane e che meriterebbero uno studio ad hoc (rivolte operaie in Cina, Bangladesh, India, etc.), particolamente arduo in ragione della difficoltà a reperire informazioni, fonti affidabili, e analisi non inficiate da uno schema preconcetto. In ogni caso, contro ogni possibilismo, la preponderanza dei movimenti interclassisti e l'assenza di una visibile dinamica inerente alle lotte del proletariato escludono categoricamente una ripresa rivoluzionaria a breve termine. Per ora nulla lascia pensare che siamo fuori dal tunnel, e rispetto agli anni immediatemente successivi alla crisi lo scenario si fa più cupo. La domanda oggi insolubile è: fino a quando? E come individuare i segnali di un'eventuale accelerazione storica?

La nostra ipotesi è che un cambiamento di fase sarà chiaramente riconoscibile dalla combinazione ravvicinata di due fattori: lo scoppio di una crisi dai tratti ben specifici8; e l'entrata in scena su vasta scala dei proletari produttivi e/o stabilmente occupati. Quest'ultima si farà in maniera completamente diversa tanto dalle sue forme trascorse (anni '20 o anni '60-'70) che da quella dei movimenti interclassisti. Questi ultimi che sono movimenti tipicamente politici, e come tali mirano a far valere il numero concentrandosi nelle piazze, a ridosso dei luoghi del potere, o in luoghi carichi di significati simbolici. L'entrata in scena del proletariato occupato, viceversa, non può farsi oggi se non in maniera molecolare, polverizzata sul territorio, così come è polverizzato sul territorio il tessuto produttivo post-fordista, in Europa occidentale o negli USA, ma anche – in misura minore – nelle «officine del mondo» (resta che il 65% degli stabilimenti industriali e manifatturieri cinesi è costituito da piccole imprese situate in campagna o in piccoli centri urbani). Nel 2005, in Francia, la rivolta cosiddetta delle banlieues francesi – esterna ai luoghi di lavoro – ha toccato, nel giro di 3 settimane, 280 comuni. Le rivolte del 2011 in Gran Bretagna hanno obbedito ad un logica simile, manifestando una mobilità anche maggiore. Bisogna immaginarsi un processo di propagazione analogo, ma che investa la sfera della produzione.

 

Burn-out democratico

La lotta fra le due classi fondamentali del MPC è stata ed è tutt'ora il motore del suo sviluppo. Ciò è vero non soltanto dal punto di vista delle modificazioni nelle modalità di consumo (produttivo o improduttivo) della forza-lavoro, ma anche dal punto di vista strettamente politico delle forme di gestione dello Stato, delle costituzioni, etc.. Non è la concorrenza, ma la resistenza dei lavoratori all'allungamento della giornata lavorativa che ha, storicamente, obbligato i padroni di ogni latitudine a reinvestire in mezzi di produzione, puntando più sull'intensità e la produttività del lavoro (plusvalore relativo) che sull'estensione e sulla moltiplicazione delle giornate di lavoro (plusvalore assoluto). Certo, non sono stati i proletari a «scoprire» che è possibile praticare uno sfruttamento redditizio della manodopera anche senza una giornata lavorativa di 16 ore o senza far lavorare bambini di 8 anni, ma la loro resistenza ha spinto i loro datori di lavoro all'inventiva, ciò che si è rivelato essere conforme al loro interesse, almeno fino a un certo punto. In tempi più recenti, la tendenza inversa, al disinvestimento, alla delocalizzazione, alla ripresa del plusvalore assoluto, ha obbedito – mutatis mutandis – alla stessa logica. In maniera analoga, se a posteriori si può considerare che l'instaurazione della repubblica democratica (sistema rappresentativo) fosse essenzialmente conforme alla riproduzione del capitale, tanto il capitalista singolo che la classe capitalista nel suo insieme non hanno alcuna vocazione ad essere per natura democratici, e la storia politica degli ultimi due secoli mostra a sufficienza che il tragitto verso il «trionfo» democratico simbolizzato dalla caduta del Muro non è stato per nulla lineare. Dal momento in cui le sue attività non sono più ostacolate dalla dominazione di un'altra classe (pre- capitalista), il singolo capitalista non ha alcuna propensione a pensare in un orizzonte che vada al di là dei suoi interessi privati e a breve termine; è il perpetuarsi della lotta di classe al di là dei rivolgimenti anti-feudali che gli impedisce di lasciarsi andare alla sua spontanea ottusità. L'ascesa del movimento operaio tradizionale, e la rivendicazione ad aver voce in capitolo nella società e nella vita politica nazionale – propria a tutti i grandi movimenti proletari a cavallo tra il XIX e l'inizio del XX secolo, insurrezioni comprese – ha svolto una funzione di pungolo. E laddove si imposero soluzioni autoritarie di tipo fascista, le successive transizioni democratiche – più o meno burrascose – non poterono prescindere da una vasta mobilitazione (riformista) del proletariato. In ciò, non è il proletariato ad aver lottato «per la democrazia», ma esso ha finito per infondere al borghese occidentale una fede democratica quasi religiosa. Questa dinamica, che ha esportato il sistema rappresentativo su una considerevole parte del globo, è stata possibile laddove la concorrenza economica fra produttori privati si è sviluppata in misura sufficiente per disorganizzare i poteri tradizionali, e sostenere un minimo di concorrenza politica tra fazioni raccolte attorno ad interessi economici relativamente omogenei. La teoria dello sfruttamento e del plusvalore è in fondo l'unica teoria a poterla veramente spiegare, perché se dal processo di produzione capitalistico non uscisse costantemente più valore di quanto ne entri, non si vede proprio come il capitalismo e la democrazia avrebbero potuto espandersi ai quattro angoli del pianeta. Ma anche le condizioni dell'esportazione di capitali non hanno mai obbedito alla sola concorrenza economica, a prescindere dalla lotta di classe. «La repubblica democratica è il migliore involucro politico possibile per il capitalismo; per questo il capitale [...] fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti nell'ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo» (Lenin, Stato e rivoluzione, 1917). A distanza di cent'anni, queste parole suonano ancora più vere. La concorrenza economica necessita di tradursi in una certa concorrenza politica, e la democrazia parlamentare è la cornice formale che assolve meglio a questa traduzione; cionostante, in assenza di questa, la concorrenza politica trova più o meno facilmente altri canali e altre forme di espressione (informali e invisibili, oppure iper-violente) e il capitale può accomodarvisi per periodi più o meno lunghi: 12 anni nel caso del nazionalsocialismo tedesco, una settantina d'anni nel caso dell'URSS. Il concetto di «totalitarismo» può soddisfare i liberali, ma in una comprensione materialista della storia sociale risulta fuorviante: allorché il capitale è ben impiantato, non c'è regime autoritario che non sia attraversato dalla concorrenza fra fazioni distinte ed opposte; che poi questa concorrenza si svolga dentro ad un partito unico, e trovi come arbitro un qualche Grande Dittatore, non è indifferente, ma non cambia la sostanza. La Cina attuale rappresenta un'altra interessante illustrazione di questo stato di cose: nonostante la sua conversione liberale dati ormai dall'inizio degli anni '80, nonostante Tienanmen, nonostante l'ascesa di una consistente classe media, nonostante la forte domanda sociale di sindacati indipendenti etc., Pechino può ancora fare a meno di elezioni libere, e c'è da scommettere che se esse verranno introdotte, non sarà in conseguenza di un risvolto pacifico o puramente di palazzo.

Fatte queste considerazioni preliminari, gli interrogativi sono i seguenti: da dove viene l'attuale «disagio della democrazia» occidentale? E dove va? Le analisi dei politologi possono essere utili per individuarne i sintomi (disaffezione alla pratica del voto, anti-politica, fragilizzazione degli esecutivi, etc.), assai meno per andare alla radice delle cause. Come già ricordato più in alto, in Europa occidentale la dissoluzione dei partiti operai riformisti culminata con lo smembramento del Blocco dell'Est ha portato a compimento la fine della rappresentenza istituzionale della classe operaia. Questo fatto si inscrive in una più ampia riconfigurazione della funzione degli Stati, occidentali in particolare, quale portato provvisorio dell'ondata rivendicativa giunta al suo climax tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70. Come è noto, la fase di intensa ristrutturazione aperta dalla crisi del 1973/1974 conobbe – fra il resto – una crescente internalizionalizzazione degli investimenti: la multinazionalizzazione del grande capitale ne è stata la forma concreta. Ora, se è vero che il tema delle grandi imprese multinazionali è stato sviscerato in lungo e in largo nei suoi vari aspetti (ottimizzazione fiscale, valorizzazione degli ineguali livelli di sviluppo e della specializzazione geografica, disinteresse per le considerazioni di politica nazionale, etc.), per quanto riguarda l'impatto sul funzionamento dello Stato ci viene detto che questo si è «indebolito», senza mai specificare il contenuto di questo indebolimento, e riconducendolo alla necessità, per gli Stati-nazione, di confluire (volenti o nolenti) in una multilevel governance che in parte li trascende. Ma l'importanza e il significato di questo punto varia grandemente in funzione di dove si vuole andare a parare... e le geremiadi sulla perdita di sovranità degli Stati-nazione non vanno senza un buona dose di grossolane amnesie. Non solo la multinazionalizzazione non si è fatta semplicemente «ai danni» della sovranità degli Stati-nazione (essi vi hanno partecipato attivamente) ma, più in generale, è bene ricordare la gran parte degli Stati di cui si rimpiange la «sovranità» non sono del resto mai stati sovrani, o non lo sono più almeno dal 1945, salvo credere che l'Alleanza Altantica o il Patto di Varsavia fossero amichevoli combriccole cementate da accordi rescindibili a piacere. I carri armati sovietici in Ungheria (1956) e Cecoslovacchia (1968), così come i numerosi colpi di mano sostenuti dallo Zio Tom nei suoi vari cortili mostrano che le cose stanno diversamente. Andando più indietro nel tempo – fine del XIX e inizio del XX secolo –, al momento dell'apogeo dello Stato-nazione, la sua forme dominante è quella dell'impero europeo (britannico, francese, austro-ungarico, prussiano), comprendente più sotto- Stati; mentre nel processo di adeguamento extra-occidentale alla forma dello Stato-nazione, all'epoca della decolonizzazione prima e della dissoluzione del Blocco dell'Est poi, la sostanza di quell'apogeo (l'affermazione di autentiche borghesie industriali autoctone) è andata scemando. Buona forse per lanciare qualche carriera, la questione della sovranità nazionale – anche solo monetaria9 – , è una falsa pista. Per quanto le si possa cercare «fuori» (organismi sopranazionali, istituti di rating, etc.), le ragioni dell'attuale focalizzazione sullo Stato-nazione non si riducono ad un'impedimento puramente esterno. La tendenza (per definizione incompiuta) può essere definita come il disfacimento della separazione dello Stato, la quale porta con sé un dissesto delle sue separazioni interne fra corpi e poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario). Diversamente da altri modi di produzione, il MPC conferisce allo Stato un carattere separato: economia e potere politico, al di là delle loro innumerovoli interazioni, restano in linea di principio sfere distinte. Lo Stato, per servire efficacemente come strumento della classe dominante, deve essere separato tanto dalla società civile, tanto dalla classe dominante stessa (la quale trasferisce la gestione politica dei suoi interessi al di fuori dell'impresa privata), tanto dalla lotta di classe, per potervi intervenire in ogni momento10. Una gestione complessiva della concorrenza inter-capitalistica e del rapporto fra capitale e lavoro necessita di questa separazione, giacché l'azione dello Stato mira ad assicurarne ad ogni momento le migliori condizioni generali di riproduzione, anche a spese di taluni interessi particolari. Va da sé che ogni regola conosce le sue eccezioni. Nel caso del capitalismo di Stato, è lo Stato stesso a farsi carico dell'attuazione degli investimenti – funzione che in condizioni normali apparterrebbe agli imprenditori privati. Per quanto questo tipo di assetto non sia né generalizzabile né davvero efficace, una certa integrazione fra Stato e impresa può risultare duratura, a patto di farsi sotto l'egida dello Stato. All'inverso, se in virtù di circostanze particolari questa integrazione vede lo Stato in posizione subordinata, la sua stabilità interna diviene particolarmente critica, perché ne risulta un apparato troppo prigioniero degli interessi privati che lo attraversano, troppo prigioniero delle cricche, dei racket, dei clan che lo abitano. Giacché se è vero che lo Stato, come l'impresa, si può ridurre ad un'insieme di funzioni, il fatto che l'unità fra le parti prevalga su qualsiasi spinta centrifuga dipende non solo dalla rigida compartimentazione interna, ma soprattutto dall'integrità della separazione con l'ambiente circostante, la quale non si mantiene senza l'azione di un pungolo esterno. Storicamente, la preponderanza del capitale nazionale (anche monopolistico) da un lato, e la visibilità di un nemico di classe incarnato in grandi organizzazioni sindacali e politiche (anche quando integrate allo Stato) hanno assolto a questo ruolo di pungolo. Divenuta secondaria la prima ed evanescente la seconda, la coerenza della totalità statuale ne risente: le maglie della separazione esterna e della compartimentazione interna si allentano. Il potere politico statuale non può svolgere la sua funzione di comitato d'affari della borghesia (principalmente la grande borghesia delle grandi società multinazionali), senza entrare in conflitto con le istanze maggiormente autonome – magistratura, corti costituzionali, etc. – le quali diventano, volenti o nolenti, le roccaforti attive di un passatismo (lo Stato separato). La necessaria gestione della lotta di classe tende a ritirarsi nel Ministero dell'Interno. Ne discende una conflittualità permanente che – per essere sostenibile e sfociare in un equilibrio, per quanto precario – implica il dispiegarsi di una conflittualità frazionistica finalizzata a difendere gli statuti, le prerogative e le posizioni acquisite di ciascun corpo. Le interferenze fra i rispettivi domini non possono che aumentare esponenzialmente, nella misura in cui ogni corpo si difende gettando il fante di spade tra le carte dell'avversario. Contrariamente a ciò che pensano i buoni democratici, questa evoluzione – più o meno avanzata a seconda dei contesti – non è contingente, prodotto di «manchevolezze» soggettive delle cariche istituzionale, ma un fatto strutturale e onnipresente, almeno in potenza: se l'Italia si è mostrata sicuramente all'avanguardia, dalla crisi del 2008 il problema tende a generalizzarsi, come illustrato dalle tensioni fra l'amministrazione Trump e la Corte d'appello in USA, dal decreto «salva-corrotti» in Romania e dalla riforma della giustizia in Polonia (rimesse nel cassetto, per il momento, in seguito alle proteste di piazza), o ancora dal ricorso presentato della Corte Costituzionale tedesca presso la Corte di Giustizia europea in merito alla conformità del quantitative easing, che ha suscitato le ire del signor Schäuble.

L'integrazione fra Stato e impresa privata – e mafia nel caso italiano, come sicuramente in altri – è diventata troppo forte, anche dal punto di vista, prettamente capitalista, del loro funzionamento ottimale. Ciò è visible anche nelle modalità di ricambio del personale statale di rango medio-alto. Se al giorno d'oggi si può osservare, in materia di reclutamento dei quadri della pubblica amministrazione, un crescente afflusso dal privato al pubblico, il personale politico deluxe, quello che conta, assume i tratti della neoborghesia rampante a cui sempre più spesso deve la sua ascesa, la quale – per riprendere una formula di Marx a proposito dell'aristocrazia finanziaria francese della metà del XIX secolo – appare come «la riproduzione del sottoproletariato alla cima della società»; da qui il successo politico di personaggi atipici, spesso caricaturali, estranei alla gravità degli statisti di un tempo che, pure loro, non erano dei santi, ma nel coltivare l'arricchimento personale, la corruzione e il clientelismo, sapevano praticare il segreto, la discrezione, le apparenze rispettabili. «L'oro e le ricchezze del capitalismo non sono più che orpelli luccicanti, i suoi valori sono in sfacelo, la borghesia drogata balla, si abbuffa, fornica da davanti e di dietro, sbraita e reprime andando in senso opposto alla storia: è divenuta pazza, e si rovina con le proprie mani» (La crisi storica del capitale drogato, Edizioni 19/75, Torino 1979, p. 117). Viene da chiedersi cosa avrebbe scritto l'autore di queste righe (non prive di una punta di omofobia), che dava a torto il capitalismo per già spacciato, di fronte ai laidi ceffi dei giorni nostri. Quarant'anni dopo, la differenza essenziale non sta nel fatto che un eccentrico magnate promuova, in fatto di rapporti con le donne, la politica del to grab them by the pussy, ma che questo stesso magnate sia il presidente della prima potenza mondiale... e che il suo segretario di Stato sia l'ex-CEO di ExxonMobil.

Come che sia, questa coesistenza e combinazione tra gestione manageriale e gestione parassitaria della sfera statale, con tutte le loro interpenetrazioni, limita grandemente l'efficacia e la reattività dell'azione statale nel suo rapporto alla società, soprattutto in una situazione di rarefazione del plusvalore. Molto banalmente, non ci sono soldi «dove servirebbero», e ce ne sono troppi dove «paga pantalone». In condizioni simili, anche l'obiettivo di una razionalizzazione della spesa pubblica, proprio alla gestione manageriale del pubblico impiego, non può che andare incontro a successi limitati.

Dal punto di vista del disperso «partito della sovversione», l'attuale il disfacimento dello Stato separato è una buona novella, che annuncia la possibilità di una paralisi istituzionale completa di fronte ad un'eventuale rottura insurrezionale. Guardiamoci però da facili ottimismi: una ripresa rivoluzionaria, o anche solo un forte slancio rivendicativo, potrebbe contrariare questa tendenza in luogo di esacerbarla. I nemici più infidi, da qualunque parte verranno, saranno coloro che ambiranno a ristabilire «uno Stato che funziona», con tutta l'ambiguità contenuta in questa formula: uno Stato che osa rinunciare al TAV o ad altre «grandi opere», ma anche uno Stato capace di domare l'insubordinazione operaia imponendo al padronato delle concessioni. Questo sarà uno degli assi della controrivoluzione di domani, che come ogni controrivoluzione comporterà anche una componente proletaria.

Lo Stato non-separato è una trasgressione dell'ordine all'interno dell'ordine. Con esso, la disconnessione – parziale e circoscritta – dello Stato dal quadro nazionale manifesta i suoi limiti assoluti (impossibilità di uno Stato mondiale). La trasgressione non annulla l'ordine, e non è né definitiva né irreversibile. Lo Stato separato è lo Stato del capitale nazionale; in quanto tale, il suo ritorno in auge a lungo termine è difficile ma non è escluso: dipenderà da un movimento degli investimenti che possa dargli sostanza. La depresssione lunga iniziata con la crisi del 2008 non sembra per ora essere caratterizzata da un'accelerazione nell'internazionalizzazione degli investimenti analoga ai precedenti del 1873-1896 e del 1973-1990: dal 2008 ad oggi, il trend degli IDE (investimenti diretti all'estero) è stato sostanzialmente stagnante. Pausa o tendenza di lunga durata? Chi vivrà vedrà.

Il massivo rigetto della politica, nella forma dell'astensionismo e (in misura minore) del populismo, è la contropartita necessaria della tendenza verso lo Stato non-separato. Fenomeno ambivalente, la cui comprensione deve guardarsi da letture semplicistiche, giacché la sua natura è del tutto differente dall'antiparlamentarismo o dall'astensionismo di anarchici e marxisti di sinistra di altri tempi. Il minimo che si possa dire è che finché questo rigetto non sarà portato innanzi da lotte proletarie diffuse e ricorrenti che ne cambierebbero il contenuto, questo rigetto della politica resterà all'interno di ciò che rigetta, che esso sbocchi nell'astensione o meno. «Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l'uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si afferma come comunità, e la vita nella società civile nella quale agisce come uomo privato [...] La rivoluzione politica [cioè la rivoluzione borghese, ndr] dissolve la vita civile nelle sue parti costitutive, senza rivoluzionare queste parti stesse né sottoporle a critica». (Marx, Sulla questione ebraica, 1844). Da questa «doppia vita» degna di Doctor Jekill e Mr. Hyde, non si esce così come si scende dall'autobus: gli alti e i bassi della lotta di classe quotidiana fanno prevalere l'una o l'altra delle sue «parti costitutive» (l'individuo terreno e il cittadino), ma solo un salto qualitativo può «sottoporle a critica». L'idea che la crescita dell'astensione sia sintomatica di una qualche «radicalizzazione», non è che il rovescio speculare dell'elettoralismo: «La socialdemocrazia, soprattutto prima della guerra [del 1914-1918, ndr], si rappresentava l'avvenire come accrescimento incessante dei suffragi fino al momento della presa totale del potere. Per lo spirito volgare o pseudo- rivoluzionario questa prospettiva resta, in fondo, in vigore; solamente, in luogo dell'accrescimento incessante dei suffragi, si parla della radicalizzazione incessante delle masse». (Lev Trotsky, La «Troisième Période» d'erreurs de l'I.C., 1930).

 

Giradischi inceppati

Il movimentismo è, come si dice in questi casi, «alla frutta». I sintomi sono molteplici, e sviscerarli tutti non sarebbe che un'esercizio superfluo. Concentriamoci sull'essenziale. Dallo sparticque del 2008, il mercato della politica extraparlamentare (ci riferiamo qui all'estrema sinistra, non all'estrema destra) è una branca saturata: al di là delle sue periodiche ricomposizioni, non inventa più nulla. Non è sempre stato così: per un certo tempo, la «galassia antagonista» ha avuto un dinamismo proprio. Non si tratta di un giudizio politico, ma di una semplice constatazione. I centri sociali occupati e/o autogestiti, i controvertici, il black bloc, il movimento pacifista contro le guerre in Iraq e Afghanistan (non per il suo pacifismo, ma per i suoi tratti distintivi), l'interesse suscitato da movimenti come lo zapatismo, erano in primo luogo delle novità – novità che si imposero come materia di analisi e di polemica (non esente da confrontazioni fisiche). Ormai da diversi anni, questo dinamismo si è esaurito, e l'arcipelago dell'antagonismo riciccia, sopravvive a se stesso. Nella misura in cui gli appoggi istituzionali della sua componente «moderata» non sopravvivono o non si rigenerano se non localmente, il suo baricentro si sposta verso destra (la destra dell'estrema sinistra), mentre la sua componente «radicale», privata di un nemico prossimo (il «cittadinismo»), va alla deriva, degenerando nel nichilismo, nel tribalismo politico o nella gang, oppure ancora nella difesa di ciò che anni orsono ferocemente criticava. Sopravvive meglio chi ha i mezzi o il radicamento territoriale per farlo, ma la tendenza è verosimilmente di lunga durata, e i focolai di lotta di classe che si accendono qui e là minacciano di esacerbarla ancor più: la loro moltiplicazione non farebbe che portare discordie e divisioni in ambiti che, in buona sostanza, perseguono l'articolazione consensuale di interessi eterogenei (lotte per la casa, lotte studentesche, sindacalismo di base, migranti, lotte ecologiste, attività alternative, subculture varie, etc.), federabili solo parzialmente e su piccola scala. La «conquista delle masse» resta fuori portata. Come si è visto, le famose classi popolari (eufemismo per dire proletariato + strati inferiori delle classi medie) possono sì convergere in una lotta interclassista, ma in maniera infinitamente più caotica che al tempo del Fronte Popolare e del Fronte Antifascista nel '36-'37, dove l'alleanza era ratificata ed inquadrata perfino militarmente da grandi organizzazioni come il PCF e la SFIO in Francia, o la CNT, il PSOE e il PCE in Spagna. D'altro canto, tali organizzazioni capitalizzavano a loro modo uno slancio proletario vigoroso, mentre i «capitalizzatori» piccoli e grandi di oggi non capitalizzano più nient'altro che le sconfitte, come mostrano gli esempi di Syriza in Grecia, di Podemos in Spagna o, in misura minore, della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon oltralpe. In questo senso, si può scommettere che i sussulti provenienti dall'arcipelago antagonista avranno un andamento sempre più inverso rispetto al corso della lotta di classe quotidiana. Le vicissitudini legate al referendum del 4 dicembre 2016 in Italia, e gli avvenimenti recenti del G20 di Amburgo sembrano confermarlo.

In merito al referendum del 4 dicembre, non potevamo che apprezzare la notevole presa di posizione del documento C'è chi dice Si, c'è chi dice No. C'è chi dice organizzazione autonoma11 (novembre 2016), firmato da varie sigle di Roma e dintorni, in particolare quando afferma che:

«[...] la partecipazione del movimento antagonista alla sfida referedaria di dicembre ci sembra il punto più basso mai raggiunto [...] in termini di scissione dal pantano della politica, di chiarezza delle proprie identità e delle proprie proposte. [...] alti momenti di rivolta e insurrezione, pure se avvenuti in occasione di crisi istituzionali, sono riusciti più “forti” perché erano il risultato di un clima di conflittualità militante (sic) diffusa, oggi pressoché del tutto assente.[...] L’agenda dei movimenti sembra ancora una volta influenzata da logiche istituzionali, tanto più se si considera l’apertura di credito riservata da ampi settori di movimento alle giunte “anomale” che governano Roma, Torino e Napoli».

Con questa riserva: che la campagna movimentista per il No al referendum non esprimeva lo stesso contenuto del voto per il No che si è poi massicciamente manifestato. Quest'ultimo, non in toto ma in gran parte, coincide con ciò che in altre tornate elettorali ha potuto e tornerà a manifestarsi come astensione massiva (il rigetto della politica all'interno della politica); mentre la campagna per il «No sociale» – aggettivo più vago non si poteva trovare – si inseriva chiaramente nella prospettiva di riassorbire a breve termine questo rigetto, ovvero di trasformare il No in un Sì a qualcos'altro, dalle fattezze invero abbastanza precise: un contropotere societario. Laddove l'esistenza stessa di un simile contropotere è esclusa, e in mancanza di meglio da fare, anche il proletario o la proletaria aventi diritto intervengono come cittadini (la «doppia vita») – votando (o non votando, a seconda dei casi) contro quest'esclusione, che però è cosa ben diversa dall'assentire ad aspiranti «capitalizzatori». Contrariamente a ciò che è stato detto in lungo e in largo, non si è trattato nemmeno di un voto unicamente pro o contro l'operato di un individuo (Renzi): votare «No» era votare contro un certo rapporto fra lo Stato e il capitale, ovvero – se vi si vuole vedere una qualche positività – per la separazione dello Stato. Il risultato finale era abbastanza scontato, e verosimilmente la campagna per il «No sociale» ha spostato poco nel computo del voto.

Al di fuori dei confini italiani, i fatti del G20 di Amburgo sono un revival fuori tempo massimo dei controvertici di Seattle e Genova, la cui «base materiale» è riconducibile alla (modesta, ma ben reale) ripresina dell'inizio del 2017, in particolare a livello del commercio estero. Le proiezioni del recente rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo postulano una crescita degli IDE (investimenti diretti all'estero) del 5% per l'anno corrente, per un ammontare totale di 1800 miliardi di dollari – livello ben inferiore al record dei 1900 miliardi di dollari registrato nel 2007, ma comunque in controtendenza rispetto diminuzione del 2% registrata nel 2016, che arriva all'11% per gli IDE provenienti dai soli «paesi sviluppati» (zone centrali dell'accumulazione). Per la stessa classe capitalista, l'importanza di meetings come quello di Amburgo varia in funzione dell'andamento del commercio estero, che è una delle «controtendenze modificanti» alla caduta tendenziale del saggio di profitto esposte nel Libro III del Capitale. Per farla breve, i controvertici sono movimenti da prosperità relativa (per quanto effimera), e quest'ultimo di Amburgo non fa eccezione. Se è vero che gli entusiasmi suscitati da quest'ultimo hanno un retrogusto di flouxetina, il vero oggetto della critica non sta all'interno del dilemma «esserci o non esserci», ma in ciò su cui si fonda.

Ripetizioni sbiadite e copioni già conosiuti, altri revival del genere non sono comunque da escludere: venuti meno i bollori del periodo 2008-2013, ripassano sullo schermo tutte le passioni militanti degli anni '90- 2000 – anti-mondialismo, terzomondismo, indigenismo, etc. – ma in una versione sempre un po' peggiore e un po' più di destra (ancora: la destra dell'estrema sinistra), ovvero più impantanata nel nazionalismo, nella democrazia, nello sciovinismo o nella pura gestione dell'esistente: ieri il Chiapas, oggi il Rojava; ieri Attac, oggi i sovranisti. Finché la crisi che viene non scompaginerà di nuovo le carte in tavola, continueremo ad assistere a questo spettacolo di decomposizione/ricomposizione. Reperire ed entrare in contatto con tutti i (pochi) disertori di questa débandade è senz'altro auspicabile. Diceva un tale che il putridume è il laboratorio della vita; ed è senz'altro in questo putridume, che la nostra parola può sortire qualche effetto. Ma finché non sopraggiungerà un cambiamento di fase tale quale lo abbiamo definito più in alto, simili contatti non potranno che restare sporadici. Diversamente dal primo periodo della nostra attività (2010-2013), in seguito alla breve e insoddisfacente partecipazione alla rivista internazionale «SIC (esperienza conclusasi nel 2013) e attraverso gli anni successivi, abbiamo dovuto prendere atto dell'impossibilità di animare o contribuire ad un ambito largo di elaborazione e di confronto, senza che ciò conduca ipso facto al compromesso con l'università, il carrierismo, la politica inter-gruppi, la democrazia, l'immediatismo. Nell'assenza di risposte forti dalla realtà circostante, un tale ambito non può che generare adesioni mistiche e gregarie da un lato, polemiche barbare e lotte fra ego senza esclusione di colpi dall'altro. Non si tratta di un problema locale, riducibile a screzi contingenti tra Tizio e Caio: è un problema generale, internazionale. Affinché possa darsi proliferazione e convergenza di frazioni comuniste, è necessario un ambiente favorevole. O, per dirla con il giovane Marx della Critica del filosofia hegeliana del diritto pubblico: «Non basta che il pensiero tenda a realizzarsi, bisogna che la realtà tenda essa stessa verso il pensiero».

 

Schizzo di un programma di lavoro

Che fare allora, sulla base di una diagnosi così poco confortante? L'ondata 2008-2013, con tutti i suoi limiti, ha rotto la piattezza e la monotonia della «traversata del deserto», ma è ben lungi dall'aver sancito la sua fine. Si tratta dunque di continuare, approfondire, sviluppare il lavoro teorico intrapreso. Ecco un inventario (provvisorio) dei temi che ci proponiamo di trattare in un futuro più o meno prossimo:

la contraddizione fondamentale: lo sfruttamento di classe;

analisi generale del periodo;

la classe media;

la rendita fondiaria;

il capitale mafioso e il settore della droga;

fattori di razza, nazione e sesso sociale;

la questione agraria;

la crisi ambientale;

la questione della violenza;

la legge del valore nella sua accezione internazionale;

il passaggio al comunismo.

Vasto programma, che ci impegnerà ancora per diversi anni. Poco importa di sapere oggi se esso sarà già terminato al momento del cambiamento di fase di cui abbiamo detto. Se questo avrà luogo, esso non potrà che sconvolgere tutte le nostre priorità odierne, imbarcandoci verso lidi oggi inesplorati. A quelle latitudini, sicuramente ricolme di insidie, le acquisizioni dell'astrazione teorica sopravviveranno solo come un'eco lontana, conservate-negate-superate in quella che sarà la lingua franca della rivoluzione comunista, opera non di individui o di piccoli aggregati, ma di milioni di umani di mille lingue e culture attraverso il pianeta.

«Per lingua franca (o lingua franca mediterranea) s’intende una lingua veicolare a base italiana, documentata a partire dal tardo Cinquecento lungo le coste del Mediterraneo, in particolare nelle capitali della guerra di corsa (Tunisi, Tripoli, Algeri), nell’ambiente dei mercanti, dei prigionieri e dei diplomatici europei.

«Lo studio della lingua franca fu inaugurato da Hugo Schuchardt (1909), che aveva raccolto testimonianze di prima mano sull’uso, ormai residuale, di una “lingua di mediazione” romanza nelle città portuali del Nordafrica. Schuchardt descrisse la lingua franca come una «lingua di emergenza» (Notsprache), con limitate funzioni comunicative, struttura grammaticale semplificata e lessico di origine eterogenea, di dimensioni ridotte e notevole fluidità semantica. Una lingua ausiliaria, dunque, che parlanti di lingue diverse, in mancanza di nativi, imparavano per via per lo più orale. [...]

«Questi tratti ritornano nella fonte più ricca per la conoscenza della lingua franca, l’anonimo Dictionnaire de la langue franque [...], destinato ai soldati del corpo di spedizione francese in Algeria (1830); l’opera include, oltre a un dizionario francese-lingua franca, qualche osservazione grammaticale, una serie di dialoghi e un glossarietto francese-arabo. Nella prefazione si riconduce l’origine della lingua franca (chiamata anche petit mauresque) all’attività, un tempo fiorente, dei pirati barbareschi e se ne distinguono due varietà, parlate rispettivamente a Tunisi e ad Algeri, influenzate l’una dall’italiano e l’altra dallo spagnolo». («Lingua franca», in Enciclopedia dell'italiano Treccani, 2010)


Note
1 Il concetto di contraddizione viene qui inteso in un senso ben preciso. Per sintetizzare al massimo, una contraddizione di natura storico-sociale è un processo antagonistico che genera il proprio sviluppo in maniera del tutto immanente, auto-determinata. Giacché nessuno dei suoi poli costitutivi può rendersi autonomo rispetto all'altro, il loro antagonismo può risolversi soltanto nella sua riproduzione ad un livello superiore, oppure nella soppressione della sua ragion d'essere di fondo. A nostro avviso, solo il rapporto lavoro necessario/pluslavoro (lo sfruttamento di classe) si struttura in questo modo.
2 Un'ipotetica società post-capitalista basata sullo sfruttamento del lavoro dovrebbe non solo essere più produttiva del capitalismo, ma anche aumentare la parte «pluslavoro» della produzione sociale. Ciò è impossibile, giacché il capitalismo tende già a ridurre la parte «lavoro necessario» ad un minimo. Su queste basi, qualsiasi riassestamento del rapporto lavoro necessario/pluslavoro non può che restare interno al modo di produzione esistente.
3 «Ora nella mia esposizione anche il profitto del capitale effettivamente non è “soltanto un prelievo fatto sull'operaio o una ‘rapina’ ai suoi danni”. Al contrario, io rappresento il capitalista come un funzionario necessario della produzione capitalista e dimostro ampiamente che egli non si limita a “prelevare” o “rapinare”, ma al contrario impone la produzione del plusvalore, contribuisce cioè innanzitutto alla creazione di ciò che sarà prelevato; dimostro inoltre diffusamente che, anche se nello scambio di merci si scambiano solo equivalenti, il capitalista – non appena paga all'operaio il valore reale della sua forza- lavoro – guadagna il plusvalore a pieno diritto – un diritto che naturalmente corrisponde a questo modo di produzione.» (Karl Marx, Glosse marginali al «Trattato di economia politica» di Adolf Wagner, in Il Capitale, Einaudi, Torino 1975, Tomo II, p. 1407).
4 Cfr. Amadeo Bordiga, Contenuto originale del programma comunista è l'annullamento della persona singola come soggetto economico, titolare di diritti ed attore della storia umana, in Testi sul comunismo, Crimi, Firenze 1972. Ora disponibile sul web: http://www.quinterna.org/archivio/1952_1970/contenuto_orig_prog1.htm. Va detto però che il viscerale anti-individualismo bordighiano, che permea anche questo testo eccezionale, è qui fonte di due malintesi, uno filologico ed uno teorico: da un lato, l'«individuo sociale» di Marx diviene, nella penna di Bordiga, l'«uomo sociale» (troppo generico); dall'altro, quale che possa essere l'esaltazione dell'individuo da parte dell'ideologia capitalistica, contrapporre ad essa una comunità organica significa restarne comunque prigionieri, non cogliendo il nesso autentico fra individuale e sociale: «tali gli individui, tale la comunità» (Marx, Note su James Mill). L'individuo del capitale è miserabile tanto quanto la comunità che lo sovrasta: si tratta di lasciarsi alle spalle l'uno e l'altra.
5 Le frazioni comuniste scoprono a loro spese che non se ne può ricavare il benché minimo ottimismo. A tale approfondimento «stratigrafico» della teoria, corrisponde infatti il suo carattere sempre più minoritario, al quale fa da contrappunto la tendenza, anch'essa crescente, a spostare il primordiale e irrinunciabile baricentro della teoria stessa dallo sfruttamento di classe agli antagonismi via via inglobati, che sono privi di una dinamica propria.
6 Cfr. la recensione di Dino Erba, Come si risolverà la crisi? (dicembre 2016), e la nostra replica, entrambe disponibili qui: http://illatocattivo.blogspot.fr/2017/01/della-difficolta-ad-intendersi.html
7 Cfr. B.A. & R.F., Le ménage à trois de la lutte de classe, feuilleton a puntate in corso di pubblicazione sul sito www.hicsalta-communisation.com, di prossima pubblicazione sul nostro blog.
8 Questi tratti saranno esaminati in Prospettiva e previsione, supplemento a «Il Lato Cattivo» n.2, che speriamo di riuscire a pubblicare entro la fine del 2017.
9 Nel caso dei paesi periferici dell'Unione Europea, si vede bene come la perdita di sovranità monetaria permetta di aggirare un rapporto del tutto squilibrato fra importazioni ed esportazioni. Sotto questa angolatura, sono i paesi a bilancia commerciale positiva che patirebbero meno un ipotetico ritorno alle valute nazionali.
10 Riprendiamo qui alcuni sviluppi sullo Stato contenuti in Louis Althusser, Marx nei suoi limiti, Mimesis, Milano 2004, pp. 110-137.
11 Disponibile sul web: http://www.assembleaperlautorganizzazione.org/documenti/ce-dice-si-ce-dice-no-c-dice-
organizzazione-autonoma/
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