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Il populismo russo: percorsi carsici

di Pier Paolo Poggio

size1Nel lessico politico della sinistra populismo è parola bollata negativamente, su ciò concordano le due principali correnti intellettuali e di pensiero politico dell’Otto e del Novecento, quella liberale e quella marxista. Anche in un contesto profondamente diverso dal nostro, quale quello americano, le cose non cambiano: i liberali e i progressisti individuano nel populismo il loro peggiore nemico; rimando in proposito al libro fondamentale, anche se discutibile, di Christopher Lasch, Il paradiso in terra. Populista è stato considerato il fascismo, così come il nazismo, nonché il comunismo sovietico, ovviamente il peronismo, le dittature sudamericane, ma anche Bossi e Berlusconi sono etichettati come populisti (io stesso ho curato una raccolta di saggi intitolata Dal leghismo al neopopulismo).

Secondo Lasch sono le ideologie del progresso che individuano nel populismo l’avversario da sconfiggere; la posta in gioco riguarderebbe la modernizzazione, con il libero dispiegarsi della lotta di classe, la differenziazione del popolo in classi e lo sviluppo di una produzione ideologica e anche letteraria, capace di rappresentare il pieno avvento della modernità, la sconfitta dei provincialismi, dei regionalismi, di ogni forma di localismo. Forse qualcuno ricorderà il libro di Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo (1965).

Si potrebbero sviscerare le aporie derivanti dall’uso di una categoria che assume significati diversi a seconda degli ambiti disciplinari e delle culture politiche di riferimento; mi limito invece a richiamare l’attenzione su una specifica dimensione storica, alla luce di un duplice fallimento: quello del marxismo che non viene nemmeno più argomentato, alimentando una rimozione che avrà effetti esiziali; quello del liberalismo che trionfa al prezzo del totale svuotamento dei suoi valori ispiratori. Alla luce altresì dell’inaspettato riaffiorare di istanze populiste, quale che sia il giudizio differenziato che ne possiamo dare, anche perché il “popolo padano” non ha nulla a che fare con i tre miliardi di contadini (donne soprattutto) alle prese con i disastri del capitalismo realizzato.

Siccome è chiaro a tutti che qualcosa non ha funzionato propongo un tentativo di rilettura, non del populismo in generale che, per la sua illimitata dilatazione risulta inafferrabile, ma del movimento e della corrente ideologica che, per prima, si è autodefinita populista, vale a dire il populismo rivoluzionario russo dell’800; si tratta quindi di andare molto indietro nel tempo, però è innegabile l’attualità dei temi che esso solleva, anche al di là di quelli su cui mi soffermerò in questa sede: ricordo solo la questione cruciale della violenza e del terrorismo.

Un altro tema che meriterebbe di essere approfondito riguarda la collocazione di questo movimento nella storia del socialismo, o meglio la sua non-collocazione nella storia del socialismo, nonostante molti sforzi in tale direzione; penso, in particolare, al grande libro di Franco Venturi, che si poneva l’esplicito obiettivo di riportare il populismo russo (dopo gli anatemi marxisti-leninisti) nella storia generale del socialismo. Non è un interrogativo che riguardi solo gli storici. Il problema ha una diversa portata e segnala una debolezza che ha minato alle radici il socialismo e il comunismo, ovvero la loro incapacità, ideologicamente motivata, di rapportarsi in modo non strumentale o distruttivo verso il mondo contadino; un fallimento politico che ha il suo culmine catastrofico nella vicenda sovietica con conseguenze non ancora riassorbite. In ogni caso la fine dei contadini è considerata una tappa necessaria nella marcia del progresso, perché essi sono l’incarnazione dell’arretratezza, oltre che dell’individualismo e, paradossalmente, del comunitarismo. Su questo versante si concentrano le attenzioni dei populisti russi, incontrando le difficoltà che sono al centro del pensiero e dell’arte di Herzen, Dostoevskij e Tolstoj.

Il problema del comunitarismo, ieri come oggi, è tanto semplice quanto micidiale: per realizzarsi esso presuppone che i soggetti condividano la stessa costellazione di valori e si comportino di conseguenza, pena l’emarginazione, espulsione, eliminazione dalla comunità. I peggiori esiti novecenteschi e attuali di una tale dinamica li abbiamo ben presenti.

Per uscire dalla condizione moderna, caratterizzata dal politeismo dei valori, in cui la lotta mortale tra di essi è decisa in ultima istanza dalla forza, si propone di trovare un nuovo fondamento, un ritorno al giusnaturalismo e una rifondazione della democrazia. Ma questo percorso dalla storia alla natura è antistorico, ovvero implica la fine della storia e, involontariamente o meno, rischia di trasformarsi in una ideologia del capitalismo come stato di natura, orizzonte insuperabile di un’umanità che dovrebbe scorgere nell’America la prefigurazione della democrazia universale.

È chiaro che una tale costruzione poggia sull’ingiustizia, ma molti pensano di non sapere che implica egualmente la negazione della libertà. Su questo nodo si concentra l’attenzione del pensiero russo, nel momento del primo delinearsi dell’edificio che la tecnica occidentale si appresta a costruire, ergendosi a potenza mondiale, centro unificatore del mondo. Pensando alle Grandi Esposizioni Universali che celebrano il trionfo del nascente capitalismo, Dostoevskij conia la metafora del “palazzo di cristallo”, dove tutti i problemi possibili e immaginabili saranno risolti con matematica esattezza, affidando al nichilismo dell’ “uomo del sottosuolo” la protesta contro questa prospettiva, la rivendicazione assoluta della libertà, fosse pure ridotta a capriccio, follia e sofferenza.

Come è possibile tenere assieme gli uomini senza violare la loro libertà e sperare che valori condivisi si affermino e trovino consenso per la loro intrinseca bontà? In un tempo lontano, storicamente circoscritto, ma gravido di conseguenze, il populismo si è interrogato su questi dilemmi, partendo da due certezze: l’esistente, l’autocratico mondo zarista era insopportabile, l’Occidente non era la soluzione per cui battersi.

La critica della società borghese è uno dei fulcri tematici del populismo, attraverso Herzen e due scrittori del rilievo di Tolstoj e Dostoevskij. La loro è una visione prospettica che guarda criticamente all’Occidente tanto dal punto di vista di ciò che viene prima della borghesia, la civiltà agraria come totalità di vita, quanto dall’ottica del suo compimento e tramonto, il nichilismo come fine dei valori e scomposizione del soggetto.

Possiamo benissimo continuare a sostenere, se la cosa ci tranquillizza, che erano dei reazionari, è un fatto, però, che essi hanno individuato, con straordinario anticipo, le questioni irrisolte su cui ci stiamo dibattendo. Leggo in un saggio di successo, uscito qualche tempo fa, Guerra santa contro Mc Mondo: «il capitalismo cerca consumatori disposti a lasciare plasmare i loro bisogni e manipolare i loro desideri, mentre la democrazia ha bisogno di cittadini autonomi nel pensiero e indipendenti nei loro giudizi». L’autore continua citando un appello di Solzenicyn a «domare il capitalismo selvaggio», però avrebbe potuto con più pregnanza rifarsi ad Herzen, talvolta più acuto di Tocqueville nell’analisi delle contraddizioni della nascente società democratica borghese, non per niente aveva scorto nell’opera di Hegel un’ «algebra della rivoluzione» ed era convinto, già centocinquant’anni fa, che capitalismo e democrazia non fossero consustanziali. Certo, il suo obiettivo era la democrazia senza il capitalismo, mentre il nostro problema è il capitalismo senza democrazia, ma la problematica sottesa a questi dilemmi è ancora quella del rapporto tra individuo e comunità.

Se leggiamo o rileggiamo un teorico che, per una serie di motivi, in Italia è stato ampiamente trascurato, Cornelius Castoriadis, vediamo come si ripropongono alla fine del ’900 i presupposti che Herzen, e con lui il populismo russo, ritenevano indispensabili per realizzare la democrazia: vale a dire l’autonomia dell’individuo e la regolazione collettiva dell’economia, il che non vuol dire regolazione collettiva della società e della vita intera.

Aleksandr Herzen (1812-1870) è giustamente considerato il fondatore del populismo russo che, tanto per intenderci, possiamo considerare una forma di socialismo agrario. Tutta la sua concezione politica può essere sintetizzata in uno slogan: «preservare la comune e rendere libero l’individuo»; tra l’altro è questo il tema su cui tornerà spesso Marx, attraverso un rapporto intenso e totalmente censurato con i populisti russi, nonostante la sua idiosincrasia nei confronti di Herzen. Questi, da un lato intendeva valorizzare la coesione sociale intrinseca al comunitarismo contadino, dall’altro raccogliere la più alta eredità della civiltà occidentale: il libero sviluppo dell’individualità, il diritto alla diversità e autonomia personale. Il populismo di Herzen è rivoluzionario e decisamente antiborghese, è una risposta a quella che considera la vittoria ormai certa della borghesia sul proletariato.

Secondo Herzen il ciclo storico dell’Europa si sta compiendo, gli Stati Uniti sono la terra del futuro, ma solo nel senso di un ulteriore sviluppo del principio borghese europeo. Una novità sostanziale può venire unicamente da paesi come la Russia, in cui sono presenti le due forze che il populismo dovrà unificare, cioè una struttura comunitaria ancora vitale, embrione di una nuova e più alta vita sociale, e l’intelligencija, in cui s’incarna il principio della libera personalità e il lascito culturale dell’Occidente.

Herzen rifiuta ogni forma di necessità storica, l’obiettivo è cogliere occasioni come quella offerta dall’originale situazione in cui si trova il suo paese, che ha conservato delle forti strutture comunitarie nell’epoca dell’individualismo borghese. Su tale base sarà possibile spezzare il fatalismo evoluzionistico a cui soggiace la scienza sociale europea, compreso il marxismo, anzi si può capovolgerlo. Perché «la storia», dice Herzen, «è ingiusta: a coloro che giungono tardi non darà le ossa già rosicchiate, ma il primato dell’esperienza».

L’obiettivo di Herzen è di conciliare l’autonomia della persona con una forma superiore di comunità umana, il che non significa che puntasse ad una sintesi irrealizzabile tra l’individualismo borghese e la comune contadina, la loro assunzione statica non poteva che essere e rimanere contraddittoria. La strada che Herzen indicava al populismo era più impegnativa e su questa strada esso fallirà: l’eredità russa e il lascito occidentale potevano essere valorizzati pienamente solo con il dispiegarsi di un processo rivoluzionario.

A partire da Herzen la rivoluzione sociale è all’ordine del giorno in Russia e tutta la vicenda del populismo ruota attorno al rapporto Russia-rivoluzione. Anche quando Herzen polemizzerà duramente con i suoi discepoli non modificherà il suo atteggiamento di rifiuto di una realtà insopportabile, a cui contrapponeva una società ideale, capace di unire l’autonomia dell’individuo con la ricchezza dei rapporti sociali.

Egli fu, quindi, un fautore della rivoluzione, ma forse il suo contributo più importante al pensiero politico è la critica, che sviluppò prima di Dostoevskij al fanatismo dei rivoluzionari. Tra tutte le contraddizioni, i conflitti, i drammi che segnarono quella vicenda, un tema domina su tutti gli altri, quello del rapporto tra libertà e rivoluzione. Il che esprime la fondamentale tensione etica che muoveva i populisti. Come dirà uno studioso che ha nutrito il suo liberalismo delle problematiche che qui rievochiamo, Isaiah Berlin, i populisti erano socialisti non perché il socialismo avesse un fondamento scientifico, ma perché lo ritenevano giusto.

Questa è la costante più significativa della complessa riflessione herzeniana, da cui deriva la sua straordinaria sensibilità ed acutezza nell’avvertire i pericoli del culto fanatico della rivoluzione che considera un altro idolo, l’ultima religione, a cui si sacrificano gli uomini in carne ed ossa in nome della felicità futura. Herzen, quindi, è pienamente consapevole del rischio nichilistico sotteso al populismo rivoluzionario e cerca di combatterlo prima ancora che si manifesti apertamente. Con ostinazione in tutti suoi scritti ribadisce che «l’uomo vive non per il compimento dei destini, non per l’incarnazione dell’idea, non per il progresso, ma unicamente perché è nato ed è nato per il presente».

Egli finiva così con lo scontrarsi con gli ideologi della rivoluzione, mentre era costretto a puntare le sue carte sull’intelligencija rivoluzionaria. Di per sé la comune contadina era statica, bloccata nel tradizionalismo, bisognava inserirvi un elemento dinamico, una forza nuova e questa era rappresentata dal principio d’individualità, incarnato al più alto grado dagli intellettuali sradicati e rivoluzionari. «Il futuro della Russia sarebbe dipeso da ciò, se le riuscisse o meno di armonizzare il comunismo popolare con il principio di personalità rappresentato dall’intelligencija, preservare la comunità e, appunto, nello stesso tempo, liberare l’individuo», per questa via sarebbe stato possibile andare al di là dell’unilaterale, individualistica libertà prodotta dallo sviluppo del capitalismo ed evitare la disintegrazione della comunità che ne è il presupposto.

Secondo Herzen «i popoli anglosassoni hanno liberato l’individuo a prezzo del suo isolamento, distruggendo la comunità sociale, il popolo russo ha conservato il principio di comunità a prezzo della negazione dell’individuo, a prezzo del totale assorbimento del singolo».

Dopo il fallimento della rivoluzione del ’48, Herzen vede nell’Europa liberal- borghese l’avviarsi di un progressivo ed inesorabile declino dell’individualità umana; per lui la borghesia è entrata nella sua fase di decadenza, quello che era il suo maggiore titolo di merito si capovolge nel suo contrario. Nella forma sociale in cui il processo d’individualizzazione è non solo esaltato ideologicamente, ma portato sino all’atomizzazione dei singoli, non si ha l’affermazione della personalità, ma il trionfo dell’egoismo sotto forma di un imborghesimento generale; alla conclusione del processo c’è la morte dell’individualità e la fine della civiltà occidentale.

In polemica con Marx, anche se le posizioni di Marx in merito non sono univoche, Herzen rifiuta la tesi secondo cui «il più alto sviluppo dell’individualità viene ottenuto solo attraverso un processo storico nel quale gli individui vengono sacrificati». A suo avviso il capitalismo aveva prodotto una comunità popolata di soggetti fittizi; lo spettacolo delle scialbe individualità che formano le folle delle città borghesi, uno dei topos di Passato e pensieri, non poteva creare in Herzen alcuna propensione verso un preteso ordine necessario dello sviluppo storico. Partendo da una critica sociale ed antropologica della civilizzazione capitalistica, Herzen recupera la dimensione della vivente civiltà contadina perché in essa, a differenza della prospettiva dominante nella società borghese, è ancora possibile uno sviluppo d’individualità autonome ma non separate; il contadino russo diviene la negazione in atto della folla dispotica, incarnazione della mediocrità conglomerata, pronta a inservilirsi a cospetto del potere e del denaro. In un mondo arcaico che non ha elaborato il concetto di proprietà, Herzen scorge l’alternativa ancora possibile ad una civiltà fondata sull’autocrazia incondizionata della proprietà privata, purché si realizzi nel vivo del processo rivoluzionario l’incontro tra i contadini e gli intellettuali.

In Herzen c’è già tutto il populismo, i pensatori successivi di questa corrente ne sviluppano aspetti particolari, anche se sarebbe da vedere un personaggio come Michailovskij, che cerca di dare una sistemazione organica a queste idee e diventa il bersaglio preferito dal giovane Lenin. L’ideologia populista russa ebbe due referenti principali: il pensiero hegeliano e l’elaborazione degli slavofili, importantissima corrente ideologica di cui l’ultimo rappresentante, se volete, è Solzenicyn. Sia gli slavofili che Hegel si ponevano come obiettivo la realizzazione di una comunità organica seguendo, però, vie completamente diverse; la loro convergenza torna ad emergere considerando il rapporto individuo-comunità. L’intensità e drammaticità con cui questo tema si impose e rimase irrisolto nell’ambito del populismo da Herzen (si veda in particolare Dall’altra sponda), sino a Michailovskij e oltre, ci dicono che Hegel e gli slavofili, pur con tutte le differenze, rappresentano i poli estremi di uno stesso atteggiamento, per cui, in nome della libertà sostanziale o concreta, si finisce col sacrificare l’uomo ad un’entità sovraindividuale astratta, ovvero ad una qualche forma di «comunità naturale» che sussume sotto di sé gli individui e che resiste alla sua stessa disgregazione storica, per un processo di entificazione analogo nei risultati a quello hegeliano, e di cui sono espressione le ideologie comunitarie moltiplicatesi con l’avanzare della modernizzazione. Dopo il populismo e la grande letteratura russa della seconda metà del XIX secolo, che sono espressioni convergenti di una lotta in difesa della libertà dell’uomo, con l’affermarsi della «forma partito» si assiste alla imposizione di un organicismo puramente organizzativo; il partito si propone come luogo del potere e della salvezza, stato totale e anticipazione del comunismo. Un tale sviluppo, però, sarà possibile in Russia solo dopo la definitiva sconfitta del populismo. Sarà proprio la rivoluzione vittoriosa a distruggere un pensiero teso a resistere alla «sterile potenza dell’esistente in quanto tale», una resistenza fondata eticamente contro la subordinazione del singolo alle leggi generali, alla necessità storica. Il primo obiettivo del populismo rivoluzionario russo è stata la conquista dell’autonomia dell’individuo e il riscatto dall’ingiustizia che domina nei rapporti sociali, quindi una lotta a morte contro l’annientamento dei diritti della persona, perseguito dal regime autocratico. Il che, però, non avvenne sulla spinta del movimento concretizzatosi nell’ascesa e nella vittoria della borghesia in Occidente; la peculiarità del pensiero russo e la sua originalità, per noi quasi inafferrabile eppure attuale, è data dal legame indissolubile che in esso si stabilisce tra il singolo e la comunità, dalla ricerca costante di una conciliazione tra l’uomo e la natura, tra le popolazioni e il pianeta in cui abitano. Su questo sfondo si può capire l’emergere di concetti come quello di “biosfera”, elaborato da Vernadskij e fondamentale nell’odierna ecologia.

Il progetto di ripensare dalle radici il rapporto tra il singolo e la specie, la persona e il cosmo, il progetto incompiuto del populismo, prima sconfitto e poi distrutto con straordinaria violenza, ha trovato la sua espressione più alta in Tolstoj e Dostoevskij. La posizione di Tolstoj è semplice, ai limiti dell’ingenuità, eppure straordinariamente potente, capace di abbracciare con un solo sguardo intere epoche e le vicende minute, intime, segrete, di personaggi tra loro diversissimi, ridicolizzando le pretese dei grandi uomini, e degli storici, di incarnare e di cogliere il senso della storia e il movimento della realtà. Tolstoj guarda la modernità da un altro continente, più vasto e profondo, che la sorregge e ne misura i limiti e la fragilità. Il suo respiro epico non nasce, come dice Claudio Magris «da una totalità identificata col puro meccanismo sociale, bensì da una totalità concepita in termini mitico-religiosi, da una civiltà agraria preborghese, preindustriale. L’arte capace di cogliere il tutto unitario della vita al di sopra delle scissioni, non si riconcilia con la prosa sociale, ma la rifiuta e la trascende. Il grande respiro di Tolstoj è radicato in una totalità naturale, ossia in una società e in un’ideologia che le corrispondono».

Tradotto nei termini del linguaggio politico ed ideologico, possiamo dire che Tolstoj rifiuta la civiltà borghese in nome di un ritorno integrale alla natura, di una completa unione col popolo e a questo fine egli ritiene, in primo luogo, che sia necessario abolire il diaframma rappresentato dalla proprietà della terra, origine dell’ineguaglianza sociale e di tutti i mali del progresso. A suo avviso, la vocazione storica del popolo russo era di «risolvere il problema agrario con la soppressione della proprietà fondiaria e indicare agli altri popoli la via per una vita ragionevole, libera e felice, fuori dal dominio e dalla schiavitù prodotti dall’industria, dalla fabbrica e dal capitale».

Tra Tolstoj ed Herzen c’è una profonda consonanza: entrambi pensano che «la vita è solo nel presente» e che compito di ognuno sia di fare qui ed ora ciò che è giusto, in tal modo verrà meno la necessità del potere; «allora non ci sarà più governo e gli uomini governeranno ognuno se stesso», verrà meno la credenza nella necessità dello Stato «come qualcosa di esistente indipendentemente dalla volontà degli uomini, qualcosa di predestinato, mistico, immutabile».

Tolstoj polemizza duramente contro i movimenti rivoluzionari del nuovo secolo, fautori della violenza contro gli uomini e contro la natura, ed è convinto che l’intelligencija sia caduta così in basso da non riuscire più a capire un uomo come Herzen («egli aspetta i suoi lettori nel futuro»).

Negli ultimi anni della sua lunga esistenza egli accentua la sua scelta per il mondo contadino, unica base stabile per una vita razionale e morale. Bastino queste riflessioni del 2 aprile 1906: «L’errore principale nell’organizzazione della vita umana (…) è che gli uomini vogliono organizzare la società senza la vita agricola o in modo che la vita agricola sia solo una e la più bassa forma di vita». «La pace è il bene materiale più alto della società umana come la salute è il bene materiale più alto del singolo individuo. Così hanno sempre pensato gli uomini. E la pace è possibile solo per i contadini. Solo i contadini si nutrono direttamente col loro lavoro. I cittadini si nutrono inevitabilmente col lavoro altrui. Per loro lo Stato è possibile e necessario. Per i contadini è superfluo ed esiziale». «La vicenda di tutti i popoli è dappertutto la stessa. Gli individui più crudeli, disumani e oziosi si nutrono con la violenza, con la guerra, i più miti, i più lavoratori preferiscono sopportare. La storia è storia di questa violenza e della lotta contro di essa».

I temi salienti del populismo trovano in Tolstoj una formulazione radicale e, apparentemente, antistorica. Pienamente calato nella storia del suo tempo era invece Dostoevskij che rielabora i problemi della libertà, dell’individuo, della comunità, in termini molto ostici per la sinistra. Dostoevskij pone l’uomo al centro di una contraddizione non risolvibile tra libertà e felicità, per lui non è possibile una dialettica del superamento, né un salto di qualità: la contraddizione si delinea nei termini di un’alternativa, di una scelta, e Dostoevskij sceglie sempre per la libertà, egli esprime la resistenza al livellamento sia nella sua forma borghese che in quella socialista.

Per Dostoevskij l’ideale della comunità realizzata resta trascendente rispetto alla storia e alla vita terrena degli uomini, oppure nelle sue pagine peggiori scade nell’esaltazione della missione teofora, mistica, della Russia. Ma è difficile definire e ricondurre ad unità il pensiero dostoevskiano. Nella critica della libertà borghese Dostoevskij trova degli accenti che sembrano mutuati direttamente da Marx. «In Europa il borghese è diventato tutto, ma i valori che aveva innalzato nella sua ascesa si sono dissolti come una bolla di sapone. Che cos’è la famosa liberté? La libertà, quale libertà? La stessa libertà per tutti di fare tutto quello che si vuole nei limiti della legge. Quando si può fare tutto quello che si vuole? Quando si ha un milione, forse che la libertà dà un milione ad ognuno? No, che cos’è l’uomo senza un milione? L’uomo senza un milione non è colui che fa tutto ciò che vuole, ma colui del quale si fa tutto ciò che si vuole».

Nel mondo borghese quel che una persona è non è determinato dalla sua individualità ma dal suo denaro; il suo potere, l’estensione della sua libertà si estende tanto quanto il potere di acquisto e di comando del capitale che egli possiede. Il livellamento delle individualità permette l’instaurazione di rapporti calcolabili, puramente razionali, tra le persone, ma questo sistema degli individui separati, impenetrabili ai vecchi legami affettivi, come compimento del processo di costituzione del sé, è la fine di ogni vera fratellanza, la fratellanza in Occidente è un’illusione, non esiste. «Essa non esiste, mentre esiste il principio personale, il principio dell’isolamento, della crescente autoconservazione, autosufficienza, autodeterminazione dell’io in se stesso, della contrapposizione di questo io a tutta la natura, a tutti gli uomini, come distinto principio autonomo perfettamente uguale ed equivalente a tutto quello che c’è fuori di lui».

Come è noto altrettanto dura è la critica che Dostoevskij indirizza ai movimenti rivoluzionari. I rivoluzionari che vogliono superare l’individualismo e la separazione dagli altri uomini con mezzi puramente umani sono destinati al fallimento e ad aggravare con le loro azioni la condizione di disgregazione della società. L’ateismo non può sfociare che nell’individualismo, quindi nel nichilismo, inteso come tendenza inarrestabile alla distruzione e all’autodistruzione; d’altra parte il tentativo di superare l’individualismo restando sulle sue basi porta all’uguaglianza nell’annientamento. La comunità è possibile solo con la mediazione di Dio, la negazione di Dio equivale all’affermazione distruttiva di una libertà senza senso, il tentativo dell’uomo di autodeificarsi; la tentazione dell’umano-divinità si conclude nell’illimitata autoglorificazione del singolo che non accetta più limiti alla sua libertà, ciò comporta la distruzione della comunità e il tentativo di riunire gli uomini in una società di schiavi felici, liberati dal dolore, ma privi di libertà.

Questa non è nemmeno l’ultima parola di Dostoevskij, ma, certo, è quella più nota. Dostoevskij è opposto e complementare a Tolstoj: vuole capire, scandagliare, notomizzare la modernità, il suo mondo è quello febbrile della grande città, gli interessa il tempo storico, convulso, dei suoi contemporanei, non quello ciclico ed indifferente della natura. Dostoevskij più di ogni altro ha saputo dare forma politica e filosofica alla tensione incessante tra individuo e comunità che è al centro del populismo russo. Secondo Bachtin, suo grande interprete, è stato il primo a capire gli uomini dell’età moderna, a capire che in una sola testa non può albergare la verità, che la verità si rivela soltanto in un dialogo incompibile, incessante, che l’uomo e l’umanità sono interiormente infiniti.

«La verità, secondo Dostoevskij, nel campo dei problemi ultimi, universali, non può essere rivelata entro i limiti di una coscienza individuale. Essa si rivela e, per di più, solo parzialmente, in un processo di comunicazione dialogica di molte coscienze paritarie. Questo dialogo sui problemi ultimi non può essere compiuto finché esiste un’umanità che pensa e cerca la verità, la fine del dialogo equivarrebbe alla morte dell’umanità».

Per capire a fondo e, sempre di nuovo, scrittori come Tolstoj e Dostoevskij, è necessario riuscire a situarli nel loro tempo; nel caso specifico sullo sfondo che ho evocato del populismo rivoluzionario russo, che, per entrambi, fu un referente fondamentale. Però bisogna anche ammettere, con Bachtin, che essi non possono essere collocati entro i limiti di una sola epoca, neppure entro i limiti del diciannovesimo e ventesimo secolo. «In un certo senso essi assorbono tutto ciò che l’umanità ha fatto nel corso di tutti i secoli della sua esistenza storica». Questa conclusione la si ritrova nel saggio sopracitato di Magris, il quale si rifà ad un’opera che Lukács non ha mai finito di scrivere e in cui esprime questo giudizio sorprendente: Dostoevskij è l’Omero e il Dante della modernità contemporanea.

Il populismo russo è stato il frutto di una ibridazione, il risultato di una polarità, la polarità Russia-Europa, Oriente-Occidente. Oggi, probabilmente, siamo in grado di apprezzare e valutare diversamente questi incroci, che allo scientismo teorico e all’eurocentrismo culturale del movimento operaio apparivano irrimediabilmente segnati dall’eclettismo e dalla confusione. L’ibridazione, apertamente proclamata da Herzen, è tra le due correnti principali della storia russa: l’occidentalismo e la slavofilia. Deriva di qui, tra le altre cose, l’atteggiamento pragmatico del populismo nei confronti della tecnica, molto accentuato in Cernyševskj, ma caratteristico di tutte le sue correnti, da quelle più accesamente rivoluzionarie a quelle moderate. L’ibridazione diventa una sorta di via diversa, di alternativa storico-culturale, ferocemente combattuta da chi pensa in termini dicotomici. In effetti gli occidentalisti, che andavano dai liberali ai marxisti, erano convinti che la creazione di una moderna società industriale dovesse, necessariamente, passare attraverso la distruzione delle forme comunitarie, principale ostacolo alla vittoria della proprietà privata, e tramite il superamento e la fine della civiltà contadina, incarnazione dell’arcaismo e dell’arretratezza.

Per parte loro gli slavofili pensavano che la vita moderna, dominata dalle incessanti trasformazioni tecnologiche, avrebbe dissolto le basi sociali delle forme comunitarie che poggiavano sulla tradizione e sulla riproduzione della cultura materiale del mondo agricolo, da cui il loro rifiuto integrale della modernità. Il populismo è invece convinto che sia possibile prendere il meglio della cultura occidentale innanzitutto il progresso tecnico e scientifico, e innestarlo, ibridarlo con le forme comunitarie, l’organizzazione sociale non capitalista ed antistatalista radicatisi storicamente nelle campagne russe e di tutto il mondo dove non aveva ancora trionfato l’individualismo borghese.

Fenomeni recenti come il movimento neozapatista, i fermenti che interessano tanti luoghi e gruppi sociali nei diversi continenti, ci dicono che queste istanze del populismo hanno percorso delle vie carsiche nell’ultimo secolo e non sono state completamente cancellate, nonostante repressioni furibonde ed attacchi insidiosi. Particolarmente interessante, nonostante la sua apparente ingenuità, a me pare questo atteggiamento laico, pragmatico, nei confronti della tecnica, riscontrabile anche in Tolstoj, e che, paradossalmente, sembra scomparire dall’Occidente, mentre sta prendendo piede, non sappiamo con quali esiti, in Asia.

L’istanza che veniva posta dal populismo era quella di una fondamentale libertà nell’utilizzo selettivo e consapevole della tecnica. Cosa, evidentemente, impossibile quando si arriva alla conclusione filosofico-contemplativa secondo cui la tecnica, ormai totalmente autonomizzatasi, è diventata il soggetto della storia. Al di là della divinizzazione o demonizzazione c’è la possibilità e la necessità di una riappropriazione, di un indirizzo riflessivo del processo tecnico-scientifico. Si potrà dire che i populisti russi, che su questi temi erano in dialogo costante con Marx, affrontavano tali problematiche in una fase da noi abissalmente lontana e in assenza, precisamente, di una civiltà tecnologica. Questo è vero, però non dobbiamo sottovalutare la loro capacità di andare alle radici delle cose. Essi puntavano ad un obiettivo che non riuscirono a realizzare, cioè raggiungere e, addirittura, superare l’Occidente sulla via del progresso tecnico-scientifico senza passare attraverso il capitalismo. Come è noto questo sarà precisamente il programma propagandato dal comunismo sovietico, per cui la loro sconfitta dovrebbe apparire totale e catastrofica. Non a caso essi vengono presentati come i precursori del bolscevismo, anzi, secondo alcuni interpreti, proprio il populismo, col suo influsso utopico, forzando il sistema socialista sovietico verso obiettivi impossibili, sarebbe alla base del suo fallimento.

Queste interpretazioni dimenticano un fatto macroscopico: il bolscevismo prima e il sistema sovietico dopo si sono affermati in una lotta senza quartiere contro il populismo e i suoi continuatori, sino al tentativo, portato molto avanti, di distruzione integrale del mondo contadino russo e delle altre nazionalità dell’ex impero zarista e del più grande impero sovietico. Su ciò cominciano ad esserci delle ricostruzioni affidabili, prive, peraltro, di ogni incidenza sulle culture politiche di ogni colore, totalmente indifferenti a vicende che non sono considerate spendibili nella lotta ideologica.

Però la possibilità di avere uno sviluppo tecnico-scientifico sottratto alle leggi dell’economia capitalistica, anche se è scomparsa dall’agenda delle forze politiche, è tutt’altro che inattuale. Senza scomodare Emanuele Severino che considera il capitalismo ormai sconfitto dalla tecnica, ci sono esponenti di primo piano del mondo degli affari che esprimono preoccupazioni inedite sui crescenti pericoli sociali e ambientali connessi al compiuto assetto capitalistico dell’esistente. Credo che su questo tema e su qualche altro evocato in questo excursus storico sul populismo russo, dovrà confrontarsi e interrogarsi il cosiddetto movimento dei movimenti che ambisce di trovare un’alternativa non distruttiva al capitalismo.

Nei limitati confini del mondo post-sovietico, con il crollo del comunismo e il fallimento dell’economia di mercato o, meglio, di quella che viene chiamata la market democracy, il populismo è tornato sul banco degli imputati. Gli analisti occidentali, alla presa col duplice fallimento di Gorbacëv e di El’cyn, hanno creduto di trovare proprio nel populismo il responsabile e capro espiatorio con cui spiegare non solo il comunismo sovietico e il suo necessario fallimento, ma anche il fallimento del fallimento, vale a dire l’impossibilità metastorica della Russia di diventare un paese normale.

Sono tesi espresse, ad esempio, dalla sovietologa operaista Rita Di Leo: la Russia, liberatasi dalla facciata comunista, rivela il suo vero volto, l’insuperabile anarchismo populista, da cui l’approdo ad una terra di nessuno senza piano, senza mercato, senza partito-re e senza Stato-nazione. Gli sviluppi che si stanno intravedendo s’incaricheranno di smentire uno scenario di maniera che rientra in una lunga e autorevole tradizione. Si veda il libro di Dieter Groh su La Russia e l’autocoscienza d’Europa (1961) e, ancora prima, quello di Thomas Masaryk su La Russia e l’Europa (1913).

Il problema non è assolutamente quello di un improbabile riemergere del populismo in Russia. Resta da spiegare quest’accanita lotta post-mortem, che anche questo contributo potrebbe, nel suo piccolo, evocare, visto che intende richiamare alcuni motivi caratteristici del populismo. Si pongono, qui, a mio avviso, due questioni di notevole rilievo storico, ma anche teorico. La prima riguarda la frattura e vera e propria contrapposizione tra mondo contadino e mondo operaio, città e campagna, che è già presente, ma in modo contrastato nel socialismo ottocentesco, e che diventa un dispositivo ideologico esiziale nel ’900, minando, come nessun altro fattore, la forza, il significato e le finalità dei movimenti sociali e collettivi delle classi lavoratrici, siano essi spontanei od organizzati, dell’ultimo secolo. L’analisi di un fenomeno di questa portata dovrebbe impegnare schiere di storici, invece sembra che non interessi più nessuno.

La seconda questione è più circoscritta, ma anch’essa cruciale, per l’incidenza che la vicenda russo-sovietica ha avuto sugli eventi dell’800 e del ’900. Essa concerne il populismo in quanto fenomeno storico e non come essenza immutabile dell’anima di un popolo, slavo o meno. A maggior ragione riguarda la specifica civiltà agraria o mondo contadino russo, in quanto referente sociale e ideologico del populismo rivoluzionario, anche se l’ideologia come tale è stata formulata in ambiente urbano ed è riconducibile al costituirsi dell’intelligencija.

Le due questioni evocate sono tra di loro strettamente intrecciate, in effetti in nessun altro caso lo scontro ideologico è stato così violento come in Russia, perché solo l’ideologia spinta all’assoluto dogmatismo poteva separare ciò che era unito. Ricordo che anche Marx, vale a dire il padre fondatore della dottrina, venne accanitamente censurato per allontanarlo dai populisti, con cui aveva intrattenuto, specie negli ultimi anni, un rapporto estremamente intenso. D’altro lato non si può capire niente di Lenin, di Trockij, di Plechanov se non si tiene conto del ruolo cruciale che ha avuto, per ognuno di loro, la rottura col populismo.

Ma ancora più rilevante, e tale da comportare una completa riscrittura della storia dell’Unione Sovietica e della rivoluzione dal ’17 in poi, è stata la guerra permanente, non limitata alla collettivizzazione, condotta dal regime sovietico contro il mondo contadino, avendo come obiettivo, come finalità ideologica militante, la sua completa cancellazione in quanto tappa necessaria sulla via dello sviluppo. Come sanno quelli che hanno studiato la distruzione degli ebrei d’Europa, obiettivi di questo tipo sono difficili da conseguire integralmente. Non intendo istituire paragoni, anche perché non dobbiamo perdere il senso della specificità di ogni singola catastrofe, ci sono però delle assonanze sconcertanti, a partire dallo scambio tra vittime e carnefici.

Il mondo contadino russo e i suoi ideologi vengono considerati colpevoli della loro stessa distruzione: il populismo avrebbe costruito l’Urss con tutte le sue tare e si sarebbe autodistrutto armando le mani di Stalin, per risorgere quale araba fenice dopo il crollo del regime sovietico.

Ora se ne sono perse di nuovo le tracce, infatti la Russia di Putin, senza tenere in alcun conto il fantasma del populismo, tanto temuto dagli analisti occidentali, ha rimesso in piedi lo Stato-nazione e qualcosa di più, prima distruggendo la Cecenia – l’ultima regione ad essere normalizzata nel ’25 –, poi alleandosi con l’America e tornando in Afghanistan.

Secondo Sergej Kovalëv, uno dei pochissimi dissidenti rimasti in campo, noi europei ancora una volta stiamo commettendo vecchi errori «guidati da una filosofia che dà per sicura la perdita della Russia. Che la considera una nazione sbagliata, mettendola tra parentesi e rinunciando ad includerla nel destino d’Europa. Ma la questione russa resta come assillo nostro e vostro, è la croce che l’Europa non potrà fare a meno di portare».

I fatti ci dicono che non possiamo pensare di trovare la salvezza in un’Europa egoisticamente chiusa su se stessa: la fortezza europea è un mito nazista senza basi storiche, mentre la difesa dell’Occidente in quanto tale è affidata alla forza delle armi. Noi proponiamo e imponiamo agli altri un modello di vita impossibile, la sua realizzazione e generalizzazione coinciderebbe con l’autodistruzione. Coloro che si sono scontrati mortalmente nei grandi e catastrofici conflitti del ’900, tanto i vinti quanto i vincitori, non hanno più nulla di importante e di veramente decisivo da dirci. Essi, variamente camuffati, continuano ad occupare la scena, ma possono solo preparare altri e forse peggiori disastri. Per andare oltre bisogna anche sapere riprendere le fila di lontani percorsi violentemente interrotti, che talvolta inaspettatamente riaffiorano.


Bibliografia
Opere citate nel testo:
Per Herzen il testo base è Passato e pensieri (1852-1868), di cui esistono varie traduzioni parziali, ma si veda l’edizione Einaudi-Gallimard del 1996.
Molto utile il volume antologico curato da Vittorio Strada: A.I. HERZEN, A un vecchio compagno, Einaudi, Torino, 1977.
Le opere di Dostoevskij sono reperibili in varie edizioni italiane; per i temi affrontati nel testo sono da vedere principalmente: Osservazioni invernali su impressioni estive (1863), Memorie dal sottosuolo (1864), I demoni (1871), I fratelli Karamazov (1878-80) e Diario di uno scrittore (1873-1881).
Per quanto riguarda Tolstoj l’opera di riferimento è Guerra e pace (1863-69). Negli scritti della maturità e della vecchiaia i temi della non violenza, del rapporto con la terra, le riflessioni sul mondo contadino occupano un posto centrale. Di utile lettura è la scelta antologica dei monumentali Diari (1847-1910), curata da Silvio Bernardini per Longanesi, Milano, 1980.
La letteratura su Herzen, Dostoevskij e Tolstoj è sterminata. Sono da leggere almeno gli scritti di Bachtin e Berlin, tra cui: M. BACHTIN, Dostoevski: poetica e stilistica, Einaudi, Torino, 1968; I. BERLIN, Tolstoj e la storia, Lerici, Milano, 1959 (poi in IDEM, Il riccio e la volpe e altri saggi, Adelphi, Milano, 1986).

Da Altronovecento n. 7 2003
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