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losguardo

Lenin e le trappole della politica assoluta

di Giso Amendola*

923fd7cb87d4ceab681199f889963bb6Ci sono molti modi per mancare il confronto con Lenin al quale il centenario del 1917 vorrebbe chiamarci. Il primo è quello di assorbire Lenin dentro una oziosa linea di continuità con tutta l’esperienza sovietica, e farne l’origine del fallimento del socialismo reale. Strada privilegiata dalla gran parte del pensiero politico liberale: Lenin qui è il nome di un processo storico lineare e necessitato che conduce dal 1917 al 1989, senza alcuna soluzione di continuità. Non è mai mancato, per la verità, alla costruzione di una tale pretesa di omogeneità del corso storico, il contributo di alcuni marxisti, per cui la tragedia segreta del socialismo reale andrebbe fatta risalire direttamente a Lenin, e quindi, dopo il 1989, non resterebbe che produrre un’improbabile cesura antileninista che salvi un ipotetico Marx in purezza da qualsiasi successivo ‘leninismo’.

Del resto, la stessa pretesa continuità, lo stesso riassorbimento del ‘momento Lenin’ all’interno di un unico processo storico necessitato, si riscontra, se solo se ne rovesci il segno, nell’apologetica staliniana, cui si deve l’invenzione di un leninismo inteso esattamente come ricostruzione di un’Origine della rivoluzione del tutto funzionale alla legittimazione dello Stato sovietico come si andrà costituendo in seguito.

Contro tutti questi tentativi di inglobarlo, in un modo o nell’altro, in una continuità coerente e senza scosse, la specificità del pensiero di Lenin è stata spesso assunta e difesa presentandolo, oltre ogni assunzione di una presunta linearità evolutiva e necessitata nella Rivoluzione, come esempio per eccellenza di un pensiero che si costituisce tutto sulla discontinuità temporale, sulla capacità di imprimere svolte al corso storico, di agire nella contingenza della storia e della sue specifiche e mai prevedibili temporalità. Quante volte, a questo proposito, si è ripetuto l’assunto per cui la capacità di stare nella storia di Lenin è stata quello di comprendere che ‘ieri troppo presto, domani troppo tardi, il solo momento è oggi’. Un’esperienza politica – quella leninista – radicata proprio nella capacità di legare azione e contingenza storica, di afferrare l’occasione come momento non ripetibile e qualitativamente segnato, che può interrompere ed imprimere un’altra direzione al corso del tempo. A un simile pensiero dell’occasione e della contingenza, sarebbe perciò del tutto contraddittorio riservare il posto dell’Origine, sia che poi si legga tale Origine come ‘colpa’ iniziale da cui scaturirebbe un fallimento inevitabile, sia che la si intenda al contrario come la sorgente sicura della legittimità dell’ordine politico successivo. La specificità del pensiero di Lenin – proprio per il suo strettissimo e strutturale rapporto con la contingenza – si sottrae all’essere pacificamente inserito in letture in qualsiasi senso deterministiche e continuiste della Rivoluzione e della storia dello Stato sovietico.

Questa sottolineatura dello strettissimo rapporto del pensiero leninista con la congiunturalità, con la determinatezza del tempo storico, con la concretezza della situazione, coglie effettivamente molto del senso della specifica politicità del pensiero leninista. Al pari della grande tradizione del realismo politico, l’azione politica in Lenin si sporge sempre su un rischio, su una serie di possibilità non determinabili, su una contingenza non riducibile a deduzione da condizioni storiche date. Nel segno dell’occasione di machiavelliana memoria, l’azione politica in Lenin ha certamente a che fare con il saper cogliere il tempo opportuno. Qui però si apre un rischio di fraintendimento notevole, e dalle conseguenze teoriche e politiche molto rilevanti. Il problema può essere posto in questi termini: se cogliere il rapporto tra determinatezza della situazione e contingenza dell’azione politica, può aiutare a leggere la specificità della posizione di Lenin, vale a dire il suo specifico modo di intendere la relazione tra l’azione politica e i suoi presupposti, il tema della contingenza contiene anche in sé il rischio di trasformare il pensiero leniniano in un pensiero della Politica Pura, e in una ennesima versione dell’autonomia del Politico. Esito cui il pensiero leniniano recalcitra, e che soprattutto, al di là delle questioni sulla esattezza e coerenza storico-interpretativa, rischia di nascondere e travisare alcuni elementi utili al presente che quel pensiero può dare. Il rischio insomma è che – per salvare Lenin da ogni ‘marxismo-leninismo’ di stampo deterministico – si trasformi la capacità di mettere in relazione situazione determinata, azione politica e contingenza in un pensiero della politica assoluta, di stampo più o meno decisionista. Il che non solo è scorretto dal punto di vista del mantenimento di una certa plausibilità interpretativa, ma soprattutto nasconde proprio gli elementi che della politica leninista oggi possono essere più attuali.

Un pensiero aperto alla contingenza, alla variabilità strutturale dei rapporti e dei problemi, alla trasformazione dei soggetti, e all’indeducibilità della decisione politica: tutto questo può sicuramente e pienamente essere colto oggi nel pensiero di Lenin. Un pensiero della contingenza assoluta della politica, della decisione infondata, dell’autonomia della sfera della decisione politica: tutto questo invece non solo non è Lenin, ma è precisamente la versione della decisione politica contro cui la ricostruzione leniniana della relazione tra determinazione dei rapporti di forza, soggetti in campo e azione politica si batte. Eppure, la trasformazione di Lenin in un autore dell’autonomia del Politico è forse la mossa più insidiosa per neutralizzare il pensiero leniniano, forse ancora più pericolosa di quello di farne l’origine inevitabile, nel bene o nel male, dello stalinismo.

Un esempio di una lettura molto produttiva del rapporto tra contingenza e azione politica in Lenin è stato per esempio offerto già negli anni Sessanta dall’operaismo italiano. L’operaismo nasceva tracciando una differenza radicale con quel mix di ortodossia marxista-leninista e di opportunismo riformista che caratterizzava il PCI togliattiano. Così il confronto con Lenin finiva per trovarsi, per gli operaisti, stretto tra la doppia necessità di rifiutare da un lato, qualsiasi oziosa continuità ‘leninista’, ma, dall’altro, qualsiasi dissoluzione del leninismo in una sorta di nazionalpopulismo tricolore e generico. Così dal celebre – almeno celebre nella storia dell’operaismo – Lenin in Inghilterra di Mario Tronti1, Lenin viene letto come il ‘nome’ della capacità di far cadere nella contingenza l’azione politica, ma contemporaneamente, come la necessità di leggere quella contingenza sempre dentro un rapporto determinato di classe, e dentro la composizione sociale del soggetto. Ma questa composizione viene assunta dagli operaisti come in trasformazione: leninista è qui chi sa calare la decisione politica, anche l’azzardo dell’anticipazione, dentro i processi di trasformazione della soggettività politica. Appunto, Lenin va trasferito, spostato in Inghilterra: ma non perché la decisione politica abbia una forza di imporsi dall’alto sulla realtà, abbia l’autonomia ‘magica’ del fiat della creazione, e quindi possa separarsi dai concreti rapporti di classe: ma anzi, la capacità di cogliere la contingenza in Lenin sta proprio nel costruire una relazione strettissima tra azione politica e trasformazione della composizione, trasformazione della stessa tessitura ontologica delle soggettività in campo. L’operaismo prova a sottrarre Lenin dal determinismo delle letture ortodosse, ma al tempo stesso lo cala nel vivo della relazione con le trasformazioni produttive e soggettive2.

Tutt’altra mossa invece è quella di proclamare la liberazione di Lenin dal leninismo nel segno certo della contingenza dell’azione politica, della capacità di cogliere il momento irripetibile, ma che, allo stesso tempo, legge questa contingenza come contingenza assoluta e trasforma la decisione politica in una forma di decisionismo. Qui – proprio al contrario della lettura operaista – la contingenza non è capacità di agire dentro il rapporto di classe e dentro le trasformazioni soggettive che qualificano di volta in volta qualitativamente quel rapporto, ma è misurata sulla capacità di tagliare, di rompere con quelle determinazioni. Rompere con il determinismo in altri termini finisce per significare separazione dallo stesso tessuto produttivo e dalle soggettività che lo animano, conquista di una trascendenza della decisione politica rispetto a quello stesso tessuto produttivo. Questo Lenin viene così certo a somigliare a un Machiavelli, ma a un Machiavelli in cui il tema della capacità di rispondere alla mutevolezza della Fortuna e di cogliere l’Occasione venga astrattamente separato da ogni analisi sugli ‘umori’ della moltitudine, sull’effettività dei rapporti e dei conflitti che animano la città. Contingenza e decisione diventano allora le parole chiave per trasformare Lenin in un autore dell’autonomia del Politico, e della celebrazione della capacità della politica di tracciare fughe radicali rispetto ai rapporti di produzione, se non proprio di un esodo metafisico rispetto alla stessa storia.

Lo stesso Tronti contribuirà negli anni successivi a Lenin in Inghilterra a fare di Lenin un autore del Politico, sempre più accostabile, proprio per la capacità di aprire uno spazio di indeducibilità radicale, di ‘salto’, tra processi storici e decisione politica, al decisionismo di Carl Schmitt. Questa assunzione di Lenin nel Pantheon dell’autonomia del Politico comporta la messa tra parentesi della fondamentale relazione tra azione politica e trasformazione del rapporto di classe, e l’abbandono al suo destino di tutto il lato propriamente ‘sovietico’ del pensiero di Lenin, quello per cui, se è vero che la decisione politica vive i tempi della contingenza, dell’anticipazione e della volontà, l’essenza dell’azione politica rivoluzionaria sta proprio nel suo non potersi neanche concepire se non in stretto collegamento con la trasformazione dei soggetti della produzione e con l’organizzazione del la produzione stessa. Se però l’assunzione di Lenin come autore del Politico produce questo taglio tra politica e produzione in modo del tutto esplicito e visibile, più insidioso è forse il più recente gioco di rileggere Lenin attraverso un certo uso politico della psicoanalisi lacaniana. L’esito non è molto diverso dal fare di Lenin l’ultimo autore del decisionismo politico: ma forse è ancora più chiaro l’esito neutralizzante dell’operazione, che consiste pur sempre nel proporre Lenin come nome di uno sganciamento radicale di politica e produzione.

Una perfetta sintesi di questo Lenin-Lacan (o meglio, per non coinvolgere direttamente il lacanismo in questi affari, di questo Lenin che subisce il trattamento di un certo lacanismo politico) è nella introduzione e nella postfazione che Slavoj Žižek ha premesso a una antologia di scritti di Lenin, Lenin oggi. Ricordare, ripetere, rielaborare3. Ricordare significa qui evitare la rimozione che costringerebbe a subire passivamente il rimosso: i comunisti che rimuovono il passato sono costretti a ripeterlo anche nei suoi aspetti più orribili. Eppure, qui ricordare Lenin non significa tanto sottrarlo alla sua continuità con lo stalinismo o con il marxismo-leninismo: per Žižek la pubblicazione dei rapporti su Stalin e la denuncia di Krusciov non sono affatto un momento di positiva e costruttiva crisi del marxismo teorico (gli operaisti invece approfittarono proprio di quella crisi, valutata come apertura di possibilità per riaprire un discorso non ortodosso su Lenin). Un’opera di ‘banale’ messa in crisi dello stalinismo non è per Žižek che un segno di rimozione: se Lenin va riassunto, non va riassunto semplicemente contro Stalin, ma ‘ricordandone’ tutto il fallimento, ricomprendendo in questo fallimento anche lo stesso affermarsi dello stalinismo. Non bisogna rimuovere: ma, al tempo stesso, ricordare e rielaborare significa che ogni possibile attualità di Lenin va subito iscritta nel segno dello scacco e della sconfitta. Ripetere Lenin, scrive Žižek, significa accettare che ‘Lenin è morto’, che le sue soluzioni sono fallite, e che il modo di questo fallimento è stato persino atroce. Quello che invece va riportato in superfice, dai luoghi ‘profondi’ dell’inconscio della storia, è invece proprio lo scarto, che si apre in quel fallimento, tra quello che Lenin ha fatto e ciò che non è riuscito a fare: questo registro dell’impossibilità è esattamente quello che dovremmo, per Žižek, oggi importare e riapprendere dall’esperienza leniniana.

Cos’era la rivoluzione, per Lenin, se non lo sporgersi verso una possibilità non data, non assicurata, anzi assolutamente azzardata rispetto alle condizioni? Žižek traduce in lacanese questa idea di una rivoluzione sospesa sul vuoto: «in Lenin, come in Lacan, la rivoluzione ne s’autorise que d’elle-meme». La rivoluzione è l’atto che si sottrae ad ogni garanzia del grande Altro, in altre parole che si sottrae alle legittimità precostituite o al mito di una lineare necessità sociale. E qui non si potrebbe che concordare, e anche il confronto con Lacan potrebbe non risultare inutile: la rivoluzione rompe con l’assicurazione del già dato e pone il problema della costruzione di un’altra legittimità, fuori dalle reti assicurate da tutte le trascendenze già date. Ma, in Žižek, la sottrazione al grande Altro non assume i tratti di un qualche confronto duro, ma in qualche modo riarticolabile, produttivo di trasformazione, con il Reale, ma si traduce subito in una esposizione sul vuoto: la ricerca di garanzie, quelle garanzie che l’atto rivoluzionario, proprio perché non fondato su null’altro che su se stesso, sfonda radicalmente, è, per Žižek, nulla di meno che «la paura dell’abisso dell’atto». La rivoluzione si iscrive tutta in questo scarto, prodotto da un atto assoluto, che rompe con il già dato, per sporgersi su un vuoto, in nome e nel segno della proclamazione di una Verità altrettanto assoluta. Una verità dalle tinte evidentemente soggettive, davanti alla quale ciascuno si misura soprattutto con il coraggio che può costare il proclamarla. Qui però non è in questione quel tipo di coraggio della verità – tutta dentro le trasformazioni soggettive, la presa di parola in pubblico, la capacità di ‘dire la verità’ al potere – su cui rifletteva l’ultimo Foucault: lì si tratta di stringere la verità nell’immanenza delle forme di vita dei soggetti e delle loro trasformazioni. Questa Verità al contrario è soggettiva precisamente perché taglia con qualsiasi forma di relazione, perché si separa dal presente, con una pretesa dall’evidente sapore di conversione religiosa e di rottura assoluta, per mirare a una decisione azzardata. Gli autori evocati da Žižek danno esattamente il senso della tensione compiutamente trascendente – tutta tradotta nei termini di una retorica dello sporgersi sullo scarto, sul vuoto e sull’abisso – di una tale concezione del nesso decisione/Verità: qui Lenin dialoga, direttamente, ed esclusivamente, con Søren Kierkegaard (la decisione per la Verità «ripete l’inizio»), con Simone Weil (la Verità è grido dell’esclusione assoluta, proviene sempre dalla più radicale delle distanze), con Beckett (il fallimento che sempre ricomincia a fallire è il luogo privilegiato della verità).

Žižek si sofferma significativamente su uno scritto leniniano del 1922. Qui Lenin si concentra effettivamente su quanto non è stato fatto, sullo scarto dalle intenzioni e sulle difficoltà: occorre saper «ricominciare daccapo», perché l’obiettivo di costruire una società socialista non è neanche sfiorato. Occorre conservare però le forze proletarie e la capacità di manovra, e soprattutto saper preservare la lucidità anche di indietreggiare. Lenin sta evidentemente confrontandosi con il tema della transizione. Come avrebbe detto un leninista puro (e fatto sparire da Stalin) come Pašukanis, Lenin sta qui evitando la pericolosissima idolatria di credere all’edificazione di uno stato ‘socialista’ e sta descrivendolatransizionecomeunprocessoaperto, incuisimantieneundualismo non richiudibile tra comando del capitale e istituzioni dell’autorganizzazione operaia. In questo senso sì, la transizione è appunto un processo in cui occorre saper sempre ricominciare daccapo: il che però non significa tornare indietro, men che meno risalire a una qualche mitica prima origine, ma sapere mantenere produttiva la dinamica dualistica della transizione per operarvi dentro. Per Žižek, invece, l’insegnamento leninista starebbe, al contrario, nel saper fino in fondo fare i conti con il proprio ‘fallimento’ fino a giungere a ripetere l’inizio. E ripetere l’inizio oggi, significa, spiega Žižek, non solo separarsi da tutte le illusioni socialdemocratiche sulla tenuta dello stato sociale, esercizio che sarebbe effettivamente ragionevole e urgente, ma anche rinunciare all’idea di «una regolamentazione diretta e trasparente ‘dal basso’ del processo sociale della produzione, quale corrispettivo economico del sogno di ‘democrazia diretta’ dei consigli operai». Qui è indicato evidentemente il vero obiettivo della invenzione di questo strano Lenin, che, malgrado lo sforzo di porre il tutto sotto la protezione di Lacan, è in realtà costretto a viaggiare tra nichilismi, esistenzialismi e trascendenze: trasformare Lenin in un decisionista aperto a un’eccedenza tutta iscritta nei registri della trascendenza, serve in realtà a liquidare quel nesso, complesso, mobile, mai assicurato, ma che resta il cuore del pensiero di Lenin, tra autorganizzazione della produzione e azione politica. L’autorganizzazione del sociale va espulsa dall’orizzonte del pensiero di Lenin per poter affermare che il suo fallimento dovrebbe oggi aprirci proprio ad un recupero degli elementi di trascendenza presenti nel suo pensiero. Davanti alla crisi, saremmo chiamati – questo è in fondo ciò che pretenderebbe di insegnarci questo Lenin di Žižek – a rompere l’orizzonte neoliberale ritrovando una verticalità, un comando, un Padre o un Padrone. Giocando ancora con Lacan, si tratterebbe di rompere il discorso del Capitale, ritornando appunto indietro sul discorso del Padrone: ci occorrerebbe ritrovare un’Autorità che, dall’esterno, venga a rompere la forza con cui il neoliberalismo ci incatena alla nostra stessa capacità di auto-obbligarci e di trasformarci in servi volontari. Solo la trascendenza dell’assunzione di un obbligo assoluto ci salverebbe, insomma da noi stessi, esercitando, come nel meccanismo del Terrore, una pressione in grado di liberarci. Il problema che questa logica del Padrone riprodurrebbe poi a un altro livello la stessa mancanza di autonomia e la stessa gerarchizzazione da cui sarebbe chiamata a liberarci, è completamente dimenticato. O meglio, dovremmo accettarlo come va accettata l’incompiutezza tragica che ogni realizzazione storica della purezza della Verità rivoluzionaria non può che lasciare. Possiamo tradurre questo paradossale desiderio di Padrone e di trascendenza, in cui la rivoluzione viene in questo modo rovesciata, anche in termini più direttamente organizzativi e politici: secondo questa logica che oppone al dominio del neoliberalismo la paradossale ‘riconquista’ della Trascendenza e dell’Obbligo infinito, dovremmo rispondere alle difficoltà che lo sviluppo di movimenti sociali reticolari e caratterizzati dalla leaderness hanno incontrato nel combattere con efficacia il comando finanziario, riscoprendo per questi movimenti un luogo della decisione politica fondata su uno scarto verticale, su una separazione netta dalle dinamiche di base (in luogo invece di quel prezioso e difficile lavoro di irrobustimento dell’organizzazione e, insieme, di mantenimento della relazione aperta e produttiva con quelle dinamiche). Si capisce allora qual è il senso di questo ‘rielaborare’ Lenin: chiamare con il nome di Lenin la tentazione di interiorizzare completamente la crisi, di trasformarla in una nostra costitutiva mancanza, e, infine, di rinunciare a radicare la costruzione della decisione politica dentro – e non miracolisticamente fuori o sopra – le capacità auto-organizzative della società. Questo Lenin assomiglia, così, a un tentativo disperato di uscire dal neoliberalismo, celebrando, piuttosto che la fine del comando della proprietà, la rinuncia definitiva e luttuosa alla nostra autonomia

Oggi avremmo in realtà proprio bisogno di fare tutto il contrario di quanto predicano tutti questi neodecisionismi e queste nuove idolatrie del Politico puro: ripensare Lenin reindagando le ragioni di una politica della produzione, per superare la separatezza della rappresentanza e dell’azione politica e riconquistarle pienamente alle reti della produzione sociale e cognitiva. Si comprende bene, in fondo, che la durezza della crisi dia spazio all’antichissima illusione di rimettere le cose a posto, risottoponendo le forze produttive ad un comando del Padrone: ma quelli che in questo modo pensano di poter affrontare il neoliberalismo facendolo indietreggiare a colpi di decisionismo e trascendenze, i tardogiacobini appassionati di ‘rivoluzioni’ giocate tutte dall’alto verso il basso, nutrite sempre e solo di un triste scetticismo verso ogni momento di autorganizzazione democratica, farebbero meglio ad alzare questi inni alla Decisione pura e alle virtù eroiche del Terrore nel proprio nome, lasciando perdere Lenin.


Note
1 M. Tronti, Lenin in Inghilterra, «Classe operaia», I, gennaio 1964.
2 A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, Roma 2016.
3 S. Žižek, Lenin oggi. Ricordare, ripetere, rielaborare, Milano 2017.

* Università di Salerno This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
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