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Quattro tempi della storia per Domenico Losurdo

di Alessandro Visalli

foto napoliL’ultimo capitolo dell’ultimo libro del filosofo marxista Domenico Losurdo, scomparso questo anno, su “Il marxismo occidentale” si pone una domanda di straordinaria difficoltà, ma di grande rilevanza in questa fase nella quale l’ultima versione del capitalismo sta mostrando tutta la sua ferocia e capacità di creare continuamente nuovi e creativi modi per creare periferie da sottoporre a saccheggio e isole di sfruttamento coloniale in ogni luogo, anche entro le ex opulente società del ‘primo mondo’.

Il punto di partenza di Losurdo nel suo libro è che la storia del novecento è andata in modo ben diverso da quanto il modello astratto di Marx ed Engels prevedevano in ultima analisi perché la dialettica interna alla società borghese è stata neutralizzata dalla forza maggiore che spingeva il capitalismo alla espansione coloniale. Spinta che ancora si manifesta e che, anzi, si manifesta ovunque sempre più forte. La contraddizione tra l’espansione delle forze produttive e la sua appropriazione limitata, che avrebbe dovuto portare al socialismo, è rimasta senza effetti. Al contrario il marxismo occidentale ha ovunque perso la propria capacità emancipativa, riducendosi o ad un generico progressismo (che si accontenta del tempo che chiamerà del “futuro in atto”, ovvero della capacità del capitalismo borghese di dissolvere i rapporti sociali tradizionali, sostituendoli con rapporti “razionalizzati”, ovvero rapporti sociali tra cose), o ad un altrettanto generico messianesimo (che salta direttamente, e in modo meramente enunciativo, dal “futuro in atto”, che rigetta solo nominalmente, al “futuro remoto”, avvolto nella nebbia dell’utopia). Ciò che ha squalificato la prospettiva marxista occidentale, e quindi la sua carica emancipativa, è il rifiuto di fatto della transizione reale, ovvero del tempo nel quale si crea un “futuro prossimo”. Ovvero il tempo nel quale lo Stato non va dissolto ma usato, in cui le classi esistono e bisogna farci i conti (anche con le necessarie alleanze), in cui la pressione esterna richiede di organizzare le forze.

E’ su questa linea che, sostiene Losurdo, il marxismo occidentale, che è morto, si è divaricato drasticamente dal marxismo orientale (in particolare cinese), che è del tutto vivo ma viene considerato un traditore dagli utopisti e un ritardatario dai progressisti (che sono anche implicitamente e inconsapevolmente imperialisti).

Per comprendere come ciò è successo e come l’incomprensione della forza allo sfruttamento coloniale paralizza il ‘marxismo occidentale’, prigioniero della sua carica utopica messianica, bisogna fare un passo indietro.

Lo schema di pensiero dei due pensatori secondo l’autore “si dispiega in quattro tempi tra loro ben distinti”:

 

1 - il primo. Nel 1844, scrivendo la “Questione ebraica” il nordamerica è individuato come il paese nel quale si è di fatto già compiuta “l’emancipazione politica”, soprattutto perché la discriminazione censitaria, ferocemente presente nella Germania semifeudale del suo tempo, è stata abolita (tra i bianchi) ed il diritto di voto è divenuto universale tra i maschi adulti anche se nullatenenti. Cioè, come scrive successivamente nei Grundisse, sono stati cancellati “i rapporti di dipendenza personale” per legge e con l’avvento completo della società capitalistica, superata quella feudale si è instituita “l’indipendenza personale fondata sulla dipendenza personale”. È un passaggio giustamente famoso (“Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica”, 75, p.88) nel quale è descritto un modello di civilizzazione a quattro stadi ed una meccanica di passaggio tra questi: 

nel capitalismo “la dipendenza reciproca e universale degli individui indifferenti gli uni agli altri costituisce la loro connessione sociale. Questa connessione sociale è espressa nel valore di scambio, ed è soltanto in esso che per ogni individuo la propria attività o il proprio prodotto diviene infine un’attività e un prodotto per esso; l’individuo deve produrre un prodotto universale – il valore di scambio – o, se lo si considera per se isolatamente e individualizzato, denaro. D’altro canto il potere che ogni individuo esercita sull’attività degli altri o sulle ricchezze sociali, esiste in esso in quanto possessore di valori di scambio, di denaro. Esso porta con sé, in tasca, il proprio potere sociale, così come la propria connessione con la società. L’attività, quale che sia la sua forma fenomenica individuale, e il prodotto dell’attività, quale che sia la sua natura particolare, è il valore di scambio, ossia un’entità universale in cui ogni individualità, particolarità è negata e cancellata”.

Questo è lo stato nel quale si ritrova l’individuo nello stadio borghese capitalista, ovvero nel secondo stadio, ma come era prima (nel primo stadio)?

“Questa è effettivamente una situazione molto diversa da quella in cui l’individuo, o l’individuo naturalmente o storicamente ampliatosi in famiglia, in tribù (più tardi in comunità), di riproduce direttamente su basi naturali, o in cui la sua attività produttiva e la sua partecipazione alla produzione vengono ad essere assegnate secondo una determinata forma del lavoro e del prodotto, e il suo rapporto con altri è appunto così determinato”.

Oggi, invece:

“Il carattere sociale dell’attività, così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell’individuo alla produzione, qui appare come qualcosa di estraneo, di oggettivo di fronte agli individui; non come loro rapporto reciproco, bensì come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e che sorgono dallo scontro tra individuo indifferenti gli uni agli altri. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, divenuto condizione di esistenza per ogni singolo individuo, la loro connessione reciproca, si presenta loro come estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra persone è trasformata in un rapporto sociale tra cose; la capacità personale in una capacità delle cose”.

Da qui si arriva al punto determinante, i due stadi sono messi a confronto ed il secondo rappresenta comunque un progresso, ed aprono finalmente al terzo:

“Strappate questo potere sociale alla cosa e dovrete darlo alle persone sulle persone. I rapporti di dipendenza personale (dapprima in modo del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa solo in forma ristretta e in punti isolati. L’indipendenza personale basata sulla dipendenza materiale è la seconda grande forma in cui si realizza per la prima volta un sistema del ricambio sociale generale, dei rapporti universali, dei bisogni universali e delle capacità universali. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, come loro patrimonio sociale, è il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo”.

E quindi (ivi, 77, p.91) il superamento del secondo stadio deriva dalle falle in esso incorporate:

“Ma all’interno della società borghese fondata sul valore di scambio si generano rapporti di traffico e di produzione che sono altrettante mine per farla saltare. (Una massa di forme antitetiche dell’unità sociale, il cui carattere antitetico tuttavia non può mai essere fatto esplodere mediante una quieta metamorfosi. D’altro canto, se nella società così com’è non trovassimo già nascoste le condizioni materiali di produzione e i rapporti di traffico a esse corrispondenti, adeguati a una società senza classi, tutti i tentativi di farla saltare sarebbero donchisciotteschi).”

In definitiva il primo tempo è quello del capitalismo in atto, la fase successiva al mondo precapitalista (nel quale la potenza del valore di scambio si attuava tra unità sociali e non tra individui). Losurdo lo chiama “il futuro in atto”.

 

2 - il secondo. È il tempo del “futuro prossimo”, la transizione all’insegna della “dittatura rivoluzionaria del proletariato”, che ipotizza nel ben più successivo “Critica del programma di Gotha”. Un momento che vedeva vicino ed anzi, come scriveva già all’epoca dei Grundisse (1857) incorporato nel “futuro in atto”. Ma la transizione richiede di usare la macchina dello Stato e richiede l’esercizio del potere, che necessità di disporre ed accumulare la necessaria forza. E’ la fase sulla quale si è di fatto concentrata la critica corrosiva delle tradizioni post-strutturaliste continentali e delle coeve tendenze libertarie anglosassoni.

 

3 - Il terzo. Viene, infine, il tempo del comunismo, una società immaginata nella quale ogni contraddizione è risolta nel pieno sviluppo delle forze produttive e nella piena razionalità di queste, e quindi nella quale ogni conflitto è risolto che, per questo, può fare a meno dello Stato in quanto tale. Il “futuro remoto”, è, per Losurdo, quindi essenzialmente un “futuro utopico”.

Questo era lo schema, ma, come detto, le cose sono andate diversamente: lungi dall’attivare una dialettica spontanea tra il “futuro in atto” e il “futuro prossimo”, che portasse infallibilmente infine al “futuro remoto”, si è verificato che la “tendenza all’espansionismo coloniale propria del capitalismo” è stata più forte della resistenza attiva delle forze rivolte alla liberazione. Queste si sono quindi accontentate o di restare nel “futuro in atto”, valutandolo come progressivo, o di rifugiarsi oniricamente nel “futuro remoto”, rigettando ogni possibile transizione come tradimento e pervertimento della purezza del sogno.

Sulla base di questa sistematica lettura, portata avanti con un appassionata ricostruzione della storia secolare del colonialismo e delle lotte di liberazione coloniale, a partire dalla rivolta di Santo Domingo/Haiti di Touissant Loverture (che avvia il ciclo delle rivoluzioni settecentesche e viene selvaggiamente repressa dalla Francia di Napoleone con l’aiuto di un embargo e blocco navale promosso dalla democraticissima America di Jefferson), Losurdo sostiene che di fatto è storicamente avvenuto che siano stati i paesi di orientamento socialista fuori dell’occidente a portare avanti l’emancipazione che Marx invece attribuiva all’azione della borghesia. Questi paesi, a volte sconfitti, a volte resistenti, si sono assumenti il compito di rischiarare e superare il “futuro in atto” dal quale le società borghesi non sono mai uscite. Per farlo i paesi ex coloniali hanno dovuto agire con lo Stato e rafforzandolo, al fine di non essere schiacciate dalla potenza dell’imperialismo. Il libro è al riguardo ricchissimo di esempi.

In altre parole questi paesi molto spesso, a causa dell’avverse condizioni e dell’oggettiva difficoltà, si sono arrestate sulla soglia dello sviluppo post-capitalistico in senso stretto, in qualche punto intermedio tra il “futuro in atto” e il “futuro prossimo” (ovvero nell’avvio del sentiero di transizione). Ma una cultura tutta orientata al “futuro remoto” del marxismo occidentale, ha sempre visto questi tentativi di sopravvivere e di fare il possibile come scivolamenti e tradimenti e molto spesso li ha osteggiati. Basti guardare l’atteggiamento verso il cosiddetto “populismo” sudamericano, che è normalmente orientato a sinistra e, pur non essendo talvolta di ispirazione marxista, opera in difficili condizioni di ineguaglianza cercando di difendere il punto di vista dei ceti popolari, riducendola.

Talvolta è capitato che i paesi sotto il giogo del colonialismo, una volta liberati, e ottenuta la capacità di autodeterminarsi si siano per anni concentrati sul recupero della distanza e la creazione di una economia in grado di competere (evitando di restare ai più bassi livelli di specializzazione, come fornitori di materie prime e di persone), dunque sia siano impegnati a raggiungere lo stadio del “futuro in atto”. Nei termini della tassonomia qui presentata, sono rimasti catturati tra il “futuro in atto” e l’avvio, anche disomogeneo e costretto in condizioni materiali difficili (e competitive) del “futuro prossimo”.

Nei termini di Losurdo di fatto ci sono stati “due marxismi all’insegna di due ben diverse temporalità: il futuro in atto e gli inizi del futuro prossimo per quanto riguarda il marxismo orientale; la fase più avanzata del futuro prossimo e il futuro remoto e utopico per quanto riguarda il marxismo occidentale” (p.183).

Losurdo vede il problema nel messianismo inconsapevole del marxismo occidentale ed in questo restare bloccati nel pensiero tra “futuro prossimo” e “remoto”, quando bisognerebbe trovare la strada per passare realmente tra quello in “atto” a quello “prossimo”.

Del resto anche Marx, nel passo che abbiamo già citato scrive (“Grundisse”):

“Ma all’interno della società borghese fondata sul valore di scambio si generano rapporti di traffico e di produzione che sono altrettante mine per farla saltare. (Una massa di forme antitetiche dell’unità sociale, il cui carattere antitetico tuttavia non può mai essere fatto esplodere mediante una quieta metamorfosi.”

Occorre trovare nella concretezza della situazione la strada per far esplodere le contraddizioni che pure esistono.

Le condizioni per la rinascita del marxismo sono dunque di fare finalmente i conti con il messianismo, che si radica in occidente nella tradizione ebraico-cristiana e, influenzando profondamente i padri fondatori focalizza tutta l’attenzione sul futuro postcapitalistico immaginato (“remoto”, spesso con tinte fortemente utopiche). Un problema che, come visto, anche Marx ed Engels vedono, ed a fronte del quale forniscono due, e ben diverse, definizioni di “comunismo”: una che rinvia appunto al futuro remoto, in chiave utopica, che pensa una società in grado di lasciarsi alle spalle la divisione e l’antagonismo di classe (e del lavoro); un’altra che emerge ad esempi dalla “Ideologia tedesca”, e parla invece di “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”.

La seconda condizione per far rinascere il marxismo occidentale è di riuscire a gettare un ponte tra ciò che deve essere compiuto realmente, per abolire lo stato delle cose presenti, nel tempo del “futuro in atto”, e ciò che deve essere immaginato per la ‘fase più avanzata’, il tempo del “futuro remoto”. Se, come dice l’autore, “tale compito viene ignorato o disdegnato, non tardano a manifestarsi la superficialità e la saccenteria che amano contrapporre la poesia del futuro remoto ovvero della prospettiva di lunga durata alla prosa dei compiti immediati” (p.183). Sulla questione altamente difficile dell’Europa ne abbiamo un vasto campionario.

È facilissimo infatti per tutti sognare il “libero sviluppo di ognuno” del “Manifesto del Partito Comunista”, magari per condannare proprio i tentativi, necessariamente imperfetti perché vincolati dal reale, di “abolire lo stato di cose presenti”; quindi di fatto combattendo il movimento reale “in nome delle proprie fantasie e dei propri sogni” ed esprimendo il disdegno sul futuro “in atto” e “prossimo”, in nome di un futuro “remoto” necessariamente “utopico”. In tal modo, con questo atteggiamento che è “del tutto estraneo a Marx ed Engels”, il problema è che di fatto si “priva il marxismo di ogni reale carica emancipativa”.

In effetti lo si assimila ad una religione, come (inconsapevolmente) è per molti.

Ciò che bisogna fare, per superare questo stallo, è riprendere la lezione hegeliana che vede l’universale sempre in forma concreta e determinata, e la filosofia come “il proprio tempo appreso con il pensiero”.

Un movimento che necessita sempre di un certo attrito e fatica con il reale.

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