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L’eredità di Marx per un economista laico1

di Salvatore Biasco

DSCN0634 960x720Premessa

Marx è stato il mio imprinting giovanile e, più che Marx, la produzione di vari autori marxisti (e non marxisti, che comunque a lui si riferivano). Il bagaglio si era confusamente già definito, quando la mia formazione si è indirizzata verso l’economia, consolidandosi soprattutto a Cambridge (negli anni d’oro della Faculty of Economics) e, in Italia, nell’Istituto (si chiamavano così i Dipartimenti) diretto da Sylos Labini, quindi in un universo intellettualmente laico. Avere alle spalle quel piccolo bagaglio marxiano è stato importante poiché da subito ha contributo a farmi guardare l’economia da un punto di vista sociologico, nella consapevolezza che dietro le relazioni stilizzate vi è la struttura della società. Oggi - dopo tanti anni (nei quali c’è in mezzo il confronto continuo sul tema negli ’70 con Salvati, Vianello, Ginzburg, Lippi e tanti altri in quella fucina di idee che era allora l’Università di Modena) e dopo tutte le maturazioni (accettatemi il termine) che ha avuto la mia riflessione intellettuale - cosa rimane di Marx? Qual’è il consuntivo di insegnamenti che il confronto con la realtà e con la disciplina è andato distillando dentro di me e che mi sentirei di proporre come guida a un giovane che si avvicini oggi a lui? Quali considerazioni ci stimola anche nelle parti della sua produzione che ci appaiono più lontane dall’evoluzione del mondo corrente?

Ovviamente, in ciò che segue, il Marx che presento è come io l’ho sistemato nella mia mente ed è un Marx riferito al bagaglio analitico che ci ha trasmesso. Il Marx che si proietta in un finalismo storico non l’ho mai considerato rilevante e, sotto sotto, è anche una forzatura interpretativa. Il filosofo, lo storico, l’economista, il sociologo, l’umanista che in ciascun campo dà il “là a un modo originale di vedere le cose è, invece, di grande rilievo.

Quel “là” vorrei affrontarlo da scienziato sociale nel profilo specifico. Non senza difficoltà e umiltà di fronte a una produzione vastissima, fra l’altro in parte non pubblicata in vita sia perché fatta di appunti, sia perché dell’assetto e delle affermazioni contenute Marx non era evidentemente convinto fino in fondo (penso fosse così anche per il Secondo e il Terzo libro de Il Capitale, che furono poi editi da Engels, quelli, per intendersi, che contengono gli schemi di riproduzione).

 

Il centro dell’analisi

Marx è soprattutto interessato ad analizzare la realtà a lui contemporanea, quella del capitalismo industriale (delle fabbriche) e a darne un quadro complessivo. Ha due interessi che si rintracciano in tutta la sua opera, uno di mettere in evidenza la struttura interna di una società forgiata dal capitalismo, in un certo senso, offrirne la fotografia; l’altro di capire i meccanismi di funzionamento di quel modo di produzione, le direzioni in cui si muove; indagarne quindi le sequenze dinamiche che esso ha insite.

Sono due interessi fecondi, ma distinti, da cui scaturiscono indicazioni importanti, che hanno, però, necessità di una premessa. La risposta che Marx da seguendo questi due filoni non ha a mio avviso, per entrambi, la necessità della teoria del valore – lavoro. Non è questa una stella polare, il principio originario da cui discende tutto l’impianto; né Marx muore o sta in piedi con la validità di quella teoria. Sebbene sia la parte che più abbia affascinato gli studiosi e sulla quale si siano stati spesi fiumi di inchiostro, il suo accantonamento non provoca danni al valore scientifico dell’indagine che Marx porta avanti. E’ un livello alto di astrazione e anche di azzardo. Chiunque voglia metterlo al centro dell’impianto rischia di indebolirne la solidità. Che orientamento ci dà oggi il valore-lavoro quando sappiamo che un Ipad assembla pezzi proveniente da 40 paesi e incorpora tanta conoscenza e varia di prezzo con i tassi di cambio? O che i salari (“il lavoro vivo”) rappresentano il 7% nel costo di un’automobile? Quello che ci basta ritenere è che la distribuzione del reddito è conflittuale, dipende dai rapporti di forza, che il profitto è un residuo nel valore delle merci dopo che sono stati pagati i lavoratori e i beni intermedi. Se proprio si vuole, ci si può riferire a Sraffa, che queste proposizioni ha convalidato, operando sugli schemi di riproduzione, sia pure allo stesso livello alto di astrazione nella formazione dei prezzi.

Da Marx estraiamo, però l’idea che il valore intrinseco dei beni è il prodotto di un insieme storicamente specifico di relazioni sociali e che lo scambio che avviene sul mercato, apparentemente tra equivalenti, nasconde uno scambio tra diseguali. Lo sfruttamento (“il pluslavoro, o eccesso di lavoro vivo, appropriato dai capitalisti”) rimane come categoria sociologica e termine evocativo di un rapporto sociale, ma occorre rinunciare a fondarlo “scientificamente”.

 

La fotografa del capitalismo

Detto questo, ci sono degli orizzonti analitici e insegnamenti che rimangono tutti interi e hanno informato generazioni di studiosi in vari campi. Hanno costituito svolte nel pensiero e rimangono come fondamenti della scienza sociale, ancora oggi illuminanti.

Se rimaniamo nell’indagine fotografica,

 

Le sequenze dinamiche del capitalismo

Altrettanto e forse più importanti sono le proposizioni legate all’ inquadramento “cinetico” del capitalismo.

Su come le crisi avvengano per Marx si dovrebbe aprire un capitolo a parte, ma essendo il mio intento valutativo e non ricostruttivo, mi limito a tre battute di sintesi sulle modalità che egli intravede. Oggi diremmo che hanno tutte luogo dalla caduta degli investimenti che segue a una caduta dei profitti o della profittabilità. L’incalzare di una crisi può derivare dall’assottigliamento dell’esercito industriale di riserva (Marx anticipa quella che chiamiamo oggi curva di Phillips), o da una caduta tendenziale e strutturale del tasso di profitto (la modalità più debole), o, ancora, dalla difficoltà di realizzazione dei profitti, dovuta alla sovrapproduzione in alcuni rami di produzione che si diffonde in tutta l’economia (essenzialmente la causa prima della crisi del ’29). Per tutte, Marx vede delle controtendenze; tutte portano all’intensificazione della concorrenza, del progresso tecnico e accentuano le tendenze alla concentrazione. Aprono sempre condizioni per riprodursi.

Più che seguirlo sulle dinamiche delle crisi, occorre soffermarsi su due importantissimi insegnamenti, - analitici e metodologici assieme - presenti nel ragionamento di Marx e intriseci a una visione dinamica dell’economia. Potremmo entrambi considerarli una pietra miliare di una impostazione alternativa a quella dell’economia dominante, detta neo classica (che, infatti, è prevalentemente statica). Ma sono insegnamenti che anche molti economisti non appartenenti al versante mainstream trovano ostici da seguire.

Nelle rappresentazione dei processi dell’economia poco o nulla può essere parametrato in relazioni deterministiche. L’astrazione più consona all’economista è di estrarre le catene causali stabilite dalle forze dominanti in gioco (e dalle logiche endogene) e riflettere sulla portata relativa di spinte e controspinte (e circostanze collaterali) che fanno prevalere le une o le altre e che dall’interno possono cambiare anche la direzione del movimento. Si tratta quindi di mettere in sequenza logica catene non molto lunghe di relazioni di causa-effetto che catturino i punti di trazione (o di frizione o squilibrio) e riducano l’analisi a un nucleo di proposizioni semplificate e compatte, nonché solide sul piano concettuale e fattuale. E’ ciò che Marx fa e da cui l’economia mainstream è lontana mille miglia. Seguire interdipendenze generali, come fa l’economia dominante, serve solo a offuscare le gerarchie dei processi; pretendere di far muovere le relazioni meccanicisticamente (perfino fino alle conseguenze ultime di un equilibrio finale) fa perdere di vista che non vi è nulla di lineare o meccanico nella dinamica economica e sociale e che il materiale con cui trattano gli economisti non è costante, omogeneo o stabile, muta con le forze della produzione e le influenza a sua volta.

Il secondo insegnamento è altrettanto importante ed è ancora più trascurato del primo, ed è che dall’interazione degli attori nascono forze e si determinano esiti che non corrispondono al volere consapevole di nessuno e finiscono per essere condizionati per tutti. Marx parla delle “forze coercitive esterne”. Per lui la concorrenza lo è. E’ creata dall’agire capitalistico, ma è essa che alla fine si impossessa dei capitalisti e li costringe a accumulare. Marx ci dice, in sostanza, che le dinamiche endogene sono altrettanto importanti dell’agire strategico e che è un errore personificare alcuni esiti riconducendoli al volere di qualche agente collettivo. Vi è sempre in mezzo un mercato impersonale e anarchico, imprevedibile nei suoi sviluppi, nel quale confliggono (o anche trovano coordinamento) le decisioni di attori diversi che agiscono con le loro logiche. Molti esiti possono semplicemente essere stati utilizzati, più che pianificati. Per capirci, come possiamo classificare, se non come “forza coercitiva esterna”, che si erge all’interno di varie contraddizioni, lo sviluppo del mercato dell’eurodollaro, - nato dalle dinamiche di allora – alla cui forza condizionante si deve la caduta del sistema di Bretton Woods? Similmente, cogliamo quanto sia importante questo insegnamento di Marx se pensiamo a quanto i governi occidentali abbiano visto negli indirizzi di mercato e competitivi una via di uscita per la crescita, per poi diventare prigionieri di quel Prometeo che hanno sbrigliato che ha stretto in una morsa la loro libertà di politica economica.

Marx ci rinvia a processi non lineari di trasformazione. Contrariamente al modo in cui viene correntemente interpretato, questa indeterminatezza è quanto va estratto di più fecondo, e non che esista un destino già scritto nella storia umana. Sappiamo solo che c’è un conflitto tra lo sviluppo delle forze produttive e la composizione sociale, ma il resto è anarchia del mercato (controllata o meno). E’ vero, però, che egli vede il capitalismo come transeunte e destinato da questa anarchia a sfociare in una società socialista. Ma è solo una congettura, un’ipotesi, non una legge ineluttabile. Prendiamola per quella che è. E’ come se partendo da un’analisi approfondita, seria e rigorosa, della natura e struttura della Lega e dei Cinque Stelle ci mettessimo a prevedere quale possa essere la durata del governo di coalizione. E’ una congettura che lascia il tempo che trova; quello che rimane è la profondità dell’analisi che non cade certo se le congetture avanzate si rivelano sbagliate.

 

La soggettività e l’azione consapevole

E qui sta un punto importante. La rottura (in special modo quella rivoluzionaria) non avviene per ineluttabili condizioni oggettive che la rendono inevitabile. Accanto alla valorizzazione del capitale Marx guarda alla produzione di soggettività ed è consapevole che l’elemento decisivo nella nascita della nuova formazione sociale è l’intervento soggettivo. Nulla avviene per sviluppi naturali. Attribuire a Marx l’assenza di una dimensione della soggettività o affermare che tutto sia riconducibile a forze oggettive non è corretto. E’ un giudizio nato con lo sviluppo della psicologia e dell’importanza che oggi diamo all’individualità. E penso che egli avrebbe obbiettato che le tante determinazioni e identità che pure muovono i comportamenti individuali sono comunque in relazione (inconsapevole) con le condizioni materiali (e come, tali, infatti, vengono studiate oggi da molta scienza sociale). La sua preoccupazione è la coscienza di classe, ma non la dà per scontata: è un’acquisizione personale nel rapporto con la realtà. Egli parla di classe in sé (che è un dato di fatto, esiste sociologicamente) e classe per sé (i singoli che formano una coscienza convergente, si riconoscono nei propri simili, e diventano classe che agisce come soggetto per modificare il proprio destino: che è un dato da conquistare). Parla genericamente di “proletariato” ma conosce la fabbrica; sa che il tornitore non è naturalmente portato a considerare il suo destino legato a quello dell’elettricista che gli lavora accanto. Anche se la fabbrica educa al lavoro associato e cooperativo, il formarsi di una coscienza di classe che consenta di riferirsi al “proletariato” o alla “classe operaia” come soggetto consapevole di sé (e quindi come soggetto politico) è una costruzione – appunto – politica. Quello che non è chiaro è se in Marx la formazione della coscienza di classe debba essere portata dall’esterno o debba venire dall’interno, nell’esperienza quotidiana di costruzione di legami e strumenti di autodifesa e di riconoscimento. E’ un dibattito che in altri tempi ha appassionato il nascente movimento operaio. Ma, se dovessi interpretare il suo pensiero, direi che è piuttosto una coscienza che viene dall’esterno, da un disvelamento pedagogico, dal lavoro di educazione, mobilitazione e rappresentazione della posizione che ciascuno occupa nella società in relazione agli altri. E’ un lavoro, in definitiva, mirato all’acquisizione della consapevolezza dell’antagonismo e che consenta a ciascuno di riportare la propria condizione sociale ai meccanismi di appropriazione e di funzionamento del capitalismo. L’identità collettiva si forma, poi, dentro un progetto collettivo.

Oggi sappiamo bene che se i processi culturali sono lasciati a sé stessi e se si è soli nel giudizio sulla società si è facilmente preda dell’ideologia e della visione del mondo veicolata dalla classe dominante, oppure del ribellismo, della protesta distruttiva (jacquerie) o, com’è ora dell’antipolitica (oppure ce la si prende col gruppo che sta sotto). Oggi la cultura dominante – a parte la legittimazione degli esiti del processo capitalistico – propone valori che fanno leva sull’individuo e tende a dimostrare che il proprio destino dipende unicamente da sé stessi.

 

Cosa è cambiato nel capitalismo in generale

Detto questo, che cosa è cambiato nel capitalismo dal tempo di Marx e che cosa non ha visto dell’evoluzione sociale o non ha potuto vedere o prevedere? Oggi, in estrema sintesi, non potremmo parlare del capitalismo senza far riferimento a due attori: lo Stato e la finanza. Il primo introduce una responsabilità pubblica sugli assetti, produttivi e sociali, diventa veicolo di integrazione della società e consente alle classi subalterne di influire sulle decisioni. La seconda introduce logiche particolari e alimenta “una forza coercitiva esterna” su tutti gli aspetti del processo capitalistico. Quando è forte un attore è debole l’altro e viceversa. A seconda della relativa forza abbiamo due tipi di capitalismo. Il primo è caratterizzato da processi che culminano con il governo delle socialdemocrazie tradizionali; il secondo da processi che sostituiscono la trazione finanziaria a quella produttiva e forgiano uno società regolata essenzialmente dal mercato.

E’ diversa oggi anche l’organizzazione della produzione. Non avrebbe sorpreso Marx che essa si svolga in quadro di proiezione internazionale che egli aveva intuito come intrinseca a quel modo di produzione, pur essendo morto solo agli albori della più grande libertà mai avutasi nel mercato aperto, alla fine dell’Ottocento. Oggi l’unità tecnica di produzione si è ridotta e sono più rari i grandi assemblamenti operai. Non vi è stata concentrazione, ma centralizzazione concessa da tecnologie che consentono di governare attraverso la rete, e con la massima flessibilità, le singole funzioni che portano al prodotto finale. Decentramento, esternalizzazioni e terziarizzazione hanno disperso la forza lavoro nei paesi a capitalismo avanzato e posto in concorrenza parti diverse della classe operaia mondiale. La produzione manuale richiede sempre meno lavoratori, i quali sono sempre meno sindacalizzabili: la distribuzione diseguale del reddito e della ricchezza è sempre più pronunciata tra chi ha le leve della produzione e della finanza e chi ne dipende come lavoratore.

Ma questi cambiamenti, per quanto importanti, non contraddicono né la fotografia che Marx fa del capitalismo, né il quadro cinetico che egli ne dà. Rimangono quadri sottostanti, pur se con tinte più fioche (lo Stato) o più accese (la finanza).

 

Lo Stato

Sul modo in cui il ruolo dello Stato sia cambiato rispetto a Marx è bene fermarsi. Marx non vede (e forse non poteva vedere) la forza propulsiva (direi anche ideale) della democrazia e la possibilità di far valere in essa la rappresentanza e le istanze delle classi subalterne. La definisce “un involucro giuridico borghese” e non vede le potenzialità nella rivendicazione del suffragio universale e del rapporto tra conquiste della democrazia e socialismo.

Questa possibilità è colta, invece, dalla socialdemocrazia tradizionale che individua nel processo rappresentativo le potenzialità che si aprono sul terreno giuridico - istituzionale di far valere i rapporti di forza e piegare il capitalismo a una logica socializzante. Essa vede la possibilità di utilizzare lo Stato per politiche pubbliche, per presidiare con la legge i comportamenti economici e per controbilanciare il potere che si crea sul mercato, facendo esprimere il conflitto di classe attraverso la politica organizzata.

In fin dei conti la socialdemocrazia condivide molte delle conclusioni di Marx: che il capitalismo genera instabilità e crisi, produce una sproporzionata diseguaglianza di potere, ricchezza, forza sociale e condizioni di vita, è soggetto ai fallimenti del mercato, genera insicurezza sociale, interessi contrapposti che trovano soluzione nella legge del più forte. Ma ritiene che questi caratteri possano essere portati sotto controllo o attenuati con i poteri dello Stato.

Marx, tuttavia, non è del tutto estrano a questa impostazione. E’ vero che afferma che lo Stato è una sovrastruttura creata e riprodotta in conformità all’affermarsi di un certo modo di produzione, ma è poi attraverso lo Stato e i suoi indirizzi che dovrebbero realizzarsi quelle misure che (con Engels) poneva nel Manifesto del 1848 come base di superamento delle logiche del capitalismo (“che appariranno insufficienti e insostenibili, ma indispensabili per rivoluzionare il modo di produzione capitalistico... e che nel corso del movimento supereranno sé stesse”).

Si tratta dell’espropriazione della rendita fondiaria, dell’imposta progressiva, della limitazione del diritto ereditario, dell’istituzione di “fabbriche nazionali”, dell’istruzione gratuita, di una sorta di esercito del lavoro, dell’abolizione del lavoro minorile e altre. Non solo sono state largamente realizzate ma spesso si è andati oltre quel programma che gli autori de Il Manifesto giudicavano radicale. Rinvio al bell’articolo di Florio per un analisi puntuale. Il capitalismo nella sua evoluzione storica è andato oltre sé stesso nell’incorporare principi di socialità e di responsabilità collettiva. Oggi sono nella responsabilità statale i servizi sanitari, la redistribuzione, le pensioni, la casa, la ricerca, il sostegno agli investimenti privati e tanto altro. Si è diffusa una cultura della responsabilità pubblica sugli assetti della macroeconomia e della vita sociale. La spesa pubblica è aumentata in 150 anni dal 1870 (cioè, da pochi anni prima che Marx morisse) di 4 volte in più rispetto alla crescita del pil e (la mia fonte è ancora Florio) ed è arrivata da una proporzione del 18% a una media del 45% nei paesi capitalistici industrializzati (con un ritmo di crescita che è comparabile, sia nei paesi che sono stati guidati dalle socialdemocrazie sia in quelli che non l’hanno avuta come forza politica).

Nella logica socializzante del processo produttivo ha potuto inserirsi la politica organizzata e la rappresentanza dei ceti subalterni per realizzare di volta in volta conquiste che ne approfondissero la natura, sfruttando le possibilità esistenti sul terreno giuridico istituzionale e create dal mutamento dei rapporti di forza. Nel conflitto che si è aperto con la logica del profitto tesa a restringere e bloccare le spinte socializzanti, essa ha potuto prevalere per un lungo periodo.

Le conseguenze di questo sviluppo dello Stato e anche i caratteri che ha assunto quando è stata la logica della politica a prevalere su quella del profitto e del mercato ci illuminano molto nel capire perché Marx non abbia avuto ragione nelle sue congetture sul futuro del capitalismo. In sintesi, lo sviluppo di sindacati e il mutamento dei rapporti di forza hanno consentito che i frutti della crescita produttiva si distribuissero anche ai lavoratori: i salari sono cresciuti (per lungo tempo in linea con la produttività); gli standard di vita sono migliorati e le diseguaglianze per lungo tempo sono state tenute sotto controllo dallo sviluppo dei sistemi di welfare e dalla contrattazione collettiva. Di conseguenza, l’immiserimento crescente dei lavoratori non si è verificato e il “crollo del capitalismo” per questa via è uscito dall’orizzonte politico, ma si è anche perso come categoria analitica.

Sarebbe una forzatura agganciare al conflitto che si è si è svolto sul terremo politico istituzionale il dibattito, che pure ha impegnato tanto marxismo, sulla rivoluzione come processo e la rivoluzione come salto, sebbene si sia stato usuale in una certa fase riferirsi alla via democratica al socialismo.

Altri fattori allontanano dalle previsioni di Marx e riguardano l’articolazione sociale che si è andata configurando. Allo sviluppo delle funzioni pubbliche dobbiamo la crescita di una schiera consistente di impiegati pubblici, e alla complessità crescente e all’articolazione della produzione l’espansione dei colletti bianchi anche nel settore privato. Il settore del piccolo commercio, dell’artigianato e della piccola imprenditoria è sopravvissuto e si è espanso con la crescita dei consumi, pur nella crescente concentrazione del capitale. In sostanza, è cresciuta enormemente la presenza dei ceti medi e della piccola borghesia nella popolazione, rendendo minoritaria la consistenza dei ceti operai anche nel momento della loro massima espansione. Per cui, è cambiata la dinamica sociale (e di riflesso politica) sempre più lontana da quella rappresentazione dicotomica che ne aveva dato Marx.

E’ forse anche in questa frammentazione della società il successo che ha avuto la controffensiva neo liberista, che di fatto ha teso a rovesciare i rapporti di forza e far indietreggiare il primato della politica, della scelta collettiva e della partecipazione. Una controffensiva, di fatto anticipata e legittimata da una costruzione culturale indirizzata a una critica della società che si era affermata, e che veniva rappresentata come eccessivamente burocratizzata e costosa per il contribuente, distorsiva del mercato del lavoro con danni all’occupazione, prona all’inflazione, priva di incentivi per l’eccesso del welfare, inefficiente per la presenza dell’impresa pubblica (o, in generale, per la presenza pubblica dove avrebbero potuto agire i privati), per il controllo dei movimenti di capitale. Non è di questo che voglio parlare (chi vuole approfondire può rivolgersi al mio volume Regole Stato Uguaglianza). Dico solo che le conseguenze di quel successo hanno reso la classe dominante più sicura di sé (anche per aver piegato a sé la distribuzione del reddito e della ricchezza), l’hanno messa in condizioni di dissociare le proprie fortune da quelle della collettività, e messa in grado di catturare lo Stato o legargli le mani verso scelte business friendly.

Il processo capitalistico che ne è risultato in parte riporta a Marx, alla forte adesione della cultura dominante a un quadro sociale forgiato dalla logica del mercato e del profitto, alla protezione estesa della proprietà mentre si allentano i diritti sociali, alla liberà di azione di cui godono le decisioni economiche dei privati, alla concentrazione incontrollata della ricchezza e della produzione. Ma, soprattutto, riportano alle crisi, come caratteristica congenita del capitalismo, di cui l’ultima del 2008 – pur avvenuta con modalità diverse da quelle pensate da Marx – è la conferma che il capitalismo non può vivere senza generarle lasciando un deserto sociale, come quello prodotto dagli effetti del 2008, che si trascinano fino ad oggi.

 

La lotta di classe?

Ci si può chiedere che ne è allora della lotta di classe. Si sa che non è mai stata automatica la traduzione della condizione sociale in coscienza sociale, ma ora si è pure ristretto se non dissolto il nucleo che aveva avuto il ruolo politico di catalizzatore del conflitto e delle istanze popolari. Il proletariato industriale – ormai precarizzato, colpito dall’insicurezza che investe gli strati subalterni del corpo sociale, parcellizzato in situazioni differenziate, implicitamente ricattato e ridotto fortemente di numero – ha perso identità politica. La società frammentata odierna, che si apre a ventaglio in tanti articolati sociali disagiati o marginalizzati, che mancano di identità specifiche (tanto meno collettive), rende difficile parlare perfino di classe in sé (o classi in sé). Ciononostante, risulta evidente che il capitalismo spacca la società tra chi è sopra e chi è sotto nella piramide sociale, chi vive il benessere e chi il disagio. Se la spacca socialmente deve in potenza poterla spaccare politicamente, nonostante tutti i meccanismi culturali, economici e tecnologici messi in atto perché ciò non avvenga. Portare assieme coloro che si trovino nelle medesime condizioni per cambiare assieme il proprio destino è un compito politico. Un compito che è mancato per ragioni che non tocco qui. La costruzione di coalizioni che lottino per l’eguaglianza è un compito politico. Per quanto sia, le classi continuano a esistere, come “comunità di destino che subisce tutte le conseguenze di tale appartenenza, come la maggiore o minore possibilità di passare da una classe all’altra, di fruire di una quantità di risorse e beni immateriali, di disporre del potere di decidere il proprio destino e di poterlo scegliere”, nella descrizione che ne dà Gallino. Il restringimento delle possibilità materiali, della fiducia in un progresso inevitabile e il restringimento al vertice di quella piramide non possono non far riemergere l’antagonismo – se il capitalismo è nella sostanza quello descritto da Marx.

Ed, infatti, il capitalismo odierno deve fare i conti con un’importante novità rispetto al periodo di grande affermazione. Si è fortemente incrinata la sua legittimità verso larghe masse, che d’altra parte non sono mai state particolarmente attratte dalle sue narrazioni. La difficoltà della crescita e gli stenti dell’occupazione, nonché la crescente e abnorme divariazione nella distribuzione del reddito e della ricchezza, rendono difficile agli strati subalterni l’accettazione degli esiti prodotti dai meccanismi economici e sociali. Implicitamente, quella che si è messa in moto è una dinamica di classe/i subalterne che si esprime, però, attraverso una contestazione per ora confusa. D’altra parte, Marx affidava alla perdita di legittimità la rottura del sistema, in quanto egli demandava il momento del salto qualitativo a quando i lavoratori si sarebbero accorti dell’antagonismo in cui si poneva la loro posizione sociale rispetto a quella della classe borghese. Dove porti oggi l’incrinatura della legittimità non è chiaro (e in ogni caso a questa ho dedicato il mio saggio in onore di Reichlin).

Tuttavia, la lotta di classe esiste – eccome – se la interpretiamo in senso opposto a quello in cui la intendeva Marx –, non con protagoniste le classi subalterne ma le forze dominanti. Non è che lotta di classe quella portata dalle classi dominanti per riacquistare il potere e i profitti che le erano stati sottratti. Quello che è sicuramente cambiato dai tempi di Marx è la quantità di risorse di cui questa classe ha disposto, l’estensione numerica, la proiezione e connessioni internazionali. Non c’è bisogno di personificare questa controffensiva o pensarla come strategia elaborata in sedi di raduno dai rappresentanti di quella classe; è stata una reazione guidata da eventi favorevoli e da una logica intrinseca al capitalismo.

 

La finanza e i conti del marxismo con Keynes

L’altro elemento di novità nei connotati che è venuto assumendo il capitalismo è il dominio che vi esercita la finanza, o meglio, il divenire un sistema a trazione finanziaria. La finanza in quanto tale esisteva anche al tempo di Marx, ma quando egli muore il suo sviluppo come la intendiamo oggi era agli albori. Vi sono passi del Terzo Libro, in cui però la tira in ballo come elemento costitutivo e accenna alla possibilità che la classe imprenditoriale, invece di accrescere il capitale produttivo (nella sua terminologia, “accumulare plusvalore” ma eviterei il temine per ciò che ho detto in apertura sul valore-lavoro) lo impieghi finanziariamente. “Nella misura in cui avviene, la borghesia si allontana dall’attività produttiva e diventa sempre più, come ai suoi tempi la nobiltà, una classe che semplicemente intasca le rendite”. Nella verità che esprime, quest’immagine non è completamente esatta perché l’attività finanziaria non è proprio un rifugio passivo, ma è oggi un’attività costantemente monitorata e densa di decisioni, anche repentine.

La lettura finanziaria del capitalismo ci porta a Keynes, e questa riflessione su Marx e sull’inquadramento teorico di questo modo di produzione non sarebbe completa senza un confronto con Keynes e gli emendamenti che questo autore consente di incorporare in quella dottrina.

Keynes, al pari di Marx indaga sulle caratteristiche principali del capitalismo e sulle forze che in un determinato momento storico hanno influenza su produzione e occupazione. Come Marx, egli lo inquadra dal punto di vista della dinamica impressa dalle decisioni imprenditoriali. La principale differenza è che per Keynes – che scrive mezzo secolo dopo - il capitalismo non è concepibile senza le istituzioni finanziarie; quel sistema è un sistema monetario di produzione. Le decisioni di spesa dipendono dalla liquidità che ciascun operatore può mobilitare o di cui ciascuno può disporre (oltre che da condizioni generali che dipendono dai vincoli posti dalle autorità nella generazione di liquidità). Quelle decisioni quindi vanno viste simultaneamente dal punto di vista reale e finanziario. Mentre le decisioni dei percettori di reddito da lavoro sono prevalentemente vincolate dalle entrate correnti, quelle dei capitalisti (di chi investe) in generale non lo sono. La spesa relativa (destinata all’accumulazione) non è limitata dai profitti e dalle disponibilità correnti ed è finanziata con indebitamento. Ma, le decisioni che la determinano sono prese in condizioni di incertezza sul futuro e, di conseguenza, le mutevoli opinioni sul futuro influenzano i livelli di produzione e occupazione corrente. Lo scopo è ovviamente quello di incrementare i profitti per cui le si può mettere dentro uno schema di M-D-M’ di marxiana memoria.

Se guardiamo il processo da un punto di vista reale, la considerazione prima è che le decisioni di domanda e quelle di offerta (produzione) sono indipendenti le une dalle altre, per cui vi può essere equilibrio se si rispettano alcuni rapporti intersettoriali, ma questo è un caso, esattamente come negli schemi di riproduzione Marx. (E, infatti, partendo da quelli schemi, un economista marxista, Kalecki, anticipa alcune conclusioni della teoria keynesiana). Per Keynes il mercato non è meno anarchico che per Marx: non si autoequilibra, l’offerta non genera la domanda equivalente (Keynes rifiuta come Marx la legge di Say): il capitalismo quindi genera instabilità e può trovare equilibrio in condizioni di sottoccupazione.

Se guardiamo il processo da un punto di vista finanziario la considerazione prima è che il sistema si regge su debiti e crediti, per cui la convalida degli investimenti si ha quando il denaro investito rifluisce nell’impresa attraverso i profitti e consente di pagare i debiti. Ovviamente, tanto più il sistema si espande, tanto più è probabile che questo avvenga per la generalità delle imprese. Ma, se non è così il debito va rifinanziato - finché si può - con nuovo debito; oppure comporta perdite che coinvolgono il valore del credito.

Nell’ottica finanziaria, il sistema va visto anche dal punto di vista di chi ha la titolarietà del credito, in quanto la contropartita dei debitori sono, appunto, i creditori. Per essi quel credito è ricchezza patrimoniale, che non è direttamente detenuta più in capitale reale ma in strumenti finanziari, gestiti, oltre che per conservare valore, per accrescerlo o renderlo redditizio (l’evoluzione che anche Marx intravede). Solo che nelle moderne economie quella ricchezza e i frutti che genera sono intermediati dalla banche o da altri soggetti finanziari, i quali sono anche i titolari del credito verso le imprese; la borsa è ormai parte integrante del processo capitalistico. In più, la finanza acquista una veste autonoma rispetto alla produzione, in una serie di scommesse che creano piramidi finanziarie che hanno la tendenza endogena a scalare per dimensione e rischio. Il sistema lasciato a sé stesso è soggetto a mettere a repentaglio, attraverso crisi ricorrenti, tutto assieme produzione, ricchezza e solidità degli intermediari coinvolti. Non sono più le crisi previste da Marx (hanno ormai natura prevalentemente finanziaria), ma sono comunque crisi endogene alla dinamica e alla logica del capitalismo. E sono molto più probabili quando questo finisce per incorporare – come è endogeneamente portato a fare - prevalenti condizioni di “Ponzi finance”, come le descrive Minsky (un economista keynesiano, ma anche di formazione marxiana e schumpeteriana), che si verificano in quegli scenari in cui i debitori non sono in condizioni di ripagare il prestito e gli interessi connessi, ma contano per farlo su guadagni in conto capitale (in pratica, l’origine della crisi del 2008).

La visione dinamica del capitalismo che ha Keynes è sviluppata con lo stessa metodologia sequenziale che avevo indicato come prezioso insegnamento analitico di Marx. E’ determinata da spinte e controspinte dentro le forze predominanti tracciate nel capitalismo finanziario dalla logica del profitto.

Keynes, però, vive quando lo Stato moderno si è già formato e può assegnare a quest’ultimo il compito di stabilizzazione, di intervento diretto, oltre che la responsabilità negli assetti macroeconomici e sociali. Parla a un certo punto di necessità di “socializzazione dell’investimento” per tenere la piena occupazione. Non è un caso che il bersaglio culturale della rivoluzione neo liberale sia la sua opera, non quella di Marx.

Finché la visione keynesiana ha retto l’economia, possiamo ritenere con Minsky che lo stesso livello aggregato dei profitti si sia trasformata in una variabile sociale, cioè, a responsabilità sociale. Gli intrecci finanziari di cui sopra sono stati il motivo, avverte lo stesso questo grande keynesiano, per cui le banche centrali si sono preoccupate di salvaguardare la solidità del sistema dal punto di vista della solvibilità e dei prezzi, preoccupandosi prima di tutto che i profitti aggregati non cadessero, prima ancora di preoccuparsi dell’occupazione.

Minsky è morto nel 1986 e non poteva assistere al ritorno dei profitti come variabile – mettiamola così - autodeterminata, che si è protetta da sola, non ha accettato limitazioni e ha scalato in entità e porzione del reddito, parallelamente – e questo è il paradosso - all’indebolimento della solvibilità del sistema.

 

Conclusioni

La mia è una descrizione per sommi capi volta a dare ragione di come siano cambiati i connotati del capitalismo, anche se non ne è cambiata la natura e le logiche. Ma, per capire il volto della società, è ancora una seria analisi di classe che deve guidarci e il rapporto con la riproduzione del sistema. Marx ci dice poco dal punto di vista predittivo, ma fissa le categorie analitiche e metodologiche con le quali muoverci. Non il valore – lavoro, ma un approccio fondato sulla storia, l’analisi politica, il conflitto di interessi, la soggettività, le condizioni materiali. Un approccio che va a cercare le logiche interne dei processi. Riconosciuto il debito che abbiamo nei confronti del Marx scienziato sociale, possiamo anche riconoscere che i conflitti non si esauriscono in quelli economici, ma che la società è percorsa anche da altri conflitti e identità (religiose, etniche, nazionali, di genere) che agiscono nei comportamenti e si rafforzano proprio quando si indeboliscono le identità sociali. Dobbiamo riconoscere anche che il rapporto struttura e sovrastruttura è meno rigido di come Marx l’ha presentato. Indubbiamente le idee non si formano fuori da condizioni oggettive della società; ma abbiamo anche imparato che nei mutamenti della storia la cornice scientifica e culturale, sebbene non venga dal nulla, ha effetti suoi propri, crea una narrazione che interagisce con quei mutamenti e li legittima, diventando a sua volta ispiratrice di perseguimenti e di proposte che muovono la società. Ma l’abbiamo veramente imparato? I liberisti risponderebbero, a ragione, di sì. Per altri ho dei dubbi.

Per dare quei grandi frutti intellettuali che può dare, Marx deve essere letto “bene”. Anche con un certo grado di indulgenza e molta capacità di discernimento (che temo vada acquisita fuori e prima del rapporto diretto con la sua opera, altrimenti troppo coinvolgente). Per il contenuto politico che ha avuto la sua analisi e per il riferimento dottrinario che ha costituito per movimenti che a lui si sono ispirati (e, aggiungerei: per responsabilità di alcune appropriazioni accademiche) è stato spesso letto “male”, non nel senso delle incomprensioni o del fraintendimento, ma dell’assenza di respiro, dell’inutile sosta in dispute infinite su questo o quel paragrafo, questa o quella citazione che lo hanno ossificato ammantato di un’aurea religiosa e che hanno spesso ridotto l’insegnamento che se può trarre a una scolastica poco appassionante.


Note
1 Il testo nasce dalla conversazione di apertura del IV Festival della Politica A Venezia/Mestre dal 6 Al 9 Settembre 2018 su "Marx tra economia e società", nella Sezione Marx200, condotta da A. Gnoli
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