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sinistra

Nove volte Stalin

di Eros Barone

Stalin 16«La radio al buio e sette operai / sette bicchieri che brindano a Lenin / e Stalingrado arriva nella cascina e nel fienile / vola un berretto un uomo ride e prepara il suo fucile / Sulla sua strada gelata la croce uncinata lo sa / D’ora in poi troverà Stalingrado in ogni città.»

Stalingrado, Stormy Six.

La ricorrenza del centoquarantesimo anniversario della nascita di Iosif Vissarionovic Giugasvili, detto Stalin (1879-1953), costituisce un’occasione per interrogarsi sul ruolo di una personalità che, dopo aver dominato la scena della politica interna del suo paese e la scena della politica internazionale del mondo intero nella prima metà del ventesimo secolo, ha continuato a proiettare una lunga ombra sugli sviluppi politico-ideologici dei decenni successivi sino ai nostri giorni.

Può allora essere utile ricordare il significato di questo soprannome, gridando il quale (“Sa Stalina!”, ossia “Per Stalin!”) milioni di soldati sovietici combatterono nella Grande Guerra Patriottica, sacrificando la loro vita per difendere il primo Stato socialista del mondo: Stalin, cioè ‘acciaio’, un soprannome che indica due qualità essenziali di questo metallo, la durezza e la flessibilità, e la loro incarnazione in un leader bolscevico che lo stesso Lenin ebbe a qualificare come “quel meraviglioso georgiano” (definizione etnica che compare nel sottotitolo di una bella biografia di Stalin scritta da Gianni Rocca 1 ). Poiché una figura come quella di Stalin non permette di operare un taglio netto fra la leggenda (sia eulogica sia demonizzante), che ben presto si è formata attorno a tale figura, 2 e la concreta funzione storica che questa personalità ha svolto nel “secolo degli estremi”, proverò ad accendere su questo soggetto ad alta tensione interpretativa alcuni ‘flash’ che ne fissano quelli che, secondo il mio giudizio, sono i tratti salienti.

 

  1. Il 17 brumaio

Il primo ‘flash’ permette di cogliere, attraverso un episodio avvenuto nel 1927, tanto la dimensione, per così dire, ideal-tipica del conflitto fra due personalità, quali quelle di Trotzky e di Stalin, che rappresentano (non solo) due concezioni (ma anche due vie e due linee) contrastanti della rivoluzione socialista, quanto la solidarietà, per così dire, antitetico-polare che le accomuna nell’àmbito di un periodo drammatico della storia del movimento operaio e comunista. Si tratta della riunione plenaria del comitato centrale del partito comunista bolscevico in cui Trotzky, chiamato a rispondere dell’accusa di essere un controrivoluzionario, gridò a un certo punto del suo discorso, volgendosi a Stalin: «Che cosa aspetti, dunque, a farmi arrestare? Quando mi farai arrestare?». «Non abbiamo fretta – rispose Stalin – ti faremo arrestare il 17 brumaio» [ossia un giorno prima di quel 18 brumaio 1799 in cui Napoleone Bonaparte, attuando un colpo di stato militare, dètte vita ad un modello di azione politica che, nel linguaggio marxista, sarebbe divenuto sinònimo della volontà, da parte di un ‘salvatore della patria’, di impadronirsi di tutto il potere per esercitare, con il sostegno dell’esercito, una dittatura personale]. 3

Se poi qualcuno fra i lettori più giovani di questo articolo si domandasse che razza di animale politico sia il trotzkismo, potrebbe essere opportuno fornire le informazioni essenziali per soddisfare questa curiosità. Lev Davidovic Bronstein, detto Trotzky, è stato un esponente di primo piano del movimento rivoluzionario russo e ha svolto una funzione importante dapprima nella rivoluzione del 1917 e poi nel corso della guerra civile organizzando l’Armata Rossa. Il resto della sua attività politica e teorica è inseparabile dallo scontro con Stalin, che lo vide sconfitto: in un primo momento espulso dal partito comunista (1927), poi esiliato dalla neonata Unione Sovietica (1929) e infine ucciso in Messico da un agente staliniano (1940). A Trotzky e alla sua ideologia si ispira la cosiddetta Quarta Internazionale, dissidenza storica dal movimento comunista bolscevico, le cui molteplici (e contrastanti) ramificazioni si protendono sino ai nostri giorni e godono di un particolare rigoglio in alcuni paesi europei, come la vicina Francia.

 

  1. Breve parentesi sul trotzkismo

Orbene, a parte la famosa battuta di Thorez, segretario del partito comunista francese, che la conosceva assai bene, sulla vocazione scissionista di tale dissidenza - “i trotzkisti, quando sono in due, formano un partito e, quando sono in tre, si dividono” -, il carattere essenziale del trozkismo è la sua somiglianza/differenza rispetto al leninismo, che emerge in particolare dalla teoria della ‘rivoluzione permanente’. Questa teoria pone l’accento sull’unità del mercato capitalistico mondiale e afferma la continuità del processo rivoluzionario, non distinguendo tra le sue differenti fasi e obliterando perciò le particolarità nazionali, le condizioni specifiche della lotta fra le classi quali risùltano in ciascun paese dalla storia e dalla tradizione nazionale, in una parola la necessità di individuare le leggi specifiche della rivoluzione in ogni paese. È tipico di Trotzki sopravvalutare il ruolo delle influenze esterne e non cogliere il ruolo delle forze interne, che mèdiano quelle influenze nella formazione sociale specifica. Lo strabismo ‘internazionale’, congiunto alla miopia ‘nazionale’, lo ha così condotto a spiegare tutte le sconfitte subìte dai partiti comunisti nel periodo tra le due guerre mondiali con l’influenza, a suo giudizio nefasta, di Stalin e della Terza Internazionale. È tipica, inoltre, l’incomprensione della dialettica marxista che non permette a Trotzki di capire che la legge dello sviluppo ineguale del capitalismo determina la legge dello sviluppo ineguale della rivoluzione. L’ineguale sviluppo dei diversi paesi capitalisti, ma anche l’ineguale sviluppo, in ogni formazione sociale, rispettivamente, della base economica e delle sovrastrutture politiche e ideologiche circoscrivono, di regola, la rivoluzione ad un solo paese, mentre una rivoluzione che si verifichi in un certo numero di paesi è un caso eccezionale. A causa dell’evidente schematismo che caratterizza il suo metodo (degenerato con i suoi seguaci o in un aperto revisionismo o in uno schematico dogmatismo) Trotzki individua nella società una struttura semplice, tale per cui la contraddizione principale in linea teorica (quella fra proletariato e borghesia) lo è anche in via di fatto, sempre e dappertutto, durante l’intero periodo della transizione dal capitalismo al comunismo. Parimenti schematica e sostanzialmente meccanica è la concezione trotzkista del rapporto fra la teoria (che prevede la pratica) e la pratica (che applica la teoria). Un’altra concezione tipicamente trotzkista è quella che afferma come verità assiomatica l’egemonia della città nella rivoluzione borghese e quindi, per simmetria, l’egemonia del proletariato nella rivoluzione proletaria (egemonia di cui, per tralasciare altri contro-esempi, la rivoluzione cinese, che ha avuto la sua forza motrice principale nelle masse contadine, costituisce una chiara smentita). Né miglior fortuna è toccata alle teorie sullo ‘Stato operaio degenerato’, sulla ‘casta burocratica’, sul ‘bonapartismo’ e sul ‘Termidoro’, con cui Trotzki, dopo la sua sconfitta, cercò di definire la natura sociale dell’URSS.

 

  1. Una seconda gigantesca ondata rivoluzionaria

Il secondo ‘flash’ riguarda la svolta decisiva segnata nel corso della seconda guerra mondiale dalla battaglia di Stalingrado (1943): un evento di cui il filosofo tedesco Ernst Cassirer colse il significato epocale non solo in termini storici, ma anche in termini teoretici, effigiandolo come lo scontro decisivo fra la destra e la sinistra hegeliane, rappresentate rispettivamente dalla Germania nazista e dalla Russia sovietica. A questo proposito, è utile sottolineare quanto sia importante riflettere sulla storia del movimento comunista internazionale per superare una debolezza di fondo, teorica e politica, della sinistra, che Domenico Losurdo ha opportunamente criticato: la tendenza a fare appello all’analogia piuttosto che all’analisi concreta della situazione concreta. 5

La rivoluzione d’Ottobre scoppia, come è noto, a partire dalla trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria: Lenin smaschera il carattere mistificatorio della parola d’ordine della difesa della patria e rivolge un appello affinché, in ogni realtà nazionale, i comunisti si impegnino in primo luogo per la disfatta del proprio paese e del proprio governo. È dalla spinta di questo possente movimento che scaturisce, come è noto, la Terza Internazionale. Se è vero che innegabili ed enormi sono i meriti storici della Terza Internazionale, è altrettanto vero che a lungo essa ha oscillato e stentato prima di elaborare una strategia all’altezza della situazione radicalmente nuova che si era venuta a creare. Ritardi e incertezze nascevano in effetti dalla tendenza a pensare la nuova ondata rivoluzionaria che stava montando sul modello di quella che aveva dato vita alla Russia sovietica: si scrutava il “movimento reale” alla ricerca della nuova guerra imperialista da trasformare, ancora una volta e secondo il modello ritenuto canonico, in guerra civile rivoluzionaria. Non ci si rendeva conto di quella particolare struttura riflessiva all’opera nelle vicende storiche per cui, proprio in virtù della loro vittoria, i bolscevichi avevano reso improbabile o impossibile la ripetizione meccanica della precedente esperienza. Del mutamento intervenuto nella realtà storica fu invece consapevole Lenin: «…dall’ottobre 1917 siamo divenuti tutti difensisti, fautori della difesa della patria». L’esistenza stessa della Russia sovietica, risultato della rivoluzione vittoriosa, introduceva nel quadro internazionale un elemento del tutto assente nel primo conflitto mondiale, un elemento del quale in ogni paese i comunisti dovevano tenere conto, se volevano procedere ad un’analisi concreta della situazione concreta. Ma non era solo l’esistenza di un paese impegnato nella costruzione del socialismo a conferire una natura e un significato nuovi agli urti bellici fra le grandi potenze che si andavano moltiplicando. Non bisogna infatti dimenticare che, insieme con l’appello alla trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, i bolscevichi lanciano anche l’appello agli schiavi delle colonie affinché spezzino le loro catene e conducano guerre di liberazione nazionale contro il dominio imperialista delle grandi potenze. Il nazifascismo si presenta come un movimento di reazione estrema anche a questo secondo appello. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, prima ancora di aggredire Polonia e URSS, la Germania nazista disgrega la Cecoslovacchia e dichiara in modo esplicito che la Boemia-Moravia è un “protettorato” del Terzo Reich: il linguaggio e le istituzioni della tradizione coloniale sono chiaramente rivendicati e il loro àmbito di applicazione esteso anche all’Europa orientale.

Ciò significa che sin dall’inizio il secondo conflitto mondiale presenta caratteristiche radicalmente diverse rispetto al primo. Non si tratta più di trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria; la lotta contro l’imperialismo si intreccia ora strettamente all’appoggio alle guerre di liberazione nazionale dei popoli investiti dall’espansione coloniale e alla guerra per la difesa dell’Unione Sovietica. Di queste radicali novità il movimento comunista si rende conto a partire soprattutto dal settimo Congresso dell’Internazionale (1935). Accade così che la nuova ondata rivoluzionaria comincia a svilupparsi quando, messo da parte il gioco delle analogie, il movimento comunista procede ad un’analisi concreta della situazione concreta. Quei pochi (Bordiga, Trotzki ecc.) che continuano ad agitare meccanicamente la parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria si rivelano in realtà prigionieri di una "frase" e finiscono col separarsi dal corpo del movimento comunista. La nuova strategia troverà la sua espressione più alta in due eventi grandiosi: la Lunga Marcia dei comunisti cinesi che, guidati da Mao Zedong, percorrono migliaia di chilometri, in condizioni assai difficili, per porsi alla testa della guerra di difesa nazionale contro l’imperialismo giapponese; l’appello di Stalin ai popoli dell’Unione Sovietica perché si uniscano nella Grande Guerra Patriottica contro le orde hitleriane. È così che si sviluppa, dopo la rivoluzione d’Ottobre, una seconda gigantesca ondata rivoluzionaria, grazie alla quale il campo socialista conosce un’enorme estensione, mentre i popoli che conducono le rivoluzioni anticoloniali infliggono duri colpi all’imperialismo.

 

  1. Terzo ‘flash’: “Stalin è a Mosca!”

La confusione doveva durare tutta la giornata del 18 ottobre [1941]; ma all’improvviso, quasi all’imbrunire, il grande fiume dei fuggitivi si fermò come per miracolo e a un tratto la gente cominciò addirittura a tornare indietro, sempre in silenzio, mentre la polizia era sparita.

Che cosa era successo? Un rumore, quasi un mormorio usciva da quella folla compatta, un attimo prima presa dalla paura: “Stalin è a Mosca! Stalin non abbandona Mosca!” Infatti, quasi all’angolo del Most-Soviet vidi anch’io Stalin, solo, nella sua vecchia Packard decapottabile, dietro il suo autista, che salutava con la mano la folla senza manifestare la benché minima emozione. Quella vecchia vettura americana percorse più volte il tragitto tra la piazza della Rivoluzione e la stazione, perdendosi nelle vie adiacenti per riapparire un momento dopo con Stalin sempre a bordo che salutava con la mano.

In meno di un’ora tutti i moscoviti avevano visto e riconosciuto Stalin. Come spinta da una molla possente quella folla immensa ubbidì all’invito silenzioso che Stalin aveva rivolto: rientrare nelle proprie case, aver fiducia, non abbandonare la città; anche lui, Stalin, il capo amato, non l’aveva abbandonata.

Il mito aveva ancora una volta salvato Mosca.

La sera di quel giorno memorabile, sul tardi, seppi che la discussione al Cremlino era stata vivace, in quanto la polizia era intenzionata a usare la maniera forte contro i vandali e i fomentatori di panico. Secondo quanto mi fu detto da persona assolutamente degna di fede e sempre informata, Stalin aveva respinto con vigore quelle decisioni, condannandole; un attimo dopo chiedeva la sua vettura scoperta e si metteva in giro per la città senza alcuna scorta. Il risultato era stato positivo, l’avevo constatato di persona perché nulla mi era sfuggito del muto colloquio avvenuto tra la folla moscovita e il capo del partito e dello stato sovietici. 6

 

  1. Il sommo giudizio della storia”

Il quarto ‘flash’ riguarda quei critici e denigratori dell’azione di Stalin che ne hanno negato l’acume politico, attingendo i loro sofismi dal vieto campionario dei pregiudizi e delle deformazioni creati ad arte dalla propaganda anticomunista di stampo americano. Tralasciando, per la loro miseria intellettuale, quelle irrilevanti osservazioni di natura psicologica sulla personalità di Stalin che rivelano, per dirla con Hegel, “l’ottica del cameriere” applicata all’analisi storica, vale la pena di sottolineare che anche chi ritiene di criticare i presunti errori di Stalin prima e dopo l’attacco della Germania nazista all’Unione Sovietica deve riconoscere, sia pure a denti stretti, i meriti di Stalin nella conduzione della grandiosa controffensiva dell’Armata Rossa, che porterà i soldati sovietici a innalzare, il 2 maggio 1945, la bandiera rossa sul palazzo del Reichstag a Berlino.

Per quanto riguarda poi l’epurazione dei quadri di comando dell’Armata Rossa (1937-1938), Ludo Martens ha precisato nel suo importante volume dedicato a Stalin che essa fu decisa dopo la scoperta della cospirazione militare che il generale Tuchacevskij stava preparando in combutta con le frazioni opportuniste del partito comunista e si rivelò determinante (non per indebolire ma) per rafforzare la successiva resistenza ideologica, politica e militare dello Stato sovietico nel corso della guerra, che il gruppo dirigente del partito sapeva essere inevitabile, con il fascismo. Eliminando la quinta colonna, Stalin salvò la vita a molti milioni di sovietici, poiché questi morti sarebbero stati il prezzo supplementare da pagare nel caso in cui l’aggressione esterna avesse potuto giovarsi dei sabotaggi e dei tradimenti interni. Certo, il generale Zukov e gli altri capi militari non avevano mai accettato l’inevitabilità di questa epurazione e non avevano nemmeno capito il significato politico del processo a Bucharin; ciò nondimeno, Zukov nelle sue Memorie (tomo II, Edizioni Fayard, Parigi, 1970) confuterà le menzogne di Chruscev sugli errori e le responsabilità di Stalin nella seconda guerra mondiale, sottolineando giustamente che la vera politica di difesa era cominciata nel 1928 con la decisione, da parte di Stalin, di promuovere l’industrializzazione a tappe forzate. Stalin, infatti, preparò la difesa dell’Unione Sovietica costruendo più di 9000 industrie tra il 1928 e il 1941 e seguì la linea strategica di impiantare all’Est del paese una nuova potente base industriale: partendo da questa premessa, Zukov rende perciò omaggio “alla saggezza e alla chiaroveggenza” di Stalin sia prima che durante la guerra, virtù “sancite in modo definitivo dal sommo giudizio della storia”. Per attaccare il prestigio di Stalin, che fu incontestabilmente il più grande capo militare della guerra antifascista, i suoi nemici amano chiacchierare sull’“errore” che commise non prevedendo la data esatta dell’aggressione. In realtà, Stalin sapeva meglio di chiunque altro quale barbarie avrebbe colpito il suo paese nella eventualità di un attacco della Germania nazista e lo stesso Zukov ricorda che, se fu scosso nel momento in cui apprese la notizia dello scoppio della guerra, “dopo il 22 giugno 1941 e per tutta la durata della guerra Giuseppe Stalin assicurò la ferma direzione del paese, della guerra e delle nostre relazioni internazionali”. 7 A tale proposito, può essere allora opportuno ribadire che, in una fase come quella attuale, in cui sembra di essere tornati al periodo 1900-1914, quando le potenze imperialiste decidevano tra loro le sorti del mondo, l’esperienza dimostra che il pensiero e l’opera di Stalin costituiscono, assieme ad altre fondamentali ed essenziali lezioni della storia del ventesimo secolo, una parte integrante del patrimonio ideale, politico e morale del proletariato rivoluzionario e delle classi subalterne.

 

  1. Il giudizio di un teologo su Stalin

Il quinto ‘flash’ dimostra con quale lucidità nell’analisi comparativa e con quale sensibilità per il valore concreto delle persone Karl Barth, uno dei massimi teologi cristiani del ’900, abbia tracciato la corretta linea di demarcazione storica che separa (e contrappone) il nazismo e il comunismo: «Bisognerebbe aver perduto ogni buon senso per mettere sullo stesso piano, sia pure per un momento, il marxismo e il ‘pensiero’ del terzo Reich, un uomo della statura di Giuseppe Stalin e quei ciarlatani di Hitler, Göring, Hess, Göbbels, Himmler, Ribbentrop, Rosenberg, Streicher. Mentre tutti i progetti del nazismo erano chiaramente irrazionali e criminali, l’impresa che è stata iniziata nella Russia sovietica rappresenta, malgrado tutto, un’idea costruttiva […]. Essa è sempre la soluzione di un problema, che anche per noi è urgente e grave e che noi, con le nostre mani pulite, non abbiamo ancora debitamente affrontato: la ‘questione sociale’». 8

 

  1. Il giudizio di un latinista su Stalin

Il sesto ‘flash’ lo fece scoccare nel 1956 Concetto Marchesi, latinista e comunista, tracciando nell’intervento all’ottavo congresso del PCI, all’indomani del ventesimo congresso del PCUS, il memorabile paragone fra «Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma», che «trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato», e «Stalin, meno fortunato, [cui] è toccato Nikita Krusciov». È giusto riconoscere che Concetto Marchesi ebbe il coraggio di denunciare la natura controrivoluzionaria della critica calunniosa e denigratoria svolta da Krusciov nei confronti di Stalin e, insieme, la lucidità di intuire le conseguenze più lontane della stagnazione politica e sociale che, in séguito alla svolta revisionista, avrebbe investito l’Unione Sovietica. 9

 

  1. Settimo ‘flash’: il giudizio di Dimitrov

Da una nota del Diario, scritta il 7 aprile 1934, circa una conversazione tra Stalin e Giorgio Dimitrov, il quale di lì a poco sarebbe diventato presidente del Comintern, emergono considerazioni e riflessioni che presentano, 'mutatis mutandis', un'evidente attualità sia sul piano dell’analisi degli Stati borghesi contemporanei sia sul piano della lotta all’opportunismo.

D[imitrov]: Io ho riflettuto molto in carcere sul perché, visto che la nostra dottrina è giusta, nel momento decisivo milioni di operai non ci seguono e restano con la socialdemocrazia, la cui condotta si è macchiata di tradimento, o perfino - come in Germania - vanno con i nazionalsocialisti. St[alin]: e le Vostre conclusioni? D: Penso che la causa principale stia nel nostro sistema di propaganda, nell'approccio sbagliato verso gli operai europei. S: No, questa non è la causa principale. La causa principale sta nello sviluppo storico: i legami storici delle masse europee con la democrazia borghese. Inoltre, nella particolare posizione dell'Europa: i paesi europei non hanno a sufficienza proprie materie prime, carbone, lana ecc. Essi contano sulle colonie. Senza colonie non possono esistere. Gli operai lo sanno e temono la perdita delle colonie. E in questo senso sono inclini a marciare con la propria borghesia. Nel loro intimo non sono d'accordo con la nostra politica antimperialista. Hanno perfino paura della nostra politica. E perciò sono necessari un paziente lavoro di chiarimento e un approccio giusto nei confronti di questi operai. E' necessaria una lotta continua per ogni singolo operaio. Noi non possiamo conquistare subito e molto facilmente milioni di operai in Europa. Le masse di milioni hanno una psicologia da gregge. Esse operano soltanto attraverso i propri eletti, i propri capi. Quando perdono la fiducia nei propri capi si sentono impotenti e perdute. Esse temono la perdita dei propri capi. E per questo motivo gli operai socialdemocratici seguono i propri capi, anche se non sono soddisfatti di loro. Essi abbandoneranno questi capi quando ne compariranno altri, migliori. Ma per questo c'è bisogno di tempo [...] La gente non bada ai particolari, mentre in genere i particolari sono decisivi. Non fa analisi marxiste [...] La gente non ama l'analisi marxista. Grandi frasi e generiche constatazioni. Questa è ancora l'eredità dei tempi di Zinov'ev. Ah, sotto questo profilo Il'ic era molto accurato, eccome accurato. 10

 

  1. Ottavo ‘flash’: il giudizio di Togliatti

Chiesi in tutta franchezza a Togliatti che cosa pensasse di Stalin, come lo vedeva e giudicava. Con mia sorpresa non si schermì...Mi disse che certamente Lenin aveva scelto Stalin per dirigere il partito in ragione delle sue eccezionali qualità di organizzatore e perché era un uomo razionale e concreto. In un periodo in cui tutti facevano dei grandi discorsi, scoprivano il valore dell’eloquenza per essere intesi dalle masse, un uomo come Stalin che parlava solo se aveva qualcosa da dire e lo esprimeva col minor numero possibile di parole, era per Lenin un collaboratore prezioso.

Anche sulla formazione teorica di Stalin credo che Togliatti avesse un’opinione molto elevata, sebbene talvolta lo trovasse un po’ sommario, scheletrico più che schematico. Per lui non ci potevano essere dubbi sull’arricchimento del leninismo da parte di Stalin, specialmente per la sua teoria della costruzione del socialismo in un solo paese.

Togliatti considerava Stalin uno dei più grandi uomini di stato di tutti i tempi in ragione di una fermezza d’acciaio, di un convincimento senza ombre sulla superiorità del sistema socialista e di una fede assoluta nella vittoria del comunismo nel mondo. Per Togliatti, Stalin aveva soprattutto vinto la sua dura e lunga battaglia contro Trotzky non perché avesse in mano l’apparato del partito, ma perché più realista, più politico, più deciso e anche più saggio. A differenza di Trotzky e dei suoi alleati di sinistra e di destra che pronunciavano bei discorsi, Stalin aveva la qualità innegabile di dare ciò che prometteva e di convincere per la logica e il buon senso. Questa era nelle mani di Giuseppe Stalin la carta decisiva che gli aveva permesso di uscire vittorioso da tutte le prove più dure e difficili. 11

 

  1. Nono ‘flash’: il giudizio di un avversario

Il nono, più che un ‘flash’, è un razzo pirotecnico sparato a suo tempo da un testimone insospettabile, l’ex Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga (la verità a volte ama rivelarsi nelle voci più avverse): «Il marxismo-leninismo è stato una grande ideologia, che ha mosso milioni di persone verso obiettivi di giustizia e di liberazione. Marx è stato il più grande economista classico del XIX secolo e Lenin il più grande teorico rivoluzionario del XX secolo. La forza e il prestigio del marxismo-leninismo sono stati così grandi, che tante persone hanno, proprio per questo motivo, appoggiato e giustificato lo stalinismo» (dichiarazione fatta il 16 aprile 1998 durante la trasmissione televisiva “Porta a porta” condotta da Bruno Vespa).

Sarebbe un esperimento interessante quello di domandarsi che cosa succederebbe oggi se un uomo politico di peso paragonabile a quello di Cossiga avesse il coraggio e la spregiudicatezza di esprimere dei giudizi sul marxismo-leninismo e su Stalin come quelli che ho riportato. Ma il dover constatare che oggi è impossibile e perfino inconcepibile ascoltare, sia pure da un anticomunista di ferro che ami ‘épater le bourgeois’, un giudizio così controcorrente, è solo una conferma di quanto sia vero ciò che Stalin ebbe ad affermare: «Se dovesse cadere l’Unione Sovietica, un’enorme ondata di restaurazione si abbatterebbe sul mondo, sui lavoratori di tutti i paesi, sui popoli coloniali». 12

Ed è essenzialmente questa la ragione per cui, oggi più che mai, ogni autentico comunista sa che la lezione di Stalin, insieme con quella di Marx, di Engels e di Lenin, resta fondamentale per lottare contro il capitalismo, sconfiggere l’opportunismo e avanzare verso il socialismo.


Note
1 G. Rocca, Stalin, quel meraviglioso georgiano, Mondadori, Milano 1988.
2 Si veda, a questo riguardo, il saggio di Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008. Fondamentale è poi, per la puntualità della documentazione e per il rigore dell’argomentazione, la ricerca dello storico statunitense Grover Furr, Krusciov mentì, La Città del Sole, Napoli 2016 (con Prefazione di D. Losurdo).
3 Cfr. C. Malaparte, Tecnica del colpo di Stato (ed. or., Technique du coup d’état, Grasset, Paris 1931), Adelphi, Milano 2011, pp. 35-57, 75-86 e 123-195. Si tratta di un libro notevole sia per la scrittura sia per i contenuti.
4 Una valida analisi critica è quella condotta da K. Mavrakis, Trotzkismo: teoria e storia, Mazzotta, Milano 1972.
5 Cfr. D. Losurdo, La sinistra italiana e i nuovi Hitler, 2002.
6 L’autore delle due testimonianze qui riportate è Giulio Cerreti, un operaio metallurgico toscano che, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, militò, ricoprendo incarichi direttivi, nella Terza Internazionale, nel partito comunista francese e in quello italiano. Cerreti pubblicò le sue memorie nel volume Con Togliatti e con Thorez, Feltrinelli, Milano 1973 (l’episodio descritto in questo paragrafo si trova alle pp. 268-269).
7 L. Martens, Stalin. Un altro punto di vista, Zambon Editore, 2005, pp. 234 e 266.
8 Cfr. il saggio, La Chiesa tra Est e Ovest (1949), ora compreso nella raccolta di testi di K. Barth, Pace e giustizia sociale, Castelvecchi, Roma 2014.
9 Cfr. Concetto Marchesi, Discorso all’VIII Congresso, in Umanesimo e comunismo, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 113-120.
10 Cfr. G. Dimitrov, Diario - Gli anni di Mosca (1934-1945), Einaudi, Torino 2002, pp. 12-13.
11 G. Cerreti, op. cit., p. 246.
12 Cfr. F. Molfese, Riflessioni su Stalin, reperibile nella Rete al seguente indirizzo: https://www.resistenze.org/sito/ma/di/sc/madsmost.htm .
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