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Gramsci e il populismo

Recensione di Nicolò Pennucci

Guido Liguori (a cura di): Gramsci e il populismo, Unicopli, Milano 2019, pp. 173, ISBN: 884002056X

11230591 10206221943059532 1329846375025224347 nGramsci e il populismo ha l’ambizione di affrontare un problema fondamentale nel dibattito politico contemporaneo, quello della relazione del pensiero politico della sinistra con il populismo e in particolare il rapporto tra la categoria della classe sociale, centrale nell’elaborazione marxista, e quella di popolo, che sembra negare in toto la portata sociologica e politica dell’unità d’analisi marxista. Partire da Gramsci è imprescindibile, in quanto la teoria politica contemporanea che avoca la possibilità di un populismo di sinistra si riferisce direttamente al suo pensiero nell’elaborazione concettuale della propria proposta. Ciò solleva non pochi problemi alla base dei contributi che si susseguono nel volume collettaneo.

Cercare di analizzare un problema contemporaneo con le lenti di un pensatore di un’altra epoca pone infatti un problema metodologico. Quentin Skinner in un lavoro paradigmatico per la storia del pensiero politico insegna che il pensiero si conosce attraverso i testi che devono essere letti sotto la doppia luce di testo e contesto per evitare distorsioni e imprecisioni ermeneutiche (SKINNER, QUENTIN, 1969: Meaning and Understanding in the History of Ideas, History and Theory”, Vol. 8, No. 1 pp. 3-53 ). Sradicare completamente un testo dal suo contesto storico-politico è un’operazione che si apre alla possibilità di distorsioni pericolose e all’abuso di categorie che diventano completamente snaturate. Ciononostante un pensatore, soprattutto un pensatore come Gramsci che ha fatto della praxis la nota definitoria del suo progetto filosofico, non può restare relegato all’uso dei filologi. Come conciliare la corretta lettura filologica con l’uso politico del pensiero gramsciano nella contemporaneità è la grande domanda che sottostà all’intero sviluppo del libro e valutare i limiti e le potenzialità di questo sforzo è uno dei compiti del presente lavoro. Che questo doppio filo leghi tutti i contributi è dimostrato dallo stesso curatore. Liguori, infatti, nell’introduzione dichiara «presentiamo i contributi che compongono il volume non nell’ordine nel quale si sono susseguiti nel corso del seminario di Roma, ma cercando di collocarli in una sequenza che, partendo da Gramsci e dalla lettura dei suoi testi, cerchi di interrogare il presente del dibattito sul neopopulismo contemporaneo» (p. 10).

Dalla filologia ad una filologia vivente è quindi il percorso tracciato nel libro. Gli interventi di Cingari, Mordenti, Frosini, Meta si concentrano su una lettura filologica che è spesso ignorata negli usi contemporanei di Gramsci, mentre Voza, Prospero, Anselmi, Campolongo, Cortés, Durante e Forenza si dedicano ad un tentativo applicativo delle categorie gramsciane alla contemporaneità, con un notevole sforzo di dialogo critico con alcuni usi consolidati.

La lettura filologica del lemma populismo nell’opera di Gramsci è affidata all’intervento di Salvatore Cingari Populismo e nazionale-popolare. Egli si affretta a precisare che «in Gramsci il lemma populismo significa tutt’altro» (p.14). Stando al testo gramsciano, le sue argomentazioni sul fenomeno del populismo non hanno niente a che vedere con l’accezione contemporanea del lemma, il populismo in Gramsci si riferisce ad un movimento letterario di andata al popolo, condotto dagli scrittori sulla scia del naturalismo francese. Non c’è da stupirsi, del resto, considerando che il populismo contemporaneo nasce da una crisi del liberismo nella fase della globalizzazione avanzata, che non aveva possibilità d’esistere negli anni ’30 del secolo scorso. Questo amplifica il problema della volontà di usare categorie vecchie per nuovi problemi. In parte gli autori del libro si svincolano dalla criticità indicando una distinzione tra un populismo e un neopopulismo, con la quale intendono precisare la distanza tra i due concetti. Tuttavia, questa distinzione necessita di essere precisata in futuri lavori sul tema, onde evitare di mantenere vaga la concettualizzazione del populismo vecchio e nuovo. Lo stesso Cingari ricorda come sia necessario seguire l’indicazione di Fabio Frosini e leggere nei testi gramsciani alcuni esempi paradigmatici del populismo, sebbene chiamati in altri modi, come cesarismo, bonapartismo o boulangismo. Tuttavia questa suggestione non viene sviluppata in modo organico nel proseguo del testo. Nel primo intervento si precisa come il lemma populismo sia legato a doppio filo in Gramsci con quello di nazionale-popolare. Questa dimensione assume un’importanza non secondaria se si considera che Gramsci in carcere deve rifondare un discorso comunista che sia all’altezza dell’innovazione politica del fascismo come fenomeno europeo. L’avanzata delle masse in politica e la sua conseguente trasformazione morfologica sono alla base delle riflessioni del carcere e il dibattito sul nazionale-popolare deve tenere presente questa novità, che è stata indagata dalla più autorevole storiografia, come il citato George Mosse (MOSSE, GEORGE, 2009: La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Il Mulino, Bologna).

Raul Mordenti nel suo Il concetto di popolo in Gramsci e il populismo cerca di identificare il nesso tra popolo e populismo nel pensiero Gramsciano. Egli inizia la sua argomentazione cercando di identificare come il populismo venga rappresentato nella contemporaneità per ricostruirne poi l’accezione nei testi gramsciani. Salta all’occhio la natura giornalistica e divulgativa delle definizioni contemporanee elencate, senza un più ampio riferimento alla letteratura scientifica sul tema, che non viene concettualizzata negli interventi di questo volume. Per quanto riguarda il pensiero gramsciano, egli segnala la novità del concetto di popolo all’interno della storia del marxismo. Infatti la tradizione marxista concettualizza lo spazio sociale nell’antagonismo delle classi, che sembra negato qualora ci si rifaccia ad un concetto, quale quello di popolo, in cui la dimensione della conflittualità non solo non può essere considerata nei termini della classe ma sembra del tutto assente. Tuttavia esiste un’altra tradizione rivoluzionaria che si è appellata al popolo, ed è quella dei giacobini e della rivoluzione francese. Gli autori di riferimento di questa tradizione rivoluzionaria altra dal marxismo sono Rousseau e Robespierre. La categoria di popolo appartiene dunque storicamente ad un’altra tradizione rivoluzionaria che nega la dimensione di classe del marxismo. Questa ricostruzione è estremamente significativa, dal momento che il pensiero politico di sinistra oggi fa fatica a dialogare con le istanze populiste proprio per il rapporto ambiguo che esse intraprendono con il concetto di classe sociale. Gramsci sembra porsi come mediatore tra queste due tradizioni rivoluzionarie in quanto il suo concetto di rivoluzione è legato all’egemonia, che non è operata da una singola classe ma da un’alleanza tra le classi subalterne: «direi che “popolo-nazione” o “nazionale-popolare”, ecc. indica il popolo che esce dalla subalternità, che è se non egemone almeno avviato verso una nuova egemonia» (p. 44). La costruzione di un soggetto controegemone è ciò che permette un contatto tra il pensiero marxista e la categoria del popolo.

Il socialismo nazionale nei quaderni del carcere di Fabio Frosini è un intervento il cui pregio è quello di restituire il contesto della riflessione gramsciana sulla politica. Non solo questa contestualizzazione è necessaria per ridare rigore filologico all’argomentazione, ma anche, e soprattutto, cerca di fare un’archeologia del populismo, per usare un gergo di Foucault, che analizzi in quale circostanza e con che conseguenze il popolo si è costituito storicamente come soggettività politica. «Ogni politica moderna deve porsi il problema di istituire una relazione tra il popolo come parte e come tutto» (p.58) e questa necessità si deve all’insorgenza delle masse nella scena politica, che è una delle più pesanti eredità politiche della prima guerra mondiale. Tali riflessioni sostanziano la analisi gramsciana del processo risorgimentale che ha avuto il suo esito principale nella debolezza dello Stato. In quest’ottica, si Ciò analizzano anche la politica coloniale e l’emigrazione italiana tra le due guerre mondiali. ha avuto come conseguenza centrale per la storia politica italiana il sovversivismo delle masse. Come è noto, la diagnosi gramsciana del Risorgimento come rivoluzione passiva ha il suo esito nella mancanza di egemonia. Sarebbe proprio questo concetto a garantire la risoluzione al problema della politica moderna, ossia la riconcettualizzazione del rapporto tra tutto e parte nel popolo. Infatti un’alleanza di classe che unisca i subalterni in uno sforzo controegemonico riesce a essere insieme parte e tutto, a catturare dunque l’essenza stessa della politica come trasformata dall’irruzione delle masse.

Educazione, egemonia e masse popolari in Gramsci di Chiara Meta costituisce una cerniera nello sviluppo del volume: nel concentrarsi sul testo gramsciano tenta infatti di interpretare alcuni fenomeni della contemporaneità con le categorie che espone. La sua domanda di partenza è infatti protesa verso la contemporaneità: «L’interpretazione fornita da Laclau della categoria di popolo, inteso come definitivo superamento delle classi sociali, è adatta all’oggi?» (p.77). Gramsci appare come il pensatore che è in grado di condurre il marxismo alla problematica del popolo, in quanto è l’autore che «spiega in maniera esemplare come avviene molecolarmente il passaggio dell’interesse particolare di un gruppo o classe che nasce sul terreno economico a quello universale rappresentato dalla saldatura ideologica» (p.78). In particolare, la sua analisi si concentra sulla critica gramsciana alla riforma Gentile, che è espressione di una politica vecchia, incapace di stare al passo con la trasformazione morfologica del politico già esaminata come punto focale da cui osservare le posizioni gramsciane. Ciò che sembra essere una potente intuizione gramsciana è il passaggio ad una nuova soggettività politica. Gramsci pone una domanda intelligente che è in grado di interpretare un cambio di paradigma nella storia politica europea. Egli è interessato a capire chi è il nuovo soggetto politico e quale ruolo debba svolgere per una rivoluzione di stampo marxista. Mutatis mutandis, questa è la domanda che la sinistra deve porsi nel cercare di comprendere un altro mutamento del politico su scala globale, che coincide con l’ondata populista i cui effetti si fanno ogni giorno più presenti nelle nostre vite. E il compito non è secondario, dal momento che la sinistra sembra incapace di affrontare questo problema e consegna alla destra il monopolio di una contro- narrativa che rischia di diventare l’unica possibile risposta all’egemonia neoliberale, di cui i partiti della sinistra non radicale sembrano diventati portavoce.

Con questo intervento si chiude idealmente la prima metà del volume. Il lavoro filologico sul pensiero gramsciano ha il pregio di restituire chiarezza a usi di Gramsci che sono stati, anche a ragione, spesso etichettati come abusi. Ciononostante, spesso il concentrarsi sul testo rischia di far perdere centralità all’obiettivo di chiedersi quale sia il rapporto di Gramsci con l’interpretazione di un fenomeno contemporaneo e quale possa essere il suo ruolo nel costruire una narrativa di sinistra per la crisi contemporanea. A questo proposito, sembra urgente un’analisi concettuale di alcuni lemmi gramsciani che sono centrali nel dibattito attuale e che vengono invece trattati solo di passaggio in questa prima parte. Penso alla concezione gramsciana della crisi e al suo rapporto con l’egemonia, al suo tentativo di restituire un significato politico ad un termine che nel dibattito marxista resta troppo spesso confinato all’elemento economico. Chiedersi in che modo la nozione gramsciana di crisi possa essere integrata in una interpretazione del populismo per la sinistra contemporanea è un problema centrale che rende un’analisi filologica molto attuale e funzionale alla risoluzione di un urgente problema politico. Inoltre, un’analisi delle categorie gramsciane come cesarismo e bonapartismo, così come della sua interpretazione del rapporto tra governanti e governati sembra necessaria per cercare di dibattere in che misura sia possibile pensare a un populismo che non si concentri sulla leadership come suo elemento peculiare. Ancora, Gramsci utilizza una coppia concettuale molto persuasiva per concettualizzare la democrazia e sarebbe interessante chiedersi come questo possa contribuire al dibattito, centrale nelle scienze politiche contemporanee, sulla relazione tra populismo e democrazia, che la maggior parte della letteratura confina al rango di patologia, e che viene accettata dagli autori del volume. Creare una nuova forma di democrazia tramite un momento populista è invece un compito a cui la sinistra è chiamata e che ha provato a portare avanti in alcune esperienze (ormai da considerare storiche) nell’immediato periodo successivo alla crisi del 2008. Un ragionamento su questi temi potrebbe condurre ad una analisi filologica che permetterebbe un dialogo più sereno tra il pensiero politico gramsciano e il dibattito contemporaneo sul populismo.

La seconda parte di questo testo inizia idealmente con il contributo di Pasquale Voza Dal popolo-nazione al populismo. Il suo intervento si concentra nell’analizzare l’interpretazione che Laclau dà al concetto gramsciano di egemonia. La sua critica è interessante in quanto rimprovera al filosofo argentino di avere estremizzato il carattere discorsivo con cui concettualizza il significante vuoto popolo. In Gramsci non c’è una dimensione discorsiva e la critica molecolare dell’egemonia dominante è la molla dello sforzo controegemonico. Al contrario, un appiattimento discorsivo del concetto di egemonia rende impossibile una critica dell’ordine neoliberale come fondamento della costruzione di una alternativa. La forza di questa critica sta nel fatto che nel dialogo tra i due pensatori egli individua una inadeguatezza nella diagnosi della crisi presente. Ciò che importa non è sapere in che misura Laclau sia fedele o meno alla lettera gramsciana, ciò che viene rimproverato è l’impossibilità di dare una risposta concreta a un problema reale da parte di una interpretazione del pensiero gramsciano.

Sulla stessa scia di un dialogo critico tra i due pensatori si inserisce l’intervento di Michele Prospero Egemonia versus ragione populista, che incentra il suo ragionamento sulla contrapposizione tra egemonia gramsciana e ragione populista in Laclau. Egli insiste che «la riflessione gramsciana sembra destituita di fondamento filologico» (p. 101). Come osservato con riferimento all’intervento precedente, la fedeltà filologica ai testi dovrebbe essere un problema secondario nel discutere il rapporto di Gramsci sul populismo. Preme infatti ricordare che lo stesso Gramsci imposta la sua concezione del partito politico come moderno principe su un’interpretazione non filologicamente corretta del pensiero di Machiavelli. Tuttavia, ciò che interessa è capire in che modo il Machiavelli di Gramsci è utile a risolvere il problema della trasformazione del politico nel tempo di Gramsci. Non si dovrebbe considerare Gramsci uno storico del pensiero politico, ma un teorico della politica che concettualizza tutta la sua riflessione in direzione della realizzazione della praxis.

Guardare all’interpretazione di Laclau dal punto di vista meramente filologico sembra ridurre la portata filosofica della sua operazione, soprattutto se si analizza con le lenti della praxis, che è un approccio prettamente gramsciano. Ancora, la lontananza tra Gramsci e Laclau viene argomentata sostenendo che il populismo sarebbe un sinonimo di leadership carismatiche verso cui Gramsci sembrerebbe sempre avere una posizione contraria. Questa affermazione può essere accettata solo se si considera un’interpretazione particolare del populismo. Non solo una tale interpretazione non è menzionata nel testo, ma si deve aggiungere che altre definizioni sono possibili, e forse un compito lasciato in eredità da questo libro è proprio quello di cercare di sistematizzare le accezioni del populismo contemporaneo, come portate avanti dai più autorevoli autori nella scienza politica contemporanea, da Moffitt a Panizza passando per Mudde, per citare solo i più rappresentativi (MOFFIT, BENJAMIN, 2016: The Global Rise of Populism: Performance, Political Style and Representation, Stanford U.P., Stanford; MUDDE , CASS 2007: Populist radical right parties in Europe , Cambridge, UK New York, Cambridge U.P.; PANIZZA , FRANCISCO , ED., 2005: Populism and the Mirror of Democracy , Verso, London). Altrimenti si rischia di appiattire il dibattito tra Gramsci e Laclau, come se quest’ultimo fosse l’unico o il più autorevole studioso del fenomeno.

In questa direzione sembra andare l’intervento che segue Gramsci nel dibattito sul populismo contemporaneo di Manuel Anselmi, il quale si chiede a che punto sia il dibattito contemporaneo sul populismo. Senz’altro questa domanda necessita di essere ampliata in future pubblicazioni che vogliano approfondire il complesso rapporto tra Gramsci e la teoria politica contemporanea sul tema. L’autore insiste ulteriormente sulle ragioni dell’errata interpretazione filologica che Laclau dà di Gramsci, sia per ragioni storiche - egli media il testo gramsciano sull’esperienza togliattiana del PCI e soprattutto degli anni ‘30 in Argentina -, che teoriche -un accento sul popolo nel dispositivo politico che in Gramsci risulterebbe assente. La parte finale del contributo indica alcune aree di intervento nell’uso di Gramsci sul dibattito sul populismo che risultano di grande interesse. L’autore auspica una maggiore riflessione sul nesso tra fascismo e populismo, così come sulla relazione tra governanti e governati nelle trasformazioni contemporanee della democrazia.

Francesco Campolongo propone un interessante intervento sul caso di Podemos come applicazione pratica della teoria di Laclau in L’ipotesi populista. Il caso di Podemos. Del resto Pablo Iglesias, e soprattutto Íñigo Errejón si sono richiamati direttamente al pensatore argentino. Egli esordisce: «Il caso di Podemos ci permette di analizzare una caso empirico di strategia populista ispirata dal contributo teorico di Antonio Gramsci attraverso la rilettura fattane da Ernesto Laclau» (p.115). Questo incipit contiene diversi elementi di interesse. In primo luogo concettualizza il Gramsci di Laclau come una rilettura, e questo sembra dare giustizia a quella che non dovrebbe essere considerata una ricostruzione filologica. Podemos come caso empirico dimostra poi che l’oggetto del contendere non è tanto in che misura Laclau è fedele a Gramsci, quanto fino a che punto il Gramsci di Laclau è capace di ispirare un’esperienza di populismo democratico di sinistra. Questo mi sembra un approccio gramsciano nella direzione della filosofia della praxis, che è comune anche agli interventi che seguono. Egli evidenzia in maniera chiara quale è il ruolo della crisi nell’emergere di un movimento populista. Tuttavia questo elemento non è concettualizzato in maniera organica nel contributo. Comunque, è interessante, partendo da questo intervento, provare a immaginare che cosa il concetto gramsciano di crisi (crisi organica-crisi di egemonia) può apportare alla concezione del fenomeno populista. Infatti, in un recente articolo, Moffitt ha insistito sul carattere performativo della crisi come elemento interno al populismo stesso e si avverte la necessità di far dialogare Gramsci con questa interessante concettualizzazione, anche nel tentativo di andare oltre il monopolio di Laclau nel discorso gramsciano sul populismo (MOFFIT, BENJAMIN, 2015: How to Perform Crisis: A Model for Understanding the Key Role of Crisis in Contemporary Populism, “Government and Opposition”, vol. 50, No. 2, pp. 189-217).

Martín Cortés nel suo Il populismo in Argentina e Gramsci. Alcuni malintesi si concentra ancora su un caso di studio, che concerne l’Argentina. Si cerca di concettualizzare come Gramsci sia stato utilizzato per interpretare il peronismo. L’aspetto interessante di questa ricostruzione è quello di rendere l’idea di come Gramsci sia stato tradotto in un contesto altro. Sia le sue teorizzazioni che le sue esperienze storiche sono tradotte nel contesto argentino per diventare lenti interpretative della storia nazionale.

Ancora una volta non ci troviamo di fronte ad un’interpretazione corretta filologicamente. Ciononostante, appare chiaro un interesse nel creare una narrativa delle vicende della sinistra argentina per cui Gramsci diviene un elemento imprescindibile.

Lea Durante discute un altro caso di appropriazione gramsciana da parte del movimento dei neoborbonici. Gramsci icona dei neoborbonici ha il pregio di contestualizzare la nascita del movimento neoborbonico in una cornice europea di movimenti separatisti, indipendentisti e autonomisti. Ancora una volta, Gramsci è utilizzato per costruire una contro-narrativa storica. Molto più della fedeltà al testo, ciò che appare significativo nell’appropriazione neoborbonica di Gramsci è farne il perno di una narrazione contro-egemonica. Ciò che viene alla mente leggendo questo intervento è che la sinistra dovrebbe essere in grado di riappropriarsi di Gramsci in modo vivo, per rispondere alle esigenze di un presente in cui l’elemento di crisi diventa sempre più pervasivo. Lasciare il monopolio di una contro-narrativa a istanze destrorse, con riferimenti anche a pensatori dell’area comunista, è un errore che appare ben più grave di un’imprecisione filologica.

L’ultimo intervento è affidato a Eleonora Forenza. Sembra concludersi il passaggio dalla filologia alla filosofia vivente su cui l’intera impalcatura editoriale del libro si regge. Autocoscienza del 99% o populismo? Le ragioni femministe e comuniste oggi si interroga infatti sulle possibilità del movimento femminista di fronte alla sfide della contemporaneità. Forze e istanze progressiste stanno incontrando un processo di incorporazione nel neoliberismo. Questa commistione di interessi tra progressismo e neoliberismo è all’origine della crisi di forze di sinistra, non da ultimo quella italiana, ed è argomentata da Nancy Fraser con riferimento alla vittoria di Trump negli Stati Uniti ai danni di Clinton. Questo tema è affrontato in modo esemplare in un volume collettaneo in cui Nancy Fraser firma un contributo che va in questa direzione (GEISELBERGER, HUTTE, A CURA DI , 2017: La grande regressione: quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo, Feltrinelli, Milano; si veda qui: FRASER, NANCY, 2017: “La scelta di Hobson: Neoliberismo progressivo o Populismo Reazionario”). Non solo Clinton rappresenta la commistione di sinistra e neoliberismo, ma anche quella delle istanze femministe con la dottrina neoliberale. Dunque anche in questo campo si avverte la necessità di un momento populista. Ciononostante, ella non auspica una trasformazione populista del movimento femminista in quanto non condivide le riflessioni di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Argomenta questa posizione richiamadosi a una infedeltà al testo gramsciano. Ma precisa: «Ed è un nodo su cui intendo soffermarmi ovviamente non in termini di legittimità filologica, ma di “filologia vivente”, di efficacia politica» (p.155). Forenza esplicita alcune riflessioni mosse con riferimento a interventi precedenti. Ciò che conta è valutare la filologia avendo sempre in mente la praxis, non un puro esercizio ermeneutico svincolato dalle necessità del presente. In questa luce si articola la sua interessante critica gramsciana al progetto di Mouffe. La sua conclusione è che il populismo di sinistra auspicato da Chantal Mouffe non sia altro che una replica di una rivoluzione passiva. La natura discorsiva della soggettivazione populista, che Muffe aveva contribuito a definire con Laclau, ha l’indesiderato esito di neutralizzare il conflitto. Questo esito è assente se si prende in considerazione Gramsci, che ha una teoria materialistica della soggettivazione politica alla base della sua strategia dell’egemonia: «Lontano da un approccio meramente discorsivo al problema dell’egemonia, dunque, Gramsci afferma un nesso inscindibile nella costruzione dell’antitesi fra “coscienza di essere parte di una determinata forza egemonica” come consapevolezza della propria funzione storica nell’attività di trasformazione, formazione “di una progressiva autocoscienza” e costruzione di un nuovo senso comune». (p. 163). La prospettiva femminista deve dunque rifarsi direttamente a Gramsci, tralasciando la reinterpretazione di Laclau e Mouffe.

Il libro si conclude con questo intervento, in cui il passaggio dalla filologia alla praxis è compiuto. Si avverte la mancanza di una sezione conclusiva, che indichi la via di un futuro lavoro sul tema dopo questo primo sforzo interpretativo. Prima di tutto è necessario liberare il rapporto Gramsci-Laclau dalla prigione filologica in cui sembra relegato. Secondariamente, includere in un dialogo Gramsci con altre concettualizzazioni teoriche del populismo sembra parimenti necessario, per evitare che il discorso appaia troppo focalizzato su pochi autori. Infine è utile convincersi che inserire Gramsci in un discorso sul populismo ha un valore prima di tutto politico, dal momento che dal 2015 in poi -con la crisi dei rifugiati e il voto per Brexit in Europa, l’elezione di Trump negli Stati Uniti e l’elezione di Bolsonaro in Brasile- il populismo ha conosciuto una inquietante virata verso destra. La sinistra radicale non è stata capace di mantenere le promesse del post 2008 con le esperienze di SYRIZA e Podemos, e sembra incapace di costruire una contro-narrativa efficace, mentre i partiti della sinistra moderata conoscono una crisi senza precedenti anche per la loro incapacità di resistere all’egemonia neoliberale. Se la proposta di Mouffe appare insufficiente e la teoria di Laclau insoddisfacente, resta comunque necessario alimentare un dibattito pubblico su un populismo di sinistra che proponga una narrativa contro-egemonica. Risulta evidente che Gramsci sia un autore privilegiato per raggiungere questo obiettivo e partendo da questo volume collettaneo è necessario ampliare lo sguardo e farlo dialogare con le più recenti concettualizzazioni del populismo, nel dibattito sul suo rapporto con la democrazia, con la possibilità di un populismo progressista che parta dai movimenti sociali e si svincoli da leadership ingombranti, che promuova nuove narrative della globalizzazione e che riesca a diventare un’alternativa valida alla retorica del senza alternative (Il TINA di Tatcheriana memoria) portata avanti dal neoliberismo. Altrimenti la destra continuerà a creare l’unica contro-egemonia e quella regressiva sarà l’unica versione del populismo, con effetti catastrofici per le democrazie contemporanee. Questo è un problema urgente e non è un problema filologico.

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