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sinistra

Pashukanis e l'estinzione del diritto

di Carlo Di Mascio

unnamiuobuo567edE’ da come viene affrontato il tema dell’estinzione del diritto che si può comprendere fino a che punto un giurista è veramente vicino al marxismo e al leninismo.

E. B. Pashukanis, Economia e regolamentazione giuridica (1929)

1. Premessa1

E’ più o meno nota la drammatica vicenda filosofica ed esistenziale di Evgeny Pashukanis2, il quale, nella Russia sovietica tra gli anni 20 e 30 del Novecento - in perfetta sintonia con l’impianto marxista-leninista, e in distonia con quello stalinista mirato, dopo la seconda metà degli anni 30, al massimo rafforzamento del diritto e dello Stato - tenta di spiegare attraverso la sua opera più significativa, La Teoria generale del diritto e il marxismo del 1924, la correlazione esistente fra lo Stato, il moderno diritto formale astratto ed i rapporti sociali capitalistici, e ciò partendo dal presupposto fondamentale secondo cui la forma specifica della regolamentazione giuridica capitalistica ha origine dalla forma-merce, nonché dalla conflittualità degli interessi privati. Pashukanis, in netta antitesi con un certo marxismo ortodosso, ribadisce che Stato e diritto non sono la stessa cosa, né tantomeno possono più essere collegati o dedotti dalla proprietà privata, bensì dalla merce che, in quanto rapporto sociale, intende privilegiare solo valori di scambio per il mercato e non valori d’uso per i bisogni sociali e che, conseguentemente, nel capitalismo può esistere solo un diritto, quello “privato”, rispetto al quale quello “pubblico” rappresenta solo un’abile finzione borghese. Esiste dunque una concatenazione indissolubile tra la forma-merce e la forma giuridica, nel senso che la prima non fa che materializzare la seconda, dato che il capitalismo, universalizzando tutto quanto è legato alla merce, ne impone la sua forma al lavoro salariato, e ciò in particolare perché giunge a concepire ogni individuo come soggetto giuridico, un soggetto cioè uguale ad altri e libero di operare come meglio crede nel mercato, ma di fatto ridotto dal rapporto di produzione capitalistico a mera funzione nella produzione, e quindi nello sfruttamento.

A questo punto è chiaro che fino a quando esisterà una società che, nel produrre merci, lo farà continuando a privilegiare valori di scambio, continuerà ad esserci anche un diritto, non importa di quale matrice o forma esso sia, non importa poiché grazie ad esso sarà sempre possibile riuscire a mistificare lo sfruttamento con mezzi e modi diversi, tanto in un regime democratico quanto in uno totalitario. In questi termini Pashukanis perviene così a sintetizzare il dominio del diritto quale sinonimo del dominio della violenza che vive non solo nei rapporti formali, ma nelle stesse relazioni quotidiane di produzione e di esistenza, ponendosi ad un certo punto della storia come baluardo attrezzato a razionalizzare le componenti dialettiche che producono gerarchie ed ineguaglianze, e tutto questo con un preciso obiettivo, quello di assicurare il processo del plusvalore, tutt’uno con lo sfruttamento già inoculato nella forma giuridica e non in un contenuto di classe. Quest’ultimo può anche mutare in base all’ideologia transitoriamente dominante, ma il problema non troverà soluzione se la forma giuridica continuerà a sopravvivere. Si spiega da qui la sparizione fisica e culturale di Evgeny Pashukanis.

 

2. Il capitale come sistema sociale fondato sullo scambio di equivalenti e il diritto come garante del processo di sfruttamento

Pashukanis ha mostrato che ciò che appare decisivo nella disamina interna alla società borghese dominata dal valore di scambio, è lo svelamento dell’autoconservazione del capitale, fondato soltanto su rapporti sociali asimmetrici di sfruttamento e non su formali rapporti tra individui «liberi ed eguali». Con grande chiarezza il giurista sovietico, sulla scorta dell’insegnamento marxiano, sottolinea che

«finché i rapporti tra il singolo produttore e la società continuano a conservare la forma di uno scambio di equivalenti, essi continuano a conservare anche la forma giuridica, giacché «il diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di una uguale misura» (Marx). Ma poiché con ciò stesso non si prendono in considerazione le differenze naturali delle capacità individuali, questo diritto «è perciò, per il suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto» (Marx)3.

L’indicazione marxiana, fatta propria da Pashukanis, introduce qui a quella fittizia linearità di connessione sociale che il processo di scambio rappresenta, in cui tutto deve apparire giuridicamente corretto, dal momento che «non solo uguaglianza e libertà sono dunque rispettate nello scambio fondato sui valori di scambio, ma lo scambio di valori di scambio è anzi la base produttiva, reale di ogni uguaglianza e libertà»4. Purtuttavia, in questa parvenza di effettività egualitaria che lo scambio mercantile richiede, è proprio il diritto a costituire la struttura pratica di garanzia del rapporto di plusvalore, sicché ciò che è dato nel mercato come eguaglianza si presenta immediatamente come ineguaglianza nei rapporti di produzione. In effetti lo scambio, come processo formale, riesce ad operare una inversione nei rapporti sottostanti, per cui stabilendo uguaglianze formali, esso tende ad occultare e a distruggere la possibilità di fissare una misura socialmente condivisa, derivandone che è solo la specificità autoritativa che il capitale impone a determinare i rapporti privilegiando i diritti degli uni sugli altri, legittimando un andamento che non si svolge più in un patto di scambio di merci, bensì in una transazione idonea a creare le condizioni per la sottomissione del lavoratore al capitalista e la sussunzione delle sue forze produttive sotto il capitale. E’ questa la mistificazione operata dal capitalismo maturo che è giunto a sconvolgere e a definire i soggetti dello scambio, ma anche gli stessi principi di libertà ed eguaglianza che oramai vanno riformulati e risistemati solo dentro il processo di sfruttamento, il quale finisce per fagocitare la stessa genesi privatistica del diritto:

«Non appena l’uomo-merce - scrive Pashukanis - vale a dire lo schiavo, opera come possessore di merci - di cose - e diviene compartecipe dello scambio, assume per riflesso valore di soggetto […] Nella società moderna, invece, l’uomo libero, cioè il proletario, quando cerca come tale il mercato per vendere la sua forza lavoro, viene trattato come oggetto»5.

E’ pertanto la formazione del mercato capitalistico a generare la contraddizione tra falsa universalità e concreta particolarità, determinando l’eccezionale balzo in avanti della forma giuridica secondo cui non tutti gli individui hanno la possibilità di agire come soggetti giuridici, sicché

«la forma giuridica della proprietà non contrasta affatto con la espropriazione di un certo numero di cittadini, poiché la qualità di soggetto giuridico è una qualità puramente formale che qualifica tutti gli uomini come «degni» della proprietà e non li rende già proprietari»6.

A questo livello di analisi, Pashukanis coglie perfettamente che nel processo di costituzione sociale del dispositivo capitalistico volto ad accumulare e a sussumere senza tregua ogni momento dell’esistenza individuale e collettiva, si registra solo la pura arbitrarietà che il capitale inocula nei rapporti sociali e che non si risolve, diversamente dalle premesse teoretiche, nel rapporto formale di eguaglianza che la logica del valore di scambio rappresenta. Il diritto insomma non è solo legato alla merce, per cui dove essa c’è deve esserci un soggetto, ovvero allo scambio di merci che va subito individuato come un rapporto giuridico tra soggetti, ma anche «alla legge del valore, al suo funzionamento, alla sua tendenza ed ai suoi esiti»7, i quali si strutturano ora come vera e propria «incarnazione dei rapporti sociali di produzione che sovrastano l’individuo»8. La dimensione che Pashukanis esorcizza è, dunque, eminentemente giuridica e non economica, perché è solo attraverso la struttura della forma giuridica che è possibile razionalizzare il comando per lo sfruttamento pacifico, con ciò demistificando l’imbroglio della scienza giuridica borghese eternamente preoccupata di anestetizzare «a senso unico» i rapporti di forza:

«la filosofia del diritto che postulava come suo fondamento la categoria del soggetto con la sua capacità di autodeterminazione (e la scienza borghese non ha espresso un altro coerente sistema di filosofia del diritto) è, in sostanza, la filosofia dell’economia mercantile, che instaura le più generali e astratte condizioni in cui lo scambio può compiersi conformemente alla legge del valore, e lo sfruttamento attuarsi nelle forme del «libero contratto». Questa concezione sta alla base della critica che il comunismo ha condotto e conduce contro l’ideologia borghese della libertà e della eguaglianza e contro la democrazia formale borghese, nella quale «la repubblica del mercato» occulta il «dispotismo della fabbrica»»9.

 

3. Il diritto incorporato nel capitale quale prerequisito della giuridicizzazione dello sfruttamento

In questo passaggio in proiezione fortemente intriso di antagonismo, in cui il processo di scambio si svolge all’insegna della legge del valore da intendersi come legge del plusvalore10, mediante cui si articola il movimento dello sviluppo capitalistico, Pashukanis non potrebbe essere più chiaro nel tracciare la traiettoria che porta il diritto, come forma dello scambio tra possessori di merci, ad essere completamente interno al capitale, e ciò sin dal suo primo elemento che è dato dalla fabbrica, mostrandosi il suo discorso più stringente e persuasivo quando tenta utilmente di sovrapporre l’argomentazione marxiana, avvolta nello schema merce-denaro-forza-lavoro, agli elementi costituenti la genesi del diritto borghese. Provando a riassumere sommariamente i due rispettivi percorsi, si scopre che il capitale si presenta come sistema sociale basato sullo scambio di equivalenti, il quale a sua volta nasconde la formazione di un profitto o meglio, più esattamente, del plusvalore, aspetto questo possibile perché esiste una merce particolare, ovvero la capacità lavorativa umana che nella società capitalistica è oggetto di compravendita. Analizzando il «consumo» di questa merce particolare, che consiste nello svolgimento dell'attività lavorativa sotto la direzione capitalistica, fuoriesce il meccanismo attraverso cui si forma il plusvalore. Il punto fondamentale della questione risiede nella distinzione tra forza-lavoro, ossia «lavoro in potenza», il cui valore coincide con quello dei mezzi di sussistenza del lavoratore, e lavoro, ossia «lavoro in atto» che determina un valore superiore a quello della forza lavoro e si traduce in un plusvalore contenuto nel prodotto che è proprietà del capitalista11. Dall’altra che lo scambio in tutte le sue determinazioni essenziali è accompagnato da rapporti giuridici. Più lo scambio si generalizza e si diffonde, più si afferma l’idea di un soggetto portatore di diritti, derivandone che lo scambio ha bisogno di una regolamentazione esterna che però non può derivare da un potere arbitrario ed unilaterale, perché ciò sarebbe contrario alle regole stesse dello scambio. Questa regolamentazione è dunque data dal diritto, ovvero da un sistema condiviso, che permette agli scambi di conseguire una stabilità e una regolarità nuove. I soggetti così divengono realmente astratti, intercambiabili, eguali e tenuti al rispetto degli impegni presi. E’ il diritto che permetterà la costituzione dello scambio come orizzonte universale della società, svolgendo una funzione di «normalizzazione», nel senso di mettere a norma, secondo la comune misura che Marx bene individua12, sicché come l'economia di mercato «normalizza» le merci uguagliandole in una equivalenza, così opera il diritto nei confronti degli individui, eliminando formalmente le loro differenze, rendendoli così equivalenti, in quanto tutti sottoposti alla stessa norma. In questo meccanismo teso al sequestro di corpi viventi da destinare al proprio modo di produzione, si comprende come il risultato fondamentale sia solo quello di giuridicizzare lo sfruttamento fondato sul rapporto di potere che governa l’uso del lavoratore nel processo produttivo, aspetto questo che in termini marxiani può sintetizzarsi nel principio di sussunzione formale del lavoro e della società al capitale: «così pure in principio il comando del capitale sul lavoro si presentava solo come conseguenza formale del fatto che l’operaio, invece di lavorare per sé, lavora per il capitalista, e quindi sotto il capitalista»13. Ciò consente peraltro di capire da dove giunge il lavoro astratto, non come una forza produttiva bensì come un rapporto storico-sociale, segnatamente derivante dalla riduzione del lavoro a strumento di produzione che può essere usato dal capitalista in base al suo comando in virtù dell’obbligo di obbedienza assunto dal lavoratore oramai normato giuridicamente; riduzione che fa sì che le forze produttive degli operai vengano sussunte dal capitale ed estrinsecate come sue pertinenze. A margine del discorso di Pashukanis, i riferimenti marxiani appaiono essenziali, non solo perché esplicativi in via generale del fatto che la dimensione capitalistica, vivendo di sussunzione e/o espropriazione per la propria esclusiva proprietà e per il proprio esclusivo dominio, richiede che i rapporti giuridici siano universali ed astratti, cristallizzandosi tra nozioni generali come cose e persone, ma anche perché nell’ambito della problematica della transizione comunista, secondo la conseguente elaborazione teorica di Pashukanis14, il diritto è tutt’uno con lo sfruttamento e viceversa, sicché se si vuole eliminare lo sfruttamento e tutto ciò che storicamente lo ha implementato, occorre distruggere il diritto quale prerequisito dell’estinzione, cioè del processo positivo di recupero del potere da parte del proletariato. In questa puntuale prospettiva è ancora con Marx che occorre argomentare per comprendere come il diritto borghese, nell’espansione matura del capitalismo, configuri strutturali profili di organizzazione dell’accumulazione del capitale, in un processo di normalizzazione (rectius, subordinazione) sociale, la cui gestione deve contemperare «oltre la massa del materiale umano sfruttato, anche il dominio diretto e indiretto del capitalista»15, e tutto ciò in forza di una surreale processualità, formalmente inattaccabile, secondo cui il lavoratore ha cessato di esistere come individuo per diventare soggetto produttivo oramai soltanto «interessato alla merda che è costretto a produrre quanto il capitalista stesso che lo fa lavorare, il quale se ne infischia a sua volta di quel ciarpame […] un uomo che ha bisogno e chiede esattamente non più di quanto è necessario a metterlo in condizione di apportare il massimo vantaggio possibile al suo capitalista. Tutto ciò non ha alcun senso»16. Da ciò appare evidente che tutti gli elementi della struttura economica, nella specie capitalista, capitale e libero lavoratore, devono quindi ricevere una specifica qualificazione giuridica, laddove il processo di produzione riceve la sua regolamentazione mediante il contratto. Tuttavia, questo paradigma - in cui il diritto si presenta come coessenziale alla creazione di plusvalore, e dunque dove organizzazione e comando, nella fase più avanzata dell’espansione capitalistica, come prepotente rinnovazione della regola dello scambio, sono al massimo dell’attività di controllo del sistema produttivo, direttamente coinvolti nel garantire il processo di sfruttamento del lavoratore - non può non esplodere a fronte delle contraddizioni che vedono l’autorità che domina il rapporto di capitale rendersi autonoma rispetto alle stesse leggi che governano tale rapporto:

«le macchine rivoluzionano dalle fondamenta la mediazione formale del rapporto capitalistico, cioè il contratto fra operaio e capitalista. Finché si rimase sul fondamento dello scambio di merci, il primo presupposto era che il capitalista e l’operaio stessero di fronte l’uno all’altro come persone libere, come possessori di merci, indipendenti, l’uno possessore di denaro e di mezzi di produzione, l’altro possessore di forza-lavoro […] La rivoluzione operata dalle macchine nel rapporto giuridico fra compratore e venditore della forza-lavoro, [comporta] che l’intera transazione perde perfino la parvenza di un contratto fra persone libere […] Prima l’operaio vendeva la propria forza lavoro della quale disponeva come persona libera formalmente. Ora vende moglie e figli. Diventa mercante di schiavi»17.

Questi brani sono decisivi, perché il meccanismo di riproduzione dei rapporti di produzione capitalistici può sembrare qualcosa di scontato, mentre l’analisi che Marx conduce mostra come vengano a porsi le condizioni generali dello sfruttamento capitalistico in cui il diritto, attraverso il contratto di lavoro, come momento strutturale e non semplice punto di avvio del rapporto tra capitalista e lavoratore, a sua volta fondato sull'appropriazione ad opera del primo del prodotto del lavoro altrui - si presenta come «diritto sul lavoro altrui e come impossibilità del lavoro di appropriarsi del proprio prodotto»18, stabilizzandosi quindi su una produzione mediante scambio, ma che invece nasconde una appropriazione mediante scambio senza equivalenza. Come si vede, dietro lo scambio tra equivalenti, dal quale il lavoro salariato consegue la propria legittimità giuridica, si cela solo l’uguaglianza della disuguaglianza dei possessi privati, e ciò senza che il diritto che governa lo scambio mercantile venga minimamente violato: «la persona del proletario è «eguale in linea di principio» alla persona del capitalista: e ciò trova espressione nel «libero» contratto di lavoro. Ma è da questa stessa «libertà materializzata» che scaturisce per il proletario la possibilità di morire tranquillamente di fame»19. Riemerge qui nuovamente la separazione che fa dello scambio una operazione che avvantaggia solo il capitalista, con la conseguenza che invece il lavoratore, restando proprietario della propria forza-lavoro, ne ha alienato solo l’uso, il che presuppone che questa forza possa essere materialmente divisa dal proprio uso. In altri termini, la relazione contraddittoria che ne consegue, come ha ben descritto Jacques Bidet, è che il lavoratore è libero, ma è invitato a conformarsi agli ordini della direzione, a sottomettersi al suo sfruttamento. Questa anfibologia si riflette nel doppio senso di verfügen, «disporre di». Il lavoratore «dispone», verfügt, del suo corpo, della sua forza-lavoro (può cambiare padrone), ma è sempre ridotto a «metterla a disposizione», zur Verfügung, di un padrone. L’economia è politica. Il contratto produce un padrone, il quale non è però il «padrone del contratto». Non può mai dettarne integralmente i termini. Non si potrebbe più parlare di «contratto»20. In sintesi, dietro presunte corrispondenze oggettive tra proprietari alla pari, volte a supportare il processo di valorizzazione, segnatamente in forza di una normatività riferibile ad un quadro giuridico che continuamente il capitale subordina alle proprie necessità di sviluppo, si muove un andamento antagonistico che tuttavia non è in grado di occultare il fondamento sottostante al modo di produzione capitalistico, consistente nel far sopravvivere il lavoratore espropriato attraverso il salario, ma solo per riprodurlo (rectius, riproletarizzarlo) come lavoratore libero, con ciò salvaguardando il mercato della forza-lavoro. Si comprende quindi come l’espropriazione tenda a presentarsi come una legge naturale, ma che invece nasconde solo il dominio di classe che violentemente e dispoticamente riduce alla miseria proletaria. E questo dominio, pur nella sua irrazionalità, appare formalmente e funzionalmente sistematico, richiedendo che tutti gli individui, senza distinzione alcuna, vengano inseriti all’interno di uno spazio sociale per essere trattati come soggetti giuridici formalmente liberi e uguali. D’altronde, la libertà e l'uguaglianza giuridico-formale dei proletari delinea perfettamente la differenza sostanziale tra i rapporti di produzione capitalistici e quelli schiavistici. Anche nelle società schiavistiche, come ad esempio quella romana, il signore si appropria concretamente di tutto il prodotto del lavoro (mentre nella società feudale al signore va, concretamente e visibilmente, solo una parte), ma in cambio mantiene in vita lo schiavo sul quale ha un potere personale di vita e di morte. Lo schiavo è privo di diritti, è esso stesso venduto e acquistato, ma la sua esistenza materiale, fino a quando resta in vita, è incredibilmente meno precaria di quella di un proletario: «lo schiavo è come la moglie, bisogna darle di che vivere anche quando è ammalata o vecchia; il salariato è come una prostituta, si usa quando se ne ha bisogno, e si lascia poi al suo destino, libero di fare quello che vuole»21. Insomma, la dissoluzione del feudalesimo e lo smantellamento dei suoi rapporti di assoggettamento interpersonali hanno portato lo schiavo e il padrone all’emancipazione politica e alla libertà. Lo schiavo è riuscito a sottrarsi all’asservimento personale legato alla terra, mentre il padrone è sfuggito ai suoi doveri capitalizzando la sua ricchezza. A partire da allora l’uomo che lavora è sì libero di muoversi e vendere la sua forza lavoro dove e a chi vuole, ma è anche privato del controllo sulle condizioni materiali della produzione, aspetto questo che lo riporta alla subordinazione mediante la forma del contratto di lavoro, e cioè mediante il diritto come meccanismo che garantisce l'appropriazione del prodotto espropriato. Se, dunque, il capitalismo, come indefinita volontà di profitto, richiede che la norma assuma per proprio scopo quello di alimentare il profitto, in questo ambito è evidente che «il diritto non ha bisogno del capitalismo, ma è il capitalismo ad avere bisogno del diritto»22.

 

4. Regolamentazione giuridica per la mistificazione dei rapporti economici, transizione comunista e distruzione della forma giuridica

Ma se la situazione è questa, se cioè la mediazione giuridica, come elemento costitutivo dei rapporti di produzione capitalistici, appare oltre che essenziale, direttamente necessaria e produttiva a soddisfare il permanente bisogno di plusvalore - questo in nessuna maniera potrà mai venire eliminato, né con il mutamento della forma giuridica di proprietà, né con la creazione di un nuova organizzazione statuale, né tantomeno con la modalità di gestione delle imprese o di direzione complessiva dell’economia. Il diritto, perfettamente consacrato dalla legge dello scambio delle merci, e dunque del tutto connaturato alla specificità capitalistico-borghese dominata dalla ineguaglianza economica, esclude in radice che esso possa trovarsi nella disponibilità dei soggetti reali della trasformazione, apparendo strutturalmente incapace di liberare dallo sfruttamento, di prescindere dai molteplici circuiti di valorizzazione del capitale che, anzi, per perpetuare la brutalità dell’accumulazione ha soltanto bisogno di esso. Come dire, qualsiasi riproposizione, rivisitata e corretta, della forma giuridica, seppure in chiave rivoluzionaria, sarà sempre compatibile con la violenza dell’estorsione del lavoro vivo, e ciò indipendentemente dalla struttura socio-economica della classe di volta in volta dominante al potere:

«la scomparsa delle categorie del diritto borghese […] non significa affatto la loro sostituzione con nuove categorie di un diritto proletario, così come la scomparsa delle categorie del valore, del capitale, del profitto ecc. […] non significherà la comparsa di nuove categorie proletarie del valore, del capitale, della rendita e via dicendo […] la scomparsa delle categorie del diritto borghese significherà l’estinzione del diritto in generale, vale a dire la graduale scomparsa del momento giuridico nei rapporti umani»23.

Si comprende quindi come il problema della transizione comunista per Pashukanis debba necessariamente risolversi all’interno di un paradigma di totale distruzione della forma giuridica, attesa la capacità di quest’ultima di incorporare un processo dialettico che per definizione non può essere neutrale. Proprio chi mira alla rivoluzione, ritenendo di dover edificare un Diritto Proletario e uno Stato Proletario, finisce per alimentare un nuovo livello di giuridicizzazione della realtà, poiché, osserva sans phrases il giurista sovietico, questo rivoluzionario, «rivendicando al diritto proletario nuovi concetti ordinatori», non si accorge di proclamare «l’immortalità della forma giuridica», così sottraendo «questa forma a quelle condizioni storiche che ne determinarono la piena fioritura e a dichiararla capace di un perpetuo rinnovamento»24. In questi precisi termini, avverte Pashukanis, nessun diritto socialista o proletario può mai darsi, al pari di uno Stato che non è un elemento imparziale di cui è sufficiente appropriarsi per poi riadattarlo secondo un determinato contenuto, atteso che il fenomeno giuridico costituirà sempre l’occasione per mistificare lo sfruttamento con mezzi e modi diversi, e tutto questo perché tra valore di scambio, a cui il diritto dà forma, e comando (sia esso dello Stato nazifascista, come di quello liberal-democratico o socialista) non esiste mediazione, la quale, se operante, viene immediatamente smascherata, nel suo dispositivo di dominio e violenza, dalla lotta di classe che per definizione non concepisce alcuna riassunzione giuridica. Ne consegue che nessuna transizione comunista è possibile sulla base delle classiche categorie giuridiche legate al valore e al lavoro, sempre più concatenate in funzione della totalità del rapporto di capitale. «La lotta comunista - scrive Antonio Negri - diviene coerentemente lotta contro il lavoro, contro lo Stato, contro il diritto che costituisce la forma autoritaria specifica del rapporto fra Stato e organizzazione del lavoro»25. La stessa impalcatura politico-giuridica del diritto sovietico reitera questo preteso orizzonte di liberazione cui dovrebbe essere propulsore un nuovo diritto di classe, finendo inesorabilmente per sottrarsi ad ogni prospettiva di concreta emancipazione:

«Finché il compito di costruire un’economia pianificata non sarà assolto resterà in vita la connessione mercantile tra singole aziende e gruppi di aziende e dunque resterà in vita anche la forma giuridica […] Finché le aziende di Stato sono subordinate alle condizioni della circolazione, il collegamento fra di loro non si realizzerà nella forma di una interdipendenza tecnica, ma nella forma di contratti. In relazione a ciò diventa bensì possibile e necessaria una regolazione puramente giuridica, cioè giudiziaria, dei rapporti, ma con essa si conserva e andrà indubbiamente rafforzandosi col tempo una direzione immediata, cioè tecnico-amministrativa, tramite la subordinazione ad un piano economico comune. Da una parte, dunque, abbiamo una vita economica che si svolge in categorie naturali e una connessione sociale tra le unità produttive che assume la sua forma razionale e non mascherata (non mercantile): a ciò corrisponde il metodo delle prescrizioni dirette, cioè tecnico-contenutistiche, in guisa di programmi, piani di produzione e distribuzione ecc., di istruzioni concrete che cambiano col cambiare delle condizioni. Dall’altra parte abbiamo poi una connessione tra unità economiche che si svolge nella forma del valore delle merci circolanti e, quindi, nella forma giuridica del contratto […] E’ di per sé evidente che la prima tendenza non comporta prospettiva alcuna di sviluppo per il diritto: la sua progressiva vittoria significherà una graduale estinzione della forma giuridica in generale […] la forma giuridica, come tale, non possiede in sé, nella nostra epoca di transizione, quelle illimitate possibilità che si schiusero alle sue origini nel quadro della società borghese capitalistica. Al contrario, essa ci rinchiude nei suoi angusti orizzonti solo temporaneamente: sussiste solo per esaurirsi definitivamente […] le aziende appartenenti allo Stato sovietico assolvono ad un medesimo compito comune, ma, in quanto lavorano coi metodi del mercato, hanno ciascuna il proprio distinto interesse e si oppongono quindi l’una all’altra, come acquirenti e venditori, operano a proprio rischio e pericolo e debbono dunque necessariamente trovarsi in una correlazione giuridica»26.

Nello specifico Pashukanis ritiene che solo una regolamentazione non giuridica, «una direzione immediata, cioè tecnico-amministrativa», appare in grado di non mistificare la realtà, posto che tra essa e gli individui non tendono a frapporsi degli astratti e formali concetti di finta eguaglianza e libertà. Ne deriva che in una economia in cui continuerà a prevalere la prospettazione di una «correlazione giuridica», stretta nella morsa della contrapposizione tradizionale tra diritti ed obblighi, ed altresì fondata sulla disomogeneità sostanziale dei soggetti operanti, la realtà sociale ad essa legata risulterà sempre falsificata in quanto espressione del dominio di classe, laddove invece la correlazione tecnico-amministrativa, basata su un contatto immediato, del tutto privo di contenuti ideologici volti a supportare i rapporti di sfruttamento, può essere capace di esprimere una dimensione continuativa e relazionale volta al controllo collettivo della gestione economica della società, in cui tutte le possibilità e doverosità reciproche degli individui tendono ad inserirsi in forma del tutto slegata da ogni logica di dominio e sfruttamento27. In tale ottica il cosiddetto diritto sovietico per Pashukanis non si pone affatto in una prospettiva di novità rivoluzionaria, ma anzi, sin dalla sua prima fase con la NEP, esso non è nient’altro che una riedizione del diritto borghese mirante alla reintroduzione, vagamente corretta, di elementi capitalistici nella produzione. Alla base vi è la prospettazione del cosiddetto Stato-piano, e cioè di una pianificazione della produzione che tuttavia appare impensabile senza il controllo statale, ovvero senza la predisposizione di una adeguata struttura giuridica, unitamente a connotazioni politiche che possono anche essere diverse, ma che in fondo presentano tutte la stessa matrice. Le funzioni amministrative concernenti la gestione dei mezzi di produzione, asseritamente divenute di proprietà comune, di fatto si cristallizzano in un meccanismo di dominio impersonale, purtuttavia simulando di operare alla stregua di una unica forza sociale e collettiva o come sottofondo dell’organizzazione post-rivoluzionaria. Il risultato è dunque solo quello che vede i produttori non avere alcun tipo di controllo diretto su ciò che dovrebbe costituire un processo collettivo del lavoro sociale, controllo invece che resta affidato a categorie giuridiche astratte, segnatamente sfocianti in istituzioni ed apparati di segno burocratico, che si muovono e governano indipendentemente dalla volontà dei lavoratori28. Di qui il Partito che sostituisce il proletariato e che interpreta i suoi bisogni e le sue necessità, ed il Piano che, anziché essere espressione della cooperazione dei lavoratori, sussume questa imbrigliando ogni sua forza innovativa, rielaborando così il suo ordine, ripartendo il prodotto sociale, riassettando gli interessi in conflitto, rinchiudendo ogni dinamismo operaio nella figura di pura merce, per venire così, in quanto merce, dall’alto socializzato, controllato e disciplinato29.

 

5. Autovalorizzazione, antagonismo e comunismo

Insomma, invertendo l’ordine dei fattori, sembra arguire Pashukanis, il prodotto non cambia, in quanto nel dualismo perennemente conflittuale tra chi impone un dato sistema economico ed intende riprodurlo, e chi lotta contro di esso mirando al suo superamento, è e sarà sempre la mediazione giuridica a stabilire i termini della questione, sia perché il diritto, di qualunque estrazione esso sia, presenterà sistematicamente la caratteristica di essere di classe, cioè di garantire gli interessi di una parte a scapito dell’altra, sia perché in ogni caso, come ricorda Marx, tra due diritti eguali a decidere è la forza ed «anche il diritto del più forte è un diritto»30, sicché «diritto e arbitrio - concetti che parrebbero contraddittori - sono in realtà strettamente connessi l’uno all’altro»31. La conseguenza pratica di tutto ciò non può, dunque, che essere quella dell’autovalorizzazione proletaria32, come radicale opposizione a qualsiasi tentativo di ristrutturazione economica e giuridica, come capacità del soggetto di sottrarsi al valore di scambio, unico elemento grazie al quale ogni tipo di sfruttamento capitalistico - che pretende di trovare nel diritto e nello Stato i garanti del suo sistema e della sua riproduzione - si alimenta e si perpetua, per invece fondarsi sul valore d’uso (del lavoro) contro la sua sussunzione capitalistica, cioè sul riconoscimento della propria indipendente e autonoma forza produttiva che vuole separarsi dal capitale e iniziare a calcolare ogni avanzamento proletario in termini comunisti. E questo soggetto, giuridicamente ribelle e nichilista, costringendo il capitale a rincorrerlo continuamente per piegarlo alle proprie logiche di comando, finisce per diventare creatore permanente di sovversione destrutturante. La transizione per Pashukanis raggiunge qui la sua massima radicalità concettuale, segnatamente nel denunciare non solo che essa, nella sua formulazione sovietica, rappresenta nient’altro che una variante dello sviluppo capitalistico, bisognosa per affermarsi di agenti esterni (diritto e Stato) alla produttività del lavoro cooperativo, quest’ultima vera espressione di ricchezza e mezzo di reale costruzione democratica dal basso - derivandone pertanto una condizione in cui il socialismo, attraverso lo Stato, continua ancora a configurarsi come nuova proliferazione guidata della legge del valore, per cui capitalismo e socialismo non fanno altro che respirare la stessa aria - ma anche l’impossibilità per il proletariato di ricomporsi antagonisticamente, parodiando se del caso una nuova esistenza mediante il reimpiego delle categorie giuridiche (e politiche) borghesi33. E difatti, negli ultimi due capitoli della Teoria Generale (Diritto e Morale – Diritto e Torto), Pashukanis respingerà ogni possibilità di subordinare la lotta di classe a nuove logiche normative, seppure di carattere socialista:

«la morale stessa, come il diritto e lo Stato, sono forme della società borghese. Se il proletariato è costretto a servirsene, ciò non significa affatto che quelle forme possano svilupparsi per una integrazione di contenuti socialisti. Esse sono incapaci a contenerli e dovranno estinguersi via via che quei contenuti andranno realizzandosi. Nondimeno, nella presente epoca di transizione, il proletariato deve utilizzare nel proprio interesse di classe queste forme ereditate dalla società borghese e deve al tempo stesso condurle ad esaurimento. A tal fine il proletariato deve innanzi tutto avere una idea chiara, libera da nebbie ideologiche, della loro origine storica; deve dunque avere un atteggiamento serenamente critico non soltanto verso lo Stato borghese e la morale proletaria, deve cioè intendere la necessità storica della loro esistenza così come della loro scomparsa»34.

Analogamente nel diritto penale:

«reato e pena diventano tali, assumono cioè la loro natura giuridica, sulla base del riscatto convenzionale. Finché si conserva questa forma la lotta di classe si compie come giurisdizione, mentre – inversamente – il termine stesso di diritto penale perde ogni significato se questo rapporto di equivalenza si dissolve […] Ma poiché i rapporti sociali non si limitano ad essere rapporti astratti di astratti possessori di merci, il tribunale penale è non soltanto l’incarnazione della astratta forma giuridica, bensì anche uno strumento immediato della lotta di classe. E quanto più acuta ed aspra si fa questa lotta, tanto più difficile diviene l’attuazione del dominio di classe nella forma del diritto. In tal caso, il posto dell’«imparziale» tribunale con le sue garanzie è preso dalla diretta organizzazione della vendetta di classe, che orienta la sua azione soltanto su considerazioni politiche»35.

Ora, dal punto di vista formale, i diritti costituiscono la registrazione di rapporti di forza, laddove da un punto di vista materiale, la loro rivendicazione esplicita quell’itinerario che pone continuamente in discussione l’assetto sociale consolidato, sicché la realtà sociale, perennemente in movimento rispetto alla rigidità della forma giuridica, viene insistentemente forzata dalle pratiche che affermano i diritti stessi. Marx, ad esempio, individua questo momento con grande acume quando in un passo del Capitale ricorda che

«appena la ribellione della classe operaia, a mano a mano più ampia, ebbe costretto lo Stato ad abbreviare con la forza il tempo di lavoro e a imporre anzitutto una giornata lavorativa normale alla fabbrica propriamente detta, da quel momento dunque in cui un aumento della produzione di plusvalore mediante il prolungamento della giornata lavorativa fu precluso una volta per tutte, il capitale si gettò a tutta forza e con piena consapevolezza sulla produzione di plusvalore relativo mediante un accelerato sviluppo del sistema delle macchine»36.

Pashukanis, come si è visto, sembra argomentare conformemente nel cogliere la tendenza insita nel diritto borghese volta a riprodurre senza tregua le proprie logiche di controllo sociale, con ciò evidenziando lo scarto tra la formalità del diritto e le concrete istanze materiali che si esprimono nella rivendicazione di una condizione di vita liberata dal dominio. Questo riconoscimento avviene però sempre mediante le regole del diritto, il che implica da un lato una nuova ristrutturazione del sistema giuridico, dall’altro un’abile neutralizzazione della lotta sociale, per cui ogni momento di conquista operaia, come nel brano marxiano riportato, finisce per diventare sempre riorganizzazione tecnica e giuridica dello sfruttamento capitalistico. In altri termini, riprodurre le categorie giuridiche borghesi da un punto di vista proletario, comporta un ricadere nell’ennesimo nuovo potere normativo già perfettamente radicato in un processo dominato dal valore di scambio, il cui scopo è quello di catturare, e successivamente controllare, l’autonomia del lavoro vivo per porlo come strumento della propria riproduzione, e tutto ciò attraverso il diritto posto dallo Stato, dai giudici e dalle istituzioni amministrative37. Da parte sua la forma giuridica, la cui natura è tendenzialmente sistematica perché volta a formalizzare i rapporti di produzione e i loro effetti, provvederà sempre a legittimare la creazione di plusvalore, la produzione e la circolazione di merci, valori e denaro, facendo esistere il proletariato solo soggettivamente in contrapposizione a un’accumulazione di valori di scambio e di denaro, che appare diventata «la vera comunità, che egli cerca di consumare e dalla quale viene consumato»38. «L’estinzione del diritto e, con esso, dello Stato – scrive Pashukanis - si verifica, secondo Marx, solo quando «il lavoro cessando di essere un mezzo per la esistenza, diviene un bisogno primario della vita», cioè

quando con lo sviluppo multiforme degli individui si accresceranno altresì le forze produttive, quando ciascuno lavorerà spontaneamente secondo le sue capacità [...] in una parola quando sarà definitivamente superata la forma del rapporto di equivalente [...] In pari tempo Marx pone in luce la fondamentale condizione di esistenza della forma giuridica, che si radica nella stessa economia: l’unificazione, cioè, delle condizioni del lavoro attuata sulla base del principio dello scambio di equivalenti; egli scopre dunque il profondo nesso interno che collega la forma giuridica alla forma merce. Una società che, per lo stato delle sue forze produttive, è costretta a conservare il rapporto di equivalenza tra il dispendio di lavoro e la remunerazione in una forma che, sia pure alla lontana, ricorda lo scambio di merci-valori, sarà costretta a conservare anche la forma giuridica»39.

Ne consegue che il presupposto reale del superamento della forma e dell’ideologia giuridica è determinato non dalla mera sostituzione del mercato con forme di organizzazione della proprietà sociale, bensì dalla condizione della società in cui venga a cadere il diritto all’appropriazione del prodotto sociale, elemento su cui si basa la sopravvivenza del modo di produzione capitalistico, e ciò quindi oltre la proprietà privata dei mezzi di produzione, il salario ed il mercato. Come dire che la teoria dell’estinzione può avere senso solo a condizione che venga abolita la merce, cioè che smetta di operare la legge del valore. Il marxismo tradizionale ha ritenuto che le condizioni dell’estinzione del diritto e dello Stato fossero da rinvenire nel contesto di una semplice socializzazione della proprietà come sua riappropriazione, ma ciò non è stato affatto sufficiente, dal momento che «non è contro la proprietà, semplicemente, ma contro la base della proprietà, contro la legge del valore-lavoro come base della proprietà e regola dello sfruttamento che si muove la lotta degli operai. […] La proprietà sociale non è di per sé la condizione dell’estinzione del diritto, anzi essa è perfettamente compatibile con il progresso del capitale»40. Come sottolinea Marx, essa è solo «la soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso»41, cioè un falso superamento della proprietà privata, dato che esso avviene sul terreno stesso della proprietà privata. In questo senso la transizione, giunta a maturità, è il processo di abolizione della legge del valore e quindi delle categorie economiche fondanti il sistema capitalistico: la merce, il denaro, il salario e il capitale. Nella misura in cui l’esistenza delle merci ha trasformato gli individui in soggetti giuridici, così l’abolizione delle categorie del mercato deve accompagnarsi all’estinzione del diritto. Il comunismo è il suo punto di arrivo, che fa saltare il diritto borghese come diritto fondato sullo scambio di lavoro salariato, cioè sullo scambio legato alla legge del valore: «Il comunismo non è la realizzazione dell’intercambiabilità del valore, il vigere del denaro come misura reale. Il comunismo è negazione di ogni misura, è affermazione della pluralità più esasperata. Della creatività»42. E del desiderio, dalla cui codificazione da parte della forma-merce i diritti naturali borghesi hanno avuto origine, per cui decodificare il desiderio non può che voler dire prescindere tanto dai diritti formali che da quelli sostanziali, e pertanto rendersi aperti allo sviluppo continuo di processi di auto-organizzazione. La conseguenza è che fino a quando perdureranno gli attuali rapporti di produzione capitalistici, lo sviluppo delle forze produttive tenderà a svolgersi sempre nel contesto generalizzato della società divisa in classi, ingabbiato a sua volta dalla forma giuridica quale latenza del valore di scambio, il cui scopo è solo quello di attuare il dominio generale dell’uomo sull’uomo. Ma per colui che subisce questo dominio, fuoriuscire da esso - come raccomanda Pashukanis - non equivale semplicemente a fuoriuscire dalla legalità che nell’ottica della scienza giuridica, oramai perfettamente attrezzata alla serena neutralizzazione degli antagonismi che si generano nella società capitalistica, costituisce solo un atto contra legem et contra ius; significa soprattutto dover compiere un’impresa disumana che consiste nel fuoriuscire da quel radicamento feticistico43 pazientemente inculcato da una millenaria organizzazione di oppressione e sfruttamento. «Il superamento della forma giuridica si connette non solo con l’uscita dalla società borghese, ma anche con la radicale eliminazione di tutte le sue sopravvivenze»44.


Note 
1 Il saggio che segue, con parziali modifiche, è stato pubblicato in Brasile in un lavoro collettivo dal titolo Léxico Pachukaniano, sotto la voce Extinção do direito (trad. dall’italiano di Márcio Bilharinho Naves), Lutas Anticapital, Marília-São Paulo, 2020, pp. 87-107.
2 Evgeny Bronislavovich Pashukanis nasce il 23 febbraio1891 nella città di Starica (Russia centrale) da una famiglia di radici lituane che nel 1906 si trasferisce a San Pietroburgo. Dopo il diploma conseguito nel 1909 entra nella facoltà di Giurisprudenza dell'Università di San Pietroburgo, ma a seguito di sue attive partecipazioni al nascente movimento rivoluzionario, si trasferisce a Monaco di Baviera dove consegue la laurea in Giurisprudenza. Rientra in Russia nel 1914 e quattro anni dopo entra a far parte del partito comunista russo, lavorando, appena dopo la Rivoluzione d’Ottobre, come giudice nella regione di Mosca, divenendo membro del Comitato esecutivo centrale russo. Dal 1919 al 1920 diviene Capo del Dipartimento di Giustizia del Comitato Esecutivo. Dal 1920 al 1923 lavora presso il Commissariato popolare per gli affari esteri in qualità di vice capo del dipartimento economico e legale, per poi venire inviato a Berlino come consigliere presso l'ambasciata. Pashukanis partecipò anche alla famosa stesura del Trattato di Rapallo, concluso tra Russia e Germania nell’aprile del 1922, anno nel quale, assieme a Peter Stuchka, eminente giurista di quel tempo, organizza una sezione della Teoria generale del diritto e dello Stato presso l'Accademia comunista. In collaborazione con Stuchka e Vladimir Adoratsky nel periodo che va dal 1925 al 1927 contribuisce alla redazione della prima Enciclopedia giuridica marxista in tre volumi. A partire dal 1927 diviene membro a pieno titolo dell’Accademia comunista per essere nominato vicepresidente e successivamente presidente dell’Istituto per la costruzione del diritto sovietico. Nel 1936 viene nominato vice commissario popolare di giustizia dell'URSS, e capo del consiglio scientifico e metodologico, nonché membro effettivo del gruppo preposto a stendere i lavori preparatori della Costituzione sovietica del 1936, nota anche come la «Costituzione di Stalin». Autore di numerose pubblicazioni giuridiche, comincerà ad essere inviso ai vertici del partito - in particolare per la sua concezione dell’estinzione del diritto e dello Stato nel passaggio ad una società comunista e, dunque, per la ritenuta impossibilità di costruire un diritto proletario. La sua fine sarà segnata dalla nuova direzione che a partire dal 1936 assunse la politica di Stalin, legata invece al massimo rafforzamento del diritto e dello Stato, sostanzialmente mirato alla necessità storica di contrastare il cosiddetto «accerchiamento capitalistico» teso a smembrare l’Unione Sovietica, e, pertanto, come «spia e sabotatore», verrà arrestato il 20 gennaio del 1937 e detenuto sino al 4 settembre dello stesso anno, data in cui fu emessa la sentenza di condanna a morte mediante fucilazione, eseguita lo stesso giorno. La motivazione della sentenza fu quella di aver «partecipato a un’organizzazione terroristica controrivoluzionaria». Solo nel 1956, a seguito del processo di destalinizzazione avviato da Nikita Kruscev, verrà completamente riabilitato per assenza di prove.
3 E. B. Pašukanis, Obščaja teorija prava i marksizm, La Teoria generale del diritto e il marxismo, tr. it. e introduzione (pp. V-LI) di U. Cerroni, in P. I. Stučka, E. B. Pašukanis, A. J. Vyšinskij, M. S. Strogovič, Teorie sovietiche del diritto, Giuffé, Milano, 1964, p. 104 (corsivo mio). D’ora in poi TGDM e il numero di pagina. Le citazioni di Marx provengono dalla Critica al programma di Gotha, Savelli, Roma, 1975, p. 42.
4 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politicaGrundrisse»), Einaudi, Torino, 1983, vol. I, p. 188.
5 TGDM, p. 157, in nota.
6 TGDM, pp. 173-174 (corsivo mio).
7 A. Negri, Rileggendo Pašukanis: note di discussione, in La Forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 170.
8 TGDM, p. 159.
9 TGDM, p. 80, (corsivo mio).
10 «La legge del valore – scrive Antonio Negri – si comincia a configurare come legge del plusvalore attraverso la massima accentuazione dell’antagonismo dei soggetti. Ma si definisce in termini propri soltanto nel momento nel quale il processo di lavoro è sussunto nel capitale. La teoria del plusvalore è perciò, immediatamente, teoria dello sfruttamento», in A. Negri, Marx oltre Marx, Feltrinelli, Milano, 1979, p. 83.
11 K. Marx, Grundrisse, cit., vol. I, p. 222.
12 In particolare nella Critica al programma di Gotha del 1875.
13 K. Marx, Il Capitale, Libro I, Sez. IV, cap. 11, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 372.
14 Con espresso riferimento alla complessiva elaborazione giuridico-filosofica di Pashukanis, mi permetto di rinviare a due miei contributi interamente dedicati al giurista sovietico: Pašukanis e la critica marxista del diritto borghese, Phasar Edizioni, Firenze, 2013 e Note su ‘Hegel. Stato e diritto’ di Evgeny Pashukanis, Phasar Edizioni, Firenze, 2020.
15 K. Marx, Il Capitale, cit., Libro I, Sez. VII, cap. 22, p. 649.
16 K. Marx, Grundrisse, cit., vol. I, p. 222.
17 K. Marx, Il Capitale, cit., Libro I, Sez. IV, cap. 13, pp. 438-439-440, il riferimento tra parentesi è mio; corsivi miei.
18 K. Marx, Grundrisse, cit., vol. I, p. 436, corsivo mio.
19 TGDM, pp. 205-206. E così, ciascun proletario è obbligato a rispettare il contratto, poiché le imposizioni che ne derivano sono state liberamente accolte. Naturalmente tale vicenda che vede il proletario aderirvi consapevolmente (ma solo per necessità), contempla pure l’eventualità di venire perseguitato civilmente e penalmente nel caso di violazione di quanto convenuto contrattualmente. Da qui l’apoteosi della «giustizia di classe», ben descritta da Engels, il quale, nel citare un articolo del Manchester Guardian, riporta il passaggio di una decisione di un giudice che nel rivolgersi a un lavoratore a cui non ha dato ragione, afferma: «Voi eravate libero di decidere, non dovevate accettare quel contratto se non ne avevate voglia; ma ora che vi siete spontaneamente assoggettato a quel contratto, dovete rispettarlo». E con la nota di Engels che segue: «E così l’operaio deve subire anche gli scherni del giudice di pace, che è un borghese, e della legge, imposta dalla borghesia», in F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. IV, Editori Riuniti, Roma, 1972, p. 404.
20 J. Bidet, Il corpo biopolitico nel Capitale di K. Marx, in Consecutio Temporum. Rivista critica della postmodernità, Roma, n. 2/2012, p. 55.
21 In un passaggio nel film Queimada del 1969 di Gillo Pontecorvo, in cui un funzionario inglese spiega ai padroni di schiavi di un’isola dei mari del sud perché conviene liberarli. Trattasi comunque di una definizione in parte ripresa da Engels, e che si ritrova in F. Engels, I principi del comunismo, in K. Marx - F. Engels, Opere Complete, 1845-1848, vol. 6, Editori Riuniti, Roma, 1973, pp. 360-377.
22 N. Irti, Nichilismo giuridico, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 113.
23 TGDM, p. 103.
24 TGDM, p. 103.
25 A. Negri, Rileggendo Pašukanis: note di discussione, cit., p. 192.
26 TGDM, pp. 177-178-180-181.
27 Si veda M. Cossutta, Formalismo sovietico. Delle teorie giuridiche di Vyšinskij, Stučka e Pašukanis, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992, pp. 151-154.
28 Burocrazia che già Lenin, profeticamente, invitava a combattere, segnalando nel 1919 come «i Soviet, i quali, secondo il loro programma sono gli organi del governo esercitato dai lavoratori, sono in realtà l’organo del governo per i lavoratori, esercitato dallo strato d’avanguardia del proletariato, ma non dalle masse lavoratrici», in V. I. Lenin, VIII Congresso del PCR, in Opere Complete, vol. 29 [marzo - agosto 1919], Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 164.
29 Sarà difatti con il modello stalinista che il diritto, come inossidabile dottrina, si eleverà a dispositivo di giustificazione della politica statuale e del controllo tecnocratico della società. Cfr. W. Paul, Der aktuelle Begriff marxistischer Rechtstheorie, in Probleme der marxistischen Rechtstheorie, (a cura di N. Reich), Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M., 1972, p. 76.
30 K. Marx, Grundrisse, cit., vol. I, p. 10.
31 TGDM, p. 180.
32 Il concetto di autovalorizzazione va qui inteso come processo con cui la classe vuole sottrarsi al rapporto di valorizzazione capitalistico, e pertanto come rafforzamento della densità ontologica proletaria nello scontro con l’operatività giuridica del comando capitalistico, sicché, in questi termini, «autovalorizzazione vuol dire che questo soggetto, se è operaio, pretende più salario e meno lavoro; se è studente di impostare criticamente i propri studi, di essere pagato per questa formazione e di non subire controlli disciplinari; che infine, a chi lavora e a chi no, indica di essere padroni della propria vita e di sviluppare “contropotere” nei confronti di padroni, politici, preti e poliziotti, organizzandosi nell’edificare forme comuni di vita», in A. Negri, Domination et sabotage. Entretien avec Antonio Negri, in Vacarme (revue), Paris, 2019.
33 Per molti versi, quanta similitudine con l’esperienza italiana degli anni Settanta sviluppata dal marxismo critico dell’autonomia di classe rivoluzionaria, quando in particolare si osserva che «il partito del proletariato è l’anti-Stato, è il suo rovescio eguale. L’indipendenza del proletariato è ricalcata sull’autonomia del politico capitalista. La transizione è vista come operatività statale. Prima la presa del potere, poi il socialismo. La teoria dei due tempi domina intera, in questa prospettiva. Prima l’avanguardia poi le masse. Lo Stato socialista come avanguardia, - di chi? E poi? In realtà l’isolamento delle funzioni d’avanguardia riproduce l’autonomia del politico borghese, lo riproduce intero», in A. Negri, Politica di classe: il motore e la forma. Le cinque campagne oggi, Machina Libri, Milano, 1980, p. 19.
34 TGDM, pp. 208-209.
35 TGDM, p. 225.
36 K. Marx, Il Capitale, cit., vol. I, p. 453. Da qui, peraltro, una nuova occasione di divisione della classe operaia unificata dalla lotta, mediante la nascita dell’operaio professionale, quale costruzione «giuridica» separata rispetto al proletariato complessivo.
37 La giurisprudenza, d’altronde, farà solo finta che possa darsi un’autonomia della società civile e dei suoi poteri giuridici e normativi, dato che la forma-comando è già fissata nella forma-Stato.
38 K. Marx, Grundrisse, cit., vol. I, p. 476.
39 TGDM, pp. 105-106 (ultimo corsivo mio).
40 A. Negri, Rileggendo Pašukanis: note di discussione, cit., pp. 191-192.
41 K. Marx, Il Capitale, cit., vol. III, Sez. V, cap. 27, p. 518.
42 A. Negri, Marx oltre Marx, cit., p. 44. O, come dice Louis Althusser, «far tabula rasa delle forme […] esistenti, perché incompatibili con l’obiettivo dell’unità», in L. Althusser, Écrits philosophiques et politiques (éd. par F. Matheron), Stock/Imec, Paris, 1997, vol. II, p. 127.
43 Radicamento feticistico che potrebbe sintetizzarsi in una frase che Kafka, ne Il Processo, fa dire ad un suo personaggio: «Vedi, Willem, ammette di non conoscere la legge e, al tempo stesso, afferma di essere innocente», in F. Kafka, Il Processo, Newton Compton editori, Roma, 1989, p. 21.
44 TGDM, p. 106.

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