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ospite ingrato

Totalità, critica e mediazione

Dalla crisi del marxismo all’ultimo Fortini

di Andrea Cavazzini

external content.np94sd9lUna discussione su totalità, critica e mediazione è senz’altro un’occasione importante per riprendere questi concetti e riformularne la genealogia e le implicazioni.

Mi pare che si possa iniziare cercando di situare il problema della totalità (e quindi del pensiero dialettico) nella storia discontinua e contraddittoria del movimento comunista, nelle sue crisi e nella sua dissoluzione alla fi del Novecento. Non mi pare necessario insistere sulle ragioni di considerare questa storia come una storia provvisoriamente conclusa: questa constatazione mi sembra non dover essere associata né alla disperazione né all’euforia, ma credo sia imposta dal bilancio della fi del Novecento, a trent’anni dalla dissoluzione dell’URSS e a quarantacinque dalla fi della Rivoluzione Culturale. In compenso, il problema resta interamente aperto rispetto alla possibilità di individuare e riconoscere un’eredità possibile di questa sequenza storica.

Un recupero o un rilancio delle categorie intellettuali associate al marxismo dovrebbero, in qualche modo, farsi carico della storia attraverso cui tali categorie arrivano fino a noi, e del modo in cui le nostre attuali forme di comprensione del mondo dipendono anche da questa storia, dalle riscritture, dalle cancellazioni e dalle deformazioni che essa ha imposto ai concetti e ai discorsi che oggi si offrono alla nostra interpretazione e ai nostri eventuali riusi. Nessun confronto con il pensiero o la teoria di Marx e della tradizione marxista può evitare di costruire una teoria della ricezione che dia un senso non apologetico o metaforico al termine “tradizione”: con ciò’ si vuol dire che l’insieme o gli insiemi di concetti di volta in volta designati da locuzioni come “critica dell’economia politica”, “materialismo storico”, “pensiero dialettico”, eccetera, non possono essere considerati come trasparenti, dati ad una lettura oggettiva, disponibili per un’appropriazione immediata che trascuri o rimuova le storie di cui essi sono i sintomi.

Si possono in tal senso riprendere le indicazioni di Louis Althusser in merito alla fusione tra la teoria di Marx e il movimento operaio, che avrebbe trasformato la natura di entrambi e dato luogo alla singolarità del comunismo moderno; e quelle di Max Horkheimer secondo cui la Teoria critica, cioè quella inaugurata da Marx, non è una semplice operazione conoscitiva, ma incorpora ciò che Kant avrebbe chiamato un bisogno della ragione, cioè un interesse fondamentale rivolto all’emancipazione.

Una ricostruzione della parabola delle categorie dialettiche in seno al movimento comunista novecentesco dovrebbe quindi prendere in considerazione i diversi aspetti attraverso i quali tali categorie diventano operatorie nel discorso e nella pratica: a) la loro appartenenza ad un sistema coerente di concetti; b) il loro essere inscritte in diverse congiunture, e quindi esposte al gioco delle appropriazioni, dei conflitti, delle riformulazioni, imposto dal confronto tra situazioni storiche e pratiche politiche determinate; c) il loro rapporto con un percorso di rottura degli schemi dominanti di riproduzione ideologica e di conquista di una padronanza effettiva delle condizioni di esistenza da parte di un soggetto storico.

Seguendo questa triplice pista – e riconosco fin d’ora che, in quanto segue, il primo aspetto non è sviluppato quanto gli altri due, ma lo spazio per un’esposizione sistematica delle categorie dialettiche manca evidentemente in questa sede – cercherò di caratterizzare schematicamente il percorso lungo il quale l’idea della totalità ha costituito, o cessato di costituire, una posta in gioco dei conflitti interni al movimento comunista e, al tempo stesso, l’operatore dell’autodeterminazione di una umwälzende Praxis.

Espongo dunque qui di seguito1 tre punti schematici il cui scopo è di tracciare una genealogia dell’appropriazione, del blocco e infine della crisi di questa idea e dell’orizzonte dialettico entro una sequenza storica determinata: quella che va dal marxismo occidentale fondato da Lukács negli anni Venti fino alla crisi finale delle prospettive rivoluzionarie in Occidente alla fine degli anni Settanta, includendovi l’inevitabile elaborazione del riflusso dell’ondata rivoluzionaria in cui siamo ancora implicati malgrado i decenni trascorsi.

 

I.

Il concetto di totalità ha uno statuto apparentemente paradossale nella tradizione che comincia con Hegel e che il giovane Lukács trasmette al marxismo novecentesco. Innanzitutto, la totalità non è mai una realtà data, ma un orizzonte di totalizzazione, una possibilità, inerente ad una certa posizione della coscienza, di riconoscere una coerenza e un’universalità tendenziali nell’insieme dell’esperienza, e proprio là dove questa sembra implicare dei conflitti e delle contraddizioni. La totalità è quindi data come prospettiva di una più grande armonia tra gli aspetti diversi e dissonanti della vita, di una comunicazione più intensa tra gli uomini presenti, passati e venturi e tra i momenti conflittuali interni ad ogni individuo. Ma essa ha un lato profondamente problematico, poiché la coscienza di cui è il correlato non può costituirsi al di fuori di una congiuntura storica che resta irriducibilmente contingente: senza Valmy e Jena, niente Fenomenologia dello Spirito, senza la costituzione dei Soviet e della Terza Internazionale, niente Storia e coscienza di classe.

La totalità è quindi soggettiva, e siccome la soggettività totalizzatrice emerge come tale costruendosi intorno ad un punto di vista storicamente privilegiato, il fatto che tale totalità sia più o meno costruibile entro operazioni discorsive e concettuali concrete dipenderà dalla contingenza imprevedibile della storia. Salvo credere che lo Spirito, l’Uomo, il Proletariato o le Forze produttive guideranno necessariamente il processo storico a dar vita a tale punto di vista. Ma questo è appunto un aspetto della tradizione dialettica, cioè l’ineluttabilità dello sviluppo storico che rende possibile la totalizzazione, di cui il lutto dovrebbe esser stato consumato da tempo (lo si ritrova invece in autori il cui avvicinamento è inconsueto, quali Domenico Losurdo e Antonio Negri).

Due conseguenze di questa nozione di totalità:

a) il capitalismo in quanto tale non può costituire una totalità, per il semplice fatto che esso non costituisce un punto di vista coerente sull’esistenza umana, ma un dispositivo anonimo di sottomissione al calcolo del profitto, riassunto nella formula D M D’. Come Lukács aveva ben visto nel 1923, il Capitale può dar luogo ad un rapporto onnipresente e pervasivo, che determina la struttura di ogni tipo di interazione sociale, ma non ad una presunzione di universalità e coerenza dell’esperienza;

b) dei gruppi sociali concreti possono, in certe costellazioni storiche, esprimere una coscienza della totalità; ma, in società conflittuali e segnate dalla divisione sociale e tecnica del lavoro, una tale coscienza sarà sempre parziale, presuntiva e provvisoria, esposta all’alea delle congiunture politiche e dei cicli della trasformazione sociale. La Riforma protestante, la noblesse de robe giansenista, la fase giacobina della Rivoluzione francese, la cultura classica tedesca, il movimento operaio socialista e comunista, le sequenze mondiali delle lotte politiche e sociali tra il 1945 e il 1980, sono stati dei luoghi in cui delle figure parziali della totalità si sono manifestate, in cui una consistenza possibile dell’esperienza collettiva e individuale è apparsa, benché sempre per specula et in aenigmate. Ma questo significa anche la possibilità di un conflitto tra diverse figure storiche della coscienza totalizzatrice (ad esempio tra il Partito e la Classe, o tra il Partito e le Masse, come nell’esperienza cinese, o ancora, lungo tutta la storia moderna e oltre, tra il Politico e l’Intellettuale); e la necessaria limitatezza, spaziale e temporale, della capacità di ciascuna figura di esprimere la totalità in modo adeguato.

È forse a partire da questa parzialità e contingenza delle figure dialettiche che si deve interrogare la loro obsolescenza apparente nel presente che viviamo.

 

II.

Il passaggio dall’egemonia delle categorie dialettiche a quella dei discorsi dell’immanenza, della differenza e della discontinuità – si potrebbe dire: da Lukács e Adorno alla posterità filosofica dello strutturalismo – è un fenomeno che ha riguardato non solo il campo delle teorie critiche, e quindi quello della produzione intellettuale universitaria ed editoriale, ma anche e principalmente la coscienza spontanea di diverse generazioni militanti o engagèes. Tale passaggio riguarda ovviamente una realtà circoscritta: l’area intellettuale e morale dell’estrema sinistra, e in questa particolarmente i settori appartenenti all’intellettualità di massa (credo sia in gran parte il caso degli autori e dei lettori di questa pubblicazione). Ciò non sminuisce l’importanza del fenomeno, dato il ruolo giocato da questi gruppi sociali nella storia del Novecento, e nella crisi degli anni Settanta e Ottanta di cui indirettamente parliamo trattando dell’obsolescenza dei concetti dialettici.

Di cosa è sintomo dunque il passaggio in questione? Vorrei suggerire di leggere l’eclissi delle figure concettuali legate alla totalità e alla mediazione come l’espressione e l’interpretazione della crisi dell’ultimo tentativo su scala mondiale di superare la società capitalista.

Se si lasciano da parte gli episodi italiani più effimeri e direttamente apologetici, quali il pensiero debole e il pensiero negativo degli anni Settanta e Ottanta, possiamo dire che la critica della totalità e della mediazione si radicano nelle aree intellettuali e politiche di cui sopra essenzialmente attraverso il pensiero francese degli anni Sessanta e Settanta: lo strutturalismo e le sue conseguenze, che diventano direttamente politiche con i lavori di Althusser, Foucault, Derrida e Deleuze-Guattari. Credo non si debbano misconoscere due dati fondamentali rispetto a questi autori e correnti: innanzitutto, il loro legame con il comunismo minoritario degli anni Trenta e con l’opposizione di sinistra del dopoguerra, fino alla guerra d’Algeria (in tal senso, Georges Bataille e Maurice Blanchot sono due mediatori essenziali); inoltre, la legittimità e la necessità di trovare dei paradigmi intellettuali differenti dal discorso puramente ideologico del comunismo francese ufficiale, e quindi di dotarsi di strumenti capaci di analizzare degli oggetti delimitati e intelligibili, contro la riduzione della dialettica marxista ad affabulazioni sul materialismo e le forze produttive. Legami ed esigenze che si ritrovano nella Nuova Sinistra italiana degli anni Sessanta, ad esempio in Montaldi e nei «Quaderni Rossi», e che contengono, dai due lati delle Alpi, una tendenza a considerare l’insistenza sulla mediazione e la totalità alla stregua di una retorica conciliatrice: si trovano accenti simili nel dellavolpismo di Panzieri e di Tronti.

Il sospetto nei confronti delle figure dialettiche viene, in origine, da orientamenti politici e intellettuali che rifiutano di dissolvere l’analisi delle situazioni e l’affermazione del conflitto nelle grandi generalità del processo storico o dell’Uomo creatore della Storia e nell’amministrazione sapiente ad opera del Partito e dello Stato Guida delle decisioni tattiche e strategiche. Credo non si possa trattare seriamente della dissoluzione della dialettica nel pensiero critico senza tener conto dell’incorporazione del vocabolario dialettico alla colossale opera di rimozione e di legittimazione del proprio potere cui si riduceva il marxismo nei discorsi del comunismo sovietico e dei partiti occidentali. La critica di questi discorsi in nome della determinatezza della conoscenza e dell’irriducibilità del conflitto motiva la decostruzione della dialettica, in favore dell’opposizione reale o della surdeterminazione, che si ritrova, ad esempio, in Pour Marx di Louis Althusser (1965) e in Operai e capitale di Mario Tronti (1966).

 

III.

Tuttavia, l’affermarsi in vasti strati del senso comune della sinistra radicale di un discorso dell’immediatezza, della rottura e della differenza irrelata dipende da altre costellazioni. Si possono indicare alcune tappe.

A partire dalla fine degli anni Cinquanta, il discorso e la pratica delle Nuove Sinistre in Europa e nel mondo esprime una critica della vita quotidiana che insiste sulla trasformazione diretta di situazioni di sfruttamento ed oppressione. Le lotte operaie e studentesche nel capitalismo avanzato, il rifiuto della manipolazione dei consumi, il movimento delle donne, l’antipsichiatria: questi ed altri nodi conflittuali tendono a criticare la politica delle organizzazioni politiche e sindacali come momento di totalizzazione, e rifiutano la mediazione temporale e spaziale tra tattica e strategia, fini e mezzi, locale e globale. In questa fase la tendenza dominante è la riaffermazione della funzione totalizzatrice, semplicemente spostata dalle istanze del Partito all’intelligenza collettiva dei produttori, al punto di vista della Classe caro all’operaismo, alle masse dei maoisti o ancora alla coscienza d’opposizione del marcusiano gran rifiuto.

Per tutti gli anni Sessanta, resta dominante la volontà di una riforma pratica e teorica delle categorie dialettiche del pensiero critico. L’esplosione definitiva di tali categorie si consuma negli anni Settanta, quando l’impazienza e l’intensità etiche e intellettuali di alcune generazioni di militanti si scontra con la crisi delle Nuove Sinistre, con il parossismo di violenza di quella che Fortini definiva la guerra civile mondiale intorno al comunismo, e infine con la restaurazione neocapitalista. La generalizzazione di paradigmi fondati sulle rotture, l’irruzione dell’impensabile, l’affermazione della singolarità “selvaggia” esprimono la posizione soggettiva di un mondo militante preso nella trappola di conflitti onnipresenti e radicali da cui non emerge alcuna prospettiva capace di orientarli: è a questo punto che la contraddizione diventa differenza, la scissione semplice rottura e la critica delle totalizzazioni alienanti si rovescia nel culto dell’immanenza.

Infine, il periodo del riflusso, di cui siamo ancora eredi diretti (almeno nella misura in cui torniamo ad interrogare i cambiamenti di orizzonte intellettuale e pratico che quest’epoca ha portato con sè). A partire dagli anni Ottanta, la cultura filosofica e letteraria francese degli anni Sessanta e Settanta diventa la grammatica spontanea di strati di intellettuali massa, privi di prospettive politiche, che tentano di sopravvivere nella glaciazione del capitalismo postmoderno traducendo schegge di un’antica radicalità nelle opzioni e nei gusti intellettuali: la differenza e l’immanenza diventano le parole d’ordine che accompagnano la traversata del deserto di numerosi “fratelli amorevoli”, trovandovi alcuni di che nutrire lavori e comportamenti rigorosi e fecondi, altri un supplemento d’anima dell’adattamento e del conformismo.

Se questa ricostruzione è plausibile, se ne conclude che la dissoluzione della dialettica e la sua sostituzione non sono riducibili ad un succedersi di egemonie teoriche ed ideologiche, ma esprimono una crisi in seno ad una soggettività potenzialmente totalizzatrice. I diversi discorsi della differenza o dell’immanenza, e le tappe del loro affermarsi egemonico, costituiscono delle figure di una coscienza della totalità confrontata all’impossibilità crescente di totalizzare l’orizzonte dell’esperienza e il sistema delle contraddizioni. In altri termini, tali discorsi hanno espresso, in forme diverse e a partire da composizioni complesse di paradigmi culturali, mutamenti socioeconomici e sequenze politiche, la decadenza e la dissoluzione del movimento comunista.

Volendo sviluppare questi punti, bisognerebbe innanzitutto precisare che il loro schema fondamentale si trova nelle posizioni elaborate da Fortini a partire dalla fine degli anni Settanta, che costituiscono già un bilancio dell’esperienza storica del Novecento e dello scacco delle prospettive rivoluzionarie.

Negli scritti raccolti in Insistenze e nei due volumi di articoli sul Manifesto intitolati Disobbedienze, nonché in un testo poco studiato come Extrema ratio, e in numerosi altri contributi, Fortini sviluppa un discorso che si situa già in qualche modo oltre il comunismo e il marxismo storici: un discorso di fedeltà estrema (in tutti i sensi del termine) a principi non negoziabili e al valore dell’esperienza del Secolo breve,2 ma che al tempo stesso incorpora come propri momenti le forme della dissoluzione di quell’esperienza e le crisi radicali di quei principi. L’ultimo Fortini è quindi radicalmente “fedele alla linea” e altrettanto radicalmente eterodosso, provocatoriamente umanista goethiano-hegeliano e altrettanto provocatoriamente capace di metabolizzare le forme più alte dell’antidialettica, del nichilismo e della frammentazione. La stessa scrittura fortiniana sembra esprimere questa tensione, diventando sempre più paratattica a misura che il discorso si vuole una rivendicazione del senso dell’esperienza, del controllo possibile sull’esistenza individuale e collettiva e della non-vanità della memoria e della speranza.3 Del resto, è forse questa posizione realmente e definitivamente ingrata che spiega il silenzio relativo sull’ultimo Fortini, ancora più indigesto e inclassificabile del saggista engagé di Dieci inverni e del marxista critico di Verifica dei poteri.

Mi limiterò a indicare alcune figure esemplari di questo gestus tardo-fortiniano, che possono elucidare i temi di cui ci occupiamo.

In primo luogo, la lettura fortiniana dell’irruzione delle grammatiche teoriche antidialettiche presso la «giovane cultura italiana finora considerata di sinistra», conseguenza della crisi del marxismo:

Essa si manifesta con una diffusa ripresa di interesse per la cultura dell’esistenzialismo tedesco (Heidegger quindi e Nietzsche), per quella della crisi e della negatività (ossia per l’arte e il pensiero viennesi degli anni Dieci) nonché per quella che potremmo chiamare la Scuola di Parigi, arco assai ampio che va da Lacan a Derrida, da Bataille a Foucault. Le ragioni meno superficiali di quel rifiuto [dello storicismo dialettico] vanno, credo, ricercate soprattutto nella frustrazione sociale e politica subita dalle forze (operaie e intellettuali) che sul finire degli anni Sessanta stavano per rovesciare gli equilibri di potere del ventennio precedente ma non hanno retto di fronte alla crisi economica (in parte indotta e in parte vera) nonché all’accordo di potere e di vertici fra il ceto cattolico che da più di un trentennio gestiva l’Italia e il personale politico delle sinistre «storiche», socialiste e comuniste.4

L’affermarsi di queste correnti e sensibilità esprime quindi la crisi di aree e prospettive di cui Fortini è stato un attore intellettuale decisivo: la critica dell’antidialettica non può quindi essere confusa con il richiamo alla giusta linea hegelo-marxista contro le perniciose deviazioni nichiliste, perché il critico partecipa della storia e dei gruppi che subiscono ora la tentazione del Nulla, e riconduce questa tentazione ad una impasse politica reale e traumatica, che cerca di interpretarsi nelle grammatiche concettuali ed espressive nicciane, kafkiane o parigine. Queste grammatiche non sono semplicemente “false”, ma esprimono un rapporto (necessariamente) alienato ad una situazione reale, e quindi anche un tentativo di affrontare quest’ultima. Contrariamente a quell’opera tuttavia complessa che è La distruzione della ragione, Fortini non cerca di porsi al di fuori degli effetti del Negativo, né indulge al vizio lukacsiano di imputare una scarsa forza morale a quanti si dibattono nelle spire di quest’ultimo.5 Come comprendere altrimenti il suo giudizio sull’Autonomia e sul Movimento del ‘77 in cui la liquidazione della dialettica si farà esplicita e sistematica? Fortini lo riconosce:

La più recente opposizione, area autonoma (erede di tutto un decennio «situazionista»), si fonda sul rifiuto di distinguere fra la sfera del sociale come immediatezza e del politico come mediazione-organizzazione […]. Vuole coincidere col «movimento», come se la vita fosse l’informe. è il suo tributo alle tragiche coglionerie delle avanguardie. è il sogno dell’illimitata adolescenza che torna a riproporsi.6

Che Fortini rifiuti questo mito dell’informe e dell’indeterminato, non fa dubbio, né che abbia ragione di respingerlo: non senza tuttavia riconoscere che il rifiuto “ontologico” dell’organizzazione esprime e formula la coscienza della sconfitta dell’ipotesi organizzativa bolscevica, e che l’Autonomia ha compreso «che il genio di Lenin […] ha avuto torto. Sa che l’organizzazione è una trappola. Vi ha veduto cadere tutte le formazioni nuove».7 Non è poco riconoscere all’area autonoma la consapevolezza di esprimere e di interpretare uno snodo epocale, un momento tragico ma in qualche modo necessario della storia dell’ipotesi comunista. Con l’organizzazione leniniana, è tutta una figura storica della totalità e della mediazione che diventa inaccessibile per la coscienza, e l’inconscio, dei militanti.

Credo non ci si possa soddisfare di ripetere oggi la condanna del caos anarcoide e del vitalismo irrazionale senza riconoscere che al fallimento della sequenza apertasi con Che fare? e con Ottobre 1917 nessuna risposta valida è mai stata fornita: se la forma-partito non è (più) l’operatore storico della totalità e della mediazione, cosa opporre all’abbandono all’informe di diverso dalle esortazioni alla misura e al realismo (o magari all’austerità berlingueriana)?

Questo riconoscimento del significato di una crisi non implica affatto di attribuire alle pratiche e ai discorsi avanguardistici un valore di prospettiva plausibile, ma di vedere in essi un sursaut disperato davanti alla catastrofe di una sequenza storico-politica, e quindi anche un rapporto deformato alla verità. È quanto Fortini afferma nel Settantasette, commentando la rottura senza ritorno tra il movimento e la sinistra storica:

Da una parte gli uomini del potere [protetti] dal consenso di milioni e milioni di filistei, fra i quali i milioni di lavoratori che la loro politica tren- tennale, al governo o all’opposizione, ha trasformato in piccoli borghesi assetati di ordine e desiderosi di farla finita con quei lazzaroni di giovani che non rispettano il lavoro. Dall’altra parte, suddivisi in tre o quattro sottosette, ciarlieri, confusi, divergenti, querimoniosi, c’erano i loro avversari che dicevano la verità con le parole dell’errore.8

Non sarebbe inutile riprendere queste pagine in una fase in cui presso ceti e gruppi lasciati alla subalternità e alla miseria materiali e morali si diffondono sete di ordine e odio per gli irregolari, i perturbatori e gli “assistiti”. Ma, per restare su un piano più generale, si può concludere che questi interventi di Fortini mostrano a qual punto sia impossibile interrogarsi sul passato e il futuro di categorie, teorie e concetti senza ritornare alla congiuntura, certo non solo italiana, degli anni Settanta, quando le speranze e gli slanci più generosi e più audaci si sono infranti sulla divisione finale del movimento comunista e sul disfacimento psichico di due o tre generazioni. Lo sguardo meduseo di questo sfacelo sta tra il presente e il marxismo classico, per non parlare dell’umanesimo e della dialettica. Fortini lo ha visto e lo ha detto fin dall’inizio: ma una vera soluzione politica a quella situazione non è stata data allora ed è assente ancor oggi.

Credo invece che, sul piano dei paradigmi intellettuali, l’ultimo Fortini abbia cercato di rispondere all’affermazione di grammatiche nichiliste e antidialettiche, non limitandosi a deplorarle in nome della virtù, ma cercando di incorporare questi momenti di estrema negatività – da cui, si è detto, la sua storia e le sue posizioni non potevano credersi intatte – in una riaffermazione ultima di ciò che una delle sue ultime poesie chiama «le nostre verità», le quali sono da trasmettere e proteggere anche se, e in quanto, incapaci di operare immediatamente sul piano della pratica rivoluzionaria.

Una realizzazione esemplare di questa strategia intellettuale è, in alcune pagine folgoranti di Extrema ratio, il riferimento a Kierkegaard, cioè al primo grande decostruttore della totalità dialettica.9 Fortini ne riprende l’idea di una coincidenza immediata tra gli atti pratici quotidiani della vita ordinaria e l’assolutezza del rapporto tra i valori ultimi e l’esistenza individuale: un’articolazione tra l’ordinario e l’assoluto, tra la democrazia del quotidiano e l’aristocrazia delle decisioni ultime, che fa di ogni individuo il luogo geometrico della totalizzazione dell’esperienza, a condizione che la vita quotidiana sia vissuta come il «rovescio di un’Alterità assoluta», da essa inseparabile come l’ombra dalla luce.10 Si tratta sempre di dare una forma all’esistenza, secondo la maniera tipicamente fortiniana di intendere l’esigenza dialettica della totalità: «conferire all’esistenza individuale e collettiva un massimo di ritualità».11 Ma questa formalizzazione è resa possibile dall’efficacia di un «centro vuoto»: un’Alterità assoluta appunto, che destabilizza il sistema delle alienazioni in cui è presa la «vita falsa». L’individuo può diventare l’operatore della formalizzazione e realizzare la totalità nella vita ordinaria, ma solo attraverso il rapporto con un’istanza non integrabile, che non deve, né può, essere «cercata» ma solo posta o presupposta, e quindi manifestata negli atti concreti che ci separano dalla totalità della vita divenuta falsa, come il Figlio ha dovuto separarsi dal Padre per diventare uomo.12

Queste posizioni rappresentano un confronto con la situazione dell’umanità postmoderna, in cui, secondo una tematica anch’essa frequente nel tardo Fortini, la manipolazione mediatica di massa e la culturalizzazione industrializzata della vita hanno reso la totalità e la verità stessa degli oggetti pressoché impossibili da formulare e da porre esplicitamente come obiettivi e orizzonti. Esse possono tuttavia ritrovare una via parziale di realizzazione grazie a un che di irriducibile che spezzi la rete dei simulacri e trasfiguri i frammenti impuri della vita ordinaria.13

Se l’orizzonte dialettico che Fortini riprende da Lukács resta quello del «desiderio di uno spiegamento continuativo di disposizioni, di una continuità di eguaglianza strutturale in tutte le vicende della vita»,14 tale desiderio non è più soddisfacibile senza l’intervento di una forza o di un momento che eccede la totalità e la sua coscienza esplicita, e si dà solo come il vuoto o l’ombra che apre delle faglie nella totalità del falso. In tal modo, la grammatica concettuale dell’antidialettica, di ciò che resiste alla totalizzazione fino a spezzarla – tale è il senso dell’Alterità e della sua congiunzione al quotidiano per Kierkegaard – è reimpiegata per ritrovare una distanza critica nei confronti di un sistema che si vuole senza alterità. La ritualizzazione-formalizzazione dell’esistenza dipende dunque dall’«esperienza di un centro» che attribuirebbe un valore infinito a dei «comportamenti pratici» senza distinguerli esteriormente dalle condotte alienate, ma costituendoli come una separazione interna alla vita inautentica che è quella di noi tutti: intellettuali, operai, ceti medi, studenti, disoccupati e migranti.

Una siffatta esperienza condiziona la totalizzazione dialettica, ma non deve necessariamente, e forse non può più, essere costruita con i mezzi di quest’ultima: il centro non può essere progettato né esplicitato in una sintesi concettuale perché non vi sono più concetti o progetti che non partecipino dell’inautentico. Esso può però essere posseduto come un dato esistenziale tacito, non del tutto formulabile, inseparabile da ciò che Michelstaedter, come Kierkegaard lettura del giovane Fortini, chiamerebbe col nome di “persuasione”.

Credo che queste pagine difficili e le figure che le percorrono siano indispensabili per comprendere le allusioni non rare nel tardo Fortini a qualcosa di non interamente dicibile che fonda e motiva decisioni e comportamenti, nonché la tendenza a riaffermare certo il valore dell’esperienza rivoluzionaria e del comunismo novecentesco, ma sempre più in modo indiretto, facendo riferimento a qualcosa che i linguaggi disponibili sono incapaci di trattenere e di oggettivare. Così, nell’ultimo intervento pubblico, la formula «dire di sì in modo da nascondere il no di fondo»,15 variazione sul tema della vera vita che non si dà se non nella falsa; così anche il riferimento ad una «pratica della libertà altrui» il cui «nome molto antico» non può essere scritto perché «è troppo serio, perché è bene che taluno lo riscopra da sé».16 E, infine, le enigmatiche verità dell’ultimo poema, che si sovrappongono alle immagini dell’epopea di Stalingrado e sembrano richiedere un adempimento oltre, o contro, lo svolgimento ineluttabile della Storia. Tutto ciò sembra indicare qualcosa che sfugge alle parole del marxismo, della dialettica, del comunismo e alle loro storie determinate, e che tuttavia conferisce loro un valore e un senso durevoli, su cui non si deve transigere (perché «abbiamo Mosca alle spalle»).

Si dovrà credere allora che Fortini stesso ceda, nei terribili anni della crisi e del riflusso, alle sirene dell’Ineffabile e del Disincarnato che ha combattuto fi dal suo apprendistato anti-ermetico sotto gli auspici di Noventa? Mi pare più plausibile e fecondo parlare di un confronto con il nichilismo radicale della post-modernità e con il crollo della prospettiva comunista che ne è l’origine: un confronto che impone di abbandonare le forme più rassicuranti delle parole legate a questa prospettiva in modo da renderne utilizzabili le rovine dopo averle messe alla prova dell’hegeliana potenza del Negativo. Che il centro e l’esperienza di cui parla Fortini siano parzialmente indicibili è un fatto che non rinvia ad alcuno spiritualismo, ma al contrario alla pratica che eccede le illusioni e i compiacimenti dei concetti e delle forme: verità nota a Goethe e a Brecht, e che l’ultimo Fortini riformula nelle immagini cristiane dell’Incarnazione, della Resurrezione e della fractio panis. L’esperienza del centro vuoto, dell’Alterità assoluta, proviene dal primato materialista dei corpi, della presenza reale di altrui in cui si rivela «l’assoluto e il definitivo».17

Il discorso sull’ultimo Fortini dovrebbe essere quindi riaperto a partire da queste figure e termini ricorrenti, il che ci porterebbe assai lontano.18 Per concludere provvisoriamente, è forse opportuno chiedersi se queste considerazioni possono fornire qualche indicazione per orientare attività e posizioni nel presente.

Credo che, se quanto abbiamo cercato di ricostruire è in qualche modo plausibile, possiamo trarne, nell’immediato, qualche conseguenza per quanto riguarda le pratiche direttamente legate alla condizione degli odierni intellettuali-massa. Le domande sul valore d’uso delle categorie dialettiche non possono non rinviare ad un tentativo di orientarsi nell’attualità, in primo luogo per coloro che la divisione del lavoro ha costituito come professionisti dell’uso dei concetti. Ad esempio, Cristina Corradi ha indicato, nell’intervento già citato, quali conseguenze sono per lei da trarre da tali categorie e da ciò che chiama la “lezione” di Fortini:

La dialettica marxista di Fortini indica un modello alternativo a un’idea di critica della cultura, risalente a Nietzsche che […] sfocia nella fabulizzazione del mondo e nella produzione di individui infantili e narcisistici. Per il nesso stretto tra critica del capitale e critica della cultura, la lezione di Fortini, non metabolizzabile dal postmoderno, mi sembra più feconda di quelle di Adorno e Benjamin.19

Personalmente, ammetto di pormi, rispetto alle priorità e alle possibilità d’azione di quanti scrivono, studiano e insegnano, delle domande abbastanza differenti: non tanto su quali autori o correnti o paradigmi convenga lavorare – Fortini o Adorno, Hegel o Spinoza, il giovane Marx o il Marx maturo, il primo libro del Capitale o i Grundrisse, Lukács o Heidegger, Lontologia dellessere sociale o Storia e coscienza di clas- se –, ma come organizzare il lavoro dell’insegnamento, della ricerca e dell’edizione in modo da «eccedere il frazionamento degli uomini, la reificazione in figure e ruoli».20

Vorrei sapere, di un libro o di un corso o di un seminario di ricerca, non tanto quali autori e tradizioni raccomandino, ma se in essi, nei processi della loro produzione, circolazione e consumo, si dia qualcosa di irriducibile ai criteri di valutazione del MIUR e ai profitti degli azionisti di Einaudi o di Feltrinelli, se tramite essi qualche docente o studente o ricercatore o semplice lettore potrà fare l’esperienza di un uso delle forme e delle pratiche intellettuali diverso da quello che impongono i rapporti dominanti. In un tale uso si darebbe allora un frammento o una traccia della totalità e della sua ricerca, anche qualora il libro o il seminario dovessero essere su Derrida o su Nietzsche.

Su ciò, credo che in Fortini si trovino indicazioni lucide e preveggenti: il rifiuto della logica che «tratta le barricate di carta come barricate vere e vuol far credere o quasi che lo strutturalismo sia un episodio della guerra di classe» implica che le vere scelte e posizioni politiche o morali si situano altrove rispetto alle querelles tra poetiche, metodologie letterarie o sistemi filosofici.21 Forse non si tratta esattamente di una “lezione”. Potremmo anzi dire che infelice è l’epoca che ha bisogno di maestri, parafrasando Brecht il quale ricordava, nel poema su Lao-Tse, come il solo maestro legittimo sia quello che risponde ad una richiesta: è il gabelliere infatti che chiede al saggio cinese di mettere per iscritto il suo insegnamento – la totalizzazione nel e del concetto ha come condizione un’iniziativa il cui soggetto non è il maestro, ma colui che desidera sapere malgrado la durezza della vita e le sconfitte. Da dove viene questo desiderio? Da un modo dei rapporti tra gli uomini che non può ridursi alla trasmissione pedagogica, quindi verticale, del Vero. In tal senso, la ritualizzazione della vita che incarnerebbe la totalità non può non venire da un luogo che, a differenza del vitalismo anarchico, non esclude magisteri ed organizzazioni ma viene prima di essi e ne fonda il valore e gli usi possibili. Abbiamo parlato della figura della fractio panis, e la parola compagni viene dal latino cum-panis (contrariamente al francese militaresco di camarades). Non mi pare quindi incongruo associare al tema dell’Incarnazione un’altra formulazione dell’esperienza del centro che allude più direttamente alle urgenze della nostra epoca post-comunista:

Fintanto che pensiamo di contrapporre un sapere ad un altro, un libro ad un altro, un film ad un altro […] possiamo arrivare nella migliore delle ipotesi a quella che è la situazione in cui già viviamo, visto che siamo in un paese democratico, dove già abbiamo un’opinione non maggioritaria e una certa tradizione di «sinistra». Che cos’è, invece, che ci pone al di fuori? è […] la scelta di comportamenti non individuali, i cui motivi non vanno cercati e neanche verificati esclusivamente sul sapere o sulla cultura, ma si fondano – almeno inizialmente – sul già saputo, su quello che sta dentro di noi – come si dice – o anche fuori (per me è lo stesso). E questo «qualche cosa», che già sappiamo, ci viene dalla nostra esperienza vitale. è un «qualche cosa» nel quale la sofferenza per l’ingiustizia e l’oppressione subita il giorno prima si mescola al ricordo di ciò che abbiamo imparato e saputo da quando avevamo cinque anni. Questo «insieme» è il nostro sapere, non quello che sta «dopo e fuori», che si aggiunge in seguito e può essere consumato o appreso, può diventare «carne e sangue» a condizione che vi sia quel momento iniziale […]. Tro- vare i propri compagni, riconoscersi, unirsi, decidere di fare alcunché.22


Note
1 Una prima esposizione di questo tentativo di ricostruzione è stata pubblicata sull’«Ospite ingrato online», 9 marzo 2020, https://www.ospiteingrato.unisi.it/tota- lita-critica-e-mediazioneandrea-cavazzini/ (ultimo accesso: 19/11/2021) e ha suscitato alcuni commenti critici da parte di Cristina Corradi, senz’altro utili ad indicare quanto sarebbe opportuno precisare e riformulare, riproposti in questo numero.
2 Lo ricorda in particolare Luca Lenzini, Introduzione, in F. Fortini, I confini della poesia [1979], a cura di L. Lenzini, Roma, Castelvecchi, 2015, pp. 8-10.
3 Ringrazio Gabriele Fichera per le osservazioni sul tardo stile fortiniano e per le discussioni intorno all’ultimo Fortini.
4 F. Fortini, I confini della poesia cit., pp. 20-21.
5 Il libro di Lukács andrebbe riletto attentamente, ma credo se ne possano indicare due rischi maggiori: quello di dimenticare la dialettica e di trattare le posizioni criticate come delle idee false cui opporre delle idee vere, secondo una logica razionalistica dimentica del fatto che il falso è un momento deformato del vero, e che la verità del falso risiede nel tentativo di questo di porsi all’altezza del vero; e quello di dimenticare il materialismo e di trattare le idee false come delle cause, invece che come dei sintomi, dei processi storici.
6 F. Fortini, Note per una falsa guerra civile [1977], in Id., Disobbedienze I. Gli anni dei movimenti. Scritti sul manifesto 1972-1985, Roma, Manifestolibri, 1997, p. 168.
7 Ibidem
8 Ivi, pp. 169-170.
9 F. Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Milano, Garzanti, 1990, pp. 96-98.
10 Ivi, p. 98.
11 Ivi, p. 97.
12 Ivi, p. 98.
13 Mi pare che questo punto, cioè il fatto che in Fortini la costituzione di una soggettività disalienata non si dà al di fuori dell’attraversamento della falsa coscienza, sia stato ben visto da Roberto Finelli, Il comunismo laico di Franco Fortini, in “Uomini usciti di pianto in ragione. Saggi su Franco Fortini, a cura di M. de Filippis, Roma, Manifestolibri, 1996, pp. 61-69.
14 Questi passi, che Fortini cita in I confini della poesia cit., p. 24, sono in realtà un collage di alcuni passaggi in G. Lukács, Il giocoso e i suoi substrati, in Id., Scritti sul realismo I, a cura di A. Casalegno, Torino, Einaudi, 1978, pp. 816-817.
15 F. Fortini, Cari nemici. Intervento all’Assemblea sulla libertà di informazione [1994], in Id., Disobbedienze II. Gli anni della sconfitta. Scritti sul manifesto 1985- 1994, Roma, Manifestolibri, 1997, p. 262.
16 F. Fortini, Il femminismo come gioco liberatorio [1975], in Id., Disobbedienze cit., p. 87.
17 F. Fortini, Lenigma Napoleoni [1990], in Id., Disobbedienze II cit., p. 122. Su questo scritto cruciale si veda G. Fichera, Macerie che dovremmo riconoscere. Lulti- mo Fortini e la figura, in «Il Ponte», dicembre 2014.
18 Sul senso delle figure profetiche e apocalittiche in Fortini, si veda L. Lenzini, Il poeta di nome Fortini, Lecce, Manni, 1999.
19 C. Corradi, Critica, totalità, mediazione. Note sulla lezione di Fortini, in «L’ospite ingrato», 20 luglio 2020, https://www.ospiteingrato.unisi.it/critica-totalita-mediazio- ne-note-sulla-lezione-di-fortinicristina-corradi/ (ultimo accesso: 19/11/2021), cfr. più avanti in questo numero.
20 F. Fortini, Le minoranze possono farci uscire dal secolo dell’orrore? [1986], in Id., Disobbedienze II cit., p. 21.
21 F. Fortini, lettera a H.-M. Enzensberger del 10 ottobre 1966, cit. in M. Manara, «Ich höre aufmerksam meine Feinde zu Ascolto attentamente i miei nemici». Il carteggio Fortini Enzensberger, in «L’ospite ingrato», 19 aprile 2016, https://www. ospiteingrato.unisi.it/ich-hore-aufmerksam-meine-feinde-zu-ascolto-attentamente-i-miei-nemici-il-carteggio-fortini-enzensberger/ (ultimo accesso: 19/11/2021).
22 F. Fortini, Contro lo snobismo di massa [1989], in Id., Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 555.

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