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machina

Dove non è il luogo e quando non è il momento (seconda parte)

Lenin, Luxemburg, i populisti: lotta di classe e sviluppo del capitalismo

di Gigi Roggero

0e99dc 52a1d6e5a3da4e979de7f6d91ecacbbfmv2Il saggio di Gigi Roggero che pubblichiamo per la prima volta in italiano, suddiviso in due parti, (qui la prima parte) è stato scritto nel 2012 per un volume curato dagli studiosi militanti della rivista polacca «Praktyka Teoretyczna». Come indicato nel sottotitolo, viene trattato il rapporto critico tra Lenin, Luxemburg e i populisti russi rispetto alla questione dello sviluppo del capitalismo. Più precisamente, da un lato viene tratteggiata in chiave genealogica la polemica di Lenin contro i populisti dell’ultimo decennio dell’Ottocento, sbiaditi eredi di una grande tradizione rivoluzionaria; dall’altro, vengono analizzate le ricchezze e i vicoli ciechi della lettura luxemburghiana dell’accumulazione del capitale. Lungi dall’essere un tema di semplice interesse storiografico, la tensione dell’intero testo è volta all’evidenziazione dell’attualità e della posta in palio politica di quel dibattito apparentemente remoto.

* * * *

2. Il mercato mondiale è ancora sempre in formazione?

Anche in questo caso, la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, interamente dentro al rapporto di capitale (ciò che faceva dire a Marx che «la vera barriera della produzione capitalistica è il capitale stesso»), è stata decentrata e trasformata in una dicotomia tra interno ed esterno. Dicotomia che, si badi bene, quando Luxemburg scriveva era indubbiamente radicata nella realtà, ma la cui tendenziale scomparsa – come lo scenario attuale dimostra – non avrebbe significato il crollo del capitalismo. Eppure, secondo Luxemburg, è questo il vicolo cieco di Marx, ciò che rende la sua astrazione del sistema capitalistico irrealizzabile nella sua forma pura: «Una volta raggiunto il risultato finale – che rimane tuttavia una costruzione teorica –, l’accumulazione diventa impossibile: la realizzazione e capitalizzazione del plusvalore si trasforma in un problema insolubile.

Nel momento in cui lo schema marxiano della riproduzione allargata corrisponde alla realtà, esso segna la fine, il limite storico del movimento dell’accumulazione, il termine della produzione capitalistica. La impossibilità dell’accumulazione significa, dal punto di vista capitalistico, l’impossibilità di un’ulteriore espansione delle forze produttive, e perciò la necessità storica obiettiva del tramonto del capitalismo. Di qui il moto contraddittorio della fase ultima, imperialistica, come conclusione della parabola storica del capitale»[1]. Se si esclude il riferimento alla fase imperialistica e una diversa prospettiva rispetto agli esiti del processo, anche qui non è difficile ravvisare una certa rassomiglianza con alcuni dei presupposti di Sismondi poi ripresi dai populisti, secondo cui i mercati esteri costituiscono l’unica via di uscita per la realizzazione del plusvalore: «Verrà infine l’epoca in cui tutto il mondo civile costituirà un mercato unico, e in cui non si potranno più trovare nuovi compratori in una qualsiasi nuova nazione. La domanda sul mercato mondiale sarà allora una grandezza invariabile, che le diverse nazioni industriali si contenderanno reciprocamente. Se una nazione fornirà un quantitativo maggiore di prodotti, ciò avverrà a danno di un’altra nazione. La vendita complessiva non potrà essere accresciuta se non attraverso l’aumento del benessere generale o con l’immissione delle merci, un tempo riservate soltanto ai ricchi, nel consumo dei poveri»[2].

Dunque, ciò che avvicina Luxemburg da una parte e il sismondismo populista dall’altra, posizioni teorico-politiche che null’altro hanno da spartire, è l’idea di fondo per cui lo sviluppo del capitalismo è possibile solo in presenza di un fuori, che quando scrivono si identifica con aree del globo terrestre in cui domina la cosiddetta economia «naturale». Criticando duramente tale impostazione, Lenin si premura di dimostrare come quella del mercato interno non costituisca affatto una questione a sé, indipendente dallo sviluppo del capitalismo: «Il mercato interno sorge quando sorge l’economia mercantile; esso è creato dallo sviluppo di questa economia mercantile, e il grado raggiunto dalla divisione sociale del lavoro determina il livello del suo sviluppo; esso si estende con l’estendersi dell’economia mercantile dai prodotti alla forza-lavoro, e solo nella misura in cui quest’ultima si trasforma in merce il capitalismo abbraccia tutta la produzione del paese, sviluppandosi principalmente nel campo dei mezzi di produzione, che nella società capitalistica occupano un posto sempre più importante. Il “mercato interno” per il capitalismo è creato dallo stesso capitalismo nel corso del suo sviluppo, che approfondisce la divisione sociale del lavoro e divide i produttori diretti in capitalisti e operai. Il grado di sviluppo del mercato interno è anche il grado di sviluppo del capitalismo nel paese. Porre la questione dei limiti del mercato interno indipendentemente da quelli del grado di sviluppo del capitalismo (come fanno gli economisti populisti) è un errore»[3]. Infatti, il concetto di mercato è inscindibile dal concetto di divisione sociale del lavoro: ancor meglio, il primo dipende dal secondo. I limiti dello sviluppo del mercato, allora, sono posti dai limiti della specializzazione del lavoro sociale, e quest’ultima è «infinita»[4].

Ecco, dunque, come Lenin affronta, ex ante, il problema del limite che Luxemburg gli pone. Se la produzione capitalistica è illimitata, domanda infatti la rivoluzionaria di origine polacca, come si spiegano le crisi? Lenin rovescia la questione: a essere illimitato è innanzitutto lo sviluppo delle forze produttive, sulla cui base si forma il mercato capitalistico. Se di fronte alla mancanza di un fuori dal capitale Luxemburg si ritrae politicamente spaventata, timorosa di concedere valide giustificazioni ai riformisti e ai consiglieri del principe, Lenin assume tale mancanza come dato di realtà tendenziale e la rovescia in spazio di azione antagonista: il limite è tutto interno ai rapporti di produzione, non allo sviluppo delle forze produttive. La tendenziale illimitatezza del capitale è condizionata alla misura in cui esso cattura e si appropria della potenza, questa sì senza limiti, del lavoro vivo. Qui e solo qui sta la sua impossibilità: il lavoro vivo è il padrone, il capitale il servo. E da qui originano le crisi, che continuamente irrompono nello sviluppo del capitalismo e lo costringono a balzare in avanti. Non vi è nulla di meccanicistico in esse: la crisi è la contraddizione di cui il capitale si alimenta e da cui è permanentemente minacciato, è antagonismo di classe, è organizzazione della lotta operaia e del suo desiderio di libertà che muove lo sviluppo e continuamente lo pone in tensione, lo trasforma, lo rovescia.

Nella sua fase imperialistica, il capitalismo deve far fronte a una completa socializzazione della produzione, «segna il passaggio dalla libertà di concorrenza completa alla socializzazione completa»[5]. La contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione si sposta di livello: «Viene socializzata la produzione, ma l’appropriazione dei prodotti resta privata. I mezzi sociali di produzione restano proprietà di un ristretto numero di persone. Rimane intatto il quadro generale della libera concorrenza formalmente riconosciuta, ma l’oppressione che i pochi monopolisti esercitano sul resto della popolazione viene resa cento volte peggiore, più gravosa, più insopportabile»[6]. Questa miscela di libera concorrenza e di monopolio costituisce, secondo Lenin, un fenomeno di transizione. Il capitale finanziario, per balzare in avanti e mettere a valore il livello ormai raggiunto dalla socializzazione produttiva, ha dovuto farsi socialista, come Rudolf Hilferding[7] ha messo in evidenza rispetto all’istituto del credito. Ma ciò non prelude all’oggettivo crollo del capitalismo, cui implicitamente sembra alludere Luxemburg, né è da ritenersi come uno stadio inevitabile e progressivo, come esplicitamente afferma il socialista Cunow, «panegirista tedesco dell’imperialismo»: «Ciò ricorda la caricatura che i populisti nel 1894-1895 facevano dei marxisti russi, dicendo che poiché questi ultimi ritenevano inevitabile e progressivo il capitalismo in Russia, dovevano aprir bottega e dedicarsi ad impiantarvelo»[8]. Dunque, la direzione dello sviluppo appartiene non a un’oggettiva progressione storica, ma ai rapporti di forza tra le classi. È qui che, partendo dell’assunzione dello sviluppo del capitalismo come un fatto, si divaricano alla radice i percorsi del rivoluzionario e dell’apologeta del presente. Luxemburg, sostenendo che l’astrazione marxiana del capitalismo non descrive la sua realtà concreta, che è una linea di tendenza che – nel momento del suo raggiungimento – porterà al suo crollo, afferma – in Riforma sociale o rivoluzione[9] che «il mercato interno è ancora sempre in formazione». Oggi, laddove la distinzione tra mercato interno ed esterno è venuta meno, nel momento in cui il mondo si è fatto uno nel segno del conflitto di classe e della risposta capitalistica, possiamo invece dire che se la fine della dicotomia tra dentro e fuori non ha condotto al crollo del capitale, la sua vita è però subordinata a una nuova forma della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione[10].

 

3. La violenza dell’origine è immanente allo sviluppo del capitalismo

Lenin non trascura affatto la tendenza alla ricerca dei mercati esteri: essa è anzi espressione della tensione della produzione capitalistica verso un’espansione illimitata, la legge del suo «eterno movimento in avanti» sotto l’incalzante costrizione dello sviluppo delle forze produttive. Perciò il capitalismo non può svilupparsi senza l’estensione continua della sfera del suo comando e la colonizzazione di nuovi spazi, sia all’interno sia all’esterno delle aree già conquistate dal suo regime economico-sociale. È ciò che è avvenuto per la Russia dopo la riforma del 1861, il che prepara un ulteriore sviluppo sia in profondità sia in estensione. Si tratta di argomenti che Lenin riprenderà, com’è noto, nel suo celebre libro sull’imperialismo, e che guideranno le scelte politiche rispetto alle lotte anti-coloniali (per inciso: contro le posizioni dominanti nella Seconda Internazionale sulla funzione progressiva del colonialismo, per Lenin il compito consisteva nel trasformare e dare un «colore comunista» alle lotte anti-coloniali, a partire dall’irriducibile eccedenza del movimento rivoluzionario rispetto alle rivendicazioni democratiche, cogliendo la potenza di processi di conflitto in grado di mettere in crisi il capitale internazionale; da qui anche la polemica del dirigente bolscevico contro il dogmatismo luxemburghiano sulla questione nazionale). Dunque, Lenin può ben concordare con Rosa Luxemburg quando quest’ultima evidenzia il ruolo della violenza nei processi di accumulazione capitalistica, che a partire dalla conquista coloniale risalta con tutta la sua drammatica forza: «L’importanza dell’arruolamento di forze-lavoro indispensabili da società non-capitalistiche appare particolarmente sensibile nella forma della cosiddetta “questione operaia nelle colonie”. Alla soluzione di questo problema servono tutti i possibili sistemi di “dolce violenza” per “liberare” le forze-lavoro dalla sudditanza ad altre autorità sociali e ad altri rapporti di produzione e sottometterle al comando del capitalismo. Da questo sforzo si originano nei paesi coloniali le più strane forme miste di sistema salariale moderno e di rapporti sovranità primitivi, ad illustrazione palmare del fatto che la produzione capitalistica non può fare a meno per il suo sviluppo di forze-lavoro di altre formazioni sociali»[11]. Questa violenza è immanente all’accumulazione, ne costituisce la condizione di possibilità e il piano di sviluppo. Ancor di più, quella genesi che Marx identificava con l’accumulazione originaria, «le doglie del parto all’atto dell’uscita del modo di produzione capitalistico dal grembo della società feudale»[12], si ripete continuamente: «Anche nella sua maturità piena, il capitalismo è legato in ogni suo rapporto all’esistenza contemporanea di strati e società non-capitalistici. […] L’accumulazione capitalistica non solo non può, nel suo espandersi a sbalzi, contare sul semplice incremento naturale della popolazione lavoratrice, ma non può neppure attendere la lenta decomposizione naturale delle forme non-capitalistiche e il loro pacifico trapasso all’economia mercantile. Il capitale non conosce altra soluzione al problema che la violenza: metodo costante dell’accumulazione del capitale, come processo storico, non solo al suo primo nascere, ma anche oggi»[13].

L’accumulazione originaria è apparentemente un tema sottotraccia nell’opera di Lenin, che sembra dare per assunta l’origine del capitale e preferire quindi lo studio del suo sviluppo. Tuttavia, quella stessa origine irrompe continuamente nel processo, è anzi la condizione che ne permette la realizzazione e la riproduzione. A più riprese Lenin torna sull’argomento e lo dimostra, come quando osserva come il progresso tecnico sia reso possibile dalla disponibilità di mezzi monetari eccedenti da parte dell’imprenditore: «Questi mezzi possono essere ricavati esclusivamente dal capitale, dal capitale commerciale e usurario, da quegli stessi “kulak[14], mercanti”, ecc., che gli ingenui populisti russi fanno rientrare non nel capitalismo, ma nella “rapina” (come se il capitalismo non fosse rapina! come se la realtà russa non ci mostrasse il nesso esistente fra tutte le forme possibili di questa “rapina”, dal più rozzo e primitivo sistema dei kulak alla più moderna e razionale attività dell’imprenditore!)»[15]. Lo sviluppo del capitalismo mostra, come in un prisma, tutte le forme possibili dell’accumulazione, da quelle basate sulla pura violenza, all’usura, fino al «normale» incontro tra domanda e offerta di lavoro. Per meglio dire, è proprio la «rapina» capitalistica che permette di fissare e riprodurre la «normalità» del suo sviluppo. Ad esempio, sostiene Lenin, «nella nostra letteratura spesso si interpreta in maniera troppo meccanica la tesi teorica secondo cui il capitalismo esige che l’operaio sia libero, senza terra. Come tendenza fondamentale, questo è del tutto giusto, ma nell’agricoltura il capitalismo penetra con particolare lentezza e attraverso forme straordinariamente varie. Molto spesso l’assegnazione di un pezzo di terra all’operaio rurale viene praticata nell’interesse degli stessi imprenditori agricoli; per cui il tipo dell’operaio rurale dotato di nadiel è proprio di tutti i paesi capitalistici. Nei vari Stati esso assume forme diverse»[16]. Lenin può quindi fondatamente smentire il pregiudizio populista secondo cui il «kulak» e l’«usuraio» non avrebbero nulla a che fare con il «contadino intraprendente»: «Al contrario, nelle mani della borghesia contadina si raccolgono le fila sia del capitale commerciale (prestiti in denaro garantiti dalla terra, incetta di vari prodotti, ecc.) che del capitale industriale (agricoltura mercantile mediante l’assunzione di operai, ecc.). Quale di queste forme di capitale si svilupperà a spese dell’altra? Ciò dipende dalle circostanze ambientali, dalla maggiore o minore eliminazione dei sistemi asiatici e dalla maggiore o minore diffusione della cultura nelle nostre campagne»[17]. Dunque, dentro la compresenza di forme differenti, la tendenza non è oggettivamente predeterminata. Ciò che è tracciato, però, è un paradigma di sviluppo – ossia quello capitalistico – che di tali differenti forme continuamente si alimenta: «Quando dicevamo sopra che la borghesia contadina è attualmente la padrona delle nostre campagne, facevamo astrazione da questi fattori che frenano la disgregazione: semiservitù, usura, otrabotki, ecc. In realtà oggi i veri signori delle nostre campagne sono il più delle volte non gli esponenti della borghesia contadina, ma gli usurai rurali e i proprietari terrieri delle vicinanze. Una simile astrazione è tuttavia un procedimento del tutto legittimo, giacché altrimenti sarebbe impossibile studiare l’intrinseca struttura dei rapporti economici esistenti in seno alla popolazione contadina»[18].

Come abbiamo mostrato, in questo metodo di lettura della tendenza non c’è nessun accento morale, ed è la ferma battaglia a ogni impostazione su di esso imperniata che conduce Lenin a tenere apparentemente sotto traccia il tema di una violenza originaria che continuamente si ripropone. Infatti, se il capitalismo fosse in grado – come vorrebbero i populisti – di sviluppare l’agricoltura, di garantire ai lavoratori una vita dignitosa, lontana dalla miseria e senza sfruttamento, in tal caso semplicemente «il capitalismo non sarebbe più tale, perché tanto la disuguaglianza di sviluppo che lo stato di semiaffamamento delle masse sono essenziali e inevitabili condizioni e premesse di questo sistema della produzione»[19]. Il problema, però, è costruire una critica materialistica del rapporto sociale capitalistico, che assuma la violenza come suo tratto permanente, ma non si appiattisca mai sulla semplice denuncia della rapina o nella spiegazione dello sviluppo del capitalismo dal punto di vista dell’imbroglio: «È chiaro che in realtà il profitto degli skupstciki il più delle volte non si limita affatto alla differenza fra il valore della vendita su vasta scala e il valor della piccola vendita: esattamente come il profitto del capitalista industriale, è costituito il più delle volte da detrazioni fatte sul salario nominale. Ciò nondimeno per spiegare il profitto del capitalista industriale dobbiamo presupporre che la forza-lavoro sia venduta al suo valore effettivo. Così, anche per spiegare la funzione dello skupstcik dobbiamo presupporre che la compra-vendita dei prodotti sia da lui effettuata secondo le leggi generali dello scambio commerciale. Solo queste cause economiche del dominio del capitale commerciale possono dare la chiave per capire le molteplici forme che il capitale assume nella realtà, fra le quali s’incontra costantemente (questo è del tutto indubbio) anche la truffa più dozzinale. Procedere inversamente – come fanno di solito i populisti –, limitarsi cioè a indicare i diversi imbrogli dei “kulak”, e su questa base scartare completamente la questione della natura economica del fenomeno, significa porsi sul terreno dell’economia volgare»[20]. Così facendo, infatti, si finisce per vedere non la classe, ma dei semplici lestofanti. E in questo caso l’antagonismo diventa questione di invocazione morale alla vigilanza statale: «Contro la classe può lottare solo un’altra classe e per di più, necessariamente, quella che si è già del tutto “differenziata” dal suo nemico, si è completamente opposta ad esso, mentre, contro i “lestofanti”, naturalmente, basta che lotti la polizia, e in caso estremo, la “società” e lo “Stato”»[21]. Dunque, sostiene Lenin, per i populisti non è la classe e la sua lotta, bensì lo Stato il soggetto di riferimento, che nella sua neutralità rispetto ai rapporti sociali è in grado di regolare, frenare o addirittura impedire lo sviluppo del capitalismo. In questo modo i populisti, che accusano a più riprese Lenin di tacere sulla violenza di tale processo di sviluppo, lo riducono in realtà alla volontà dei rappresentanti del terzo stato. Essi, attacca allora il rivoluzionario russo, sono vittime di un ottimismo sdolcinato, che li porta a pensare che «l’impiego brutale della forza» e lo «sgombero dei poderi» possa essere impedito dall’illuminata risolutezza della sovranità statale.

Ma la critica del materialismo rivoluzionario alla chimerica protesta nei confronti del capitale, animata dalla rappresentazione degli interessi del contadino e del piccolo produttore contro la vecchia nobiltà e la nuova borghesia, non significa affatto sancirne la sua immortalità: «La correzione, la modificazione dei rapporti sociali, naturalmente, è possibile, ma solo quando parte dagli stessi protagonisti di questi rapporti sociali da correggere o da modificare»[22]. Il problema della critica al populismo, allora, è quale punto di vista gli si oppone: quello del grande capitale o quello operaio?, domanda Lenin – anticipando la giusta indignazione luxemburghiana verso quel marxismo legale che, partito dalla corretta realtà dello sviluppo del capitalismo, ha finito per decretare l’impossibilità della trasformazione radicale. Commentando una citazione in cui Struve afferma che l’ineguaglianza nella distribuzione non è stata creata dal capitalismo, che l’avrebbe semplicemente ricevuta in eredità, Lenin afferma senza possibilità di equivoco: «Questo è vero se l’autore vuol dire solo che anche prima del capitalismo la distribuzione era ineguale, il che i signori populisti sono inclini a dimenticare. Ma è falso se si nega che il capitalismo ha aggravato l’ineguaglianza»[23]. È da questo punto di vista, dal punto di vista operaio e rivoluzionario appunto, che il dirigente bolscevico può criticare il marxismo della cattedra contro cui più tardi si sarebbe scagliata anche Luxemburg: esattamente perché egli pretende di situarsi «al di sopra delle classi». É da questa collocazione metafisica e disincarnata che Struve ha la presunzione di valutare il nesso tra sviluppo e progresso: «All’affermazione incontestabilmente giusta che il capitalismo nell’agricoltura (come anche il capitalismo nell’industria) peggiora la situazione del produttore, egli oppone i “vantaggi” in generale di questi cambiamenti. È come se qualcuno, ragionando sulle macchine nella società borghese, si mettesse a confutare la teoria di un economista romantico, secondo cui esse peggiorano la situazione dei lavoratori, con prove circa “il vantaggio e il beneficio” del progresso in generale»[24]. Dunque, il progresso non è mai in generale, ma situato in un punto di vista, cioè «dal punto di vista di una classe ben determinata»[25]. Ignorando ciò, ossia offuscando gli antagonismi di classe con argomenti che presume essere «obiettivi», Struve ripete l’errore fondamentale di N.-on e ne corregge solo gli errori secondari. Se i populisti «indorano» la verità, rappresentando inutilmente il nemico come impotente e inetto, i marxisti legali – invitando ad andare a «scuola dal capitalismo» – hanno finito per essere non solo dei diligenti allievi, ma anche dei fervidi seguaci del loro maestro. La lettura della tendenza si è trasfigurata nell’inevitabilità della sua realizzazione, o per meglio dire nell’impossibilità della sua rottura rivoluzionaria: «Il tratto fondamentale delle argomentazioni dell’autore […] è il suo angusto oggettivismo, che si limita a dimostrare l’inevitabilità e la necessità del processo, e non cerca di scoprire in ogni fase concreta di questo processo la forma di antagonismo di classe ad esso inerente, un oggettivismo che caratterizza il processo in generale, ma non le singole classi antagonistiche dalla cui lotta risulta il processo»[26].

Questo processo non è costituito esclusivamente dall’espropriazione della terra, l’originaria separazione dei lavoratori dai loro commons, da quella violenza che gli Struve non vedono o sottacciono – da qui l’importanza della battaglia politica al marxismo legale che caratterizzerà molti degli scritti di Lenin negli anni successivi; ma anche dal fatto che la terra si appropria del contadino romanticamente esaltato dai populisti, lo incatena al fondo, ne impedisce la mobilità, lo vincola al volere del padrone. Perciò l’accumulazione capitalistica non solo non è necessariamente ostacolata, ma può servirsi di quelle forme pre-capitalistiche che i populisti vorrebbero conservare come alternativa di sviluppo: «Lo scarso sviluppo del capitalismo, l’“arretratezza della Russia”, che i populisti ritengono una “fortuna”, sono una “fortuna” solo per gli sfruttatori»[27]. Per dirla in poche parole, la violenza originaria è un dato immanente all’accumulazione del capitale, continuamente si ripropone per garantirne la realizzazione e riproduzione. Solo situando la critica rivoluzionaria di quella violenza nel pieno dello sviluppo del capitalismo, e non nei suoi supposti margini o al suo esterno, è possibile spezzare la specularità tra romanticismo e apologia, per balzare in avanti.

[…]

Conclusioni – Per un materialismo storico non storicista

Allora, riprendendo il famoso passo di Isaak Babel’ potremmo dire che Lenin critica radicalmente chi vede una retta senza curve e chi ipotizza curve senza retta. Da un lato, i menscevichi e i socialdemocratici della Seconda Internazionale, che immaginavano un percorso liscio che – stadio dopo stadio – conducesse al socialismo. Dall’altro i populisti che, idealizzando in modo romantico la comunità agricola, pensavano che un semplice gesto di volontà incurante della determinazione storica potesse permettere di realizzare una nuova società. Uno sviluppo omogeneo senza punti di rottura oppure uno sviluppo eterogeneo senza accumulo di forza. Una storia senza volontà oppure una volontà senza storia.

Entrambe le posizioni sono peggiori. Partiamo da qui. E concludiamo riprendendo il punto da cui abbiamo iniziato, ancora e in modo nuovo con Lenin: i marxisti non possono salvaguardare l’eredità «come gli archivisti fanno con le vecchie carte [ma devono unire alla difesa dei suoi ideali] l’analisi delle contraddizioni che il nostro sviluppo capitalistico racchiude in sé e la valutazione di questo sviluppo dal punto di vista specifico sopra indicato»[28]. Dal punto di vista, cioè, dell’antagonismo di classe. Quello che ci interessa, allora, è far precipitare questo dibattito storicamente determinato nell’attualità del capitalismo globale: ripercorrerlo, ripensarlo, anche forzarlo. Perché solo forzando l’eredità la si può politicamente utilizzare: per i rivoluzionari i saperi in fondo sono questo, degli arnesi per trasformare il presente.

Abbiamo infatti cercato di mostrare come in Lenin non vi sia alcuna fiducia nell’oggettività dei processi storici, fede che invece caratterizzava Plechanov e i menscevichi, che non a caso lo accuseranno di far proprie le tesi della Volontà del Popolo. Il passaggio da uno stadio a quello «successivo» non appartiene alla linearità del progresso. Nel 1914-15, analizzando lo sviluppo del capitalismo nell’agricoltura americana, il dirigente bolscevico osserva che «il capitale incontra le più svariate forme medioevali e patriarcali di possesso fondiario: la forma feudale, la forma dei “lotti contadini” (cioè dei contadini dipendenti), la forma dei clan, la forma delle comunità, la forma statale, ecc. Tutte queste forme di possesso della terra, il capitale le subordina a sé, ma in modi differenti e con procedimenti diversi»[29]. Di conseguenza, il problema è come si costruisce direzione sul processo di transizione che si riapre continuamente. Qui la volontà idealista dei populisti – appropriata, forzata, rovesciata – diviene volontà materialista. È chiaro perciò che sviluppo del capitalismo e sviluppo della lotta di classe non coincidono meccanicamente. Anzi, è quest’ultimo a determinare, costringere e piegare il primo. Qui e solo qui lo schema storicista si rompe. O, per dirla altrimenti, è qui che lo storicismo assume la forma compiuta di un riformismo che dilazionando ininterrottamente al futuro l’attualità della rivoluzione, ne neutralizza la possibilità. Così, se per Lenin è la lotta di classe a far saltare in avanti lo sviluppo e la storia, nel 1905 come nel 1917, per i socialisti anti-leninisti l’invocazione della necessità di percorrere tutta la strada della rivoluzione democratica significa rinunciare alla funzione della direzione e dell’autonomia operaia, per affidarsi al presunto ruolo oggettivamente progressivo della borghesia. È stata la rivoluzione di febbraio e il dualismo del potere, e non una logica interna allo sviluppo capitalistico, a fare della Russia il luogo e il tempo giusto per il balzo comunista.

Vi è dunque una priorità ontologica della lotta di classe sullo sviluppo, dell’antagonismo sulla storia: non è un caso che Lenin finisse per essere accusato dai suoi avversari socialisti di una «deviazione populista» dal marxismo. I soggetti antagonisti, allora, non sono il prodotto oggettivo dello sviluppo capitalistico ma, dentro rapporti storicamente determinati, sono condizione di possibilità e posta in palio di un processo di lotta. Perciò sviluppo del capitalismo vuol sempre dire, per Lenin, crisi e possibilità della rottura rivoluzionaria, potenza delle forze produttive e attualità del comunismo. Significa non aspettare il tempo e il luogo in cui il capitale è più evoluto, ma «saltare» là dove l'organizzazione della classe operaia è più forte.

Ora, così come «l’espropriazione dei produttori rurali, dei contadini e la loro espulsione dalle terre costituisce il fondamento di tutto il processo»[30], il capitalismo contemporaneo deve continuamente separare i lavoratori dai loro mezzi di produzione e dalle condizioni di realizzazione del loro lavoro, dall’autonoma organizzazione dei saperi e delle reti cooperative, ossia dal comune che è allo stesso tempo, contraddittoriamente, spina dorsale della produzione di ricchezza e orizzonte di libertà ed eguaglianza. Il capitale non riesce a imporre una propria norma di sviluppo: a fronte della completa socializzazione delle forze e delle risorse produttive, i rapporti di produzione devono al contempo catturare e bloccare lo sviluppo della potenza del lavoro vivo. In quanto processo inconcluso e inconcludibile, tuttavia, la produzione del comune riapre permanentemente la reversibilità dei processi di transizione. In questo ripetersi dell’accumulazione originaria il capitalismo mostra la sua forza di inclusione nello sfruttamento, così come la sua estrema fragilità. Ha, infatti, bisogno della potenza del suo nemico, ma deve continuamente limitarla.

Il problema non è, quindi, la difesa dei «beni comuni» – supposte isole incontaminate – contro lo sviluppo del capitalismo: il punto è l’organizzazione, dentro e contro lo sviluppo, della rottura e di un nuovo rapporto sociale. Per Luxemburg, come abbiamo visto, ammettere la possibilità del completamento della globalizzazione e della sussunzione reale significherebbe dar ragione ai marxisti della cattedra, a chi ha vinto con i populisti, ma «ha vinto troppo», finendo per confondere lo sviluppo del capitalismo con l’insuperabilità del suo orizzonte. Il fuori che Luxemburg cerca dal punto di vista spaziale, noi lo chiamiamo eccedenza; non è esternità al rapporto di capitale, ma è soggettività dentro e potenzialmente contro.

Ecco allora i nodi con cui ci dobbiamo confrontare, di nuovo e per la prima volta: sviluppo, capitale, classe, organizzazione, rivoluzione. Vari filosofi radicali contemporanei – si pensi a Badiou o Žižek – noncuranti di Marx sognano l’«avvento» di un comunismo astratto e metafisico, evenemenziale, senza soggetto e processo, privo cioè di corpi, conflitti e potenza. Ogni volta che frammenti di lotta di classe si incarnano, in modo spurio e ambiguo come solo nei movimenti reali accade, essi si ritraggono sdegnati e sarcastici, evitando così di sporcare la purezza della teoria. Questa è una volgare caricatura scolastica di Lenin: buona per stupire la borghesia accademica, nefasta per la politica rivoluzionaria. Qui noi stiamo fino in fondo con il disprezzo luxemburghiano per i marxisti della cattedra. Si dirà: scomposizione, individualismo, acquiescenza, disperazione, questi sono i tratti delle nuove figure del lavoro, per alcuni tanto profondi da determinarne un mutamento antropologico. Non si spiegano allora le lotte e le resistenze che, in modo spesso confuso e ambiguo, continuano a segnare il presente, non si spiega una crisi globale che diventa elemento permanente dello sviluppo nemmeno vent’anni dopo che era stata imprudentemente proclamata la «fine della storia» o paventato l’avvento del «pensiero unico». Del resto, si sa come là «dove non era il luogo e quando non era il momento» sono andate le cose: nel gennaio del 1905 il pope Gapon (capo di un sindacato zubatovista, cioè di regime, che poi si sarebbe scoperto essere pure un agente dell’Okhrana) guidò una dimostrazione di lavoratori e delle loro famiglie che, innalzando le sacre icone, portavano una supplica allo zar. Le truppe di fronte al Palazzo d’Inverno aprirono il fuoco, e la giornata sarebbe per sempre stata conosciuta come la «domenica di sangue». Sappiamo poi come è continuata la storia: il popolo si sarebbe spaccato e divenuto classe, e il gennaio ottobre. Oggi non sappiamo quali possano essere le officine Putilov nelle metropoli globali, ma certo i pope Gapon abbondano. E tuttavia, non c’è un fuori in cui giocare la nostra scommessa, cioè rovesciare le sacre icone e cercare dietro di esse come comporre l’immagine, oggi ancora deformata e inquieta, dei soviet del lavoro vivo contemporaneo.


Note
[1] Ivi, p. 416.
[2] Citato in Lenin, Le caratteristiche del romanticismo, cit., p. 138.
[3] Lenin, Lo sviluppo del capitalismo, cit., p. 47.
[4] V.I. Lenin, A proposito della cosiddetta questione dei mercati (1937), trad. it. Opere complete, Vol. I, Editori Riuniti, Roma 1954. Nel testo, scritto nell’autunno del 1893 e pubblicato per la prima volta nel 1937, Lenin sviluppa le tesi da lui precedentemente esposte in una riunione del circolo dei marxisti di Pietroburgo durante la discussione della relazione di G.B. Krasin su «La questione dei mercati».
[5] V.I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1917), trad. it. Opere complete, Vol. XXII, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 207.
[6] Ibidem.
[7] R. Hilferding, Il capitale finanziario (1910), trad. it. Feltrinelli, Milano 1961.
[8] Lenin, L’imperialismo, cit., p. 270.
[9] R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione (1899), trad. it. Editori Riuniti, Roma 1973. Il brano qui riportato non compare nell’edizione italiana.
[10] È una tendenza individuata dalla stessa Luxemburg, tra i primi marxisti a individuare nella costituzione dello spazio mondiale (per quanto incompiuta e irrealizzabile) il campo di azione del proletariato. Criticando Struve e la sua idea che un paese con una popolazione numerosa e un vasto territorio possa costituire nella sua produzione capitalistica un «tutto chiuso», Luxemburg constata, infatti, che «la produzione capitalistica è per sua natura una produzione mondiale e, inversamente a quanto dovrebbe accadere secondo la ricetta pedantesca del professorume tedesco, comincia fin dall’infanzia a produrre per il mercato mondiale» (Luxemburg, L’accumulazione, cit., p. 285).
[11] Luxemburg, L’accumulazione, cit., pp. 358-359.
[12] Ivi, p. 360.
[13] Ivi, pp. 360, 366.
[14] Il kulak è il contadino ricco che impiegava lavoratori salariati o li strangolava attraverso contratti usurari.
[15] Lenin, Il contenuto economico, cit., p. 488.
[16] Lenin, Lo sviluppo del capitalismo, cit., pp. 166-167.
[17] Ivi, p. 58.
[18] Ivi, p. 175.
[19] Lenin, L’imperialismo, cit., p. 242.
[20] Lenin, Lo sviluppo del capitalismo, cit., pp. 358-359.
[21] Lenin, Il contenuto economico, cit., p. 357.
[22] Ivi, p. 381.
[23] Ivi, p. 459.
[24] Ivi, pp. 486-487.
[25] Ivi, p. 505.
[26] Ivi, pp. 515-516.
[27] Ivi, p. 481.
[28] Lenin, Quale eredità, cit., p. 524.
[29] V.I. Lenin, Nuovi dati sulle leggi di sviluppo del capitalismo nell’agricoltura (1914-1915), trad. it. Opere complete, Vol. XXII, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 16.
[30] Marx, Il capitale, cit., p. 780.

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