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machina

Rileggere «Operai e capitale»

di Mario Tronti

0e99dc 83648ad8120140c28ba184bc4534c472mv2Nel 2006, a quarant’anni di distanza dalla prima edizione, DeriveApprodi ha ripubblicato Operai e capitale di Mario Tronti. Mercoledì 31 gennaio 2007, presso la facoltà di Scienze politiche della Sapienza di Roma, DeriveApprodi e la Rete per l’autoformazione hanno organizzato un convegno su quello che è, senza dubbio, il testo fondamentale dell’operaismo politico italiano. In quella straordinaria occasione di dibattito sono intervenuti Alberto Asor Rosa, Rita di Leo, Toni Negri, Brett Neilson. Pubblichiamo oggi la relazione di Tronti, capace di mettere – come recitava il sottotitolo del convegno – lo stile operaista alla prova del presente. 

* * * *

Passato questo anniversario dei quarant’anni di Operai e capitale, dovremmo tornare a un discorso più specifico e, se volete, scientifico dell’operaismo. Vorrei spendere alcune parole per rispondere alla domanda: perché ancora l’operaismo malgrado l’assenza delle condizioni che l’hanno originato e prodotto? Tali condizioni si possono sommariamente riassumere nel neo-capitalismo industriale, con cui per la prima volta ci si confrontava in Italia, e oggi decaduto; nella fase fordista, anch’essa archiviata; in un ciclo di lotte operaie che hanno investito il paese nei primi anni Sessanta, con al centro la figura dell’operaio-massa. Credo che oggi il passaggio, ormai avvenuto, dalla centralità alla marginalità non riguarda solamente l’operaismo. Questo passaggio riguarda anche il capitale. Nel senso proprio del Das Kapital marxiano, come lo intendeva Marx ma anche come lo intendevamo noi: il capitale cosiddetto sociale, o il piano del capitale come si diceva nei «Quaderni rossi». Come gli operai, così anche questa forma di capitale è diventata da centrale a marginale. La lotta era lotta di classe tra due centralità: ognuna aveva il proprio campo e il proprio blocco sociale, ognuna era centrale nella propria parte.

Erano appunto campi socialmente omogenei, proprio perché avevano questa forza centrale che li unificava e concentrava. Ho scritto da qualche parte che non c’è classe senza la lotta di classe, poiché la classe non è una pura aggregazione sociologica: le classi sono potenzialmente politiche. Questo lo aveva già individuato Marx. Le classi hanno bisogno l’una dell’altra, non stanno mai in sé. Diventano classi, diceva Marx, quando diventano per sé. Quando diventano classe per la classe che sta contro di sé. E quindi si devono elevare, sosteneva Marx, a coscienza di classe. Lenin diceva che si devono fare organizzazione. E in questa lotta tra le classi, scatta l’hegeliana dialettica del riconoscimento, e il conseguente rapporto reciproco, nel senso che una classe, trovandosi di fronte al proprio avversario di classe, riconosce anche se stessa, acquista coscienza di sé. Questa era la dialettica, che noi non chiamavamo così perché critici di essa; ma è la vecchia dialettica hegeliana del servo-signore, in cui ognuno ha bisogno dell’altro, e non si sa chi è il servo e il signore perché man mano – a seconda dei rapporti di forza – l’uno diventa servo e l’altro signore. Quando si dice che la lotta di classe è finita, diciamo più specificamente che è finita la lotta di classe in senso marxiano, che era il senso operaista vero e proprio. Se rinascerà altrove, ad esempio fuori dall’Occidente e nei grandi processi di industrializzazione del mondo, questo non lo sappiamo. Anche perché non sappiamo se materialmente si ricostituiranno le condizioni dell’industrializzazione e di una crescita quantitativa del lavoro operaio. Non siamo dunque sicuri che si ricostituisca quella dialettica alternativa di riconoscimento reciproco tra le classi che, per come l’abbiamo conosciuta, portava al rapporto tra operai e capitale.

Nelle nuove condizioni, che cosa resta dell’operaismo? È una domanda, questa, che dobbiamo farci per comprendere il ritorno di interesse per Operai e capitale. Resta anzitutto il punto di vista. Un punto di vista parziale, unilaterale, anti-universale. L’idea-forza dentro l’operaismo è che soltanto dal punto di vista di parte si può conoscere il tutto. Perché la conoscenza che il tutto si propone di se stesso è sempre falsa e ideologica. Essa porta sempre a una falsa apparenza. L’unica conoscenza vera e realistica è quella che una parte può fare della totalità. Perché questa non è una semplice conoscenza: è anche una minaccia. Soltanto dal punto di vista di parte si può minacciare il tutto, organizzare una minaccia contro il tutto. E se ci si vuole contrapporre al tutto rivendicando la totalità, questa è una forza alternativa. Contrapporre un interesse universale a un altro universale non porta nessuna conseguenza di rottura della realtà e di suo superamento. Ciò che resta è dunque questa istanza critica e decostruttiva della realtà. Anzi, potenzialmente distruttiva della realtà stessa. Qui bisogna dire che l’emergenza operaista viveva nel clima generale degli anni Sessanta, una fase fortemente contestativa dell’ordine delle cose. Anche se poi, in un certo qual modo, le istanze operaiste hanno piegato questa generica istanza contestativa in qualcosa di più preciso, profondo e radicale.

Dell’operaismo resta, in secondo luogo, il nesso tra teoria e pratica. Una volta forse si sarebbe detto il nesso tra pensiero e azione. Operai e capitale ha come obiettivo di indicare le linee di scardinamento della realtà. Anche questo è un nesso profondamente marxiano. Il pensiero non serve per produrre altro pensiero, ma per produrre azione. E azione conflittuale. L’operaismo è una politica del conflitto e della differenza. Forse una delle ragioni dell’emergenza di interesse per l’operaismo è proprio il bisogno di conflitti che continua a esistere dentro alla società occidentale e alla società in generale, fondamentalmente divise come dentro a una gabbia. E soprattutto i livelli di potere che si scambiano nella formalizzazione delle alternative politiche tendono a coprire e a mascherare il conflitto, a farlo sparire. Sono politiche di mediazione, più che di conflitto. L’operaismo al contrario è una politica del conflitto: questo spiega perché rimane una sorta di limbo nelle esperienze di movimento. C’è una mitologia dell’operaismo in tutte le esperienze di movimento contestativo, in quelle esperienze in cui si è individuata in modo forte l’esigenza di riproporre la pratica del conflitto.

Il terzo motivo di permanenza dell’operaismo è il suo anti-riformismo. Nel senso comune oggi invadente e totalizzante, in cui tutti sono riformisti, in questa generale norma riformista, l’operaismo, cioè la politica del conflitto operaista risulta una sorta di eccezione, di eccedenza, qualche cosa di non integrabile né assimilabile. È qualche cosa che si pone nel solco di una tradizione rivoluzionaria che unica forse aveva declinato, almeno in quella parte del Novecento che risultava dopo la Seconda guerra mondiale, la tradizione rivoluzionaria dell’Occidente.

L’operaismo dobbiamo concepirlo e declinarlo così, come evento del Novecento. Il contesto vero è quello. Quella è l’epoca. Più che gli anni Sessanta, che sono piuttosto la causa occasionale che fa sorgere questa esperienza e forma di pensiero, la causa strategica che produce l’operaismo è il grande Novecento. L’operaismo deve essere letto in questo senso, e non a caso è stato meno effimero del sessantottismo. In questo l’operaismo è simile al femminismo, perché ha indicato una sorta di forma radicale rivoluzionaria. Questo viene verificato compiutamente dalle vette che queste insorgenze producono. Il Sessantotto ha prodotto una élite che facilmente è stata integrata e assimilata dalle successive forme di potere, cioè ha prodotto una sostituzione delle classi dirigenti. Sia l’operaismo che il femminismo, invece, hanno prodotto élite che non hanno subito questa assimilazione. Quindi, l’operaismo è cultura del Novecento, pratica del Novecento, è politica del Novecento.

Penso che nel Novecento ci siano state due rivoluzioni: una è la rivoluzione operaia, l’altra è la rivoluzione conservatrice. Due forme di rivoluzione su campi opposti che hanno prodotto una vera e propria epoca rivoluzionaria, indipendentemente dal fatto che l’una o l’altra di queste rivoluzioni abbiano poi prodotto l’inverso e l’opposto di sé. La rivoluzione conservatrice è caduta nelle forme del totalitarismo politico, la rivoluzione operaia in una forma di realizzazione del socialismo. Ma questa non è una eccezione, quanto piuttosto una ricorrenza della storia. Quando i grandi progetti si rovesciano nel proprio opposto, ciò non annulla mai la causa del progetto. Ed è sempre un errore giudicare il progetto dall’esito in cui poi si è realizzato. Bisogna salvare l’idea del progetto in sé. L’operaismo si è posto sulla linea di confine tra il progetto rivoluzionario e il fallimento della sua realizzazione. Proprio nel momento in cui l’operaismo emergeva, si verificava il fallimento della rivoluzione operaia che tendeva alla costruzione di un’altra forma di società. Lì per lì noi non mettemmo a fuoco questo tema, in parte lo abbiamo fatto in seguito.

Quell’epoca rivoluzionaria è stata seguita da una vera e propria restaurazione. Cioè l’età rivoluzionaria, come tutte le età rivoluzionarie, è stata seguita da una età della restaurazione. Quando si sono concluse le guerre civili europee e mondiali, e si è conclusa quella età con la vittoria di un campo sull’altro, ne è seguita un’epoca di vera e propria restaurazione democratica. Una forma di restaurazione di tipo nuovo, che non ha assunto il carattere tradizionale, ma che si è marcata di una forte innovazione. La grande scoperta, che poi già c’era, ma che si è realizzata concretamente, delle forme democratiche. Nella seconda metà del Novecento noi abbiamo dunque assistito a una forma di restaurazione democratica.

È qui dentro che è segnato il mio percorso. A un certo punto mi sono accorto, dentro il percorso di «classe operaia», nel percorso ripido dell’operaio in lotta, che non eravamo noi a non farcela: era la classe operaia che non ce la faceva più. Non ce la faceva ad abbattere l’avversario di classe. Non ce la faceva senza dotarsi di una armatura politica. Era la forma dell’organizzazione politica, anche se cercavamo una forma dell’organizzazione politica nuova. Ma c’è un paradosso, che forse non ha una spiegazione razionale: mentre Operai e capitale chiudeva il mio operaismo, in realtà apriva una stagione operaista. Questo è stato il passaggio paradossale.

La fase dell’autonomia del politico è stata il tentativo di aggirare la postazione nemica per prenderla alle spalle. Fondamentalmente era questo che io pensavo. Era la continuazione della guerra di classe con altri mezzi. L’idea poi si è impicciata con il compromesso storico. In realtà io ho pensato che l’armatura politica della classe operaia, almeno in Italia, si sarebbe potuta dare nell’unica forza politica che esisteva sul terreno, che era il Pci. Io andavo alla ricerca di una forza politica, che poi ho trovato. Ma ce ne siamo accorti, purtroppo, quando questa forza politica era ormai decaduta al suo interno, poi è scomparsa. L’esperienza operaista ha avuto questo rapporto con un tipo di forza politica che probabilmente non rispondeva alle domande. Contemporaneamente avvenivano quelle trasformazioni oggettive delle condizioni in cui l’operaismo si era costruito che sono state molto più precoci di quanto venga solitamente evocato. È vero quanto si dice degli anni Ottanta, ma già da prima era in atto quella che era anche la trasformazione del capitalismo in una sua nuova forma.

Che cos’è che veniva meno? Venivano meno le forme concentrate della socialità, la concentrazione sia del capitale variabile che della forza lavoro. Veniva meno la dualità forte tra gli antagonismi. Si confondevano le opposizioni e si andava verso una ricomposizione tutta al centro della società. Non a caso c’è stata questa riproduzione allargata di un ceto medio. Il ragionamento che ha fatto Sergio Bologna sul lavoro autonomo di seconda generazione è interessante, ma andrebbe approfondito. C’è questa figura paradigmatica del lavoratore autonomo, che esistenzialmente riproduce una condizione sociale: che cosa è questa se non la figura in cui il padrone e l’operaio si identificano nella stessa persona? Il padrone di se stesso. È venuta meno la scissione tra lavoratore e padrone in un processo di identificazione. Questo però non tiene tutto e lascia fuori molte cose che non riesce ad assimilare, così come le varie forme di lavoro immateriale e basato sul sapere; le lascia fuori, tuttavia, senza la forza di contrapporsi a questa figura totalizzante. E questa figura dominante produce il processo opposto a quello previsto da Marx, che non si è realizzato. Infatti, anziché una proletarizzazione crescente, l’operaio-massa diventò il borghese-massa. Questa figura, tra l’altro, ha occupato gli schieramenti politici. Mentre nel capitalismo industriale anche la sinistra cosiddetta riformista non poteva fare a meno di riferirsi a una forma di lavoratore organizzabile in senso diverso dalle altre forme sociali, in questa forma del borghese-massa non c’è più alcuna forma politica che riesca a distinguersi. Tutti i grandi schieramenti politici formali dell’Occidente ormai descrivono le società divise a metà dal punto di vista del consenso elettorale: ciò è espressione di questa mentalità borghese dominante. Quando vai a votare devi scegliere tra una coalizione di borghesia moderata e una progressista. Queste sono le alternative.

Qui c’è stato un passaggio epocale che noi dobbiamo avere il coraggio di sollevare, anche sulla base del nostro punto di partenza antagonistico. Siamo di fronte al fallimento del progetto moderno. Dobbiamo farlo noi, che veniamo da una posizione radicale e di parte. È un discorso ancora una volta di parte. Dall’idea dell’uomo del Rinascimento, che era una élite aristocratica che doveva diventare un disegno valido per tutti gli uomini, il moderno ha prodotto l’ultimo uomo nietzscheano. Qui, dentro il fallimento del progetto moderno, c’è anche il fallimento della rivoluzione socialista che è parte integrante della modernità. Questo ci fa vedere come quella opzione fosse all’interno della modernità, e come la sua critica implichi una critica ancora più forte del moderno. Ciò per spiegare le ultime mie riflessioni, che altrimenti possono sembrare stravaganti. Credo che a questo punto non possiamo più dire quello che ci dicevamo quando eravamo operaisti, perché la crisi del moderno diventa un’altra delle grandi critiche di parte. La critica del moderno è inoltre anche la critica del socialismo che era parte, conseguenza ed eredità del moderno. E anche forse la forma organizzata di partito era un portato del moderno. Questo ci espone su una frontiera pericolosa, cui ho già fatto riferimento dicendo che la rivoluzione operaia aveva anche un altro tipo di rivoluzione che era quella conservatrice. Non a caso ai tempi dell’operaismo avevamo individuato dei riferimenti culturali nel pensiero della crisi o nel pensiero negativo: perché lì c’erano degli elementi di critica del moderno.

Ora lo dico un po’ scherzando, riteologizzando i concetti secolari. La differenza tra me e Toni Negri non è tanto riconducibile a Spinoza o Hobbes, ma è più profonda: Toni mantiene il paradigma escatologico, io invece assumo il paradigma katechontico. Io penso che noi non possiamo più dire o credere che ci sia un’idea lineare della storia, quindi che comunque sia dobbiamo andare avanti nello sviluppo poiché esso comporterà contraddizioni nuove. Credo che bisogna attendere, non lasciare. Bisogna trattenere l’accelerazione della modernità. Perché questo trattenerla ci permette di ricomporre le nostre forze. Nel frattempo tu puoi organizzare le tue forze, ritrovare le soggettività alternative e comporle in forme organizzate, magari anche nuove. Mentre l’accelerazione produce sì moltitudini potenzialmente alternative, ma queste si bruciano immediatamente. Perché non reggi l’accelerazione, non hai ancora la forza per organizzarle immediatamente.

Quindi, il discorso sulla fine della politica moderna proviene molto dall’istanza operaista, perché ha lo stesso segno di ricerca e scoperta. Ha anche il segno di un qualche cosa che fuoriesce dal discorso corrente e fa capire come quella operaista sia un’esperienza che tutti dovrebbero fare, anche le nuove generazioni. Io consiglio di considerarla come un punto di partenza. L’assunzione di uno stile di presenza propria nella società e nella politica, uno stile che deve essere introiettato profondamente per andare poi oltre. Non bisogna cedere alla tentazione di pensare che i contenuti del discorso possano essere riproposti. Occorre inoltre fare una critica di quanto di mitologico può esserci nel ricordo dell’operaismo, per assumerlo realisticamente come un’esperienza che ha fratturato anche la continuità storica, come esercizio di liberazione da altre cose. Come qualcosa che permette di essere libero per il futuro. Libero sì, senza però mai dimenticare quelle caratteristiche dell’operaismo: il punto di vista, il rapporto tra teoria e pratica, la sua istanza fondamentalmente rivoluzionaria. Tenendo fermi questi punti, poi si può andare ovunque. Perché solo così puoi dire: voi non mi acchiapperete, non mi prenderete. Io sono libero.

La grande innovazione di linguaggio introdotta dall’operaismo è stata davvero decisiva e, se vogliamo, un po’ simile al femminismo. Ci sono infatti delle esperienze radicali ed eccedenti rispetto alla realtà presente che si sono preoccupate prima di tutto di trovare un nuovo linguaggio. Inventando nuove parole attraverso un’invenzione linguistica a volte straordinaria, ma non solo inventando nuove parole: altre volte dando un significato diverso alle parole vecchie. Questo per dire che non si può parlare dell’operaismo recuperando un linguaggio che è dell’ortodossia marxista. Perché quella dell’operaismo non è stata un’esperienza eretica. Io faccio sempre una distinzione tra eresia e non ortodossia. Non è stata un’esperienza eretica perché l’eresia si mette sempre fuori dalla propria tradizione, mentre l’operaismo non era fuori dalla tradizione del movimento operaio. Era al suo interno, pur essendo non ortodossa rispetto a quella tradizione. E non ortodossa rispetto al principe di quella tradizione, cioè alla persona di Marx. Infatti, molta innovazione è dovuta anche e proprio allo stesso Marx e al linguaggio marxiano: per noi non si trattava tanto di fare i conti con il marxismo, ma si trattava di fare i conti proprio con Marx. Questa è stata una delle indicazioni dell’esperienza operaista, quella cioè di ritornare a Marx.

In Italia avevamo degli schermi tra Marx e noi, in mezzo c’era una pesante tradizione idealistica e storicistica, vagamente progressista, in parte anche gramsciana. E questo è stato un elemento di rottura. Più che eccesso ed eccedenza, che sono cose che indicano una certa caratteristica dell’operaismo, io uso spesso la parola eccezione. L’eccezione è infatti qualche cosa che si oppone alla norma. Mi è sempre molto piaciuta la terminologia che riguarda lo stato di eccezione rispetto allo stato normale. Solo nello stato di eccezione è possibile introdurre un elemento di frattura della continuità storica: è l’eccezione che mette in crisi la norma. Se si sta dentro la norma non se ne fuoriesce. Per fare questo bisogna radicalizzare l’eccezione rispetto alla norma. L’eccezione si pone inoltre di fronte all’avversario di classe in modo molto attivo e creativo. L’idea del reciproco riconoscimento (scendendo parecchi gradini verso il basso lo si osserva nel dibattito televisivo quando si parla di come i due poli debbano riconoscersi in valori comuni: tutto ciò non ha nulla di hegeliano, anzi, è qualche cosa del tutto opposto) vuole dire il riconoscimento di due forze nemiche, che si riconoscono in quanto nemiche, e si adattano l’una e l’altra a una lotta, e si organizzano per questa lotta. Ecco perché è molto importante l’idea secondo cui la classe senza lotta di classe non ha nemmeno una capacità di definizione di sé. La classe per definirsi ha bisogno della condizione della lotta.

Oggi il politicamente corretto si riferisce molto a un atteggiamento di solidarietà verso i popoli oppressi dalla potenza del capitalismo, in particolare quelli dei paesi più arretrati. Vi si può leggere una dimensione religiosa, lo spirito molto cattolico del riconoscimento di quella oppressione con la solidarietà. Con lo stile operaista si cambia completamente registro. Io non ho simpatia per gli oppressi in quanto oppressi. Mi interessano solo nel momento in cui si ribellano. Se l’oppresso non si ribella, la sua oppressione non mi interessa. Lascio l’oppresso alla sua oppressione, che se la tenga. Che se ne occupino i missionari.

Questo è un elemento importante a proposito della contrapposizione tra ottimismo e pessimismo. Credo ci sia un termine che definisce meglio la questione: è il termine realismo. L’operaismo sta dentro la tradizione del movimento operaio nella sua storia lunga, quella cioè che nasce con la prima rivoluzione industriale e che viene avanti attraverso l’Ottocento. Si tratta di esperienze anche lontane dall’operaismo stesso, dalla sua radicalità, come nel caso della mutualità e delle forme di organizzazione che hanno attraversato il movimento operaio, comprese quelle classiche, come la socialdemocrazia o i partiti comunisti. Questa è una tradizione. L’altra tradizione entro cui si iscrive l’operaismo è quella del realismo politico, che io ho riconosciuto nella storia della politica moderna. Perché essa ha prodotto anche questa corrente o stagione che si è ripetuta, è stata ripercorsa ed è ritornata: quella di un forte realismo politico, accanto ad altre tradizioni come ad esempio quelle utopiche, oppure quelle idealizzanti o ideologiche per principio. La tradizione del realismo politico ha una lunga storia: noi l’abbiamo trovata all’inizio della politica moderna, e poi l’abbiamo ritrovata nel Novecento con un autore dell’operaismo che è stato Max Weber.

Lì c’è una cosa importante che ho sempre consigliato: l’operaismo è sì un punto di vista parziale, ma non è un punto di vista subalterno. Direi che è un punto di vista potenzialmente egemonico, se egemonia non fosse una parola debole. C’è una parola che a me piace di più: è un punto di vista potenzialmente dominante. Anche nei confronti del pensiero politico borghese, di quel grande pensiero che noi abbiamo riconosciuto nella sua grandezza, da Machiavelli, a Hobbes, a Weber, a Marx, l’atteggiamento era quello di conquistare territori di quel pensiero. Nell’introduzione si è definito Operai e capitale una macchina da guerra: sì, di fatto è una guerra teorica in cui tu cerchi di sottrarre territori all’avversario, invadi anche il suo campo e gli togli posizioni. Interpreti ad esempio i grandi autori della politica moderna e li interpreti a tuo modo, li pieghi al tuo interesse. Questa è una espressione di forza, di forza teorica.

Ciò ha creato alle volte anche qualche inconveniente, perché questa guerra teorica, che poi era una guerra politica verso la coltivazione e organizzazione della propria forza, qualcuno l’ha male interpretata leggendola banalmente come forza che si esprimeva in violenza immediata. È stato un grave errore perché poi ha nuociuto alla diffusione di questa interpretazione, che deve rimanere tale. Occorre distinguere precisamente i concetti di forza e di violenza come concetti alternativi. L’alternatività oggi non è tra violenza e non-violenza, ma tra violenza e forza.

Noi dobbiamo ricomporre un forte terreno di analisi realistica della realtà. L’operaismo è partito dall’idea che bisognava coprire il buco che c’era in Marx e nel marxismo, il fatto che sapeva più del capitale di quanto non sapesse del lavoro. Marx ha detto cose più intelligenti sul capitale che sulla classe operaia, ed Engels non lo prenderei come punto di riferimento teorico. L’operaismo ha provato a coprire questo buco cominciando a studiare a fondo che cosa è classe operaia e che cosa è lavoro operaio. E lo ha fatto bene per quella fase che è stata detta fordista del capitalismo industriale del Novecento. Oggi bisogna ricomporre un’analisi di quello che è avvenuto dopo nel mondo del lavoro.

Il tema del lavoro produttivo ci introduce molto in questa analisi. Noi oggi abbiamo l’esigenza di capire qual è la contraddizione più efficace. La contraddizione che si pone all’interno del capitale, o se volete all’interno del sistema di produzione o del sistema di potere. Perché le contraddizioni vere, quelle che minacciano il sistema, non sono mai quelle esterne, che sono sempre funzionali allo sviluppo del sistema stesso. L’operaismo non è infatti mai stato sensibile alle contraddizioni esterne al capitalismo, al suo cuore occidentale di classe. È sempre stato polemico nei confronti di quello che allora si chiamava il terzomondismo. Non siamo mai caduti nella trappola di sostenere la necessità che le campagne accerchiassero le città. Non ci ha mai entusiasmato questa prospettiva. La contraddizione va infatti cercata dentro la città, perché solo quella è efficace, solo quella mette in pericolo. Ciò che noi cerchiamo, la strumentalità pratica della teoria che si delinea attraverso l’operaismo, è sempre quello che minaccia l’equilibrio, la stabilità, la sicurezza del potere. Sempre quello che appunto fa paura a chi detiene o il potere o la gestione del sistema.

L’idea della forza lavoro che si trasformava in lavoro salariato, della forza lavoro come parte interna al capitale e contraddittoria al capitale stesso, era la chiave di volta dell’antagonismo operaio. E oggi bisogna trovare quella chiave lì. Dove sta la minaccia interna al sistema di produzione e di scambio? Questa condizione aveva una conseguenza teorica molto importante: la forza lavoro, in quanto parte del capitale che si contrapponeva al capitale, doveva contrapporsi anche a se stessa in quanto parte del capitale. Questo passava per la famosa lotta al lavoro, nel tema del rifiuto del lavoro. Quando si riconosceva come parte del capitale, essa si contrapponeva anche a se stessa. Si trattava di una grande innovazione, perché noi venivamo allora da una grande enfasi del lavoro come valore positivo della storia che andava riconosciuto. E riconoscere in quel valore un disvalore, è stato un rovesciamento di mentalità molto forte.

Oggi dobbiamo trovare un’operazione analoga dentro alle forme del lavoro contemporaneo. Oltre al lavoro precario che è già noto, bisogna pensare alle forme del lavoro che vengono fuori dal contesto universitario, a quelle forme di lavoro immateriale collegate alla formazione, produzione e organizzazione di sapere. Dove questo può essere un elemento scardinante del sistema di poteri? In che modo questi tipi di lavoro possono riconoscere in se stesso il proprio nemico? Io sono convinto che se dall’università si acquisisce un sapere, questo sapere è un’acquisizione che bisogna riconoscere come qualcosa a cui contrapporsi. Non prendere il sapere come una conquista che il sistema ci consegna, ma al contrario una cosa contro cui dobbiamo stare: stare contro questo sapere.

Anche il docente alternativo che viene da una pratica alternativa, quando diventa docente si fa carico della trasmissione del sapere che l’accademia gli ha consegnato. E rimane antagonista magari nel suo privato, nella sua vita extra-universitaria, ma non lo è nella figura dell’insegnamento. Non trasmette un sapere contro, ma un sapere, anche inconsapevolmente, pro. E questo capita nella maggioranza dei casi, salvo rare eccezioni.

Il tema dell’accelerazione e della decelerazione, è solo una parte del problema. C’è un punto che sta dietro il tema e che forse è più interessante. L’operaismo è stato per lungo tempo sviluppista. L’idea era di far avanzare lo sviluppo capitalistico, perché più questo avanzava più si radicalizzavano le contraddizioni all’interno del capitalismo stesso, e comunque più avanzava lo sviluppo capitalistico più le lotte operaie potevano elevare il livello dello scontro. Questo lo avevamo tratto dai testi del Lenin giovane. Lo sviluppo del capitalismo in Russia era per noi paradigmatico. Lenin combatteva contro i populisti, i quali dicevano che non bisognava passare attraverso il capitalismo, quanto piuttosto ripartire dalle tradizioni russe, dai mir, dalle tradizioni contadine. Secondo Lenin, invece, bisognava attraversare tutto lo sviluppo capitalistico, e lì dentro far crescere la classe operaia. Ci siamo trovati in Italia a combattere la medesima battaglia, perché gran parte della cultura di sinistra riteneva che ci trovassimo in una situazione di capitalismo arretrato e straccione. Allora che cosa bisognava fare? Sviluppare prima il capitalismo e vedere poi che cosa sarebbe successo. C’era un rovesciamento provocatorio dell’operaismo: dove Lenin diceva che bisogna spezzare la catena dove l’anello del capitalismo è debole, noi dicevamo che bisognava spezzarla laddove era forte l’anello della classe operaia. Eravamo però vittime dell’idea che ci fosse una sorta di progressione storica e quasi oggettiva, per cui più andava avanti la storia e meglio era per le forze alternative antagonistiche. Queste teorie sono state di fatto smentite dal progressivo succedersi della storia stessa. Perché in realtà, man mano che andava avanti lo sviluppo capitalistico, man mano che andava avanti la storia progressiva dell’umanità, noi abbiamo visto come si consolidasse il potere reale del capitalismo, a livello sia economico sia politico. Anche perché lo sviluppo capitalistico si è aggregato con lo sviluppo politico della democrazia, con quel carattere progressista che è stato l’elemento più forte del dominio generale.

Da lì è venuto un ripensamento dello sviluppo della storia, che oggi si ripresenta al livello mondiale. Perché la storia ha un procedimento sì oggettivo, ha una sua logica interna, mossa da forze reali che, combattendosi tra loro, la fanno avanzare in un certo senso. Però ha in sé una forza autopropulsiva che, una volta abbandonata a se stessa, non porta mai all’accentuazione delle contraddizioni, ma semmai al riequilibrio delle proprie contraddizioni. Questo lo abbiamo visto nel passaggio dentro il Novecento attraverso le sue fasi: a un certo punto la presa sulla storia non era più quella giusta perché c’era stata quella che si definisce la crisi della politica, il suo tramonto, la fine della politica o almeno di quella moderna, che non riusciva più a contrastare lo sviluppo della storia. Di qui una declinazione che ha assunto a volte un’idea tragica della storia stessa. È tale la sproporzione tra le forze soggettive e l’oggettività dei processi, che lo scontro tra queste due cose è destinato a far soccombere sempre le soggettività. Che qualche cosa possa cambiare, lo credo adesso. Rileggendo la fase della globalizzazione capitalistica, la fine non solo della politica moderna come gli stati-nazione o dei continenti tradizionali come l’Europa, la condizione del mondo è tale che si stanno aggregando forze storiche che probabilmente rimetteranno in moto, o possono farlo, una riproduzione di soggettività. È facile prevedere che nei prossimi decenni, o nel corso di questo secolo, quella che era stata la guerra tra stati-nazione tipica dell’Europa moderna, si riproporrà a livelli esponenzialmente superiori, e vedrà non stati-nazione ma continenti-nazione in lotta tra loro. Quella che era una lotta tra stati diventa, è possibile, una lotta tra continenti. Tra potenze non nazionali ma continentali, con quantità umane impensabili nella storia precedente. Con tipi di conflitti che riproporranno le lotte tra stati al livello dei grandi spazi continentali.

Credo che il tema dello spazio in politica diventerà cruciale nei prossimi decenni. Ecco perché raccomando di cominciare a guardare con il punto di vista della parzialità, del rapporto teoria-pratica, e di guardare alla geopolitica, anche a quella tradizionale, come emergenza con cui ci troveremo a fare i conti. Molto probabilmente lì si riproporrà una forma di lotta di classe allargata, se possiamo chiamarla così, anche se non saranno più le classi tradizionali ma punti di forza e di potenza tra loro in conflitto, che riproporranno il tema dell’equilibrio. Ecco, lì dentro andrei a cercare la nascita e crescita delle nuove soggettività e delle forze in grado di organizzarle. Ed è qualcosa che accenna al dopo la fine della politica, più che andare verso direzioni di una politica altra rispetto alla politica moderna. Credo a un possibile ritorno di quella che è stata la politica moderna a livelli potenzialmente più alti e più consistenti, anche a livello quantitativo e qualitativo. È un tipo di previsione che rimette tutto in gioco. Non ho mai creduto che ci fosse una fine della storia. Mi sembrerebbe strano che ci sia una fine della storia come è avvenuta fino a qui, e non capisco perché dovrebbe avvenire proprio adesso quello che non è mai avvenuto, cioè una fine della storia come conflitto tra grandi potenze. Ma questa è una indicazione solamente ipotetica, che non possiamo neppure adesso organizzare dal punto di vista del pensiero, ma possiamo soltanto prevedere. Nel frattempo la cura di quelle che potrebbero essere le soggettività che si esprimono al livello del mondo che noi siamo in grado di abitare, quello dell’Occidente e dell’Europa, è una finestra che lascerei aperta, con tutta la curiosità intellettuale di cui siamo capaci, e di cui poi queste generazioni nuove dovrebbero essere protagoniste.

Dovremmo proporci il problema di fare in modo che sia così, tenendo presente che quello che avviene non va in quella direzione. Quello che sta avvenendo non sta producendo nuove soggettività, ma nuove potenze oggettive. E allora la ricerca di nuove soggettività è una ricerca attiva, di protagonismo politico. È ricerca vera, che va a trovarle laddove sono, che non le crea artificialmente, che va curiosamente a capire dove e come esse si scoprono, illuminando le contraddizioni del presente, perché è dentro queste che c’è il germe di una soggettività scardinante. E dovunque questa possa apparire, dobbiamo mettere l’occhio curioso e attento. Penso che questo possiate farlo più voi che noi, maggiormente portati a ricostruire quello che è stato. Dovremmo dividerci i compiti. Io quello che posso fare è capire cosa è successo nel secolo che mi appartiene, perché una grande idea è fallita. Io parto dall’idea, che però non vi consegno come eredità, lasciatela a me, che immediatamente dietro le nostre spalle ci sia un punto di catastrofe. E questo punto di catastrofe è la sconfitta politica del movimento operaio. Se noi non partiamo da questo, dal riconoscimento di questo dato di realtà, non riusciremo a scoprire niente. Partiamo dal fatto che la sconfitta c’è stata: non abbiamo perso una battaglia, ma abbiamo perso la guerra. Abbiamo perso l’età delle guerre civili europee e mondiali. Le guerre le hanno vinte i nostri avversari: loro sono i vincitori e loro hanno imposto una idea del passato che è quella corrente, l’idea del Novecento come un secolo di orrori. L’unica memoria che si conserva è quella della shoah: la memoria di un orrore, appunto. La memoria delle grandi lotte e delle grandi conquiste, delle rivoluzioni avvenute, questa è stata cancellata.

Noi possiamo allora far riemergere questa memoria, riconsegnarla alle nuove generazioni perché da lì si possa partire per ricomporre una prospettiva di dissoluzione del presente. Per fare questo ci vogliono menti fresche e sgombre, non piene di storia. Anzi, con poca storia dentro, però con molta politica. Bisogna sempre avere l’idea di un nemico principale contro cui combattere sul terreno della ricerca e del pensiero, mentre sul terreno della pratica il nemico è più visibile. Il nemico principale sul terreno della teoria è l’antipolitica. Perché il discorso sulla fine della politica è un grande discorso politico. È un discorso che combatte l’antipolitica, perché vede la fine della politica come una tragedia. Questo vuol dire ripensare la politica. Ripartire dalla politica e salvarla dal naufragio. Quindi, ogni volta che qualcuno vi predica in qualunque forma, che sia qualunquismo o populismo, l’antipolitica, sparategli addosso, perché è un nemico. Mi raccomando, sparategli sempre metaforicamente. Con le armi della critica, non con la critica delle armi. Questa non ci interessa, la lasciamo agli anarchici. Non ci appartiene perché veniamo da una grande tradizione di forza che non aveva bisogno della critica delle armi. Di questa ne abbisogna soltanto chi è debole, disperato. Mentre l’arma della critica è fondamentale e bisogna utilizzarla sempre e dovunque.

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Ausgangspunkt
Thursday, 07 April 2022 17:29
«In realtà io ho pensato che l’armatura politica della classe operaia, almeno in Italia, si sarebbe potuta dare nell’unica forza politica che esisteva sul terreno, che era il Pci. Io andavo alla ricerca di una forza politica, che poi ho trovato. Ma ce ne siamo accorti, purtroppo, quando questa forza politica era ormai decaduta al suo interno, poi è scomparsa». Quale forza politica sia stata poi effettivamente trovata resta ancora un «geroglifico della ragione». Eppure le premesse sembravano confortanti. Il celebre operaio-massa, fulcro centrale di una nuova composizione di classe potenzialmente rivoluzionaria, viene individuato come capace di assorbire ogni elemento in via di proletarizzazione, ma soprattutto di rovesciare la questione delle alleanze, su cui invece si basava il Pci, in quanto in grado di calamitare a sé le classi subalterne e di ricomporle. Nessuna distinzione, dunque, tra partito e sindacato, fra organizzazione di avanguardia e organizzazione di difesa. Rileggendo Operai e capitale: «Sulla base del capitalismo moderno, dal punto di vista operaio, lotta politica è quella che tende coscientemente a mettere in crisi il meccanismo economico dello sviluppo capitalistico» (p. 111). Bene, molto bene…Poco dopo il problema dell’organizzazione in chiave operaista, gli approcci “leninisti”, il partito di «avanguardia esterna» con la nuova composizione di classe dell’operaio-massa, ma soprattutto quella intensificazione soggettivistica incompatibile con il Pci e con tutta la sua cultura politica. Rileggendo Operai e capitale: «Aver ridotto il partito alla ceralacca che tiene insieme il blocco storico, è stato uno dei più forti, forse il più forte, elemento di blocco dell’intera prospettiva rivoluzionaria, in Italia. Il concetto gramsciano di blocco storico era nient'altro che la rilevazione di uno stadio particolare, di un momento nazionale, dello sviluppo capitalistico. La sua immediata generalizzazione nelle stesse opere del carcere, era già un primo errore. Il secondo errore, molto più grave, fu la volgarizazzione togliattiana del partito nuovo che doveva tendere ad identificarsi sempre più con questo blocco storico, fino a sparire in esso, man mano che la storia della nazione veniva ad identificarsi con la politica nazionale del partito di tutto il popolo. E’ facile dire oggi: il disegno non è riuscito. La verità è che non poteva riuscire. Il capitalismo non permette queste cose a chi, sia pure formalmente, parla a nome della classe avversaria. Il capitalismo tiene questi programmi per sé, li adatta al suo livello, li usa nel proprio sviluppo. Tutti hanno detto Togliatti realista. Ma è stato forse l’uomo più lontano dalla realtà sociale del suo paese che il movimento operaio italiano abbia mai espresso. Viene il dubbio che il suo non fosse opportunismo ben calcolato, ma un’utopia bella e buona scarsamente ragionata» (pp. 116-117). Bene, molto bene...Poi ancora, dalla rilettura critica di Marx, si giunge a un Lenin riattivato nella prospettiva di una prossima congiuntura prerivoluzionaria, con «la catena (che) si spezzerà non dove il capitalismo è più debole, ma dove la classe operaia è più forte» (p. 120) e con la dualità strategia politica, appannaggio delle masse, e tattica quale prerogativa del partito. E qui le cahiers de doléances, trattandosi della mera riproduzione del nesso storico tattica-strategia, la cui ambiguità segnerà anche il Nostro: dalla teoresi della totale estraneità del togliattismo e del riformismo rispetto alle aspirazioni della moderna soggettività di classe, al ritorno al Padre ovvero nel Pci di lì a poco, fino alla formulazione dell’«autonomia del politico» (riproposizione ideologica di un assetto morto, poiché teorizzata, difatti, quando la crisi fiscale dello Stato keynesiano e l’avvento strategico delle politiche neoliberiste svuotavano di fatto proprio quella sovranità che avrebbe dovuto costituire il fondamento dell’autonomia del politico) sorella gemella della tesi della «classe operaia che si fa Stato» di berlingueriana memoria…E così il tema della prassi e della soggettività da ricondurre ai bisogni, alle modalità di esistenza e di cultura, ai comportamenti antagonisti e alle lotte della classe operaia, finisce come per incanto per risottomersi alla soggettività politica del partito quale unico soggetto capace di risalire dal processo di produzione immediato, dalla fabbrica, alla totalità della formazione sociale capitalistica…
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Francesco Demarco
Wednesday, 06 April 2022 15:56
Magnifico!
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Francesco Demarco
Wednesday, 06 April 2022 15:42
Magnifico!
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