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machina

Trasformare le differenze in opposizione

Anna Curcio intervista Maurizio Lazzarato

0e99dc 8141b375eaa248fab75aaee8b7407307mv2Con il discorso della guerra sullo sfondo, in questa intervista a partire dal suo nuovo libro L’intollerabile presente, l’urgenza della rivoluzione. Classi e minoranze (ombre corte 2022), Maurizio Lazzarato affronta alcuni dei nodi irrisolti dell’agire politico rivoluzionario. In particolare, discute la necessità di ripensare il concetto di classe in relazione alla questione della razza e del genere. Attinge da un archivio teorico-politico eterogeneo, eterodosso rispetto alla sua formazione, e mette a critica le micro-politiche della relazione e la (connessa) spoliticizzazione delle differenze per interrogare il pensiero strategico capace trasformare le differenze in opposizione.

L’intervista, che si sviluppa seguendo gli snodi tematici proposti dal titolo del libro, si apre discutendo del presente. Cos’è che rende intollerabile il nostro presente?

* * * *

Guerre e rivoluzione

In una serie di articoli recenti pubblicati su questa rivista, hai discusso della guerra: un tema che nel libro fa da proscenio alla «catastrofe che si annuncia»; l’enunciato di questo presente intollerabile. Quale rapporto esiste (oltre le evidenze della situazione in Ucraina) tra la guerra e il presente?

Nel 2016, insieme a Eric Alliez, abbiamo pubblicato Wars and Capital per ricordare e ricordarci quello che negli ultimi cinquant’anni anni sembravamo aver dimenticato: che non c’è Capitale senza lo Stato e senza la guerra tra stati e senza le guerre di classe, razza e sesso. Con la prima guerra mondiale, le guerre si modificano radicalmente perché sono strettamente intrecciate con il capitale.

La guerra civile europea del XIX secolo, diventa «guerra civile mondiale» che, dopo quattro secoli di sfruttamento, libererà dal colonialismo i «popoli oppressi», mentre la guerra di Clausewitz (imposta da Napoleone come sbocco della rivoluzione francese) diventa «totale», insieme militare e non militare (coinvolgendo combattenti e non combattenti, l’economia e la società, la scienza e la tecnica).

L’economia e la guerra non sono tra loro in opposizione, come credeva il liberalismo del XIX secolo ma sono due facce della stessa medaglia, come si vede nella guerra attuale. L’azione economica (blocco dei dispositivi finanziari, sanzioni, dazi, embargo sulle materie prime e sulle importazioni alimentari – che in Iraq hanno causato la morte di 500.000 bambini, un numero forse esagerato ma che la responsabile di questo eccidio, la «criminale di guerra» Madeleine Albright, non ha mai smentito) e l’azione armata sono complementari e integrate.

Wars and Capital non era che la prima parte di un lavoro che comprendeva, come suo opposto, la rivoluzione. Guerre e rivoluzione sono i due grandi rimossi dei movimenti politici del dopo Sessantotto, che hanno convissuto, tranne poche eccezioni, con un’idea pacificata del capitalismo, con l’illusione che i movimenti potessero svilupparsi senza confrontarsi con la natura distruttiva e guerrafondaia della macchina bicefala Stato-Capitale. Un’analisi concentrata sulla «produzione» allargata, in tutti i sensi (libidinale, affettiva, pulsionale, cognitiva, neuronale, ecc.), di per sé necessaria e utile, ma distaccata dalle lotte di classe, dall’imperialismo e dalla guerra; un’analisi con un’esagerata attenzione alle forme di vita, alla cura del sé (individuale e collettiva), sganciate dalla necessità di una lotta globale per sconfiggere la macchina Stato-Capitale, ci ha condotto all’impotenza attuale.

Il rifiuto di prendere in considerazione la guerra e le illusioni che ne sono derivate, sono una conseguenza della rimozione del concetto di classe, sostituito da «minoranze», «moltitudini», «popolazione»; concetti che dimostrano la loro debolezza quando il ciclo del capitale finisce come era cominciato, con la guerra e le guerre civili.

 

Per discutere l’urgenza della rivoluzione, nel primo capitolo del libro richiami il titolo di un documento politico di cui si è molto parlato all’indomani della stagione politica degli anni Settanta in Italia: Do you remember revolution?, per dire che «la domanda non ha prodotto nessuna risposta». La rivoluzione è sparita dall’orizzonte di possibilità della politica, soffocata nella contro rivoluzione neoliberale, riassorbita nel gioco a somma zero del capitalismo contemporaneo. Qual è oggi, l’urgenza, di riportare la rivoluzione all’ordine del giorno? E cambiando prospettiva, quali sono le urgenze (per intendere quali nodi irrisolti) della rivoluzione?

Era la rivoluzione e la sua dinamica mondiale, impiantata all’est e al sud, che rendeva vincenti anche le lotte sul salario e sul welfare al nord. Nel libro sostituisco alla parola d’ordine operaista «prima la classe poi il capitale», un’altra che mi sembra più precisa e realista: «prima la rivoluzione poi il capitale».

Era la rivoluzione che, attaccandosi al capitalismo in quanto tale, e non a uno specifico e particolare rapporto di potere (di classe, razziale o sessuale), dava forza anche ai conflitti micro-politici.

Una volta sconfitta questa dinamica tutte le lotte si sono indebolite. Gli spazi di mobilizzazione nella medicina, nella psichiatria, in tutte le relazioni micro della politica sono andati restringendosi fino a scomparire. Lo spazio occupato da queste lotte non è rimasto vuoto ma è stato riempito dalla contro-rivoluzione. La macchina Stato–Capitale si è ripresa tutto quello che era stata costretta a concedere sotto la pressione della rivoluzione mondiale. E poi, è arrivata la guerra che ha blindato ogni possibilità di azione politica e diffuso un delirio guerriero che vorrebbe mobilitare le energie psichiche della società (altra caratteristica della guerra «totale» che funziona ancora oggi), per costruire le soggettività della guerra.

Io non so se un’altra rivoluzione sia possibile, ma se non si ricostruisce una politica che recuperi questa dinamica, resteremo sempre sulla difensiva, con l’incapacità anche di mantenere posizioni difensive.

Penso che, opporre la lotta generale contro la macchina Stato-Capitale alle lotte locali e micro-politiche, che riguardano relazioni di potere specifiche, ben rappresentato dal punto di vista di Michel Foucault, sia stata un grande errore politico. Il filosofo francese incitava a «distogliersi da tutti quei progetti che pretendono di essere globali e radicali» e, al contrario, concentrarsi sulle «trasformazioni, anche parziali», «che concernono i nostri modi d’essere e di pensare, le relazioni d’autorità, i rapporti tra i sessi, il modo in cui percepiamo la follia o la malattia». Una volta distrutti i progetti globali e radicali, i nostri modi di essere e di pensare micro sono stati pesantemente sconvolti. Non sembra infatti che abbiano beneficiato delle «trasformazioni parziali», e lo spazio del sapere e della vita è stato occupato da un conformismo, una volgarità e un egoismo che tendono continuamente a sfociare in nuove forme di fascismo, di razzismo, di sessismo e di guerra. La questione della malattia è stata trasformata in industria della salute e la follia è tornata a essere una condizione di emarginazione, dopo che un secolo di rivoluzioni aveva creato le condizioni per estirparla dall’indigenza. L’opposizione tra trasformazioni parziali e trasformazioni radicali e globali, tra rivoluzione politica e rivoluzione sociale, tra micro e macro politica, è un’illusione che non regge alla luce della storia degli ultimi cinquant’anni. È la causa principale della miseria politica e intellettuale del nostro tempo. C’è stata una specie di spoliticizzazione del capitalismo, in cui la guerra è sparita.

La posizione di estrema debolezza dei movimenti politici contemporanei si manifesta nell’incapacità di politicizzare la violenza della guerra. Il paragone con le prese di posizione politiche dei rivoluzionari di solo un secolo fa è impietoso. Per loro la guerra era il punto di partenza e di arrivo dello sviluppo della macchina Stato-Capitale in generale e di ogni ciclo d’accumulazione in particolare.

Il capitalismo è un insieme di relazioni di potere che si esercitano sia su scala mondiale sia su scala sociale, tanto a livello micro quanto a livello macro. Questa dimensione generale non può essere messa da parte. È la guerra che ce la impone, per chi l’avesse dimenticato.

 

Classi e minoranze

Il sottotitolo del libro racchiude ciò che soprattutto vorrei discutere: le «classi», al plurale, nel rapporto con le «minoranze». Le classi di cui parli non sono marxianamente borghesia e proletariato ma la classe delle donne e quella degli uomini, la classe dei bianchi e quella dei non bianchi, in un rapporto che trascende la dialettica capitale-lavoro e in cui «le minoranze» che come precisi sulla scorta del manifesto del Combahee River Collective «non escludono le classi» agiscono trasversalmente attraverso la classe.

Questa idea di un rapporto tra classi al plurale è espressamente interrogata da una delle dieci ipotesi che fanno da ordito alla trama del libro, l’«ipotesi dei diversi modi di produzione», anticipata dall’«ipotesi della rifondazione del concetto di classe». Ora, se concordo pienamente sulla necessità di ripensare il concetto di classe che abbiamo ereditato dalla tradizione marxista e operaia (operaista compresa), per la sua incapacità di leggere come la critica femminista e il pensiero radical nero hanno indicato le forme dello sfruttamento del capitalismo contemporaneo e la più complessa articolazione degli spazi della soggettivazione politica rivoluzionaria, mi spiazza invece l’ipotesi di una molteplicità di modi di produzione soprattutto se, come opportunamente sottolinei, le minoranze, ovvero i soggetti che fanno esperienza di rapporti di minorità, agiscono trasversalmente alla classe. Cosa intendi più precisamente con «diversi modi di produzione» e quali sono queste «classi»?

A partire dal dopo guerra, il più grande problema che la rivoluzione ha incontrato è stato la questione della molteplicità delle classi e dei soggetti politici. Se la questione emerge già con la conquista dell’America, è soltanto nel XX secolo che i processi di soggettivazione delle donne e dei colonizzati affermano la loro autonomia dal movimento operaio.

Questa molteplicità è stata al centro delle teorie critiche degli anni Sessanta e Settanta (le minoranze in Deleuze e Guattari, le «contro condotte» in Foucault, fino alla molteplicità di singolarità della «moltitudine» in Negri e Hardt): un passo avanti rispetto al marxismo ma anche molti passi indietro, perché implicano la rimozione del concetto di classe (e di conseguenza – lo ripeto – del concetto di guerre tra Stati e delle guerre di razza, sesso, classe).

In contro tendenza, il femminismo materialista francese ha pensato, sulla scia della definizione marxiana di capitale come rapporto sociale, il rapporto di potere degli uomini sulle donne come un rapporto di classe, un «rapporto sociale di sesso».

Non si tratta soltanto, come dice Fanon, di «distendere» il concetto per includervi le donne e i colonizzati. L’allargamento del concetto di classe mette in crisi la sua omogeneità, perché le classi sono costituite da minoranze (da una molteplicità di minoranze). Le classi sono nello stesso tempo unità e molteplicità: la classe operaia contiene delle minoranze sessuali e razziali, la classe delle donne contiene a sua volta un’altra molteplicità (donne ricche e povere, bianche, nere, indigene, eterosessuali, lesbiche, ecc.).

L’unità della classe non può mai essere totalizzante perché è sempre un gioco di opposizioni e di alleanze con «minoranze» anche esse organizzate in unità della stessa natura.

La differenza con altri femminismi è radicale: le femministe del salario al lavoro domestico rivendicano l’appartenenza delle donne alla «classe operaia», le femministe materialiste, affermano invece l’esistenza di diverse classi sfruttate e dominate in modo specifico.

Tale concetto della «classe» mi permette di criticare le politiche dell’identità nelle quali i differenti movimenti politici contemporanei sono sempre pronti a cadere: la classe delle donne, come la classe operaia in Marx, riesce nella sua rivoluzione soltanto se porta alla sua abolizione in quanto classe; il suo successo è garantito dalla scomparsa dell’assoggettamento «donna». Con l’accortezza di tener conto che le modalità dell’assoggettamento donna passano per il sesso, come passano per la razza gli assoggettamenti dei non bianchi e che quindi producono soggettivazioni eterogenee a quelle degli operai.

Questo femminismo, che esprime anche una grande estraneità dalla teoria della «differenza sessuale» italiana, non intende affermare l’eterogeneità della donna, ma abolire il rapporto uomo/donna, sopprimendo cioè anche la classe degli uomini, «non attraverso una pratica genocida ma politica».

Per cercare di capire qualcosa in questa molteplicità, invece di esaltarla, girando a vuoto come fanno molti, ho cercato di articolare insieme i concetti di classe e minoranza, riprendendo le posizioni del Combahee River Collective che mi sembrano molto significative in questo senso. Queste femministe nere e lesbiche tengono insieme l’azione delle classi e delle minoranze: i dualismi capitale/lavoro, uomini/donne, bianchi/razzializzati sono dualismi di classe, sono reali e bisogna disfarli. Non possono essere aggirati ma devono essere affrontati di petto. Quello che cambia è il come affrontarli.

Quanto ai «modi» di produzione, Marx stesso parlava di relazioni di potere «arcaiche» che provengono da modi di produzione precedenti – come il lavoro domestico e il patriarcato – che lo sviluppo del capitalismo avrebbe superato (Engels e Lenin, dixit). Cosa che non è mai avvenuta perché i dualismi razziali e sessuali, che sono delle relazioni di potere non specificamente capitalistiche, si sono riprodotti e anche approfonditi. La guerra attuale li intensifica ulteriormente.

In realtà il capitalismo è l’ibridazione di una molteplicità di rapporti di potere, di differenti modi di produzione, di differenti modalità di assoggettamento. Il capitalismo non è un rapporto di potere puro (capitale/lavoro) e non è neanche un rapporto che si purifica nel corso del suo sviluppo per arrivare al confronto decisivo tra le due classi. Questa è stata un’illusione perniciosa del marxismo, ciò su cui è caduto. Anche in presenza di un alto sviluppo delle forze produttive, si riproducono rapporti di potere, temporalità, soggettivazione che non sono direttamente assimilabili al rapporto di Capitale, anche se questo li cattura, li sfrutta, li domina.

La definizione più pertinente di queste molteplicità è stata data da Ernst Bloch: «la contemporaneità del non contemporaneo» (che nel libro mi limito a nominare senza svilupparla come merita), con cui cerca di spiegare il successo del nazismo e la sconfitta del marxismo in Europa. L’idea è quella di diversi gruppi sociali che vivono nelle stesso mondo (la Germania tra le due guerre) ma non nello stesso tempo; uno stesso mondo (il capitalismo) racchiude temporalità e rapporti di potere differenti, modi di vivere e lavorare (non «contemporanei»). Il tempo del capitale, anche in una situazione di grande sviluppo delle forze produttive come in Germania in quegli anni, non riesce a sussumere tutti i tempi, tutte le forme di vita, gli immaginari, le soggettività e neanche vuole, perché il suo potere e il suo profitto si basa proprio su questi «differenziali». Bloch fa l’esempio di tre gruppi sociali (i contadini, i giovani della classe media e i gruppi sociali in via di declassamento) ai quali non si può parlare come agli operai di fabbrica perché hanno «culture», linguaggi, modi di vita, pratiche lavorative differenti. I nazisti hanno trovato un vocabolario, dei segni, un immaginario per mistificare e nello stesso tempo organizzare il loro «disagio».

Il grande etnologo e studioso delle religioni Ernesto De Martino dice la stessa cosa rispetto al sud dell’Italia e del mondo. La «cultura», le forme di vita, le abitudini, le credenze, il lavoro, di queste classi non sono riducibili alla limpida purezza del rapporto capitale/lavoro.

Nel libro cerco di mostrare come i rivoluzionari nel sud del mondo abbiano, nella prima metà del XX secolo, riadattato la teoria marxista alla loro situazione (contadina), con un grande successo (hanno fatto le loro rivoluzioni). Nella seconda metà dello stesso secolo la cosa è diventata più difficile. I colonizzati e le donne, il cui assoggettamento e le modalità del dominio e dello sfruttamento non sono direttamente riconducibili al rapporto capitale/lavoro, hanno rivendicato la loro piena autonomia dal movimento operaio, precisamente perché non teneva conto, né della specificità del loro sfruttamento e del loro essere dominati che passa attraverso la razza e il sesso, né delle modalità di soggettivazione e di organizzazione che non possono coincidere con quelle del movimento operaio.

 

Rivendicare la proprio autonomia dal movimento operaio e dal marxismo, come hanno fatto le donne e i colonizzati nella seconda metà del Novecento, non vuol dire però porsi al di fuori dei rapporti capitalistici, ovvero oltre la dialettica capitale/lavoro (che pur non risolve la condizione, e la contraddizione, di questi soggetti). Se è vero che il lavoro non basta più a spiegare la classe, è altrettanto vero che dismettere la classe vuol dire aprire alle derive identitarie e alla cattura capitalistica delle differenze, come vediamo di questi tempi. Piuttosto, come scrivi sulla scorta della riflessione del Combahee River Collective, «il capitalismo funziona integrando oppressioni»; Ernst Bloch, che richiami, ci ricorda che il capitalismo integra temporalità differenti, ma i «diversi modi di produzione» di cui parli non richiamano (non necessariamente) temporalità differenti ma piuttosto differenti rapporti sociali e comunque dentro un medesimo modo di produzione: il capitalismo….

Non li ho separati io i modi di produzione, sono i movimenti del dopo guerra che hanno imposto la rottura con il movimento operaio, con i partiti comunisti. Io cerco di capire cosa voglia dire rivendicare autonomia di organizzazione, di decisione, di scelte politiche da parte delle donne e dei colonizzati. Si sono voluti separare a causa dei limiti teorici e politici del movimento operaio e del marxismo. La rottura va interpretata come una chance per superare la sconfitta che la rivoluzione mondiale ha subito tra gli anni Sessanta e Settanta, quando il concetto di lotta di classe (capitale/lavoro) al singolare, ha mostrato tutti i suoi limiti.

Dal lavoro del femminismo materialista e del Combahee River Collective traggo l’idea che i rapporti di classe sono al tempo stesso dualistici e molteplici e tutti sono catturati e sfruttati dalla macchina Stato-Capitale. Aggiungo poi che i dualismi razziali e sessuali hanno la stessa importanza del dualismo capitale/lavoro, sia dal punto di vista economico che politico. Inoltre, questi dualismi esprimono l’opposizione tra le classi e queste differenti classi sono composte da minoranze in cooperazione/conflitto tra loro.

La molteplicità conflittuale delle minoranze interne alla classe esiste da sempre. Ci sono state e ci sono ancora profonde differenze politiche, strategiche tra femministe nere e femministe bianche, tra donne etero e lesbiche, all’interno del femminismo. Aimé Cesaire, negli anni Cinquanta esce dal partito comunista perché rivendica per i neri una loro propria organizzazione, una loro propria politica. Ancora oggi in Francia i militanti decoloniali si separano dalle organizzazioni della sinistra bianca. È questa dialettica che mi interessa.

La classe operaia si oppone al capitale secondo une logica dualista, ma per poter essere efficace, deve comporsi con una molteplicità di differenze (razziali, sessuali). Analogamente, la classe delle donne si oppone in maniera dualistica agli uomini, ma questa opposizione è costituita da una molteplicità (donne bianche, nere, ricche, proletarie, lesbiche, eterosessuali) che deve essere compresa e organizzata.

Tuttavia, come sostengono le femministe del Combahee River Collective, il capitale è un insieme di rapporti di potere (uomini/donne, bianchi/razzializzati, capitale/lavoro), un insieme di modi di produzione e un insieme di assoggettamenti. Nessuna classe può pretendere di liberarsi da sola: la rivoluzione degli operai, la rivoluzione delle donne, la rivoluzione dei razzializzati sono impossibili, perché ciascuna di queste lotte attacca soltanto una delle relazioni di potere (sessuale, razziale, economica). La molteplicità degli sfruttamenti e delle dominazioni richiede delle lotte e delle forme di organizzazione specifiche, ma che in nessun modo possono richiudersi su se stesse. Se si limitano alla loro specificità rischiano di non portar a termine nemmeno la loro propria liberazione (vedi la Corte suprema degli Stati Uniti che ha annullato la libertà di scelta delle donne sull’aborto). Se attaccata solo su un fronte (femminismo, razzismo, classismo), la macchina Stato-Capitale resiste riprendendosi un poco alla volta gli spazi di libertà e le conquiste conseguite dai differenti movimenti. L’autonomia delle lotte delle donne e dei razzializzati è necessaria, ma non deve essere fine a se stessa.

Le classi contemporanee non possono agire come la classe operaia storica, poiché devono tener conto delle politiche e dell’organizzazione delle minoranze. Non possono pretendere di diventare soggetti rivoluzionari universali, né di costituire una soggettivazione egemonica. Gli assoggettamenti, come le soggettivazioni, sono molteplici e neutralizzano ogni tentativo di costituzione di un soggetto maggioritario. Il declino del partito e delle forme di organizzazione centralizzate (e identitarie) del movimento operaio è dovuto all’emergere di queste classi e di queste minoranze, che il marxismo poteva vedere solo come contraddizioni secondarie subordinate alla lotta capitale/lavoro.

I dualismi uomini/donne e bianchi/razzializzati impediscono la riproduzione di una semplificazione assimilabile allo scontro «finale» tra capitalisti e operai, capace di portare l’ostilità agli estremi (dualismo di potere). Questa semplificazione, pur necessaria per battere la macchina Stato-Capitale, non è più realizzabile da una sola classe nelle forme che il marxismo aveva teorizzato.

Il modo di agire della macchina Stato-Capitale non è caratterizzato dall’omogeneizzazione, ma dalla differenziazione dei rapporti di potere, dei lavori, degli assoggettamenti. Non è vero che il capitale opera passando sistematicamente dalla sussunzione formale (sfruttamento di relazioni produttive e di potere pre-capitaliste), alla sussunzione reale (sfruttamento di relazioni produttive e di potere che sono modellate secondo i metodi del capitale). Al contrario, produce lui stesso il sottosviluppo, il lavoro non salariato, il lavoro gratuito. Nello stesso momento in cui valorizza il lavoro astratto, deve necessariamente creare (o trovare) del lavoro non astratto. Riprendendo la teoria del lavoro gratuito di Jason Moore: se ci fosse solo lavoro astratto, se la sussunzione reale procedesse inesorabilmente, il tasso di profitto sarebbe destinato a cadere.

La differenziazione è quello che la mondializzazione produce e riproduce per mantenere alti i tassi di profitto. Il patriarcato, il lavoro domestico, l’eterosessualità non sono stati inventati dal Capitale, ma questo li integra nel suo modo di sfruttamento, creando une ibridazione che ne modifica certi aspetti ma ne conserva la sua forma arcaica (neo-arcaismo dicono felicemente Deleuze e Guattari).

È per questo che il razzismo e il sessismo, invece di essere superati dai rapporti propriamente capitalisti, sono dei dispositivi fondamentali della gestione di una nuova divisione interna tra nord e sud, strumenti di controllo del lavoro gratuito e delle soggettività che lo erogano. Lo Stato francese nasconde questa realtà sotto la foglia di fico della laicità e dell’opposizione tra civiltà. In realtà il razzismo e il sessismo sono dispositivi di classe.

Ora, il problema è che questa molteplicità articolata in classi e minoranze non ha ancora trovato una strategia per affermarsi in quanto molteplicità che nega, al tempo stesso, la macchina Stato-Capitale. Da quest’ultimo scontro si esce vincitori o vinti, non c’è riformismo che tenga (anche questo è stato constatato e confermato da cinquant’anni di contro rivoluzione).

La guerra dimostra chiaramente la debolezza politica dei movimenti. Rischiano di uscirne stritolati, di non giocare nessun ruolo nel nuovo ordine mondiale nascente, perché, a differenza dei movimenti del XX secolo, non hanno nessuna strategia globale per battere il capitale.

 

Differenze e opposizione

Nell’ultima parte del libro, riprendendo la nota espressione di Carla Lonzi, richiami l’idea di un «soggetto imprevisto» che sappia misurarsi in questa relazione strategica tra classi e minoranze. È un soggetto «imprevisto» perché capace di far vivere simultaneamente negazione e affermazione, che sa fare della differenza di cui è espressione la minoranza un’opposizione (oltre l’affermazione). Enuncia la differenza e al contempo la nega. L’una o l’altra non sono abbastanza: «dopo aver riconosciuto le opposizioni e le “differenze”, … devono convertirsi in una coalizione contro il nemico esterno comune».

La questione è cruciale. Come mostri nel libro, le differenze, al pari delle minoranze, non sono sempre o necessariamente opposizione. Come fare delle differenze un’opposizione, come sottrarre le differenze alla cattura del capitale, resta il nodo politico oggi…

Le differenze devono diventare opposizioni. Bisogna lavorare politicamente perché diventino antagoniste, altrimenti saranno impotenti. Al fondo dei soggetti politici c’è l’opposizione.

A causa della molteplicità della composizione delle classi, a causa della loro eterogeneità il soggetto politico non è già dato (non gli basta passare dall’in se al per sé come la classe operaia), ma è un soggetto imprevisto, nel senso che bisogna inventarlo, costruirlo. Non preesiste all’azione del suo farsi, alla strategia che lo fa emergere.

La difficoltà consiste nel comporre questa molteplicità e condurre, contemporaneamente, una lotta per il superamento del capitalismo. È necessario un doppio pensiero strategico, per la molteplicità e per il dualismo di potere che quest’ultima deve instaurare con la macchina Stato-Capitale.

Le classi dominanti al pari delle classi oppresse si relazionano tra loro attraverso strategie di dominazione o di liberazione. È impossibile racchiudere la loro azione in un tutto, un sistema, una struttura, perché si tratta di rapporti di potere contingenti, provvisori, precari, aperti all’iniziativa politica, all’azione. La strategia non è né un progetto né un programma, ma una tecnica immanente alle lotte. Non è esercitata da un soggetto sovrano che precede la sua attuazione, perché essa è condizione del suo apparire. La dinamica della sua costituzione è data dal rifiuto, dall’opposizione, dalla negazione politica del suo nemico.

Nel capitalismo, le differenze non innescano un processo di differenziazione (per cui la differenza va differenziandosi) come crede ingenuamente una certa filosofia. Al contrario, le differenze si polarizzano e si oppongono con una intensità tale che, alla fine del ciclo di accumulazione, sfocia nella guerra.

L’immanenza del capitalismo rispetto alle lotte, è legata all’esaltazione, da parte delle teorie critiche, della differenza come alternativa politica all’opposizione e alla critica del negativo che ne consegue. La differenza sarebbe una affermazione assoluta che non ha bisogno di nessun negativo. Mi sembra invece che l’azione politica sia impossibile senza negazione, senza rifiuto, senza opposizione. Certo il negativo non va visto con gli occhiali della dialettica hegeliana ma la negazione va affermata. Si tratta di sostituire al pensiero dialettico un pensiero strategico, in cui il negativo non può mai essere «superato» dialetticamente ma attraverso uno scontro, una lotta che non contiene già il suo verdetto come vorrebbe la filosofia della storia.

La guerra è un esempio perfetto di scontro non dialettico, perché non c’è nessuna filosofia della storia che può decidere della vittoria o della sconfitta. L’esito della guerra dipende dal «caso» dei rapporti di forza, dalla capacità di costruirli, di gestirli, di imporli.

È sempre l’opposizione che interrompe il procedere della macchina Stato-Capitale, mai la differenza. Le differenze non minacciano mai i poteri stabiliti. Si potrebbe addirittura dire il contrario. Il Capitale favorisce differenze «negative» come il razzismo e il sessismo – e incoraggia a produrre differenze «positive» necessarie al consumo e alla produzione. Ciò che minaccia il Capitale è sempre la trasformazione delle differenze in opposizioni. Se non operano questo passaggio le differenze saranno spazzate via dalle guerre e dai fascismi.


Maurizio Lazzarato, sociologo e filosofo, vive e lavora a Parigi dove svolge attività di ricerca sulle trasformazioni del lavoro e le nuove forme di movimenti sociali. Tra le sue pubblicazioni in lingua italiana: La fabbrica dell’uomo indebitato (2012) e Il governo dell’uomo indebitato (2013), Il capitalismo odia tutti (2019) pubblicati con successo presso DeriveApprodi.

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