Print Friendly, PDF & Email

consecutiorerum

Masse postmoderne. Considerazioni su feticismo e dispotismo nel tempo dell’estetizzazione amministrata

di Marco Gatto*

Marco Gatto 768x5581. Agglomerati transitori e identificazioni attimali

Di fronte alle recenti immagini dell’assalto alla sede romana della Cgil dello scorso 9 ottobre, ci siamo chiesti in quale misura l’evidente partecipazione di organizzazioni neofasciste avesse incontrato la protesta di corpi sociali meno smaccatamente politicizzati e più direttamente legati, in quel frangente, alla contestazione per le politiche di emergenza sanitaria adottate dal governo (green pass in testa). Abbiamo riflettuto, di fronte a quelle stesse immagini, sul peso specifico di alcune figure tribunizie, colte dai media nell’atto di incitare i presenti o, come si direbbe con lessico giornalistico, di aizzare la folla. Ed è stata dai più condivisa, probabilmente, la sensazione di trovarsi di fronte a retori casuali, finanche folcloristici, a pose tanto prevedibili quanto consumate, a un gioco di ruoli persino meccanico e tuttavia capace di scatenare una furia distruttiva simbolicamente orientata. Così come a non pochi dev’essere sfuggito il profilo fin troppo vario di quella folla, la cui costituzione sembrava caratterizzata da un’aperta provvisorietà degli attori partecipanti. Quasi che a vestire i panni dell’aggressore potesse essere, in fondo, chiunque e che la violenza risultasse come il naturale compimento di un modo d’esserci, come un tentativo di partecipare all’atto, di manifestare in quel momento – e solo in quel momento – la propria presenza. Che ad essere colpita sia stata la sede del maggior sindacato italiano dei lavoratori, è un dato di fatto incontrovertibile e nello stesso tempo carico di significati, che deve essere compreso insistendo su un’altra constatazione, relativa al carattere estremamente spurio e ibrido di quel chiunque.

La cui reale sostanza rischia di essere offuscata da rappresentazioni semplificative o da troppo spedite ricostruzioni giornalistiche. Nel bisogno di determinarlo materialisticamente (l’unico modo per aggirare il riduzionismo appena evocato) e di rispondere al quesito della sua identificazione politica, è necessario constatare che in quel chiunque viene a identificarsi certamente il sottobosco “nero” dell’estremismo neofascista (in non pochi casi tollerato dalle forze conservatrici dell’arco costituzionale), ma anche una complessa e stratificata presenza sociale, assai mutevole perché transitoria, di individui pronti a rappresentarsi come esclusi dalla democrazia e alla ricerca di una qualche ragione identitaria a portata di mano.

Questo sintetico accenno a un fatto di cronaca assai recente sconta tutti i rischi di una generalizzazione che consente di passare senza tappe intermedie dal particolare all’universale. Per quanto la cronaca degli ultimi anni, in Italia e in Occidente, ci abbia abituati a una multiforme presenza (e frequenza) di episodi di questo tipo, solitamente riconducibili a una matrice razzista, xenofoba, sessuale o dichiaratamente politica, e per quanto la consistenza numerica degli stessi si presenti come una realtà di per sé significativa, va detto che l’eterogenea diffusione della violenza gruppale chiede d’essere compresa sia nella sua specificità sia alla luce del suo legame più generale (ma non generico, perché materialisticamente connotato) con l’atomizzazione imposta dal tardo capitalismo e con le nuove forme di identificazione feticistico-carismatica condizionate dal vigente modo economico di produzione. La lezione di Freud, insieme agli inevitabili limiti delle sue intenzioni (rilevabili a partire dall’esigenza di tradurre, forse troppo meccanicamente, la psicoanalisi su un piano storico-politico), può essere ancora utile se non altro per ripensare quel nesso problematico tra individuo e insieme collettivo che la postmodernità ha contribuito ampiamente a riscrivere.

È necessario partire da alcune precisazioni. A proposito delle relazioni dispotiche che vediamo oggi instaurarsi nella geografia occidentale – relazioni cioè caratterizzate da sopraffazione e violenza, nel cui set si fronteggiano insiemi di gruppo e vittime provvisoriamente designate, secondo una trama simbolica che può richiamare nostalgicamente il passato o riferirsi a un qualsiasi contenuto politico-culturale del presente –, sembrerebbe più opportuno parlare di “agglomerati” transitori e occasionali1. L’agglomerato è un raggruppamento che si aggrega e si disgrega molto velocemente. La sua logica è dettata dall’occasionalità e da un disorientamento funzionale: una logica della attimalità e dell’atto, che si configura come pulsione ad aggregarsi pronta a esplodere e dissolversi. Nel contesto delle forme di vita occidentali, l’aggregato transitorio, governato dalla ricerca di punti provvisori di orientamento, sostituisce le masse della modernità, così rispecchiando non solo la perdurante frammentazione sociale, ma anche l’erosione del soggetto individuale, ora capace di accedere a forme del tutto provvisorie di identificazione.

Gli sciami transitori sono animati da partecipanti che non obbediscono a una qualche regolativa entità valoriale – ossia a ciò che chiamiamo, con un lessico che a qualcuno apparirà vetusto, “ideologia” – ma che sono trascinati nel vortice dell’identificazione collettiva da provvisori orientamenti di senso. Questi rappresentano, del resto, il volto nuovo dell’ideologia: per alcuni, la sua degradazione nullificante; per altri, un suo aggiornamento postmoderno2. Cercherò di chiarire più tardi che si tratta di manifestazioni ideologiche superficiali e di articolazioni epidermiche di un processo più generale. Ma è opportuno da subito specificare che per aggregati transitori intendo anzitutto casi di superficie, la cui manifestazione diretta, rappresentata solitamente da uno scatenamento di violenza, sembra caratterizzata da una certa immediatezza che va tuttavia compresa, come si diceva, nelle sue molteplici mediazioni costitutive.

Gli attori (forse il termine più adatto a descrivere gli individui coinvolti nel gioco provvisorio di queste pseudo-masse) dello sciame si definiscono per mezzo di un bersaglio mobile che è allo stesso modo cangiante. C’è dunque un fattore di estrema mobilità che suggerisce l’assoluta intercambiabilità ideologica di questi fenomeni aggregativi. Nulla di più facile che uno stesso attore possa partecipare a gruppi diversi o trovare, di volta in volta, forme differenti (persino simultanee) di identificazione gruppale. L’intercambiabilità ideologica è un elemento ancora troppo sottovalutato. Ciò suggerisce che il bersaglio mobile possa essere, ancora una volta, chicchessia o qualsiasi oggetto – chiunque può essere sottoposto a un attacco dello sciame, purché caricato, in quel momento, di un valore che lo elegge a ideale destinatario della violenza – e che rispetto alla dialettica capo/popolo, capo/massa, che presupponeva una sorta di tecnologia ben definita e organizzata dell’attacco3, ad assumere un ruolo primario non sia ora il comando, l’ingiunzione dall’alto, ma l’oggetto, il bersaglio verso cui si rivolge l’azione contestativa. Certo, questo oggetto può essere indicato da una figura carismatica (per quanto evanescente). E nell’atto di indicare sussiste l’istituzionalizzazione di una violenza; d’altra parte, stiamo parlando di meccanismi aggregativi che funzionano attraverso una logica smaccatamente brutale. Ma il punto è che l’aggregato si costituisce oggi più attraverso l’identificazione di un bersaglio – il quale, nella logica attimale che stiamo descrivendo, può essere talmente occasionale da essere scelto sul momento – che mediante l’identificazione con un capo, dal momento che quest’ultima richiede un tempo di sedimentazione più lungo (o, per così dire, un pur larvale “convincimento” ideologico). La rapidità violenta dello sciame è un elemento importante da considerare. Il capo, se c’è, funziona alla stregua di un mediatore evanescente (che media tra lo sciame e il bersaglio, sparendo4); potrebbe anche non esserci; per certi aspetti, non c’è.

 

2. Ordini valoriali e consenso regolato

Veniamo a un primo quesito. Possiamo oggi parlare di masse senza capo o di masse a-ideologiche? Possiamo chiederci, con il Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’Io, se il capo possa essere un’idea o un’astrazione? Freud è stato acuto nel considerare questa possibilità5. Una corretta obiezione al discorso finora imbastito potrebbe essere la seguente: esistono oggi aggregati di chiara marca neo-fascista o gruppi che si identificano attorno a una certa simbologia ben definita. La cronaca recente, se non vogliamo nuovamente tornare all’episodio menzionato in apertura, indica non pochi elementi di riflessione. La violenza che si appella a un campo ideologico definito può trovare sbocco anche nella manifestazione individuale (o nei tanti individui massificati in uno solo, per usare un’immagine di Gramsci). Il passaggio all’atto va però letto come esito di una precondizione: quella dell’appartenenza a un immaginario, a una consorteria fittizia, spesso riassunta da un nome-feticcio o da un oggetto simbolico. Per restare in Italia, pensiamo all’attacco di Luca Traini ai danni di sei migranti (Macerata, 3 febbraio 2018), accompagnato, secondo le cronache, da saluti romani ed esternazioni nazionalistiche. Viene da chiedersi: il richiamo al tricolore o a figure della destra populista, in quel caso, è teso alla richiesta di convalida della propria azione a un leader immaginario? Oppure è legato tentativo di trovare un qualche senso ideologico regolativo, che, del resto, in una certa misura e da qualcuno (quel leader?) dev’essere stato costruito o almeno fatto brillare di luce incantatoria? In altre parole: lo sbandieramento nazionalistico o virilistico presuppone un ordine valoriale capace di consenso? O è il segno di un incremento del carattere di feticcio attribuibile a questo stesso ordine valoriale, a quello spettro di valori che può essere, a seconda dei casi, scelto e consumato?

Alla luce di quanto detto in apertura, questa seconda opzione mi sembra più pertinente. È infatti plausibile che l’orizzonte della mercificazione ideologica (nel quale siamo tutti immersi in quanto individui postmoderni) includa, sorpassi e anzi sussuma i vecchi codici ideologici, che semmai riaffiorano appunto nella forma arcana (iuxta Marx) dell’oggetto-feticcio, della merce, che ora incorpora le idee e gli ordini valoriali di riferimento (degradati ovviamente a simulacro o a remake degli originali). I quali, d’altra parte, non possono essere considerati semplicemente alla stregua di lacerti ideologici disinnescati, ma come elementi di un represso storico che, se riattivato, è pronto a riemergere. Voglio dire che la forza di ciò che noi siamo abituati a chiamare “ideologia”, anche in riferimento ai comportamenti delle masse studiate da Freud, non si misura più sulla coerenza delle sue fondamenta valoriali (per quanto impresentabili), ma sulla disponibilità estrema, propria della nostra epoca, a feticizzare quelle fondamenta e a predisporsi alla loro intercambiabilità, alla loro transitorietà, al loro “uso” feticistico.

Ora, questa disponibilità alla manipolazione feticistica delle idee disegna una traiettoria ideologica ulteriore. Potremmo indicarla come la manutenzione postmoderna e ideologica della cosiddetta “fine delle ideologie” o della loro proclamata debolezza. Si lega, nello specifico, al processo più generale di consumo delle idee che definisce il nostro tempo. Vale a dire che il feticismo ideologico è, nelle modalità deboli e transitorie appena descritte, reso possibile dalla presenza di una soggettività socialmente prodotta e perennemente disponibile a riempirsi di elementi valoriali i più diversi, proprio perché vieppiù svuotata, disorientata e disattenta; una soggettività disponibile dunque a consumare le tante, molteplici possibilità di edificazione della propria identità (per mezzo della “cultura”, aggiungerei: ossia di quell’universo simbolico ed estensivo che imbriglia il soggetto in una rete disorientante di parole, immagini e rappresentazioni e che è diventato la nostra seconda natura6). Ecco, pertanto, dove si situa il nesso tra feticismo e ideologia oggi: nello svuotamento della soggettività, dovuto a un processo più generale di erosione e alleggerimento del soggetto medesimo e di nientificazione e indebolimento della vita sociale, ora fondata su questa particolare forma di atomismo costantemente decostruito. Un feticismo ideologico edificato sul vuoto e sul riempimento occasionale del vuoto che può dar vita, di volta in volta, a trame identitarie falsificanti e quindi a episodi di violenza radicale. Che, certo, noi chiamiamo “fascista”, a patto che questo aggettivo non serva da salvacondotto morale per chi lo verbalizza ed enuncia, proprio perché il processo generale di feticizzazione dell’ideologia (che regola, ad esempio, il carattere servile, e non più emancipativo, della cultura) riguarda tutti7.

Restiamo ancora sulla condizione di svuotamento e riempimento, perché offre un contributo ulteriore al discorso sullo sciame. L’aggregato transitorio garantisce al soggetto un riempimento temporaneo, una fusione occasionale con gli altri soggetti coinvolti. Sarei anzi tentato di vedere in questa sorta di “concatenamento” un meccanismo regolativo tipico della vita sociale tardocapitalistica, ma non mi spingo oltre. Questa fusione occasionale garantisce peraltro un blocco temporaneo del narcisismo e dell’avversione verso l’altro (che nel padre della psicoanalisi è, in qualche modo, basica; laddove in Wilhelm Reich non lo sia, in quanto esito della repressione in prima istanza familiare8). Freud scrive che “l’amore per se stessi trova un limite solo nell’amore esterno, nell’amore verso gli oggetti”9, ossia nell’amore per l’avere. E, in effetti, la tesi freudiana per la quale il nesso tra soggetto e massa, tra soggetto e aggregato, è di tipo libidico trova ancora oggi cittadinanza, con l’ulteriore evidenza che tale rapporto è segnato dal consumo feticistico di questa stessa relazione.

Il soggetto esperisce per mezzo dell’aggregazione un temporaneo godimento causato dalla sua altrettanto temporanea identità, realizzata appunto dalla relazione. Che libido è, questa? Con Freud potremmo dire che l’identificazione con un oggetto, per quanto transitoria e per quanto dettata dalla presenza di un bersaglio mobile, è sempre anche un’interiorizzazione di quel legame con l’oggetto, fino a ribadire che negli aggregati d’oggi quell’Io disorientato coincide con l’oggetto dell’identificazione, ossia coincide col legame feticistico, interiorizza quest’ultimo e si lascia guidare da esso. Insomma – nell’assoluta centralità dell’oggetto, in una relazione che mi pare sempre più segnata da un processo in cui gli attori coinvolti sono, marxianamente, maschere – l’Io transitorio consuma l’atto di subordinazione che certifica quel legame, di cui ha assolutamente bisogno, e consuma quell’atto come un oggetto10.

 

3. L’autoritarismo delle superfici

L’identificazione feticistica che rende possibile la violenza implica un permanente esteriorizzarsi del soggetto verso qualcosa che ne promette il riempimento. È significativo notare come Klaus Theweleit – le cui teorie, esposte negli studi di Männerphantasien11, sono state efficacemente utilizzate da Jonathan Littell nella sua analisi dell’opera del fascista belga Léon Degrelle, Il secco e l’umido – descriva l’Io del fascista come un Io esteriorizzato e fragile che rifugge il contatto con la propria interiorità, fatta di pulsioni incontrollate e di proiezioni desideranti illimitate12; per sopravvivere, interpreta Littell, questo Io “esteriorizza ciò che lo minaccia dall’interno, e allora tutti i pericoli assumono per lui due forme, intimamente connesse: quella del femminile e quella della liquidità”13, elementi da cui del resto ha faticato a separarsi. Ora, io credo che tale esteriorizzarsi del soggetto sia non solo una fraudolenta protezione dall’interiorità, un meccanismo di difesa per cui si dà vita, come nota Littell, a un “Io-corazza”14, ma incontri oggi una più generale dinamica di superficializzazione dei nessi sociali, una “norma egemonica”15 che prescrive il primato del “fuori” sul “dentro”. Esteriorizzarsi significa trascinarsi altrove, proiettarsi lungo un asse in cui l’op- posizione tra interiorità ed esteriorità viene dissolta in una superficie senza contrasti.

Tale processo è stato ben registrato e spiegato da Roberto Finelli nelle sue ricerche16 e coincide col carattere basico del tempo capitalistico attuale, caratterizzato da un principio di produzione della realtà fondato sulla paradossale scomparsa della realtà stessa: un principio che, identificato per primo da Marx nel processo astrattivo del capitale e nel dissolvimento del concreto nell’astratto, può riassumersi in due azioni. La prima: un’erosione permanente del profondo e del concreto, a beneficio di una superficializzazione ectoplasmica, che produce un’egemonia della superficie e una difficoltà di relazione con ciò che sta sotto o dietro questo illusorio piano di immanenza; la seconda: una dissimulazione del capitale entro i nessi e i meccanismi che regolano tale superficializzazione, da concepirsi quale incorporazione del capitale nel soggetto, interamente colonizzato nelle sue pratiche di vita, nel suo intimo sentire e nel suo agire culturale dalle ragioni capitalistiche. Tale processo spiega una specifica produzione di so- ggettività o, se si vuole, l’emersione di una precisa forma di vita. Caratterizzata, quest’ultima, da quel disorientamento che abbiamo indicato come presupposto di possibili aggregati transitori e precondizione del desiderio di autorità e di sottomissione.

La relazione feticistica con un oggetto dispotico va dunque pensata nell’alveo di una produzione capitalistica di soggettività. Ciò permette – per inciso – di ostacolare diagnosi che insistono sull’eccentricità di certi fenomeni e di cogliere invece l’aspetto sistemico del feticismo. E altresì consente di contrassegnare materialisticamente e storicamente una nuova situazione, nella quale, come abbiamo detto, il “peso” dell’astrazione trova una sua conferma non solo nell’estrema mobilità e relatività degli aggregati ma anche nell’evanescenza del capo e dunque del suo feticcio aggregante (che ho chiamato poco prima oggetto dispotico). Per dirla meglio: l’interiorizzazione dell’autorità e del dispotismo va dunque pensata accanto all’edificazione costante, dovuta all’astrazione capitalistica, di una soggettività leggera e indebolita, disposta all’acquisizione transitoria di valori identitari – terreno colonizzabile da parte di feticci autoritari pronti per l’uso (a loro volta degradazione feticistica di quello che un tempo era il capo)17.

 

4. La copertura dei nessi sociali nello spazio estetizzato

Lo spazio estetico indifferenziato che l’astrazione capitalistica contribuisce ad allestire rappresenta il terreno su cui si gioca la possibilità, da parte di un soggetto disorientato, di accedere a forme dispotiche di aggregazione. E questa relazione non può essere letta, a mio parere, solo come dominio culturale di un qualche significante fallico, ma va integrata attraverso un’ottica totalizzante che veda, ad esempio nel patriarcato, un’articolazione dell’egemonia capitalistica. La merce non è dispotica perché intrinsecamente fallica, ma perché manifestazione, per quanto arcana, di un più ampio processo di sfruttamento, che può servirsene anche nelle sue forme fallico-spettacolari, ma non solo. Insomma, il nome-del-padre, per riprendere la terminologia di Lacan, è secondario rispetto a un dominio regolativo più ampio. Ecco perché il richiamo al paterno è, particolarmente nelle sue forme più spettacolarizzate dalla cultura psicoanalitica postmoderna, un richiamo servile al capitale18 – a quel capitale come produzione di realtà simbolica che obbedisce solo alla legge dell’accumulazione e che è capace di produrre, sul piano delle apparenze superficiali, distorsioni simboliche e discorsi culturali illusoriamente emancipativi, appunto perché profondamente servili. Ritengo che una quota non indifferente di responsabilità nell’affermazione autoritaria e totalizzante del capitalismo risieda proprio nella capacità del capitale d’essere produttore di cultura, di ordini simbolici, che, spesso, pur manifestandosi come oppositivi, finiscono per riflettere una loro congenita parzialità, e quindi il loro carattere confermativo19. Non vorrei essere provocatorio, ma a me pare che da non poco tempo la sinistra culturale resti intrappolata in questo paradosso, che è quello felicemente riassunto dall’espressione “cultura-mondo” coniata da Lipovetsky e Serroy (2008).

È interessante notare – per chiudere – che l’estetizzazione promossa dal capitale e il feticismo generalizzato che ne consegue, accanto a un campo simbolico indifferenziato che produce disorientamento, agisca dialetticamente in modo sottile: sia esibendo, sia coprendo. L’aggregazione sotto l’egida di un oggetto-feticcio si rivela sempre essere una copertura, la sostituzione di qualcosa. Copertura, falsificazione, estetizzazione: si tratta di aspetti che si embricano necessariamente nel discorso sul feticismo. Come quest’ultimo permette, in fondo trasferendolo altrove, il bisogno di autorità (la sottomissione al fallo), allo stesso modo l’estetizzazione capitalistica permette, senza che ve ne sia apparente traccia, perché dissimulata nella libertà del soggetto, che la logica della sopraffazione si dispieghi senza dover mostrare in tutta l’evidenza la sua signoria.

È chiaro che questo modulo argomentativo sia in debito – e lo è in Adorno, ad esempio – con le pagine marxiane del I Libro del Capitale. L’estetizzazione – che, lo ripeto, è la precondizione del rapporto dispotico tra aggregato e feticcio – rende immediato ciò che è mediato. L’immediatezza, spacciata per immanenza, ne è costitutiva. Ugualmente, la merce, nella sua esposizione fenomenica di valore, per essere merce ha bisogno di occultare il suo valore reale, cioè il carattere mediato del suo essere prodotto di un lavoro. Pertanto, il carattere di feticcio della merce coincide con l’artificio della sua immediatezza. La quale, in una società estetizzata, è estesa a tutti i livelli. Ora, l’artificio dell’immediatezza – anzi, diremmo: la produzione di immediatezza come oggetto di godimento – implica una falsificazione che può essere vista anche come ‘sostituzione’: il feticcio sostituisce qualcosa, si appropria del posto di qualcos’altro e falsifica la sua posizione (ossia ‘sta per’: il feticcio è sempre allegorico, esteticamente assai fruttuoso)

Qui ‘falsificazione’ e ‘sostituzione’, due artifici fra loro connessi, possono essere letti, sulla scorta di Adorno, che li drammatizza, come una forma di ‘incantamento’: il soggetto è trattenuto persuasivamente su un piano superficiale di immediatezza che si eternizza, si naturalizza. Il feticcio è una copertura del nesso sociale che lo rende possibile. Si comprende allora cosa intendesse l’autore di Dialettica negativa in una lettera a Walter Benjamin del 5 giugno 1935: “ho sostenuto in opposizione a Fromm e soprattutto a Reich l’opinione che la vera ‘mediazione’ di società e psicologia si trovi non nella famiglia ma nel carattere di merce e di feticcio, e che il feticismo sia il vero e proprio correlato della reificazione”20, con un evidente riferimento non solo al Capitale ma anche a Storia e coscienza di classe di Lukács.

 

5. Obbedire, ovvero consumare

Adorno può venirci ancora in soccorso per ragionare attorno all’attuale consumo di fanatismo, di cui il populismo rappresenta una manifestazione evidente. Mi riferisco, seppur troppo velocemente, al saggio che apre Dissonanze e che è intitolato Il carattere di feticcio in musica e il regresso dell’ascolto21. È un testo del 1938, di poco successivo alla lettera appena menzionata. Adorno si chiede perché l’oggetto del consumo feticistico sia un oggetto degradato, privo di valore riconosciuto (ovviamente tale per la coscienza estetica e borghese di Adorno medesimo). Noi possiamo invece chiederci per quale motivo il feticcio dispotico che si consuma nell’aggregazione transitoria possa essere rappresentato potenzialmente da chiunque o da qualunque cosa; possiamo chiederci in che termini il feticcio non abbia bisogno di una giustificazione valoriale. Adorno suggerisce una risposta che a mio parere può essere valorizzata e persino esasperata: l’utilità del feticcio non è legata al suo valore; la sua efficacia risiede nella possibilità offerta a chi lo consuma di riconoscersi come parte attiva di un culto o di una ritualità collettiva, capace, per un attimo, di riempire a livello identitario l’orizzonte misero della sua interiorità, preparato e prodotto, come si diceva, dalla signoria dell’astrazione superficializzante. Il culto del feticcio ha sempre a che vedere con la ‘gestione’ autoritaria di una qualche miseria culturale prodotta e regolata. I followers-adepti trovano un’ipotetica ragione qualitativa non nell’influencer – non lo si preferisce a un altro sulla base di una scelta – ma nell’atto di consumare quel modello e di sentirsi parte di una relazione immaginaria. Pertanto l’efficacia dispotica della merce, che è l’efficacia della reificazione in termini lukácsiani, sta nel nascondimento di questa disposizione al consumo e, soprattutto, nell’illusione che la scelta di sottomettersi sia libera.

Ecco perché, ancora con Adorno, l’immediatezza di cui l’oggetto-feticcio si fa interprete scatena l’obbedienza. In quest’ultima sta l’arcano del successo della merce. Si può utilizzare il termine marxiano – “arcano” – perché il gioco di prestigio dovuto all’immediatezza nasconde appunto un mistero. Quest’ultimo si regge sulla convertibilità del valore d’uso nel valore di scambio: assumendo l’immediatezza del valore d’uso, il valore di scambio occulta il suo carattere mediato, ovvero le relazioni che ne costituiscono il risultato. La mediazione scompare e trascina la merce su un territorio onninclusivo: Adorno avrebbe detto totalitario, noi possiamo dire “superficiale”, nel senso di una sua pervasività epidermica. E questo territorio, che è fatto di immediatezza immateriale e luccicante, è appunto l’esito dell’egemonia acquisita da un’astrazione, quella capitalistica, capace di conquistare ed erodere tutti i livelli di concretezza dell’esperienza individuale e sociale.

Per concludere fin troppo rapidamente, l’immediatezza delle superfici reca in sé un fattore di autoritarismo, una ragione di obbedienza a ciò che si mostra, si espone. L’identificazione con ciò che è esposto, con ciò che esiste proprio perché esposto (com’è del resto il feticcio nella sua fenomenologia spettacolare), la sottomissione a questo stesso feticcio, la devozione verso esso, si attua su un piano appunto esteriorizzato, il medesimo che permette la libera fluttuazione dei valori attraverso cui esperire temporanee aggregazioni che possono essere le più varie e che possono poi avere esiti facilmente manipolabili o francamente reazionari.


* Università della Calabria (This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.)

Bibliografia
Adorno T.W. (1959), Dissonanze [1958], a cura di G. Manzoni, Milano: Feltrinelli.
–– (1976), Scritti sociologici, Torino: Einaudi.
Finelli R. (2005), Tra moderno e postmoderno. Saggi di filosofia sociale e di etica del riconoscimento, Lecce: Pensa.
Freud S. (1977), Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere, a cura di
C.L. Musatti, Torino: Bollati Boringhieri, vol. 9, pp. 261-330.
Masse postmoderne
Fusillo M. (2012), Feticci. Letteratura, cinema, arti visive, Bologna: il Mulino.
Gatto M. (2018), Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura, Roma: manifestolibri.
–– (2021), L’esposizione come ideologia del contemporaneo. Riflessioni a partire da Gramsci, in “Consecutio rerum”: Ideologia, a cura di L. Turano e E. Martinelli, anno VI, n. 1 (I/2012), pp. 67-95.
Han, Byung-Chul (2015), Nello sciame. Visioni del digitale [2013], Roma: Nottetempo.
Lipovetsky G. e Serroy J. (2010), La cultura-mondo. Risposta a una società disorientata [2008], Milano: O barra O.
Littell J. (2009), Il secco e l’umido. Una breve incursione in territorio fascista [2008], Torino: Einaudi.
Marcuse H. (2001), Davanti al nazismo. Scritti di teoria critica 1940-1948, a cura di C. Galli e R. Laudani, Roma-Bari: Laterza.
Mistura S. (2001), a cura di, Figure del feticismo, Torino: Einaudi.
Jameson F. (2007), Postmodernismo. Ovvero, la logica culturale del tardo capitalism [1991], Roma: Fazi.
–– (2008), The Vanishing Mediator: or, Max Weber as Storyteller [1974], in The Ideologies of Theory, London & New York: Verso, pp. 309-343. Reich W. (2002), Psicologia di massa del fascismo [1933], Torino: Einaudi.
Theweleit K. (1997), Fantasie virili, Milano: Il Saggiatore.
–– (2019), Männerphantasien, Matthes & Zeit: Berlin.
Tricomi A. (2021), Padre nostro, che sei il capitale, in L.F. Clemente,
F. Lolli, C. Muscelli e A. Tricomi, a cura di, Psicoanalisi senza dio. Per una critica del nuovo discorso religioso, Alberobello: Poiesis, pp. 221243.

Note
1 Byung-Chul Han (2015) ha proposto il termine “sciami”, in riferimento ai raggruppamenti che si costituiscono nella rete. Mi sembra che possa tuttavia estendersi anche alla realtà non virtuale.
2 Per una rilettura attualizzante della nozione di “ideologia”, mi permetto di rinviare a Gatto (2021).
3 Cfr. Marcuse (2001, 41-81).
4 Cfr. Jameson (2008, 309-341).
5 Egli suggerisce che “dovremmo occuparci della differenza tra masse che hanno un capo e masse prive di capo, e chiederci se le prime non siano più originarie e più complete, se nelle altre il capo non possa venire sostituito da un’idea, da un’astrazione (condizione alla quale, con il loro capo invisibile, già si avvicinano le masse religiose), e se una tendenza comune, un desiderio condiviso da molti possa farne in tutto le veci. Tale entità astratta potrebbe a sua volta, più o meno perfettamente, incarnarsi in un capo per così dire secondario, e dalla relazione tra idea e capo potrebbero derivare interessanti e svariati esiti. Il capo o l’idea guida potrebbero anche essere per così dire negativi; l’odio per una data persona o istituzione potrebbe agire in senso altrettanto unificante quanto l’attaccamento positivo, e dar luogo a legami emotivi analoghi. Occorrerebbe allora chiedersi se il capo sia effettivamente indispensabile all’essenza della massa e altre cose ancora” (Freud, 1977, 289).
6 Su questo punto, vedi almeno Jameson (2007) e Lipovetsky-Serroy (2008).
7 Da questo punto di vista, l’idea, francamente inaccettabile, di un “fascismo eterno” fa il paio con la generalizzazione dell’aggettivo “fascista”, che ne depotenzia la specificità, secondo una moda filosofica assai in voga negli ultimi tempi (e di cui l’assimilazione del green pass alle pagine più tragiche della storia novecentesca è una desolante epitome); né possiamo permetterci, io credo, di usare la parola “fascista” in senso metaforico, dunque potenzialmente astorico.
8 Vedi ad esempio Reich (2002, 59-67).
9 Freud (1977, 291).
10 Se il problema è nella relazione con l’oggetto, nell’interiorizzazione del legame, è plausibile sostenere che la tentazione autoritaria abiti potenzialmente qualsivoglia forma di vita in Occidente. Quando si etichetta il partecipante alla violenza dello sciame come “squilibrato” si commette più di un errore di prospettiva: quello squilibrio è interno all’orizzonte feticistico pervasivo, nel quale tutti siamo inseriti, fondato su un disorientamento che Adorno chiamerebbe “amministrato” – aggiungerei: cultural- mente amministrato (vedi Adorno 1976, 85-114 e 115-139).
11 Theweleit (2019). I due tomi che originariamente componevano l’opera risalgono al biennio 1977/1978. In italiano è stato tradotto solo il primo volume (Theweleit, 1997).
12 Cfr. Theweleit (1997, 223-230).
13 Littell (2009, 20). Mi sembra utile rilevare un’assonanza con uno fra i tanti passaggi di Reich dedicati al legame strangolatorio tra il bambino nazionalista in erba e la madre: “Il modo di sentire nazionalistico è dunque la diretta continuazione del legame familiare e affonda in ultima analisi le sue radici […] nel legame fissato alla madre” (2002, 62-63).
14 Littell (2009, 20).
15 Jameson (2007, 23). È interessante notare che il processo di esteriorizzazione dell’Io mostrato da Theweleit si ispiri, tuttavia discutendole, alle teorie antifreudiane di Deleuze e Guattari, che, nella loro furia antagonistica, paiono più descrivere un carattere normativo dell’esperienza capitalistica che offrire una serie di arnesi teorici utili alla critica dell’esistente.
16 Si veda almeno Finelli (2005).
17 Se invece non volessimo accordare al feticismo un valore ideologico così negativo e volessimo bensì astrarlo da un discorso anticapitalistico, per vedervi, ad esempio, un meccanismo estetico di valorizzazione simbolica delle cose – il feticismo come momento artistico –, allo stesso modo dovremmo però constatare che la sua precondizione risiede nella tensione estetizzante a una proiezione verso il “fuori”, ovvero a un’assolutizzazione di quella superficie che permette una relazione col mero piano di apparenza simbolica delle cose, e che di fatto neutralizza questo presunto valore estetico del feticcio, dal momento che sul piano di apparenza tutto è potenzialmente estetico, tutto è potenzialmente feticcio. Il dilemma è legato alla posta in gioco espressa dall’arte nel tardo capitalismo, in bilico tra ideologia e utopia, tra aderenza e contestazione. Per una ricca e suggestiva disamina del punto e per un più avveduto ragionamento sulla valorizzazione estetica degli oggetti, si veda Fusillo (2012).
18 Cfr. Tricomi (2021).
19 Mi si permetta di rinviare a Gatto (2018).
20 Cit. in Mistura (2001, 182 n. 17)
21 Adorno (1959, 7-51).

Add comment

Submit