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ospite ingrato

Fredric Jameson, Dossier Benjamin

di Luca Mozzachiodi

Fredric Jameson, Dossier Benjamin, trad. it. di F. Gasperetti, Milano, Treccani, 2022

walterbenjamin 1 web1280Dossier Benjamin è il titolo del libro di Fredric Jameson edito da Treccani per la cura di Massimo Palma, che di Benjamin ha preparato in Italia diverse opere e antologie di scritti, da Scritti politici per gli Editori Internazionali Riuniti nel 2011 a Esperienza e povertà nel 2018. Il libro è stato meritoriamente tradotto con una rapidità senza precedenti rispetto alle opere di Jameson, che in generale sono arrivate in Italia con diversi anni di ritardo sugli originali e questo, oltre che alla scelta del curatore, ritengo sia da ascrivere in parte all’oggetto del libro: l’opera di Walter Benjamin, in parte alla modalità compositiva che Jameson ha adottato.

Non è questa la sede per proporre una storia della ricezione di Benjamin in Italia, naturalmente strettamente connessa con le vicende politico culturali del paese, ma gioverà ricordare che dopo la fase fondativa della traduzione da parte di Solmi di un’antologia di scritti con il titolo Angelus Novus,1 selezione di saggi dagli Schriften preparati da Adorno per Suhrkamp nel 1955 e che Jameson mette a contrasto con quella di Arendt nella disputa sull’eredità di Benjamin – presentata dal critico americano tra le righe come una storia di fraintendimenti e esplicite correzioni –, il cammino italiano dello scrittore tedesco sarà lento ma costante per tutto il secolo. Quando negli anni Settanta gli si affiancherà Cases, ciò porterà a scoprire il Benjamin critico letterario con gli scritti raccolti in Avanguardia e rivoluzione e poi con Il dramma barocco tedesco.

Se questo Benjamin degli anni Settanta italiani è molto simile a quello che appare in Marxismo e forma, messa a punto non a caso soprattutto degli aspetti estetici e critico letterari della tradizione marxista occidentale e libro chiave del percorso di Jameson, per capire la ragione profonda di questo Dossier occorre a mio parere guardare avanti: tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta infatti, in corrispondenza con il momento di maggior consenso per il pensiero foucaultiano e con la riscoperta della tradizione conservatrice, vediamo emergere chiaramente altre possibili letture: quella di un Benjamin essenzialmente teologico e mistico, influenzato da Scholem e Rosenzweig più che da Brecht, quella di un teorizzatore della biopolitica (si pensi alla parte avuta in Italia da Agamben nella diffusione e curatela delle opere benjaminiane che, di fatto, sono proseguite in collane parallele presso Einaudi e Neri Pozza), e infine un Benjamin estetizzante e postmoderno, raccoglitore e produttore di frammenti più che di veri e propri libri, un prosatore d’arte.

Contro tutte queste letture è orchestrato il libro di Jameson, ma lungi dall’essere una mera polemica il critico americano, secondo una tradizione di pensiero dialettico a cui ci ha abituati, ha raccolto e ricompreso questi ritratti parziali in un orizzonte globale, così che il suo Dossier si presenta più come un superamento delle precedenti versioni (probabilmente incluso lo stesso capitoletto di Marxismo e forma) che una semplice confutazione. Siamo dunque di fronte a un percorso che si snoda cronologicamente attraverso tutte le opere di Benjamin e che nella forma, (e qui ha ragione Massimo Palma nel sottolineare il carattere di novità, avvertibile anche in traduzione, della prosa jamesoniana) somiglia a un commentario, una glossa che deve essere integrata al testo quale possibilità intrinseca, come lo stesso Benjamin vagheggiava rispetto alla traduzione nel suo saggio Il compito del traduttore, richiamandosi al Talmud.

Entriamo dunque nel vivo del superamento del primo orizzonte, la teologia, inserito da Jameson come un prolegomeno dato l’interesse giovanile per l’ebraismo (non a caso insieme a quello per la politica). Esiste a parere del critico una omologia strutturale tra il codice teologico e il codice dialettico in quanto forme del pensiero della totalità, riconoscimento di una dinamica interunitaria nella realtà dove il pensiero reificato vede contrapposizioni. Per questa ragione Jameson vi scorge una cifratura della dialettica di Benjamin in grado di respingere definitivamente le riserve parziali di un Adorno sul pensiero dell’amico: «Il ricorso al linguaggio teologico […] deve essere compreso nel contesto del dilemma rappresentazionale che è allo stesso tempo sia un dilemma intellettuale, sia lo sfondo entro il quale devono essere comprese le sue idee politiche»2 e anzi, in questo senso, la celeberrima chiusa dei Minima Moralia sull’indifferenza della realtà alla redenzione è semmai da mettere in relazione con questo complesso formale che attraversa interamente l’opera di Benjamin dai primi saggi alle tesi Sul concetto di storia.

Un simile atteggiamento di dissestamento teorico dell’apparente compattezza della realtà genera una connessione tra le metafore teologico-dialettiche e le allegorie figurative che non si traduce, contrariamente a quanto pensa la critica che fa capo al più recente Agamben, in una rivalutazione della mistica come sintesi critica, ma piuttosto in un tentativo di spazializzazione e storicizzazione di quelle allegorie all’interno della stessa prosa (come Jameson spiega assai bene parlando delle frasi spaziali di Benjamin in Strada a senso unico, che è a rigore di termini il suo unico libro edito).

È mia opinione che questo Dossier senza il grande libro sul postmodernismo3 non si sarebbe mai potuto scrivere, è anzi l’insistenza sul piano della spazializzazione e superficializzazione dei nessi sociali destoricizzati (lo svuotamento del concreto in astrazione) che segna la differenza tra la prima lettura jamesoniana di Benjamin degli anni Sessanta e questa: anche i Passages e i saggi incompiuti su Baudelaire, entrambi caratterizzati da una modalità compositiva per accumulazione di appunti e lacerti critici, osservazioni, ritagli di giornale, escono così dall’immagine del trovarobato universale della storia come museo e come rifugio dell’estetismo intellettuale (il flâneur non è un dandy di provincia) e divengono tentativi di una rappresentazione dialettica della storia nel momento in cui essa produce per la prima volta il mito feticistico del proprio annientamento nella più anonima e non conflittuale categoria di progresso (si veda lo spazio che Jameson accorda ai saggi sull’esposizione universale).

In campo estetico naturalmente la possibilità di una simile rappresentazione è connessa ai lavori maggiori quali L’autore come produttore, Il narratore, e L’opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica, nonché alla possibilità dell’esperienza autentica – Erfahrung – che a tratti Benjamin (e Jameson con lui) sembrano contrapporre all’Erlebnis, esperienza vissuta, quale suo contraltare psicologizzante e feticizzato. Nella società massificata l’esperienza autentica non può più essere immersiva ma solo straniante (ricorderemo la perdita d’aureola di Baudelaire accanto alla Verfremdung, lo straniamento, di Brecht, l’altro autore guida di Benjamin all’età del capitalismo), e anzi lo straniamento stesso è una precondizione alla possibilità esperienziale e descrittiva, essendo l’esperienza della continuità del narratore epico e fiabesco riservata a società precapitalistiche; e qui ancora una volta Jameson molto opportunamente segnala come solo su Leskov, narratore della campagna e della provincia russa, simili considerazioni sulla narrazione potessero essere da Benjamin svolte in positivo, e come nel suo omologo Kafka la stessa forma (o la stessa ideologia formale) non potesse che volgersi in negativo: come parabole dialettiche in cui manca spesso un tessuto narrativo logico e la possibilità del senso sia data dall’assenza di un senso immediatamente decidibile (fatta salva l’opzione di Lukács e Sánchez-Vázquez del vedervi figurazioni dell’alienazione e della società burocratizzata, cosa che senz’altro Benjamin accetta ma che non mi pare sia il punto centrale del suo discorso).

La questione che il libro lascia maggiormente aperta è se sia possibile o meno pensare la modernità come disgiunta dal capitalismo, in altre parole se si siano potute dare delle forme di modernità non capitalistiche, se vi possa essere una futura società non capitalistica e insomma di che specie sia lo storicismo di Benjamin, che tanto interessa Jameson e su cui è costruito l’intero libro.

Naturalmente il critico americano risponderebbe di no, che non è possibile pensare modernità e capitalismo come sistemi disgiunti, esattamente come non è possibile pensare la postmodernità senza il tardo capitalismo; tuttavia esattamente come nella postmodernità non tutto è postmodernismo, così nella modernità vi sono stati elementi non capitalistici e logiche allegoriche con diversi referenti sociali: è il caso appunto della narrazione o breve racconto epico che Jameson, con una inedita mossa teorica che accosta, via Bachtin, Benjamin agli etnografi russi come Propp, vede come forma popolare contrapposta all’epica borghese del romanzo: una fuoriuscita moderna e non borghese dalla crisi dell’epica aristocratica che segna una maggiore continuità con il passato data dalla stessa natura dell’oppressione di classe subita dal proletariato agrario.

La questione più interessante però, per Benjamin, è la questione del dramma barocco che sorge (e in effetti il libro parla di origine, Ursprung, del dramma più ancora che dei drammi stessi) in contrapposizione alla modernizzazione della Riforma, da Benjamin e Jameson vista weberianamente essenzialmente quale fondazione dell’individualità di coscienza e laicizzazione del tempo (o suo svuotamento a vantaggio della confermazione di una salvezza già avvenuta) come elementi necessari allo sviluppo della modernità capitalistica (senza i quali la forma della libera compravendita non può avere il retroterra culturale per fondarsi giuridicamente), il che significa implicitamente fare della guerra dei Trent’anni, che rappresenta l’orizzonte storico dei drammi studiati da Benjamin, la lacerazione definitiva della struttura della società europea, che segna il suo ingresso in un nuovo ordine ideologico, culturale e sociale. La riproposizione delle allegorie proprie dei drammi barocchi (spesso cattolici come quelli tedeschi e spagnoli citati nel libro) si allontana dunque dall’idea di una reazione controriformistica e dal reincanto del mondo per divenire tentativo di inscenare in un tempo e uno spazio non vuoti, dominati da paesaggi, rovine, cadaveri, una rete di connessioni e rimandi a un orizzonte di senso decifrabile ma solo appunto nel suo essere già passato rappresentato: «Le allegorie sono nel regno del pensiero ciò che sono le rovine nel regno delle cose».4 Per un istruttivo confronto si può comparare questa lettura della Guerra dei Trent’anni con quella umanistica e classica che, via Schiller, arriva al marxismo di Lukács, dove il dramma significa lo scontro di classe e la poesia significa la possibilità di una ricomposizione positiva dell’individualità alienata.

Inevitabilmente il dramma per Benjamin è un’opera di perdenti, nasce già fuori del suo tempo e solo riattivandolo in funzione allegorica riesce a trasportarne e volgerne in positivo e al futuro il significato politico (dal disinganno di Calderón si arriva allo straniamento di Brecht). Questo passaggio, Jameson lo sa benissimo, non è scontato: per la stessa via si può invece arrivare a un allegorismo nichilistico e nostalgico che nel momento in cui dissolve l’effettività della storia nella percezione dell’individuo e in una serie di miti idealizzati, di fatto con la resa celebra la nuda potenza dei rapporti di forza (si può anche arrivare al neobarocco di Hofmannsthal, che pure è stato un corrispondente di Benjamin e un suo oggetto di studio, e che Jameson invece sembra un po’ sottovalutare). Queste forme alternative, non borghesi e non capitalistiche, si danno costantemente nella storia e riappaiono in forme diverse per Jameson e la stessa totalità dei rapporti sociali non è mai totalmente compatta, compiuta e priva di linee di frattura «In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato a un conformismo che è sul punto di soggiogarla»),5 tuttavia la strada per una regressione che feticizza il passato come tradizione invece che servirsene in chiave emancipativa è assolutamente sempre percorribile ed è probabilmente questa la causa della, non del tutto motivata, diffidenza nei confronti degli interpreti latinoamericani di Benjamin che Jameson accusa di aver trasformato il barocco in categoria trans-storica con cui tracciare modernità alternative non-capitalistiche.6

A dispetto del fatto che il critico americano ci presenti un Benjamin essenzialmente interessato alla storicità dei fenomeni se non allo storicismo come attitudine di pensiero (e io credo questa sia una scelta in cui si legge apertamente la natura anche oppositiva del libro e la sua origine personale), mi pare che il cammino alla de-estetizzazione e de-fascistizzazione di certi temi e forme benjaminiani (la digressione e prosa d’arte che Jameson individua come genere specifico della scrittura di Benjamin era propria anche dell’ermetismo con cui, in un passaggio sulle opere degli anni Venti, Fortini lo considerava imparentato)7 sia più lenta e meno immediata del previsto: essa passa dal saggio Malinconia di sinistra e da quello sul surrealismo, ma può dirsi compiuta solo con le opere del 1936: Uomini tedeschi e L’opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica, che si chiude con un bilancio sul tema lungamente presente del destino dell’arte. «La sua autoestraniazione ha raggiunto quel grado che le consente di vivere il suo proprio annientamento come godimento estetico di prim’ordine. Così stanno le cose riguardo all’estetizzazione della politica che il fascismo persegue. Il comunismo gli risponde con la politicizzazione dell’arte».8 Scrivere ciò significava aver maturato una implicita visione della politica come conflitto tra forze (non dirò necessariamente tra classi perché Jameson rileva come un discorso programmatico sulla classe come soggetto epistemologicamente e storicamente privilegiato è assente in Benjamin, e ciò ce lo rende forse più interessante nella misura in cui è oggi difficile individuare soggetti collettivi rivoluzionari) e non come dinamica del rapporto tra individuo e potere. La forza normante non appartiene in primo grado alla legge ma allo sviluppo interno del capitale, siamo dunque ampiamente fuori da quell’accoppiamento tra biopolitca e nomos che rappresenta l’ultimo orizzonte polemico che idealmente il libro potrebbe avere in Italia.

Non a caso siamo nel 1935-36, ovvero il periodo in cui appare evidente – tra Leggi di Norimberga, Guerra civile Spagnola e invasione dell’Etiopia – che il fascismo non può convivere con la democrazia, né può servire realmente all’ipotesi del mantenimento di un ordine liberale europeo in chiave anticomunista. Trascinare dunque non solo, come si è detto spesso, i comunisti verso un ripudio della teoria del socialfascismo, ma soprattutto, come si è detto molto meno, i liberali e i socialdemocratici verso una cessazione delle ostilità contro l’Urss e i comunisti, diventa una questione vitale.

Jameson spende alcune pagine molto belle sul rapporto tra Benjamin e le città: Parigi e Berlino, ovviamente, ma anche Marsiglia, Napoli e Mosca. Dai resoconti di viaggio in quest’ultima l’autore trae la giusta convinzione che, pur non avendo Benjamin una personale mitologia dell’Urss, vi vedesse realisticamente una possibilità di società di massa incamminata verso il futuro e non retroversa al passato come invece il fascismo intendeva fare. Di fatto la forma di «storia monadica»9 che Jameson individua in Sul concetto di storia è particolarmente consonante alla sua e anzi si può dire che gli fosse propria già dagli anni settanta e dai saggi su marxismo e storicismo di The sintax of history (1988), dove rappresenta la forma più avanzata rispetto allo storicismo museale e a quello esistenziale di fine ottocento e un’antitesi a quello feticizzante del fascismo (ma anche del postmoderno ricorso al passato come merce nei ricorrenti travestimenti in costume del presente), perché capace di vedere negli spazi vuoti della storia il silenzio di milioni di esistenze che non si sono espresse se non nella forma anonima del lavoro, che però è quella socialmente maggioritaria e produttiva. L’angelo della storia non guarda avanti come un pioniere sovietico, con tutta la sua carica di prometeismo e di teleologia, ma indietro come un nostalgico, solo che invece di vedere la gloria degli imperi ne vede le rovine e i morti, ciò ci ricorda che il «nemico non ha mai smesso di vincere»10 ma che nondimeno la lotta va vinta e che nulla nel progresso è fatale, ovviamente nemmeno la rivoluzione, che anzi del tempo omogeneo rappresenta una rottura.

Che questo fosse in origine anche un argomento, magari un estremismo di sinistra, volto a snidare la socialdemocrazia dal suo progressismo riformatore e ottimistico e dalla sua diffidenza verso la rivoluzione mi sembra indubitabile; che l’incompiutezza del testo e la guerra lo abbiano trasformato in un testamento, magari persino messianico, lasciatoci da un indesiderato d’Europa (come appare nel bel film di Fabrizio Ferraro), per tutti gli altri indesiderati è senz’altro parzialmente vero e probabilmente uno degli aspetti più affascinanti di un pensatore meno risolto e univoco di quanto si creda (e forse c’è davvero troppa dialettica perché questo Dossier non sia infine anche un tentativo di superamento dialettico delle contraddizioni di Benjamin stesso, oltre che delle sue letture, da parte di Jameson); che configuri la chiave d’accesso alla cartografia delle costellazioni teoriche benjaminiane e un potente strumento di lettura critica della realtà e di riproposizione della necessarietà di pensare storicamente è la tesi che innerva tutto il discorso di Jameson e ce lo rende oggi così prezioso.

«Quindi lo storicismo di Benjamin ‒ nel quale un momento del passato riceve una quantità tale di energia dal presente da permettergli anche solo momentaneamente di rivivere, come i fantasmi che bevono il sangue offertogli in sacrificio da Ulisse ‒ dipende in larga misura dalle condizioni di possibilità offerte dal nostro presente. Paradossalmente, tuttavia, queste condizioni non consistono tanto in una conoscenza più ampia e in una maggiore conoscenza, ma sono tutt’uno con le nostre crisi».11


Note
1 W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e Frammenti, trad. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1962.
2 F. Jameson, Dossier Benjamin, trad. it. di F. Gasperetti, Milano, Treccani, 2022 p. 47.
3 F. Jameson, Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo [1984], trad. it. di M. Manganelli, Roma, Fazi, 2007.
4 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, trad. it. di E. Filippini, Torino, Einaudi, 1971, p. 184.
5 W. Benjamin, Sul concetto di Storia, ed. it. a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1999, p. 27.
6 È assai probabile che Jameson pensi qui a Bolívar Echeverría, La modernidad de lo barroco, Cuidad de Mexico, Era 1998, tuttavia è discutibile se per questi autori la categoria sia effettivamente trans-storica o piuttosto non faccia riferimento ad una diversa articolazione dei termini data dal contesto non europeo.
7 Si veda l’intervento a un convegno senese del ’90 raccolto ora come Franco Fortini, Allegoria e postmoderno, in «L’ospite Ingrato», ns. 3, 2013.
8 W. Benjamin, L’opera d’arte nel tempo della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di S. Cariati, Milano, Bompiani 2017, p. 167.
9 F. Jameson, Dossier Benjamin cit., p. 362.
10 W. Benjamin, Sul concetto di Storia cit., p. 27.
11 F. Jameson, Dossier Benjamin cit., p. 347.

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