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Libertà dei moderni, liberalismo e comunismo in Domenico Losurdo

Su "La questione comunista" di Domenico Losurdo

di Antonio Cantaro (Università di Urbino Carlo Bo)

61563 ung     1. Corpo a corpo

Non ho nulla da aggiungere alla nitida introduzione di Giorgio Grimaldi all’inedito La questione comunista. Storia e futuro di una idea (Carocci, 2021) e alla lucida recensione di Francesco Fistetti dello scorso 14 gennaio su “Il Quotidiano di Puglia”. Condivido senz’altro la notazione che qui Losurdo continua ad osservare il marxismo negli elementi che in esso confluiscono e in ciò che è ancora capace di produrre.

Siamo, insomma, di fronte, ad un uno “scritto d’occasione” (la ricorrenza dei cento anni dalla rivoluzione di ottobre), ma tutt’altro che “occasionale”. Mimmo prosegue, anche in questa occasione, il suo appassionato corpo a corpo con le ripetute rimozioni del conflitto delle libertà perpetrate tanto dal liberalismo reale – le concrete e storiche società liberali – quanto dal socialismo irenico, il “comunismo utopico e messianico”. E rivendica, per contro, la persistente attualità della filosofia classica tedesca e di una tradizione del movimento comunista – la linea Gramsci-Togliatti – che coloro che hanno metabolizzato l’opera losurdiana conoscono assai meglio di me.

Si tratta, osserva Grimaldi, della questione del potere – questione altamente teorica e altamente pratica – che completa e beneficamente complica il quadro inaugurato con lo spiazzante Il marxismo occidentale, dall’eloquente sottotitolo Come nacque, come morì, come può rinascere1.

Lo specifico effetto spiazzante di questo secondo lato del “dittico” losurdiano è l’affermazione che il movimento comunista deve autocriticamente prendere atto dello straordinario valore di certe acquisizioni del liberalismo.

L’affermazione è presente in più parti del volume in modo apparentemente apodittico. Giunge, cioè, dopo che Mimmo nel suo serrato “corpo a corpo” non ha fatto alcuno sconto alluniversalismo parziale del liberalismo, alle sue trasfigurazioni ideologiche della realtà. A quel liberalismo che, avendo variamente postulato che la piena umanità e la piena cittadinanza appartiene solo ai bianchi, ai maschi bianchi, ai maschi proprietari, ha storicamente giustificato in epoca moderna l’imperialismo e la più brutale schiavitù a carico dei popoli coloniali. E, in patria, il dispotismo e l’assimilazione dei lavoratori salariati a meri strumenti di lavoro.

Un serrato corpo a corpo che non risparmia, ovviamente, liberalsocia lismo e neoliberalismo i quali, auspicando una piena decontaminazione dei regimi “democratici” dalle idee socialiste, escludono – in nome di una retorica e angusta dogmatica dei diritti e della dignità – la maggioranza della popolazione mondiale dalla piena umanità e dalla piena cittadinanza. Ipocrisie costituzionali, secondo la perspicua definizione coniata a proposito dello Stato liberale dell’Ottocento – lo Stato borghese mono classe – da uno dei più autorevoli giuristi italiani dello scorso secolo, il partigiano socialista Massimo Severo Giannini.

 

2. “Salvare la libertas minor

Ma veramente, allora, l’affermazione che il movimento comunista deve prendere atto dello straordinario valore di certe acquisizioni del liberalismo è un’affermazione apodittica ed estemporanea? Siamo veramente di fronte ad una sorta di deus ex machina?

Lascio agli allievi e ai cultori degli scritti di Losurdo Mimmo una risposta di carattere analitico e sistematico sulla presenza nella sua opera della linea Hegel Marx Gramsci, peraltro perspicuamente riesaminata in recentissimi contributi da Stefano Azzarà2 e da Gianni Fresu3. Io, in ragione delle mie limitate competenze, mi attengo principalmente al testo che oggi presentiamo. E rintraccio nelle pagine 92 e 93 l’essenziale ma inequivocabile risposta al tema di cosa il marxismo ha il dovere di salvare e sviluppare universalisticamente della tradizione liberale. Il bambino, il suo nucleo umanistico, avendo cura di buttar via l’acqua sporca, il suo nucleo economicistico.

«Si potrebbe dire – osserva Losurdo – che il liberalsocialismo è nato da un equivoco di cui non è il responsabile unico. Agli inizi della guerra fredda, Isaiah Berlin, esponente del liberalismo classico, scioglieva un inno all’Occidente in questi termini: se anche sussistevano aree di miseria che inceppavano la “libertà positiva” (l’accesso all’istruzione, alla salute, al tempo libero), garantita per tutti era comunque la “libertà negativa”, la libertà liberale propriamente detta, la sfera di autonomia individuale dell’individuo. Cinque anni dopo, Galvano della Volpe, in quel momento forse il più illustre filosofo comunista italiano, rispondeva contrapponendo alla libertas minor la libertas major, la superiorità dei diritti economico-sociali (la libertà positiva) sulla libertà liberale (la libertà negativa)4.

La “sentenza” di Losurdo non potrebbe essere più netta. Per Mimmo, pur «facendo ricorso a un linguaggio diverso e a giudizi di valore contrapposti, Berlin e della Volpe erano d’accordo nel configurare lo scontro tra mondo capitalista-liberale e mondo comunista come la contesa tra la libertà liberale e i diritti economico-sociali». Entrambi, chiosa Mimmo nel “dispositivo” della sua sentenza, avevano torto.

Il liberalismo non può essere ridotto alla apologetica della causa della libertà individuale. Il comunismo non può essere ridotto alla apologetica della causa della giustizia sociale e dell’eguaglianza. Il declassamento delle libertà negative stride con una prassi che ha visto sempre impegnati i comunisti «a loro difesa sino al sacrificio della vita» (p. 92). Che li ha visti combattere in prima linea le clausole di esclusione dalle libertà civili e politiche a danno dei popoli coloniali, delle classi subalterne, delle donne. Che li ha visti impegnati, da una parte, a denunciare il processo di de-umanizzazione consumato nelle società liberali e, dall’altra, a ren dere universali le premesse e le promesse del liberalismo, smentendo nelle “lotte reali” la presunta sordità del comunismo per l’ideale della libertà.

Una cosa è condannare – osserva Mimmo – come «monca una libertà che escluda i diritti sociali ed economici, ai giorni nostri contestati anche sul piano teorico dalla reazione neoliberista», un’altra cosa è liquidare «in blocco la libertà liberale quale libertas minor e liber formale» (p. 93).

Al contrario, l’ideale della libertà appartiene ai punti alti della tradizione liberale da cui il comunismo ha da apprendere se vuole coltivare il suo progetto di una ambizione senza precedenti, il progetto dell’«emancipazione politica e sociale dell’umanità nel suo complesso» (p. 178). Della costruzione, nelle lotte concrete, di una società postcapitalistica e post imperialista.

Dunque, con le libertà liberali ma senza rimuovere il conflitto tra le libertà. Senza ignorare che nella storia profana del liberalismo le libertà moderne sono state a lungo implementate come il privilegio per una ristretta minoranza, «per la razza dei signori, sulla base di severe discriminazioni di razza, di genere e di censo». Non a caso, per converso, mi permetto di aggiungere, la libertà costituisce, insieme al principio repubblicano, a quello democratico e a quello dell’eguaglianza formale e sostanziale dei cittadini, uno dei cardini dell’orizzonte simbolico e morale della nostra Carta costituzionale5 e delle Costituzioni democratiche del secondo dopoguerra che hanno decretato la fine delletà dellinnocenza del liberalismo.

 

3. “Salvare” il liberalismo

Losurdo è interessato a salvare le libertà liberali dalle clausole di esclusione del liberalismo storico. Me è interessato anche a fare i conti e a salvare i pregi nel suo complesso del liberalismo come dottrina costituzionale.

La lapidaria affermazione contenuta sempre a pagina 93 non lascia adito a dubbi. «L’elaborazione della teoria marxista e comunista della libertà è stata resa ulteriormente difficile dall’attesa dell’estinzione dello Stato dopo un breve periodo di transizione. Messa a confronto dall’esaltante prospettiva del dileguare del potere in quanto tale, la limitazione del potere mediante il governo della legge, mediante la rule of law, non poteva che apparire come una libertas minor, formale, comunque destinata a dileguarsi assieme allo Stato».

Ho l’impressione che chi6 recensendo La questione comunista ha adombrato un potenziale cedimento trasformista di Losurdo nella sua decennale lotta corpo a corpo con il liberalismo e il liberalsocialismo, abbia sottovalutato un risalente asse della sua ricerca. E veda trasformismo laddove c’è un sano revisionismo di una tradizione volgare del marxismo che Losurdo affida ad una esemplare citazione di Lucio Lombardo Radice: «Il mondo evolve, ma le verità del mondo che tramonta sono raccolte dal nuovo mondo» (p. 175).

Un’esemplare lezione di metodo. Il revisionismo è come il colesterolo. C’è quello cattivo e c’è quello buono. Quello di Losurdo è quello buono. Implacabile con il revisionismo storico, ideologico, del ‘900, Mimmo si propone anche di innovare profondamente una maggioritaria tradizione del marxismo, riconoscendo i meriti e i punti di forza della storia del pensiero liberale.

Non ho alcun titolo e alcuna competenza per fare l’esegesi del suo pensiero. Mi limito a riportare, quasi alla lettera, alcuni esemplari passaggi di Controstoria del liberalismo.

Dopo aver ricostruito i crimini imputabili all’ideologia liberale – lo schiavismo, il razzismo, lo sfruttamento classista – Mimmo osserva come

«proprio da questa ricostruzione storica (…) emergono i reali meriti e i reali punti di forza del liberalismo. Dando prova di una straordinaria dut tilità, esso ha cercato costantemente di rispondere e adattarsi alle sfide del tempo (…). Il liberalismo ha saputo apprendere dal suo antagonista (…) ben più di quanto il suo antagonista abbia saputo apprendere dal liberalismo. Soprattutto, l’antagonista non ha saputo apprendere quello che costituisce il secondo grande punto di forza del liberalismo (..), il problema decisivo della limitazione del potere (…). Storicamente, questa limitazione del potere è andata di pari passo con la delimitazione di un ristretto spazio sacro: maturando un’autocoscienza orgogliosa ed esclusivistica, la comunità dei liberi che lo abita è spinta a considerare legittima la schiavizzazione ovvero l’assoggettamento più o meno esplicito, imposti alla grande massa dispersa per lo spazio profano (…). E tuttavia, per difficile che possa essere tale operazione per coloro che sono impegnati a superare le clausole d’esclusione del liberalismo, assumere l’eredità di questa tradizione di pensiero è un compito assolutamente ineludibile».

Come assolvere a questo compito assolutamente ineludibile è l’eredità che Mimmo ha lasciato ai suoi eredi e ai suoi innumerevoli estimatori. Impresa temeraria e quanto mai urgente a cagione anche di quella straordinaria duttilità del liberalismo e, oggi, del neoliberalismo perspicuamente evidenziate da Mimmo e sulle quali tornerò conclusivamente. Prima mi sia, tuttavia, consentito un passo indietro, un’apparente digressione, rispetto al tema affrontato nell’opera di Domenico Losurdo di cui oggi discutiamo. Ovvero, il tema dell’ordine della liber nella modernità, un tema cruciale e problematico non solo per il comunismo ma ancor prima per il liberalismo e per il costituzionalismo liberale.

 

4. L’ordine delle libertà nella modernità

L’ordine della libertà, ben prima della peculiare declinazione che ne offrirà l’ordoliberalismo tedesco nel ventesimo secolo, è la grande scommessa della modernità politico-giuridica che permea già il contrattualismo giusnaturalista e che tanta influenza ancora esercita sul costituzionalismo contemporaneo. Ordine della libertà significa, infatti, pensare un ordinamento morale e giuridico fondato sulla centralità assoluta del pensiero, sull’indipendenza della ragione da ogni vincolo veritativo che non sia discendente dalla libertà umana, dalla hegeliana «autonomia infinita della volontà». Una rivoluzione copernicana rispetto alla metafisica aristotelico-tomista per la quale il dover essere ha una radice essenzialmente ontologica.

Il pensiero moderno postula, viceversa, che tutte le proposizioni del mondo del dover essere (morale e diritto) non discendono dal mondo dell’essere. L’ordine della libertà è un ordine assiologico che non deriva da speculazioni ontologiche precedenti ma ha in sé la ratio della propria validità, il suo fondamento di legittimazione. L’emancipazione dell’uomo non risiede in una norma a lui superiore, in una fonte eteronoma, ma nella volontà umana, nella ragione pratica individuale, in una legge che l’uomo dà liberamente a sé stesso.

L’ardua sfida che questo radicale cambio di paradigma pone è che fare quando la libertà che si postula appartenere alla costituzione razionale dell’uomo e avere una natura universalistica che autorizza ciascuno individuo ad opporre erga omnes la sua legge, è esposta alle sollecitazioni egoistiche della sua sensibilità e di quella degli altri. È, di nuovo, il tema giuridico-filosofico del conflitto delle libertà al quale sono state fornite nel tempo risposte diverse, differenziate, spesso divergenti. Mai, tuttavia, banali, sempre funzionali a frenare la forza disgregatrice del conflitto, a salvaguardare la possibilità di un ordine fondato sulla libertà.

I postulati di questo nuovo ordine sono nitidamente esaminati nella voce Libertà di Noberto Bobbio7, autore ripetutamente e polemicamente presente negli scritti di Domenico Losurdo. E che, tuttavia, non sarei certo Mimmo avrebbe trovato in questo caso sideralmente distante dalla sua sensibilità.

Il cuore del discorso bobbiano è la distinzione tra libertà negativa e libertà positiva. Una distinzione esteriormente “didattica” di cui l’autorevole filosofo svela il penetrante valore sistematico ed ermeneutico.

Per “libertà negativa”, osserva Bobbio, s’intende, la situazione in cui un soggetto ha la possibilità di agire senza essere impedito o di non agire senza essere costretto da altri soggetti. Fare o non fare tutto ciò che le leggi permettono o non proibiscono. Dunque, tanto assenza d’impedimento, possibilità di fare, quanto assenza di costrizione, possibilità di non fare. Esprimere le proprie opinioni senza incorrere nella censura, ma anche essere esentato dal servizio militare là dove l’obiezione di coscienza è legalmente riconosciuta.

Questa formulazione della “libertà negativa” e il suo stretto nesso con la legge, presente già in Hobbes, Locke, Montesquieu («la libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono»), non è un formale omaggio ad una risalente e trasversale tradizione d pensiero. E per apprezzarne la perdurante attualità, Bobbio introduce, immediatamente, l’altro lato del moderno ordine della libertà, la “libertà positiva”.

Per “libertà positiva”, osserva, s’intende la possibilità di orientare il proprio volere verso uno scopo, di prendere decisioni senza essere determinato dal volere altrui. Questa forma di libertà si chiama autodeterminazione. “Negativa” la prima perché designa la mancanza di qualche cosa, un agire senza trovare ostacoli come il fiume che segue il suo corso naturale. “Positiva” la seconda perché indica la presenza di qualche cosa, la capacità di una volontà autonoma.

Meglio di ogni altra considerazione, precisa il filosofo, ciò che permette di distinguere nettamente le due forme di libertà è il riferimento ai due diversi soggetti di cui esse sono, rispettivamente, il predicato. La libertà negativa è una qualifica dellazione, la libertà positiva è una quali fica della volon.

Quando dico che sono libero nel primo senso voglio dire che una certa mia azione non è ostacolata e quindi posso compierla; quando dico che sono libero nel secondo senso voglio dire che il mio volere non è determinato dal volere altrui né da forze estranee al mio stesso volere. Più che di libertà negativa e positiva, chiosa Bobbio, sarebbe più appropriato parlare di libertà dagire e di libertà di volere. Laddove la seconda qualifica una volontà che si determina non in base a impulsi (libertà di agire) ma in base alla legge della ragione (libertà di volere).

Questa raffinata distinzione teoretica non è fine a sé stessa. Nella concreta storia degli ordinamenti moderni, la libertà di volere, la libertà positiva, la libertà autodeterminazione è depositata in una volontà collettiva – nella nazione, nella patria, nel popolo – espressamente “incaricata” di mettere in forma e disciplinare i conflitti che insorgono da uno sviluppo senza freni delle plurime individuali libertà negative che, in nome della libertà di agire, vorrebbero opporsi ad ogni intrusione, in particolare nel campo dei rapporti economici.

Capovolgendo quanto sostenuto nel celebre saggio di Benjamin Constant per cui la libertà negativa è la libertà dei moderni e la libertà positiva quella degli antichi, Bobbio evidenzia come nello Stato costituzionale la richiesta della libertà politica – la libertà positiva per eccellenza – procede di pari passo con la richiesta delle libertà civili, le libertà negative per eccellenza. Malgrado, nel lockiano governo civile, nello stato di diritto di Kant, nella Costituzione francese del 1791, il popolo sia costituito da una ristrettissima classe di proprietari, non si può concettualmente staccare il principio della protezione delle libertà negative dal principio della protezione dal principio della partecipazione dei cittadini alla formazione delle leggi. E non si può perché è nella volontà collettiva che è possibile risolvere il latente conflitto delle plurime e individuali libertà di agire, che è possibile ricondurre a ragione il conflitto delle libertà.

E qui viene in soccorso la classica definizione di Rousseau per il quale la libertà nello stato civile consiste nel fatto che qui l’uomo, in quanto parte del tutto sociale, membro dell’“io comune”, è autonomo nel senso preciso della parola, nel senso che dà leggi a sé stesso e non ubbidisce ad altre leggi che a quelle che si è dato. Concetto di libertà presente anche in Kant quando esclude che la libertà possa essere semplicemente «la facoltà di fare tutto ciò che si vuole pur di non recare ingiustizia ad alcuno» e definisce la libertà come «la facoltà di non obbedire ad altra legge che non sia quella a cui i cittadini hanno dato il loro consenso». Sino ad arrivare ad Hegel per il quale solo la volontà che ubbidisce alla legge è libera: «ubbidisce, infatti, a sé stessa, è presso sé stessa, e dunque è libera».

 

5. Il conflitto delle libertà

Questa distinzione tra due diversi “Io”, uno più profondo, il vero io, e uno più superficiale, un io razionale e un io istintivo, permea gli ordinamenti giuridici moderni. Ordine della libertà sì, ma anche libertà nellordine della legge, nell’ordine dello Stato rappresentativo che rappresenta come pienamente libera la volontà dell’io razionale che ubbidisce alla volontà collettiva. Poiché obbedendo alla norma di tutti è come se obbedisse a sé stesso, non ubbidisce a nessuno ed è libero come prima.

È questo il raffinatissimo postulato – la felix fictio – sul quale si fonda lo Stato di diritto del diciannovesimo secolo per garantire le libertà negative e, allo stesso tempo, per disinnescare il conflitto distruttivo delle libertà, per mettere in forma il conflitto.

Lo Stato di diritto liberale non è, tuttavia, solo questo. È storicamente anche – come ricorda ripetutamente Losurdo – lo Stato che ha rimosso il conflitto delle libertà tra le classi sociali nella misura in cui garantisce giuridicamente le libertà negative e positive solo agli uomini di sesso bianco e ai maschi proprietari.

Lo Stato di diritto liberale è uno Stato monoclasse, uno Stato della borghesia che nello spazio profano della vita sociale codifica cogenti clausole giuridico-costituzionali di esclusione dalla cittadinanza. O, per usare ancora le parole di Bobbio che Mimmo condividerebbe, il secolo della libertà fu, in realtà, il secolo delle libertà che si era conquistata la borghesia contro le classi feudali. Il secolo del liberalismo, di un certo modo d’intendere e di attuare la libertà che, nello stesso tempo, in cui rompeva catene antiche, altre, e ancor più dure e forti, ne forgiava e ne ribadiva.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento le ipocrisie costituzionali degli Stati di diritto liberale vengono messe a nudo e combattute in nome delle hegeliane e marxiane lotte per il riconoscimento da parte delle classi escluse – popoli colonizzati, proletariato, donne – per la loro piena ed eguale umanità, per la loro piena ed eguale dignità, per la loro piena ed eguale cittadinanza.

Le costituzioni democratico sociali del ‘900, sulla scorta della Costituzione di Weimar del 1919, contengono il manifesto più limpido di questo processo di universalizzazione delle libertà, di questo riconoscimento in patria della piena ed eguale umanità e della piena ed eguale dignità delle classi storicamente escluse dalle libertà e dall’esercizio del potere. Mentre contestualmente le grandi Dichiarazioni internazionali dei diritti sanciscono la legittimità etico-politica delle lotte per il riconoscimento dei popoli colonizzati.

È la fine delle flagranti ipocrisie dello Stato di diritto liberale – dello Stato monoclasse – che gli Stati democratici e costituzionali si impegnano a lasciarsi alle spalle. Come perentoriamente prescrive nella sua interezza l’articolo 3 della nostra Carta costituzionale, laddove, al primo comma, riconosce e tutela la pari dignità sociale di tutti i cittadini e, al secondo comma, impegna la Repubblica a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economia e sociale del Paese». Una formulazione dell’idea di libertà e di eguaglianza sulla quale Noberto Bobbio e Domenico Losurdo avrebbero, in linea di principio, senz’altro concordato.

 

6. La libertà viene prima

Contestuale all’uscita de La questione comunista è la riedizione, a diciassette anni dalla pubblicazione e a quattordici dalla scomparsa di Bruno Trentin, di larga parte dei diari e degli scritti dell’“eretico” della CGIL. Approdato a qualche cosa che solo sommariamente può essere sinteticamente definito socialismo libertario, una qualificazione che non restituisce compiutamente la complessità della biografia politica8 e intellettuale9 di questo anomalo e inquieto leader del sindacato italiano.

Penso che il titolo del volume – La libertà viene prima (Firenze, University Press, 2021)10 – non sarebbe piaciuto a Mimmo che probabilmente vi avrebbe scorto più di un ammiccamento con un universo emotivo e culturale, per così dire, sartriano. Ma il sottotitolo – La libertà come posta in gioco nel conflitto sociale – l’avrebbe certamente incuriosito, quantomeno per l’esteriore assonanza del “messaggio” trentiniano con la sua ricerca di filosofo militante e mai arrendevole. La lotta per la liberta quale pre-condizione e condizione permanente per lemancipazione po litica e sociale del mondo del lavoro.

Nel leggere alcuni cruciali passaggi della raccolta trentiniana si avverte peraltro, a pelle, qualcosa di più di una esteriore assonanza e di occasionali convergenze di giudizio che pure non mancano, in particolare su neocolonialismo, politica internazionale, ruolo dell’Europa. Un quid che è comunanza di sguardo, ancora più significativa provenendo da due universi così lontani.

Una comunanza che diventa a tratti persino linguistico-categoriale nella rappresentazione di quello che è – che dovrebbe essere – per il sindacato e per la sinistra il cuore dei conflitti sociali nella società capitalistica. Quando Trentin sostiene che la libertà è sempre la posta in gioco di ogni rivendicazione e battaglia del lavoro subordinato, lo fa, inconsapevolmente, a partire dal losurdiano assunto che anche quando la lotta contro l’ingiustizia redistributiva e per la giustizia sociale è al centro del conflitto, la causa delle disuguaglianze economiche è sempre – cito testualmente Trentin – «lesclusione e loppressione».

È per questa ragione che «viene prima» la lotta per la libertà del lavoro e nel lavoro, la lotta per rapporti di lavoro che garantiscano ai lavoratori un crescente grado di libertà, la lotta per il riconoscimento del valore delle loro conoscenze, della loro creatività, della loro responsabilità. Nel lessico hegeliano di Losurdo. la convinzione che la lotta di classe non è un affare meramente redistributivo ma comporta sempre un essenziale carattere di legittimazione identitaria, cosicché anche quando le lotte si sviluppano come un conflitto economico tra proletariato e borghesia, il proletariato non si limita a richiedere un miglioramento delle proprie condizioni di vita materiale ma combatte anche per il riconoscimento della propria libertà, della propria vita spirituale. In primis, nella lingua del costituzionalismo democratico-sociale, per il diritto di vedersi riconosciute l’umanità e la dignità della propria persona.

Orizzonte che nella prospettiva trentiniana è reso quanto mai attuale dall’esaurimento del «compromesso fordista» (lo scambio sicurezza/ubbidienza) che rende virtualmente possibili un ciclo di lotte per lautorea lizzazione della persona nel lavoro, per un lavoro di qualità. Perché – sostiene Trentin – una democrazia non potrà dirsi pienamente tale fino a quando, nella parte della vita che la persona dedica al lavoro, non le siano restituite quegli spazi di libertà che sono essenziali per la sua progressiva autorealizzazione.

Un’autorealizzazione che a molto a che fare con quella piena umanità e piena cittadinanza “dimenticata” e negata nella “pratica” dal liberalismo storico, dal socialismo liberale, dal liberalsocialismo. Quell’autodeterminazione gramsciana che Bruno Trentin certamente declina in modo originale ma che resta un punto fermo nell’attenzione permanente che “l’eretico della CGIL” dedica al rapporto tra potere, diritti e libertà in fabbrica e nella società. Un “socialismo critico” che ha più di una ascendenza nel comunismo critico, nel comunismo maturo.

 

7. Libertà tardo moderna

Siamo stati in passato facili profeti, osserva a un certo punto Trentin, nel temere che la sinistra italiana ed europea subisse soltanto gli effetti travolgenti della Terza rivoluzione industriale e restasse, quindi, indifesa di fronte al dilagare delle ideologie neoliberiste e del nuovo conservatorismo.

Resta da capire il perché le forze che avrebbero dovuto fare della libertà, della lotta per il riconoscimento dell’eguale libertà giuridico-sociale, la loro bandiera, hanno ceduto il campo ad una declinazione della cittadinanza simpatetica con quella neoliberale. Quella declinazione per cui la vera libertà è lautorealizzazione nella forma della performance, nella forma del principio del massimo rendimento nel tempo del lavoro e dello sfrenato godimento nel cosiddetto tempo libero. Rivoluzione pas siva la definisce ripetutamente, gramscianamente, Bruno Trentin. Rivoluzione passiva perché questa trasfigurata libertà del volere è pagata al caro prezzo di diventare la maschera di stessi.

Un autosfruttamento, una nuova forma di schiavitù che ci autoimponiamo in nome del “capitalismo che è in noi. In nome del “dovere antropologico” di pensare positivo, dell’“obbligo” intellettuale di pensare adialetticamente.

E qui avremmo quanto mai bisogno della perspicua sensibilità storicopolitica di Mimmo. Di quel terzo lato della sua ricerca più recente – il capitolo sul comunismo cinese – che probabilmente ci mostrerebbe il carattere spazialmente e storicamente determinato – un tempo si diceva così – della tardo-libertà occidentale.

E, tuttavia, è con questa libertà, con la libertà neoliberale, che siamo oggi chiamati a fare i conti. Come declinare nella società neoliberale la lotta per il riconoscimento? Che fare di fronte alla seducente promessa della società digitalizzata, della socie del metaverso, di una autorealizzazione nella paradossale forma di essere altro da stessi?

Domanda temeraria, ineludibile avrebbe detto Mimmo, per la quale ci sarà tempo in altre occasioni, quando, ad esempio, metteremo al centro del nostro discorso il tema losurdiano di una sinistra assente. Che è l’esistenziale e silente tormento quotidiano di tanti di noi.


Riferimenti bibliografici
AZZARÀ, STEFANO G., 2019
La comune umanità. Memoria di Hegel, critica del liberalismo e ricostruzione del mate rialismo storico in Domenico Losurdo, La Scuola di Pitagora, Napoli.
BOBBIO, NORBERTO, 1978
Libertà, in Enciclopedia del Novecento, https://www.treccani.it/enciclopedia/liberta_% 28Enciclopedia-del-Novecento%29/.
FRESU, GIANNI, 2021
La dialettica tra “vecchio e nuovo”. Gramsci e la marcia dell’universalità nelle note di Domenico Losurdo, “Materialismo Storico”, n° 1, vol. X.
DALLA VOLPE, GALVANO, 1946
La libertà comunista. Saggio di una critica della ragion pura pratica, nuova ed., con un’introduzione del curatore Michele Prospero, Logica e socie in Galvano della Volpe, Bordeaux edizioni, Roma 2018.
FORMENTI, CARLO, 2021
Comunismo, democrazia e liberalismo, “Socialismo del secolo XXI”, 19 ottobre.
LOSURDO, DOMENICO, 2017
Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere? Laterza, Roma/Bari.
ID., 2021
La questione comunista. Storia e futuro di unidea, Carocci, Roma.
PRETEROSSI, GEMINELLO, 2021
Fuga dalla libertà, “La Fionda”, 24 dicembre.
TRENTIN, BRUNO, 2021
La libertà viene prima, University Press, Firenze.

Note
1 LOSURDO 2017.
2 AZZARÀ 2019.
3 FRESU, 2021.
4 DALLA VOLPE, 1946.
5 PRETEROSSI, 2021.
6 FORMENTI, 2021.
7 BOBBIO, 1978.
8 Bruno Trentin, nato in Francia nel 1926 dal giurista antifascista Silvio Trentin, combattente nella Resistenza francese e italiana, partigiano nelle brigate di “Giustizia e Libertà”, è dirigente del Partito d’Azione fino allo scioglimento dell’ottobre 1947. Entra nell’Ufficio Studi della CGIL nel 1949 e nel 1950 nel PCI. Nel 1962 assume la carica di segretario generale della FIOM e partecipa da protagonista al dibattito sul neocapitalismo. Promotore del Sindacato dei Consigli e della Federazione lavoratori metalmeccanici (FLM), Trentin sostiene criticamente il compromesso storico di Berlinguer e la svolta dell’EUR di Lama del 1978. Segretario generale dal 1988 al 1994, è artefice di una rifondazione identitaria della CGIL basata sul ‘sindacato dei diritti’, la libertà della persona, il lavoro e la conoscenza, la condivisione del progetto Delors di una Europa politica e sociale. Infine, dal 1999 al 2004 nella sua attività al Parlamento europeo si batte per attribuire valore politico alla moneta unica, rafforzare l’identità dell’Unione di fronte agli avvenimenti dell’11 settembre 2001, alla guerra americana in Iraq del 2003, alla bocciatura della ‘Costituzione europea’ nel 2005.
9 L’approdo di Trentin ad un socialismo libertario è l’esito di un laboratorio che pone in circuito la cultura marxista, la sociologia francese e angloamericana, il personalismo cristiano di Mounier e Maritain, i movimenti di dissenso dell’Europa orientale. Si innestano su questa ricerca il pensiero di Simone Weil sull’alienazione operaia, di Hannah Arendt sul totalitarismo, di Michel Foucault sulle forme del potere, di Robert Reich sull’economia della conoscenza, di Alain Supiot sull’’uomo programmabile’, di Amartya Sen sullo sviluppo e la libertà.
10 La nuova pubblicazione contiene pagine inedite dei Diari e altri scritti.

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