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Democrazia, bonapartismo, populismo

di Michele Prospero (Università di Roma “la Sapienza”)

ed2b7bcea4f6c8c94f75420f549a2a85 MC’e un tema molto importante (quello della torsione autoritaria dei regimi politici nelle crisi di sistema) che attraversa la ricerca di Losurdo e costituisce un nucleo analitico rilevante del suo studio: dal libro della Bollati Boringhieri, Democrazia o bonapartismo, ritorna anche nell’opera postuma su La questione comunista, soprattutto nel capitolo riguardante il neopopulismo.

Nel libro su Democrazia o bonapartismo il merito di Losurdo è quello di intrecciare la storiografia filosofica delle idee con l’analisi delle dinamiche politiche istituzionali. In particolare, Losurdo raccoglie il nucleo analitico più profondo del 18 brumaio di Marx e ne assume le categorie essenziali come fondamento possibile di un’interpretazione dei momenti critici delle democrazie occidentali. L’assunto che Losurdo sviluppa è che il bonapartismo e il populismo costituiscano fenomeni ricorrenti strutturali. Rappresentano cioè l’ombra delle democrazie di massa nelle giunture problematiche.

Il bonapartismo emerge nell’analisi di Marx proprio a ridosso della grande crisi di modernizzazione degli istituti politici francesi che introdussero il suffragio universale maschile. Il bonapartismo e il populismo, in questo senso, sono fenomeni che riguardano la difficoltà che i ceti politici e sociali dominanti incontrano nel gestire con le risorse procedurali dell’ordinamento i grandi conflitti della modernità. In tal senso il cesarismo con la personalizzazione del potere indica lombra che accompagna la democrazia moderna.

Losurdo coglie nel 18 brumaio un tentativo nient’affatto occasionale, ma a suo modo sistematico malgrado il taglio polemico, di evidenziare l’intreccio delle molteplici crisi che coinvolsero le istituzioni politiche della seconda repubblica francese. Vi rintraccia cioè un’interpretazione a più strati della crisi di quella esperienza di democrazia che ricomprende istituti, economia, ideologie, relazioni internazionali. Al centro della riflessione di Marx compare l’incastro della crisi economico-finanziaria, che dà un’accelerazione alla dinamica delle psicologie collettive impaurite dinanzi alla perdita di referenti politici, e della crisi istituzionale che esplode nel contrasto presidente/assemblea dovuto all’ambigua ripartizione dei poteri connaturata all’ossatura del semipresidenzialismo. Si tratta di un contrasto che esplode in tempi critici che lasciano lo scioglimento della contraddizione dell’antinomia istituzionale alla risorsa di un colpo di mano. Sull’esito della crisi politica pesò la fragilità politica degli operai, che si fecero sorprendere dagli eventi per l’assenza di capi, di una leadership adeguata, e per l’incapacità di definire le politiche di alleanze indispensabili per gestire una situazione critica di alienazione di massa.

Al centro della riflessione di Marx, e della lettura proposta da Losurdo, c’è il grande tema del suffragio universale che vede i ceti operai inadeguati nel loro assalto e sconfitti per un estremo isolamento. Losurdo, in tutta la sua opera, in particolare nella Controstoria del liberalismo riscontra le aporie del liberalismo classico e mette a nudo le zone d’ombra della tradizione liberale. Questa sua critica dell’aporia costitutiva di molti approcci liberali non si sviluppa nella direzione della negazione delle procedure e delle istituzioni tecnico-giuridiche dell’età liberale. Anzi, anche nel suo ultimo libro Losurdo polemizza con un autore come della Volpe, a proposito della celebre distinzione fra libertà maggiore e libertà minore. Contro la lettura dellavolpiana incardinata sul primato della libertas maior o dimensione egualitaria riconducibile ai bisogni rivendica la centralità e il tratto fondativo della cosiddetta libertà minore o corredo di garanzie e immunità individuali. Nella critica portata da Losurdo alla tradizione liberale e della sua interpretazione etnocentrica del primato dell’occidente, non c’è nessuna negazione polemica delle scoperte – per così dire – irreversibili della tradizione liberale moderna e quindi della separazione dei poteri, del garantismo, delle libertà individuali fondamentali.

In occasione del 18 brumaio, con il bonapartismo salta proprio il tessuto delle mediazioni istituzionali e giuridiche formali che erano state introdotte nella Francia della Seconda repubblica. Secondo la lettura di Losurdo, ciò che emerge nel fenomeno del bonapartismo è la contrapposizione tra la mediazione con il momento delle forme, e cioè la civiltà giuridico procedurale, e il mito della semplificazione, dell’immediatezza. A suo avviso, proprio la narrazione del leader che vanta un’investitura metafisica è il tratto caratteristico del bonapartismo moderno, il tassello costitutivo del populismo che sprigiona la personalizzazione della figura del capo. La narrazione indica la costruzione di vere e proprie strategie di deviazione semantica il cui scopo, sostiene Losurdo, è quello di definire meccanismi di «esternalizzazione del conflitto». Bonapartismo e populismo, cioè, sono varianti politiche di semplificazione seduttiva che per anestetizzare le fonti e i soggetti del conflitto fanno ricorso a strategie narrative e a momenti simbolici. Rifiutando il conflitto e rigettando la mediazione, questi fenomeni pseudocarismatici devono definire, attorno al corpo di un capo, dei meccanismi apparenti di unità e di identificazione coinvolgente.

Il momento simbolico-narrativo diventa così fondamentale nella strategia del bonapartismo e del populismo come fenomeni politici di decomposizione delle fratture sociali e delle organizzazioni della conflittualità. La seduzione è l’aspetto cruciale del fenomeno perché, spiega Losurdo, al centro delle diverse varianti politico-istituzionali di bonapartismo si erge la figura del capo-tutore capace di rivolgersi alle diverse stratificazioni della società con messaggi camaleontici. Il capo-tutore è un leader che ricorre a leggende, a strategie narrative per inventare genealogie e tradizioni, a forme di mito politico riguardanti la terra, il benessere. Il capo bonpartista semplifica, costruisce strategie di identificazione apparenti con il popolo assunto come omogeneità mistica che supera la differenza di classe e tutto ciò richiede una sorta di estetizzazione del fenomeno politico: quella teatralizzazione del momento politico che Marx coglie appunto nel 18 brumaio.

Al capo-tutore che ricorre a leggende, a costruzioni di sé come evento pseudo-carismatico, e quindi all’esibizione di facoltà mitiche e magiche, corrisponde un processo convergente che Losurdo chiama di «infantilizzazione della moltitudine». Da questo punto di osservazione, bonapartismo e populismo sono due dinamiche intrecciate: da una parte si presenta la costruzione dell’immagine di un capo-tutore che accelera la dimensione temporale delle sue decisioni e rivendica attitudini magiche, risolutive, che vanno oltre il tempo quantitativo, misurabile e le dimensioni concrete delle mediazioni politiche; dall’altra compare un popolo-moltitudine ridotto a uno stato infantile di coscienza che lo rende facilmente malleabile. Questa infantilizzazione della moltitudine al cospetto di un capo si avvale degli strumenti della psicologia delle folle e quindi della costruzione di elementi nient’affatto critico-deliberativi ma simbolico-riduzionistici, che consentono la cattura della massa irrelata e atomizzata su questioni di mera apparenza. Proprio l’infantilizzazione è la condizione per cui il capo riesce a incantare la massa e a superare i tempi, le procedure e le mediazioni, per delineare momenti di ricomposizione illusoria e soltanto apparente.

La psicologia, la recitazione e la narrazione sono fenomeni che Marx indica come elementi cruciali per spiegare le crisi dei sistemi politici di massa, quando cioè i ceti politici e sociali del potere ufficiale non riescono a gestire con gli strumenti tecnico-procedurali i grandi conflitti della modernità. Su questa falsariga, secondo la diagnosi di Losurdo, il bonapartismo è un’ombra che accompagna i processi delle democrazie di massa anche nelle vicende politiche successive a quelle francesi. Secondo Losurdo, si hanno bonapartitismi di rottura e bonapartismi soft. I fascismi e gli autoritarismi sono l’espressione estrema del bonapartismo, della rottura, del rifiuto della mediazione procedurale e dell’arretramento delle condizioni. Ma anche se la forma politica liberale non si interrompe con un «regime pretoriano», come lo chiamava Marx, una traccia di bonapartismo si ha anche negli ordinamenti costituzionali più consolidati. Losurdo accenna a questo proposito al fenomeno dell’“alleggerimento” della forma politica che si verifica anche in democrazie liberali di più lunga tradizione, mediante la fenomenologia della personalizzazione estrema della leadership.

La personalizzazione del potere e i partiti personali sono forme che incarnano, entro società democratiche, le diverse varianti di un bonapartismo soft che non sospende i riti elettorali. Nella ricostruzione di Losurdo, nelle società moderne si sviluppa una vera e propria dialettica antagonista tra strategie di emancipazione e momenti di deemancipazione, come lui li chiama. Il suffragio universale, l’associazionismo del partito di massa, il pluralismo politico e sociale, innescano episodi di un grande conflitto che nel suo procedere delinea meccanismi anche costituzionali di emancipazione e cittadinanza sociale. Questi fenomeni di crescita, di mobilitazione e di riconoscimento del diritto sociale non sono però irreversibili e definitivi. Si tratta di riforme che vengono introdotte nel corpo di una società che rimane di mercato, capitalistica, per cui queste acquisizioni che vanno nel segno del costituzionalismo sociale e democratico rimangono delle variabili dipendenti che si restringono o vengono revocate in relazione alle condizioni economiche generali del mercato. Come con il conflitto vengono strappate, queste piccole libertà solidali vengono anche messe in discussione quando i rapporti di forza e le dinamiche economiche internazionali giustificano la rottura delle protezioni sociali e conferiscono forza a politiche neoliberiste di privatizzazione.

Secondo la diagnosi di Losurdo, questa dialettica emancipazione-deemancipazione è il cuore della democrazia moderna. Ed è in questo quadro che vanno lette le pagine che nella Questione comunista riguardano i tentativi di proporre un neopopulismo di sinistra. Verso il disegno in vitro di un neopopulismo di sinistra Losurdo ha parole di critica rigorosa. Non crede affatto che l’alternativa al leaderismo, al populismo e al bonapartismo soft che sfigurano le democrazie risieda nella declinazione di un populismo di sinistra convertito alla declinazione comunicazionale della proposta politica alternativa. Ogni possibile populismo di sinistra non può che essere culturalmente subalterno rispetto alle strategie del capo-tutore e dell’infantilizzazione di massa. Una prospettiva critica non può adottare come strategia l’arma del nemico. E quindi non è possibile contrastare il bonapartismo soft delle democrazie solo elettorali declinando con velleità di sinistra una infantilizzazione della massa attorno a semplificazioni estreme. Losurdo rileva come nel cosiddetto populismo di sinistra si incontri una componente messianico-teologica che è difficilmente compatibile con una critica fondata e realistica dei processi moderni di alienazione, sfruttamento e precarietà di massa.

Nelle ultime pagine Losurdo combatte una certa semplificazione dell’analisi critica che si ha nella retorica del capitalismo verde, nella leggenda della decrescita. Soprattutto contro i profeti della decrescita egli recupera la definizione di un «collettivismo della povertà». Secondo Losurdo, la critica comunista e socialista del moderno non può essere scambiata con un processo di decrescita più o meno felice. Quella condizione della decrescita non è il cuore analitico vero di un’interpretazione critica delle dinamiche della postmodernità capitalista. Da qui la sua critica delle retoriche della decrescita e delle tentazioni del postmodernismo teorico.

Nell’analisi di Losurdo si mette in chiaro una condizione che ricorre sempre. La narrazione e la semplificazione sono il surrogato di un sistema politico censitario che è diventato impossibile. Essendo impraticabile la riduzione della complessità attraverso il recupero delle strutture politiche formalmente censitarie, c’è bisogno comunque di decongestionare lo spazio pubblico democratico. E questa strategia di decongestionamento, di semplificazione e riduzione della complessità, si ottiene, nelle società democratiche odierne, non più attraverso inviti a sospendere le procedure formali o con il restringimento del catalogo dei diritti politici fruibili ma mediante surrogati come la narrazione, il populismo e la personalizzazione estrema del rapporto politico. Il codice della disintermediazione e della passivizzazione per carenza di offerte mobilitanti è il meccanismo con il quale le società democratiche cercano di comprimere le istanze critiche e di imporre con l’apatia e l’astensionismo strategie di deemancipazione.

I regimi democratici, in altre parole, tendono paradossalmente a ridiventare regimi monoclasse per un eccesso di diseguaglianze non combattute con i soggetti dell’autonomia politica del lavoro. Diventano regimi neocensitari non più attraverso il suffragio ristretto, o la negazione dei diritti politici, bensì attraverso strategie infinite di infantilizzazione della moltitudine. La spettacolarizzazione, la riconduzione della politica sotto la specie della comunicazione, servono per la compressione della politica organizzata, per l’affossamento della politica come dimensione strutturata. L’ombra che accompagna la democrazia, il populismo-bonapartismo come regime della semplificazione semantica e della passivizzazione, si esprime attraverso meccanismi di verticalizzazione del potere che riducono lo spazio pubblico. Eliminando le aperture deliberative e discorsive, è possibile affermare, al loro posto, momenti di passivizzazione e strategie di spoliticizzazione che trionfano nel vuoto di una politica di classe organizzata. La diserzione di massa dello spazio pubblico si ottiene non più attraverso la rigidità e le chiusure formali istituzionali ma mediante la spettacolarizzazione della politica, la leggenda cucita attorno a personalità rivestite di attitudini pseudocarismatiche.

Democrazia o bonapartismo, dunque, è una tensione che Losurdo poneva in termini alternativi. In effetti, in forme mutate si tratta di un dilemma che si ripropone sempre nelle società di massa: o si determina con il conflitto l’espansione del progetto democratico, spingendolo anche oltre il recinto procedurale istituzionale, oppure si assiste alla continua reinvenzione di meccanismi di semplificazione tramite i quali il bonapartismo soft restringe il catalogo valoriale delle democrazie. È un’alternativa non più soltanto sudamericana o vetero-europea. Persino negli Stati Uniti il dilemma è oggi precisamente quella indicata nel libro di Losurdo, democrazia o bonapartismo: nemmeno più tanto soft, come affiora nelle rotture costituzionali di questo tempo.

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