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illatocattivo

In cammino

di Il Lato Cattivo

Prefazione ad un’antologia di testi de Il Lato Cattivo di prossima pubblicazione in Grecia

Giorgio de Chirico Art cantore della vita interiore degli oggetti 1Riesaminare il contenuto di questi scritti «d’occasione», elaborati generalmente «a caldo» e in tempi brevi, è per chi scrive un esercizio necessario ma non sempre appagante. Il tempo è un giudice implacabile. Nel distacco che esso consente, le analisi deboli risaltano più di quelle solide, le ipotesi fallaci più di quelle pertinenti. Ciò è vero a maggior ragione dopo lo scoppio della «crisi da Covid-19», che pone la teoria comunista di fronte a una forma di crisi del tutto atipica, e ancora lungi dall'aver dispiegato tutti i suoi effetti in termini economici, politici e sociali. Nell'elaborazione di questa prefazione, il nostro riflesso spontaneo è stato, di primo acchito, quello di voler completare, precisare e correggere gli assi di riflessione, le articolazioni, le proiezioni contenute in questi testi. Dopo ulteriore ponderazione, e nella consapevolezza della ridotta risonanza delle nostre posizioni e attività, in particolare a livello internazionale, ci è sembrato invece più opportuno fornire ai lettori e alle lettrici di Grecia, qualche elemento sul percorso in cui questi testi si inscrivono, ovvero cercare di rispondere a domande in apparenza semplici: «da dove veniamo?», «dove andiamo?».

Chiariamo fin da subito che quella de Il Lato Cattivo, cominciata una decina d'anni fa, è una storia che riguarda pochi individui: una cerchia ristretta che nei momenti migliori si è potuta contare sulle dita di una mano, e una platea di interlocutori assidui che al massimo riempirebbe l'altra mano. Dal punto di vista aggregativo, per non dire «organizzativo», è dunque una storia di solitudini e di insuccessi, di tentativi non necessariamente infruttuosi, ma sempre estemporanei, di allargare la cerchia oltre gli iniziatori, i quali restano ad oggi i soli superstiti.

Ma prima di questo, è la storia di un incontro fra dissidenti di correnti solidificatesi nella sconfitta e nel riflusso delle lotte di classe degli anni 1960/1970 (Autonomia organizzata, anarchismo insurrezionalista etc.), convinti che la crisi del 2008 cambiasse le carte in tavola ed imponesse un distanziamento, tanto teorico quanto pratico, dall'eredità in putrefazione di quel ciclo di lotte, senza con ciò ripiegare su nostalgie o revival di un passato ancor più remoto. Negli ambiti «movimentisti» da cui provenivamo, come in quelli «partitisti» a noi più attigui (marxisti anti-stalinisti), ravvisavamo un attivismo gesticolatorio e una sclerosi teorica – egualmente sterili – con cui in ogni caso bisognava farla finita. Ma come fare?

È vano, e perfino ridicolo ormai, voler negare che un certo filo storico, all'incirca negli anni 1970, si è definitivamente spezzato. Riconoscere questa rottura in ciò che Claude Lefort, ai tempi di Socialisme ou Barbarie, chiamava «l'esperienza proletaria», è riconoscersi orfani, privi di paternità certe. È obbligarsi a un faticoso lavoro di bricolage, alla fabbricazione «artigianale» di un proprio retroterra; il quale, salvo scadere in ciò che la psicanalisi chiamerebbe un «fantasma di auto-generazione», non può prescindere dall'appropriazione di un passato che trascenda la limitatezza della propria esperienza personale. Gran parte dell'attività teorica svolta in questi anni è consistita essenzialmente in questo. Lo si può considerare poco o molto, ma così stanno le cose. Da qui, in primo luogo, l'instaurazione di un rapporto privilegiato e peculiare con quella parola scritta senza la quale non può, tuttora, esserci teoria del comunismo, intesa come sviluppo di un pensiero sistematico e internamente coerente: il corpus marx-engelsiano. Rapporto peculiare, dicevamo, perché rapporto alla totalità dell'opera, e ciononostante rapporto critico, non pacificato, focalizzato sulle discontinuità (la fondamentale distinzione fra lavoro e forza-lavoro introdotta nel 1850-1852, ad esempio) e sui punti problematici (le relazioni con la socialdemocrazia in formazione dopo lo scioglimento della I Internazionale, ad esempio), piuttosto che sul carattere presuntivamente organico della stessa; e troppo articolato per rinchiudersi nella rigidità di un'unica discontinuità fondamentale (la «cesura epistemologica» di Althusser, ad esempio) di fronte alla molteplicità delle rotture concettuali e politiche, e anche dei binari morti. Un approccio, questo, che si allarga alla totalità della posterità marxista: donde la centralità accordata alle posizioni marxiste rivoluzionarie convergenti nei tre anni successivi all'Ottobre 1917, poi divergenti nella controrivoluzione (sinistra comunista «italiana», tedesco-olandese, russa etc.); ma anche l'impossibilità di richiamarsi ad un solo filone quale unico rappresentante della filiazione «autentica», così come di escludere gli apporti provenienti da altre correnti o individui (situazionisti, operaismo etc.), e – in definitiva – fare come se gli anni Sessanta e Settanta non fossero mai esistiti. Un approccio, infine, da applicare alla stessa maniera alla totalità della storia delle lotte di classe dell'epoca capitalista – prima, durante e oltre l'esistenza del cosiddetto «movimento operaio classico» (il lungo XX secolo delle socialdemocrazie, 1875-1990), dunque a partire dai conflitti sotto l'Ancien Régime fino ad oggi – in vista di uno studio sistematico del loro svolgimento, tanto nelle fasi di riflusso che in quelle di ripresa rivoluzionaria, sulla base di ciò che hanno veramente fatto e non di quello che avrebbero dovuto o potuto fare col senno di poi.

L'impostazione qui descritta non è ovviamente il frutto di una folgorazione sulla via di Damasco, né ci è caduta fra le mani bell’e pronta. È il risultato di un percorso che ci è costato fatica, fatto anche di scambi intensi con compagni vicini e lontani, e talvolta di incomprensioni e separazioni dolorose. Ci riferiamo qui al confronto – sempre complicato, ma proseguito fino a che è stato possibile – con i nostri vecchi compagni anarchici e «autonomi», e con i residuati della Sinistra comunista «italiana» (per ovvi motivi ancora relativamente numerosi in Italia). Ma ci riferiamo, soprattutto, alla scoperta della corrente della comunizzazione, basata principalmente in Francia (autori come Bruno Astarian, Gilles Dauvé, Karl Nesic, oltre alla rivista Théorie Communiste), i cui apporti sono stati per noi essenziali, in particolare per ciò che concerne la concezione generale del rapporto fra le due classi fondamentali (proletariato e capitale) del modo di produzione capitalistico – una tematica «sensibile» fin dai primi vagiti de Il Lato Cattivo, poiché ereditata dal ciclo di lotte degli anni 1960/1970, ovvero dalle lotte dell'operaio-massa, dall'operaismo italiano che le teorizzò, e dalla critica che ne fecero riviste come Insurrezione e, più tardi, Vis-à-Vis (due esperienze importanti e in generale poco citate, per quanto diverse fra loro). Cerchiamo di riassumere qui tale concezione, così come noi la intendiamo oggi: al netto della critica delle tendenze oggettivistiche della II e della III Internazionale (la lotta di classe intesa come esterna e accessoria al corso oggettivo dell'economia capitalista) e del loro rovesciamento da parte dell'operaismo italiano nel Secondo dopoguerra (che postula a tal punto la lotta di classe come primigenia, da arrivare a considerare il corso oggettivo del capitale come puramente politico, frutto di una strategia o di un tattica di «dominio» sempre reattive), lo sviluppo capitalistico e la lotta di classe appaiono come un processo unico, piuttosto che come due processi paralleli e autonomi l'uno rispetto all'altro. L'intensificazione del rapporto capitalistico in profondità ed estensione, si dà essenzialmente come processo di accumulazione, ovvero come immobilizzazione crescente – nel tempo e nello spazio – di capitale sotto forma di mezzi di produzione, giacché sotto la superficie della concorrenza fra capitali individuali nella corsa al plusprofitto, vi sono in ogni singolo istante i limiti incessantemente posti dal lavoro vivo all'aumento del saggio di sfruttamento, senza i quali la riproduzione del rapporto potrebbe appoggiarsi su una base tecnica pressoché stabile. Quella che Marx, nel Manifesto del partito comunista, esalta come necessità per la classe capitalista di «rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali», determina una storicità straordinariamente concentrata e dinamica del rapporto di classe in confronto ai modi di produzione precedenti. Ed è precisamente quando questa dinamicità entra in stallo fino quasi a bloccarsi, che le due classi fondamentali giungono a scontrarsi apertamente e violentemente, sia (nell'ottica della classe capitalista) per rimetterla in moto, sia (nell'ottica della dissoluzione delle classi) per superarla e passare ad una configurazione nuova dei rapporti fra gli individui e di questi ultimi con la natura. La crisi generale − manifestazione dell'insufficienza del plusvalore estratto e dunque dello sfruttamento – non è altro che la premessa, necessaria ma non sufficiente, di questo scontro aperto e violento.

Comprendere in questi termini l'intimo ingranaggio del rapporto capitalistico, non equivale a negare all'economia capitalista qualsiasi carattere di oggettività e prevedibilità: la cosiddetta «reificazione» dei rapporti sociali è un fatto reale, che conferisce al modo di produzione capitalistico delle leggi di funzionamento che si perpetuano «come leggi di natura», e che sono osservabili attraverso la ricorrenza di determinati fenomeni economici. Tuttavia, su queste basi, è possibile cogliere la superficialità delle teorie della «crisi finale» o del declino irreversibile del modo di produzione capitalistico, che dal 2008 ad oggi hanno ritrovato un certo seguito anche in Italia. In questo senso, è bene ricordare che fino ad oggi la classe capitalista è sempre riuscita a rilanciare la meccanica del rapporto di classe, ciò che – per limitarsi alla storia del Novecento – ha generato la ristrutturazione «fordista» dopo lo scontro di classe a cavallo tra gli anni ‘10 e ‘20, e la ristrutturazione «post-fordista» dopo quello avvenuto intorno alla data- simbolo del 1968. Ciò ci riporta nuovamente alla fase attuale, nella misura in cui il rapporto di classe si è trovato – dal 2008 in poi, e ancor più oggi, dopo la «crisi da Covid-19» – ancora una volta in una fase di stallo, che imporrà alla parte capitalista un tentativo vigoroso di rimetterlo in moto, inscindibile da aspri conflitti all'interno della classe capitalista stessa. Poiché non si dà crisi finale o permanente (se non quella che il proletariato rende tale), una ristrutturazione del rapporto di sfruttamento è sempre possibile. La caduta tendenziale del saggio di profitto esiste sia come movimento ciclico sul breve periodo, il quale si esprime in crisi periodiche, sia come movimento continuo, secolare, sul lungo periodo, che si esprime nel passaggio dai tassi di crescita a doppia cifra dei capitalismi «giovani» a quelli più esigui dei capitalismi «maturi». Ma la tendenza di lungo termine alla caduta del saggio di profitto non pregiudica in alcun modo l'eventualità di un rilancio dell'accumulazione, sempre possibile allorché la crisi generale si traduce in una massiccia devalorizzazione (distruzione di valore-capitale eccedente).

La critica delle teorie della crisi finale va, per noi, di pari passo con la tesi secondo cui lo sviluppo del capitale non è affatto un processo di «semplificazione» degli antagonismi sociali, di creazione di una situazione capitalistica «pura». Questa tesi si articola in più punti:

    • in primo luogo, questo fatto è osservabile nella crisi generale, che non è mai un crollo distribuito omogeneamente sulla totalità dei capitali singoli, e conosce necessariamente delle disparità settoriali e geografiche importanti, a livello di impatto sociale (per tacere dei suoi prolungamenti geopolitici).

    • In secondo luogo, la traiettoria storica del rapporto capitalistico non procede in direzione di uno scontro diretto fra due poli omogenei in se stessi, epurato da qualsiasi elemento perturbatore. Questioni nazionali irrisolte, «questione femminile», classi «terze» non riducibili a semplici escrescenze del capitale o del proletariato… lo sviluppo capitalistico non fa tabula rasa di ogni cosa, e sovente fagocita le differenziazioni legate ad altri modi di produzione soltanto per rimodellarle al proprio interno, dando loro un contenuto nuovo, o ne crea di storicamente inedite (si pensi alla «questione ambientale»). Da qui discende, fra l'altro, l'importanza che conferiamo alla questione delle classi intermedie, sia urbane che agrarie, e in particolare – nel contesto dei paesi a capitalismo maturo – alla classe media salariata.

    • In terzo luogo, lo stesso sviluppo delle forze produttive non «semplifica» in alcun modo le doglie del parto di una società nuova, post-capitalistica: non è esso a rendere il passaggio al comunismo più o meno lineare o tortuoso. In un certo tipo di visione marxista-volgare, si intende la storia del rapporto capitalistico come una successione di tecniche produttive, e non come il rimodellarsi di una contraddizione tra classi. È viceversa il rapporto di classe, il suo periodico sfociare in crisi e scontri aperti, a creare le condizioni del comunismo, che del resto viene concepito diversamente a seconda delle epoche. Se dunque oggi può essere legittimo parlare di «comunizzazione» (e a nostro avviso lo è) non è in ragione di un certo sviluppo delle forze produttive ormai acquisito. Il concetto stesso di comunizzazione è passibile di essere superato o messo in discussione dall'evoluzione futura del rapporto di classe.

Quello svolto fin qui, non è che un breve compendio delle tematiche che abbiamo trattato in questi anni: ci sarebbe molto altro da dire. Tuttavia dovrebbe bastare a chi non ci conosce per farsi un'idea del nostro lavoro. Per quanto riguarda l'oggi, la nostra riflessione attuale ruota intorno alla questione della caducità della mondializzazione e della formazione degli elementi passibili di confluire, sul lungo termine, in un diverso assetto del capitalismo mondiale. Precisiamo che questa formazione è necessariamente cacofonica, disarmonica, frammentaria, proprio perché produce elementi, materiali, tasselli, che solo in un secondo tempo potranno articolarsi fra loro in maniera coerente. Certo, i tempi in cui il filosofo Francis Fukuyama proclamava il trionfo definitivo del capitalismo atlantico e democratico e, con esso, «la fine della Storia», sembrano oggi quasi preistoria. L'avvio di un processo di de-mondializzazione non può che rimettere in discussione tutto ciò che, con la mondializzazione, pareva acquisito: l'unificazione liberoscambista e democratica del mercato mondiale e il declino dello Stato come agente economico diretto, ma anche la perdita di centralità del lavoro salariato come forza organizzata e, sul piano ideologico, la presunta fine delle classi sociali e della loro lotta. Ma il frangente che stiamo vivendo, sotto il segno della pandemia di Covid-19, non è che una delle tappe iniziali di un processo doloroso, macchinoso, prevedibilmente scandito da accelerazioni repentine e fasi di ristagno. C'è da scommettere che ad ogni pretesa schiarita, spunteranno anime belle desiderose di tornare allo statu quo ante. Ma volere non è potere: gli smottamenti intervenuti nel frattempo fin dentro il «sottosuolo» del mondo attuale, avranno già irrimediabilmente sconvolto il paesaggio.

In un testo recente, intitolato Covid-19 e oltre, incluso in questa raccolta, ci siamo concentrati sui mutamenti, in cantiere o a venire, dei rapporti interni al capitale a vari livelli: tra singoli capitali, tra frazioni capitalistiche e tra Stati o alleanze inter-statali sul piano geostrategico. Poco ci siamo invece occupati – e per lo più implicitamente – dei mutamenti che interessano coloro che a vario titolo stanno

«in basso»: il proletariato, certo, ma anche la classe media salariata, la piccola borghesia urbana (per quanto concerne i paesi in cui essa sopravvive in misura significativa), il contadiname nelle sue molteplici stratificazioni (piccola borghesia agraria, semi-proletari rurali etc.). Ragionando ad un livello estremamente generale, e dunque facendo astrazione da tutte le specificità nazionali, regionali etc., tre tendenze ci sembrano fin d’ora delinearsi come ineluttabili e onnipresenti, a breve o medio termine:

    • in primo luogo, la radicalizzazione su scala mondiale del processo di proletarizzazione, in tutte le sue ramificazioni. Ci riferiamo qui alla riduzione – generalmente inter-generazionale e diluita nel tempo di frazioni di classi non-proletarie alla condizione proletaria, che riguarda tanto i «residui» (tutt'altro che residuali, dal punto di vista numerico) di rapporti pre- o archeo-capitalistici, quanto classi organicamente legate al capitalismo maturo.

    • In secondo luogo – ed è una banalità – l'aumento del saggio di sfruttamento del proletariato occupato, sia nelle forme «passatiste» del plusvalore assoluto, che in quelle «ultra-moderne» del plusvalore relativo, secondo le circostanze.

    • La terza tendenza risulta dall'incontro delle prime due, o meglio dalla convergenza delle loro conseguenze sociali: la resistenza al processo di proletarizzazione e la resistenza proletaria di fronte all'aumento del saggio di sfruttamento. Convergenza quanto mai contraddittoria, e nondimeno storicamente necessaria, fra la lotta dei proletari sans phrase e la lotta di coloro che proletari non vogliono diventare, il cui sbocco interclassista – diciamolo chiaro e tondo – non può in nessun caso porre la questione del comunismo. Essa porrà invece, attraverso le sue impasse, la questione del passaggio alla lotta del proletariato contro il fronte unico di nemici di cui scrisse Bordiga nel 19251. Ed è a partire da questo passaggio che la questione del comunismo inizierà a porsi praticamente.

Certo, la debolezza apparente e ormai pluridecennale del proletariato nelle aree centrali dell'accumulazione (USA, Europa occidentale, Giappone) può far pensare che tutto ciò sia fantascienza. Non si è forse glossato in lungo e in largo, negli ultimi quarant'anni, sulla frammentazione irrimediabile della classe operaia? Sì, e talvolta a giusto titolo, poiché si ereditava dal vecchio movimento operaio una rappresentazione della classe che la idealizzava come una massa omogenea. In realtà, una differenziazione interna al proletariato è sempre esistita, per quanto mitigata, in passato, da mediazioni politiche e ideologiche. È sempre esistita in quanto essa è inscritta in una pluralità di elementi (divisione del lavoro, sistema delle qualifiche, estensione dell’esercito industriale di riserva, immigrazione etc.) le cui combinazioni e configurazioni sono storicamente mutevoli, ma oggettivamente inseparabili dalla struttura profonda del modo di produzione capitalistico. Queste combinazioni e configurazioni, a seconda dei casi, ampliano o restringono gli spazi di agibilità e di generalizzazione delle lotte immediate, senza con ciò sopprimere la divergenza fondamentale di interessi rispetto al capitale. Per dirla con parole semplici, la lotta di classe non scompare mai, ma circostanze diverse possono alzare o abbassare la sua soglia di intensità minima.

In questo quadro – sia detto en passant – la politica economica ha la sua parte da giocare, e quella deflazionistica utilizzata per uscire dalla famigerata stagflation degli anni 1970/1980, fu un buon viatico per installare una cappa di piombo sui margini di contrattazione, fino a fare della riverita Classe Operaia − con tanto di maiuscole – una «classe-fantasma» (Jean-Pierre Levaray) quale appare oggi. Ma questa specie di camicia di forza inizia a sfilacciarsi. Le recenti iniezioni di liquidità e credito «facile» ad opera delle principali banche centrali, sono state colossali, più che doppie rispetto a quelle effettuate all’epoca della recessione post-2008. Tuttavia, fatti due conti, ci si rende conto che non cambiano la questione di fondo (ci ritorneremo), e che la prospettiva di una stretta creditizia tramite un rialzo dei tassi d'interesse rimane d'attualità. Quando gli autori dei manuali di macroeconomia contemporanea sostengono che non bisogna preoccuparsene, è proprio il momento in cui si deve iniziare a farlo2. Con tutte le precauzioni del caso, si può ipotizzare che la suddetta prospettiva, qualora dovesse realizzarsi, si tradurrà in due fenomeni d'importanza epocale.

Il primo è il ritorno di un'inflazione sostenuta. Vale qui la pena ricordare che tra la fine degli anni ‘70 e la fine degli anni ‘80 del secolo scorso, per ristabilire la pace sociale nei centri del capitalismo mondiale, non bastarono le dismissioni, le ristrutturazioni aziendali e la disoccupazione montante. Fra l’altro, fu necessario trovare una soluzione durevole al problema dell’aumento smisurato del costo della vita, che si manifestò in numerosi paesi (l’11% di tasso d’inflazione negli USA nel 1974, addirittura il 25% in Gran Bretagna) proprio in seguito alla conversione del boom economico post-bellico nella famigerata stagflation. Evidentemente, è qui che entrò in gioco la formazione di quella sinergia asimmetrica fra paesi a capitalismo maturo e paesi in via di sviluppo, che – nonostante abbia coinvolto un ampio spettro di paesi – va sotto in nome di ChinAmerica, la quale permise di controbilanciare la compressione dei salari operai all’interno dei primi, attraverso la produzione di beni a buon mercato nei secondi. Ma, più in generale, è stata tutta la politica economica, tanto industriale quanto monetaria, del grande capitale occidentale, dalla metà degli anni 1980 fino alla crisi del 2007-2008 e oltre, a fare della lotta all’inflazione un articolo di fede, non da ultimo per disinnescare qualsiasi ritorno ad un alto livello di conflittualità nell’ambito delle cosiddette «relazioni industriali» e cancellarne perfino il ricordo. In Europa occidentale, ciò si è dato nella forma specifica di una costruzione europea modellata sulle caratteristiche del regime di crescita tedesco (stabilità dei prezzi, schwarze Null etc.). Fino ad oggi (ieri?), in una situazione per certi versi speculare a quella della fine degli anni ‘70 del secolo scorso – una sorta di stag- deflation in cui la pressione costante sui salari da parte capitalista è stata moderata da un’inflazione anemica, e in cui l’attività rivendicativa del lavoro dipendente è stata, cifre alla mano, perfino più debole che prima della crisi del 2008 (anche se al prezzo di una produttività rimasta al palo) – la classe capitalista si trovava idealmente messa di fronte al seguente dilemma: rassegnarsi al destino di una fantomatica «stagnazione secolare», oppure rischiare di svegliare il can che dorme? Dilemma in cui, beninteso, la prima opzione era puramente retorica, esisteva solo sulla carta… ma la seconda implicava la necessità di assumerne i dolorosi costi politici e sociali. Oggi questi costi non sono resi comunque inevitabili dall'emergenza pandemica?

Il secondo fenomeno a cui si è accennato, è la riconfigurazione delle catene del valore connessa alla crescente frammentazione del mercato mondiale. Attenzione: frammentazione del mercato mondiale non significa ritorno ai piccoli mondi antichi, alle piccole patrie. In termini generali, non c'è ritorno all'indietro possibile rispetto alla multinazionalizzazione del capitale. Tuttavia, questa non è affatto incompatibile con una o più cortine di ferro, ovvero con una riorganizzazione dell'economia mondiale in sottoinsiemi ben delimitati, in blocchi regionali. Nel quadro di tale riorganizzazione, la decimazione delle piccole e medie imprese rappresenta un momento cruciale. Essa è già cominciata, ma ha ancora molta strada da fare. Almeno una parte di queste imprese prende in carico attività necessarie alle grandi imprese multinazionali; il loro fallimento imporrà dunque una reinternalizzazione – ancorché parziale – di queste attività.

Inflazione e massacro delle piccola e media impresa saranno, fra innumerevoli altri fenomeni (si pensi alla guerra), le fornaci in cui si forgeranno – simultaneamente ma non indistintamente – la ripresa rivoluzionaria e il possibile rilancio dell'accumulazione previa devalorizzazione/distruzione del capitale in eccesso. Per quel che concerne l'inflazione, essa sarà in particolare determinante per la devalorizzazione del capitale monetario e di credito.

In conclusione, per ognuna delle due classi fondamentali del modo di produzione capitalistico (proletariato e capitale), e per ognuno degli esiti possibili dell'immensa crisi a cui stiamo andando incontro (ristrutturazione o rivoluzione), uno scontro epocale con l'altra classe è ineluttabile, per il semplice fatto che il rapporto fra le due è il motore di questo modo di produzione, è la dinamica che lo fa evolvere – insomma, è la sua stessa vita come processo di degenerescenza. Come accennato più in alto, fino ad oggi, in occasione di ogni grande devalorizzazione, si sono sempre giocate allo stesso tempo la possibilità della creazione delle condizioni del passaggio al comunismo, e quella della creazione delle condizioni del rilancio dell'accumulazione. È ciò che non comprendono gli ingenui convinti che il modo di produzione capitalistico sia giunto giocoforza al capolinea: ogni ondata insurrezionale che non abbatte il capitale, necessariamente lo ringiovanisce. Bordiga, la cui eco ancora oggi risuona più forte della voce di mille «marxisti» accademici, aveva ben compreso che i becchini del capitale sono anche coloro che gli permettono di rigenerarsi:

«L'inviato di un giornale londinese ha descritto una scena alla quale giura di aver assistito con i suoi occhi mortali, ben sano di mente e libero da fumi di droghe, in una valle del misterioso Tibet. Nella notte lunare il rito aduna, forse a migliaia, i monaci vestiti di bianco, che si muovono lenti, impassibili, rigidi, tra lunghe nenie, pause e reiterate preghiere. uando formano un larghissimo cerchio si vede qualcosa al centro dello spiazzo: è il corpo di un loro confratello steso supino al suolo. on e incantato o svenuto, è morto, non solo per la assoluta immobilità che la luce lunare rivela, ma perché il lezzo di carne decomposta, ad un volgere della direzione del vento, arriva alle nari dell'esterrefatto europeo.

«Dopo lungo girare e cantare, e dopo altre preghiere incomprensibili, uno dei sacerdoti lascia la cerchia e si avvicina alla salma. Mentre il canto continua incessante egli si piega sul morto, si stende su di lui aderendo a tutto il suo corpo, e pone la sua viva bocca su quella in disfacimento. La preghiera continua intensa e vibrante e il sacerdote solleva sotto le ascelle il cadavere, lentamente lo rialza e lo tiene davanti a sé in posizione verticale. Non cessa il rito e la nenia: i due corpi cominciano un lungo giro, come un lento passo di danza, e il vivo guarda il morto e lo fa camminare dirimpetto a sé. Lo spettatore straniero guarda con pupille sbarrate: e il grande esperimento di riviviscenza dell occulta dottrina asiatica che si attua. due camminano sempre nel cerchio degli oranti. Ad un tratto non vi e alcun dubbio: in una delle curve che la coppia descrive, il raggio della luna e passato tra i due corpi che deambulano: quello del vivo ha rilasciato le braccia e l altro, da solo, si regge, si muove. Sotto la forza del magnetismo collettivo la forza vitale della bocca sana è penetrata nel corpo disfatto e il rito e al culmine: per attimi o per ore il cadavere, ritto in piedi, per la sua forza cammina.

«Così sinistramente, una volta ancora, la giovane generosa bocca del proletariato possente e vitale si è applicata contro quella putrescente e fetente del capitalismo, e gli ha ridato nello stretto inumano abbraccio un altro lasso di vita.» (Amadeo Bordiga, Il cadavere ancora cammina, 1953).

Oggi il cadavere sta ancora in piedi, ma ha smesso di camminare. Per ritrovare nuova linfa, ha di nuovo bisogno che il proletariato gliela infonda. È solo facendo sorgere una rivoluzione potente che il partito dell'ordine può raggiungere la maturità di un vero partito controrivoluzionario, capace di assicurare un futuro al capitalismo. Allo stesso tempo, esso sa di rischiare grosso, e di poterci rimanere secco una volta per tutte.

Si avvicina sempre più, insomma, il momento in cui la società capitalistica dovrà guardarsi allo specchio e fare i conti con i limiti della redditività del capitale evidenziati dalla crisi del 2008, e con i loro numerosi prolungamenti: troppo debito, troppo credito, troppo leverage, troppa liquidità – giusto per citare i più palesi. Cercando di aggirarli o di occultarli, la quasi-totalità della politica economica e monetaria del grande capitale – un po’ in tutto il mondo, salvo rare eccezioni – non ha fatto da allora che ingigantirli. L'ultimo episodio, quello delle misure prese dalle principali banche centrali del mondo per far fronte alla «crisi da Covid-19», non fa eccezione. Che lo scioglimento di questi nodi non debba avvenire per provvidenziale e consensuale iniziativa di decisori illuminati, ma attraverso lotte furibonde di classi e di Stati, non ci sembra necessario ribadirlo.

Sarà per il proletariato – forse per la prima volta nella storia – una battaglia priva di sviluppo politico? Per rispondere a questa domanda, bisogna aver chiaro innanzitutto che ancora in tempi recenti, e anche nelle forme considerate più consone all'espressione autonoma della classe, la questione dell'organizzazione non è mai stata slegata da quella della rappresentanza, tanto rispetto al resto della società (le altri classi e i loro partiti), tanto in seno alla classe stessa. Salvo averne una visione del tutto idealizzata, gli stessi consigli non si sono forse rivelati, in tutte le occasioni in cui sono saliti alla ribalta della storia, come il teatro delle lotte di tendenza più feroci per ottenerne il controllo, e – nella loro variante operaia e di fabbrica – come il luogo del conflitto e della mediazione fra operai e burocrazie, fra operai e personale di inquadramento, fra operai «arrabbiati» e operai moderati? Tanto basti ad affermare che non esiste, e non esisterà mai, alcuna forma organizzativa che sia in se stessa «buona» o «cattiva». La questione è sempre e soltanto di sapere se una forma organizzativa, in un dato frangente storico, in una certa situazione concreta, permette l'azione o la tergiversazione, la decisione o la paralisi, la radicalizzazione o il «pompieraggio». Il solo principio che possiamo fare nostro, almeno per il momento, è quello di un anti-formalismo radicale.

Per tornare al problema della rappresentanza, viviamo un'epoca in cui i meccanismi di rappresentanza della classe operaia e delle «classi subalterne» in generale, non sembrano poter far altro che incepparsi o impazzire. Cosicché, da più parti, ci si guarda attorno alla ricerca di un rimedio miracoloso. Ma tra società civile e Stato, così come tra questi e la «fabbrica» in senso lato, si sono aperte voragini troppo profonde: la crisi di rappresentanza del proletariato, dopo centocinquant’anni anni di istituzionalizzazione (il farsi «movimento operaio» della classe, poi il farsi Stato del movimento operaio) non accenna a riassorbirsi. Il cosiddetto populismo segnala il problema, più che delinearne la soluzione. La questione del rilancio di tale rappresentanza, si porrà realmente solo nel quadro di un'eventuale uscita di segno capitalistico dalla crisi decisiva di cui stiamo vedendo i primordi. Coloro che escludono questa eventualità, dimenticano che «non esistono situazioni assolutamente senza via d'uscita per il capitalismo». Ma coloro che rispolverano l'autonomia del politico, magari sotto forma di populismo progressista, mettono il carro davanti ai buoi, e puntano – volenti o nolenti – su un rilancio dell'accumulazione, che quand'anche si desse in forme anti-liberiste, neo-keynesiane o di capitalismo di Stato, avrà da mietere ancora parecchie vittime prima di potersi affermare. Quest'ultimo dato conferisce un carattere necessariamente instabile a tutte le alleanze di classe e presunti «blocchi storici», presenti o a venire, quantomeno a medio termine. Il fatto che essi stentino a coagulare organizzazioni politiche di massa, non è che un'espressione fra le altre della fragilità di cui abbiamo appena detto. Tuttavia ciò attiene alla forma più che alla sostanza: in ultima istanza, «in una determinata società nessuno è disorganizzato e senza partito, purché si intendano organizzazione e partito in senso largo e non formale.» (Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, VI, § 136, corsivo nostro).

I lettori e le lettrici si domanderanno forse se da ciò che precede derivino delle indicazioni precise rispetto al «che fare?» più immediato. In verità ben poche ne troveranno nei nostri testi, siano quelli raccolti in questo volume o altri. Non siamo soliti dispensare «direttive». Assegnare un ruolo alla teoria vuol dire ancora una volta rivendicarne la «proprietà privata», pretendere che la sua fruizione, il suo «uso», siano conformi ai moventi degli autori. Converrebbe allora conservarla nel fondo del nostro foro interiore, giacché non appena ne esce non ci appartiene più, e il suo uso diviene incontrollabile. Le nostre indicazioni, quando esistono, sono sempre scritte fra le righe, e lasciamo ad ognuno l'onere di cercarle e di farne quello che crede.

Detto questo, teniamo comunque ad esplicitare alcune linee-guida di carattere estremamente generale che ci serviranno come bussola nella prosecuzione della nostra attività:

    • La separazione fra «movimento» (lotta di classe) e «fine» (comunismo) resta attualmente un dato di fatto. Il più delle volte, esso si risolve nella scelta fra «praticismo» (attività in seno alla classe: sindacalismo, para-sindacalismo, attivismo etc.) e «teoricismo». Ma è anche possibile trovare, come accadeva più spesso in passato, i due aspetti riuniti nella stesso gruppo, perfino nello stesso individuo – ciò che non rappresenta un superamento, ma la semplice giustapposizione di due sfere separate. Solo la radicalizzazione della lotta di classe può far saltare la separazione. Ciononostante, ciò che ci definisce come comunisti non è l affermazione dell’esistenza del «movimento» (la lotta di classe) o il supporto ad esso, ma l'affermazione che questo «movimento» può avere un(a) «fine». Ci piaccia o meno, la sola affermazione del(la) fine rimane, oggi, di natura strettamente teorica. Tirarne tutte le conseguenze, sobriamente e senza auto- mistificazioni, è un irrinunciabile punto di partenza. Ma, appunto, è solo un punto di partenza. Il fatto di considerare la chiarificazione teorica come prioritaria, non impedisce e non deve impedire di muoversi in altre direzioni. Tra queste ci può essere il contatto diretto con le lotte sul territorio, ma anche la formazione dei compagni più giovani mossi da un genuino interesse per la teoria – un terreno troppo spesso disertato e abbandonato a «cattivi maestri». In quest'ultimo caso, non si tratta di indottrinare o fare della semplice «volgarizzazione», ma di far sentire la teoria comunista come teoria vivente, in grado di stare al passo con la realtà e talvolta di anticiparla. (Dobbiamo qui segnalare che un dibattito interno esiste, per sapere in quale misura l'esistenza de Il Lato Cattivo ci agevola o, al contrario, ci ostacola nel muoverci in queste direzioni.)

    • Vi è, oggi, negli ambienti assimilabili al comunismo critico, una grande frammentazione e diversità di vedute, su cui non è possibile passare un colpo di spugna con semplici appelli all'unità. I «rivoluzionari senza rivoluzione» sono tanto divisi tra loro quanto lo sono i «proletari senza rivoluzione». Ciò non esclude l'apertura al confronto, ma impone per il momento – e salvo improvvise accelerazioni storiche negli antagonismi di classe – una certa prudenza. L'unificazione può essere perseguita solo laddove vi sia effettiva convergenza di visioni e di intenti.

    • Per far esistere il fine, non fosse che nella sua forma più astratta (cioè teorica), non basta ripetere né restaurare. Non c'è restauro della teoria senza che vi sia sviluppo, e viceversa. La chiarificazione teorica deve abbandonare la focalizzazione sul milieu, la critica delle altre correnti o degli «errori» dei compagni più prossimi. Vista la decomposizione generale, si tratta di una perdita di tempo. In rapporto al corpus marx-engelsiano, oltre cent'anni dopo, resta vera l'affermazione di Rosa Luxemburg secondo cui non abbiamo ancora sfruttato interamente tutte le sue potenzialità. Di più: dato il contesto di approfondimento della crisi, vi è un bisogno impellente di analisi puntuali sugli sviluppi economici, politici e geo-strategici, da realizzare sulla base di un'assimilazione corretta della critica dell'economia politica.

Per concludere, un piccolo aneddoto. Quando abbiamo dato vita a quest'entità un po' bizzarra che è Il Lato Cattivo, abbiamo tenuto a mettere per iscritto fin da subito nei nostri «statuti», che si sarebbe trattato di un sodalizio provvisorio, la cui funzione era necessariamente destinata ad esaurirsi in un lasso di tempo non meglio precisato. Probabilmente non immaginavamo che sarebbe durato dieci anni. Ma se le nostre previsioni sono giuste, si avvicina il momento in cui Il Lato Cattivo non avrà più ragione di esistere. In quei terribili frangenti storici in cui la soppressione della separazione fra teoria e prassi diviene possibile, sono le basi stesse della teoria come attività separata a sgretolarsi. I suoi vecchi fautori, volenti o nolenti, vengono strappati al loro «ruolo». In ciò, non dimenticano ciò che «sanno» e non rinunciano a condividerlo; ma il loro sapere, per l'essenziale, non è che una comprensione della controrivoluzione pregressa e una proiezione – divenuta ormai caduca – dei tempi e dei modi del suo esaurimento.


Note
1 «Noi abbiamo una funzione originale che si esplicherà nel suo massimo il giorno in cui finalmente sarà chiaro che queste classi cuscinetto, queste classi intermedie, non hanno diritto di rappresentare nulla nella storia. Ecco perché noi dobbiamo affermare che ci sarà un momento in cui il proletariato dovrà fare da sé, un momento in cui sarà solo contro tutti, un momento in cui non avrà alleati, ma si troverà davanti ad un fronte unico di nemici.» (Amadeo Bordiga, La funzione storica delle classi medie e dell'intelligenza, 1925).
2 «Fino ad ora non c'è evidenza che le banche centrali abbiano rinunciato, o si accingano a rinunciare, al loro mandato sulla stabilità dei prezzi. Questo potrebbe anche avvenire alla fine, se i costi fiscali della crisi si dimostrassero insostenibili, ma l'entità degli attuali acquisti di debiti pubblici non devono essere visti come indicativi di un futuro eccesso di monetizzazione. […] Le banche centrali stanno facendo la cosa giusta. Le loro azioni sono sostenibili. E non si sono legate le mani a una futura inflazione.» (Olivier Blanchard e Jean Pisani-Ferry, Monetizzazione del debito: niente panico, aprile 2020).

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