Print Friendly, PDF & Email

paroleecose2

"Liberare l'insegnamento dall'apprendimento"

Rifessioni politiche e pedagogiche intorno a un libro importante

di Daniele Lo Vetere

Sovraccarico 3Gert J. J. Biesta è un importante filosofo dell’educazione, prima d’oggi mai tradotto nel nostro paese.[i] La pubblicazione di Riscoprire l’insegnamento (Raffaello Cortina Editore, 2022, pp. 153), per la cura di Francesco Cappa e Paolo Landri, mette a disposizione dei lettori italiani un pensiero pedagogico di grande interesse e sicura attualità, che merita ben più di una semplice recensione: direi l’avvio di una riflessione collettiva. È Biesta stesso che ci invita a una ricezione operosa: «Quelle esposte in questo libro non sono solo idee su cui riflettere […] ma forse, prima di tutto, idee con cui pensare» (pp. 4-5, corsivi originali). L’obiettivo del filosofo è rivalutare l’insegnamento e gli insegnanti, per una decisa correzione di quella che chiama «learnification dell’istruzione».

 

La «learnification dell’istruzione»

La critica di Biesta alla learnification è condotta ad un livello di rigorosa pertinenza pedagogica e didattica, ma è ricca di implicazioni politiche.

Nella letteratura scientifica «la diade teaching and learning è così onnipresente che spesso sembra essere condensata in un’unica parola – teachingandlearning». Biesta suggerisce che si possa sviluppare un discorso sull’educazione nel quale quella diade venga spezzata. Come nella vita si danno moltissimi casi di apprendimento senza bisogno di insegnamento, così l’insegnamento potrebbe essere un’attività (relativamente) indipendente dall’apprendimento: «l’insegnamento non deve necessariamente mirare all’apprendimento» (p. 33). Se quest’idea appare paradossale, ciò dipende proprio dal fatto che la «svolta verso l’apprendimento a scapito dell’educazione» è ormai diventata senso comune.[ii]

La politica globale dell’istruzione (Banca mondiale, Ocse-Pisa, Unione europea, Ofsted, Invalsi, …) cammina ormai su due sole gambe – dati e governance – e ha un solo obiettivo: migliorare i risultati di apprendimento degli studenti, intervenendo sulla qualità dei sistemi scolastici. Naturalmente bisogna imparare per non correre il rischio di uno scarso rendimento del capitale umano nelle sfide della globalizzazione. Questa implicazione politica critica non è in primo piano in Riscoprire l’insegnamento, ma è stata affrontata esplicitamente altrove da Biesta.[iii] In effetti il paradigma dell’apprendimento è ormai tanto generalizzato da essere applicabile non solo agli individui, ma anche alle società e ai sistemi complessi.[iv] Osserva Biesta che i problemi politici – le questioni relative all’economia, all’occupazione e alla coesione sociale, per esempio – sono trasformati in problematiche di apprendimento e agli individui è assegnato il compito di risolverle attraverso l’apprendimento (spesso a proprie spese). (p. 43)

Non si tratta affatto di una pacifica forma di amministrazione del reale, perché noi tutti veniamo costruiti e costituiti in quanto soggetti che apprendono: «talune forze politiche ci stanno “posizionando” in quanto discenti» (p. 44). Siamo tutti learners e lifelong learners, cognitivamente adattabili a una realtà sociale e a un mercato del lavoro instabili e flessibili: compito dei sistemi educativi è produrci come soggetti adeguati a questo modello.[v]

Non che nelle policies globali dell’educazione l’insegnante sia messo da parte: anzi, è un fiorire di dichiarazioni e documenti che ne affermano la fondamentale importanza. Ma il problema è di squisito ordine categoriale: l’insegnante non solo è ridotto a «variabile dell’analisi dei dati sulla produzione educativa» (p. 3), ma è appunto considerato strumento di una tecnologia educativa monodimensionalmente costruita per «la […] “produzione” di “risultati di apprendimento”» (p. 34). Naturalmente Biesta non nega che l’insegnante debba anche preparare lo studente e socializzarlo alle esigenze della società attuale. Ma il linguaggio dell’apprendimento «opera come un’ideologia»[vi], rendendo visibili soltanto alcune dimensioni dell’educazione e nascondendone altre: la qualità dei sistemi di istruzione e i risultati degli apprendimenti sono intesi esclusivamente in termini di efficacia (magari evidence-based), lasciando sullo sfondo la questione centrale degli scopi dell’educazione. Ma quest’ultima non è un «sistema tecnologico», i cui mezzi siano indipendenti rispetto ai fini o solo strumentalmente legati ad essi: ci sono giudizi di valore da formulare, questioni etiche da affrontare. L’educazione è, aristotelicamente, una prâxis, che chiama in causa un sapere pratico e contestuale (phronesis), che spetta ai docenti esercitare.[vii]

 

Soggettività e relazione con il mondo

Se dal punto di vista politico la learnification è l’effetto di una precisa agenda internazionale, dal punto di vista pedagogico essa deriva in gran parte dal fatto che il costruttivismo sia diventato una koiné teorica indiscussa, che interpreta la relazione tra soggetto e mondo nei termini di una «relazione tecnologica»: «prima presumo di esserci e solo in seguito inizio a dare senso al mondo in cui sono» (p. 47, corsivo originale). Ma così «il mondo appare come un oggetto della nostra creazione di senso, della nostra comprensione e della nostra interpretazione» (p. 63).

In prima battuta il pensiero di Biesta è radicato nel pragmatismo deweyano: i significati sono intersoggettivi, hanno carattere sociale e sono co-costruiti dall’interazione tra gli individui (nel caso specifico della relazione educativa, dall’interazione tra insegnante e studente). Tuttavia gli apporti teorici dell’ermeneutica, di Derrida, del post-strutturalismo, della filosofia di Lévinas (in Riscoprire l’insegnamento soprattutto, e decisivamente, quest’ultima) portano lo studioso a criticare l’eccesso di egocentrismo e intellettualismo delle attuali teorie dell’apprendimento.

Se la «natura non causale dell’interazione educativa»[viii] è ormai assodata dal punto di vista degli effetti dell’insegnamento sull’apprendimento, per cui è noto che non basta “esporre” lo studente all’insegnamento perché ci sia apprendimento («tesi standard»), non è stata prestata sufficiente attenzione al fatto che lo stesso tipo di riduzionismo nei rapporti di causa-effetto sia all’opera nelle teorie costruttiviste centrate sullo studente. Anch’esse infatti finiscono per occultare il «gap» tra insegnamento e apprendimento,[ix] cioè il fatto che quella tra docente e studente è una relazione dal carattere aperto, perché soggetta a transazioni interpretative e a un imprevedibile gioco performativo.

L’educazione non avviene al polo della relazione occupato dall’insegnante (in una visione semplificata dell’educazione come comunicazione di messaggi o trasmissione di contenuti), ma nemmeno al polo della relazione occupato dallo studente, con il “teachingandlearning” ridotto all’approntamento da parte dell’insegnante di “ambienti” e “occasioni” di apprendimento personalizzato in cui lo studente imparerà senza fatica. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a una concezione monologica dell’educazione e a una visione obiettivante del rapporto tra soggetto e mondo: un soggetto che solipsisticamente si limita a imprimere sul mondo esterno il proprio senso.

Al contrario, l’educazione ha il carattere dell’evento: “avviene” nello spazio (a suo modo vuoto e impredicabile) tra l’insegnante e lo studente, nessuno dei quali può essere ridotto a oggetto a disposizione dell’altro. Abbiamo quindi la relazione tra due soggetti che non sono interamente in possesso della propria soggettività e dei significati che producono: quella e questi sono situati sempre in un “altrove” che eccede l’identità di ciascuno. Per questo la soggettività altrui è irraggiungibile in forma immediata; per questo le spiegazioni lineari e causalistiche dell’interazione tra insegnante e studente, studente e insegnante, e più in generale tra soggetto e mondo, sono riduzionistiche.

La filosofia come etica dell’incontro con il volto dell’Altro di Lévinas serve a Biesta per proporre un’interpretazione della relazione educativa come rapporto di apertura e di “pericolosa” esposizione all’imprevedibile “venuta” di qualcosa (qualcuno) che è al di là del mio controllo, che preesiste alla mia soggettività e che ha senso indipendentemente da quello che pretendo di attribuirgli: «Il rapporto tra sé e mondo […] viene “prima” del sé e il sé emerge proprio da questo “incontro”» (p. 48). L’elemento pedagogicamente decisivo in questa confutazione del costruttivismo sta nel fatto che qui in gioco non è soltanto un problema gnoseologico di come il soggetto apprenda conoscenze o sviluppi competenze, ma un problema etico e ontologico: la definizione di noi stessi in quanto soggetti. Il processo di soggettivazione – il terzo scopo dell’educazione accanto alla preparazione e alla socializzazione – è fondato su un rapporto costitutivo con qualcosa che ci trascende, è un rapporto intriso di alterità (p. 18 sgg.): «la nostra esistenza adulta […] non è una questione di sovranità, e non ha a che fare con la nostra libertà di significare» (p. 13).

 

L’insegnamento come «interruzione dell’immanenza» del soggetto

Ciò che il discorso sull’apprendimento manca, perciò, non è un dettaglio: è la radice stessa dell’educazione moderna, il divenire soggetti adulti e autonomi. E ciò capita pur predicando l’assoluta “centralità” dello studente, anzi proprio perché la si predica in mondo unilaterale e schiacciato su un piano di “semplice presenza” del soggetto nel mondo.

Due sono le conseguenze principali di questa rimozione: la prima è che l’insistenza sull’apprendimento individuale, sulla capacità di rispondere a “compiti” che la realtà sociale ci mette innanzi, scade in una concezione adattiva dell’educazione; il discente «rimane un oggetto rispetto all’ambiente a cui sta cercando di adattarsi. […] È quindi “preso”, in quanto “oggetto”, da ciò a cui si sta adeguando» (p. 75).

La seconda è il grave fraintendimento di che cosa significhino autonomia e libertà. Se si concepisce il rapporto con il mondo e con gli altri nei termini “tecnologici” di un’azione che dal soggetto va verso l’esterno, la resistenza che quest’ultimo ci oppone può essere superata solo in due modi: in una relazione di dominio sull’oggetto, che corre il rischio di distruggere il mondo e di ridurre gli altri a proprio strumento (ma anche di avere costi psichici personali superiori ai benefici: pensiamo alla competitività prodotta dal perseguimento della “qualità” e dell’“efficienza”), oppure rifiutando il contatto con il mondo, in una regressione nella propria comfort zone a scopo di autotutela. Al contrario, per Biesta questa resistenza non va né vinta né elusa; bisogna semmai entrare in dialogo o risonanza con essa, accettando la sfida di maturazione che ci lancia, lasciandola essere nella sua alterità mai pienamente dominabile:

suscitare il desiderio di voler vivere la propria vita da soggetto significa, da un lato, che dovremmo aiutare i più giovani a non eccedere nell’ambizione di voler essere nel mondo e, dall’altro, che dovremmo aiutarli a non scoraggiarsi troppo velocemente quando il mondo presenterà loro le prime frustrazioni. (p. 108)

La nostra epoca è ossessionata dalla questione dell’identità e dimentica quella della soggettività: la prima intende l’autonomia personale come esclusione dell’“interferenza” degli altri sulla nostra «libertà come sovranità» (Arendt: cit. p. 9), la seconda implica la relazione con gli altri nella definizione di se stessi; la prima è ossessionata dalla propria unicità nei termini di ciò che la differenzia da chi la circonda, la seconda intende l’unicità come propria insostituibilità, come compito di responsabilità nell’esistenza cui solo e soltanto noi possiamo rispondere, anche se agendo ci facciamo carico di qualcosa che è in parte al di là del nostro controllo:

“l’impossibilità [per l’uomo] di rimanere unico padrone di ciò che fa” [Hannah Arendt] è la condizione stessa – l’unica condizione – perché i nostri inizi possano divenire reali, cioè possano venire al mondo (p. 19).

Ecco perché la funzione dell’insegnamento, opacizzata dal discorso corrente, va riscoperta, con la precisazione che Biesta ci invita a pensare all’insegnante non come a una professione, ma come una possibilità esistenziale (esercitabile dunque ben oltre lo spazio della scuola). Se la libertà umana non consiste nell’affermazione egologica del sé, ma nell’esposizione all’aperto e all’alterità, c’è apprendimento solo quando si introduce un elemento incommensurabile in uno stato di cose esistente: e questa «interruzione della mia immanenza, un’interruzione o rottura del mio essere-con-me, della mia coscienza» (p. 76) è precisamente la funzione dell’insegnante. L’insegnamento è «un “appello” che proviene dall’esterno […] un appello che ci trascende» (p. 10) e il suo scopo non è assecondare ciò che lo studente già è e sa, ma neppure svilupparne le potenzialità o scoprirne i talenti, bensì aprire prospettive impensate e un rapporto nuovo con il sapere e il mondo. L’insegnamento è «un’attività di interferenza nella sovranità dello studente» (p. 133), è l’azione di un Altro che interrompe i desideri del soggetto:

la nostra soggettività […] è prima di tutto da ricercare nella nostra “capacità” di essere indirizzati, interpellati e di ricevere insegnamenti. Per dirlo con una formula: l’essere umano non è un animale che può imparare, ma un essere a cui è possibile insegnare e che può ricevere insegnamenti. (p. 11)

Questo è tanto più importante, quanto più la nostra «società degli impulsi» (Paul Roberts) sembra essere in grado di concepire e praticare soltanto una «libertà neoliberale, ovvero [una] libertà come pura scelta» (p. 11).[x] Tra la possibilità autoritaria di negare i desideri dello studente e quella neoliberale di limitarsi ad assecondarli, esiste la possibilità di creare uno spazio “interrotto” o sospeso, in cui il soggetto abbia tempo e modo di riflettere sulla desiderabilità dei propri desideri.

 

Da Biesta a noi

Nonostante l’assoluta pacatezza e misura intellettuale di Gert Biesta, Riscoprire l’insegnamento può essere senza alcun dubbio considerato un libro di critica dell’ideologia. Per concludere, provo a indicare su quali aspetti del dibattito scolastico le sue idee costringano a ripensare in profondità molte assunzioni di senso comune e molte parole d’ordine di politiche “riformatrici”.

1) Progresso vs tradizione. L’equivoco politico e pedagogico per cui l’insegnante “facilitatore” sarebbe tout court progressista, perché rispettoso dell’autonomia dello studente, ha fatto sì che la difesa dell’insegnamento sia diventata automaticamente “conservatrice”, un «fattore di impedimento rispetto al […] raggiungimento» della libertà dello studente (p. 126). Difendendo l’insegnamento, Biesta afferma di voler fornire «argomenti progressisti per un’idea conservatrice» (p. 4):

l’insegnamento non è necessariamente un elemento conservatore né consiste in una mera limitazione della libertà del bambino o dello studente, proprio come la “libertà di apprendere” (Rogers) non è di per sé, o necessariamente, un valore liberatorio e progressista. (p. 4).

Non si tratta di riportare il pendolo della storia dalla parte dell’autorità dell’insegnante, ma di intendere correttamente in che cosa consista la sua funzione e che cosa significhi libertà dello studente: ogni affermazione di progressismo o accusa di conservatorismo che si collochi al di sotto di questa discussione teorica è mistificazione intellettuale e politica, consapevole o inconsapevole che sia.

2) Controllo vs libertà. Dove il discorso egemone parla di libertà, spesso si nasconde la presenza del controllo. Sotto controllo è il sistema dell’istruzione, di cui occorre regolare input e output; sotto controllo è il docente, fattore nell’equazione dell’apprendimento e implementatore di illuminate politiche educative; sotto controllo è l’apprendimento dello studente, che dev’essere di qualità certificata; sotto controllo è l’azione dei soggetti nel mondo, azione da cui non possiamo aspettarci nulla di imprevedibile.

Questo avviene certo anche per la più classica volontà di dominio, camuffata sotto le suadenti vesti della propaganda. Ma la burocratizzazione è un fattore congenito dei processi di modernizzazione; inoltre non va dimenticato che la governamentalità neoliberale governa non contro ma precisamente per mezzo della nostra libertà. Da questo punto di vista, decostruire il mito della società dell’apprendimento e riscoprire l’insegnamento è anche un contributo alla diagnosi e critica del presente.

3) Autonomia vs eteronomia. L’atto educativo è fondato su una contraddizione originaria, dal momento che si dà per scopo quello di rendere autonomo un soggetto attraverso l’intervento eteronomo di un altro (oppure, detto in termini appena diversi, si propone di rendere eguali a partire da una relazione di diseguaglianza): è la «contraddizione educatore-educando» (p. 90). Questa contraddizione, lungi dall’essere solo pedagogica, è squisitamente politica e sta al cuore della modernità, almeno dal sapere aude kantiano. Biesta affronta il problema in un capitolo estremamente interessante in cui contesta le interpretazioni costruttiviste de Il maestro ignorante di Jacques Rancière, secondo le quali il filosofo francese sosterrebbe che solo la liquidazione dei maestri garantisca effettiva autonomia ed eguaglianza. Ma per sdipanare i fili di questa questione servirebbe un altro intervento. Qui possiamo almeno dire che tali interpretazioni mostrano come il problema dell’emancipazione del soggetto sia affrontato in modo spesso superficiale, sulla base di una semplicistica opposizione tra libertà e autorità e di un rapporto di infantile rimozione della presenza del potere nelle relazioni umane. Tutto questo non fa che rafforzare la concezione della libertà in senso neoliberale, concezione entro la quale dovremmo invece imparare a operare più sottili distinzioni. Per dirla con Jean-Claude Michéa, dovremmo «non confondere più i progressi dell’autonomia individuale con quelli dell’atomizzazione dell’individuo, o l’effettiva liberazione dei costumi con quello che ne ha rappresentato finora una semplice liberalizzazione».[xi]

Per impostare il discorso intorno a queste più sottili distinzioni, Riscoprire l’insegnamento di Gert Biesta, con la sua concezione dialogica del rapporto tra insegnante e studente e l’insistenza sull’«instaurarsi di una relazione “adulta” con ciò che può esercitare autorità nel corso della nostra vita» (p. 58) è un eccellente viatico.


Note
[i] In rete sono comunque reperibili molti suoi interventi in lingua inglese. Si può anche dare un’occhiata al suo sito personale.
[ii] Gert Biesta, Giving Teaching Back to Education: Responding to the Disappearance of the Teacher, in «Phenomenology & Practice», 6 (2012), n. 2, pp. 35-49, corsivo mio.
[iii] Cfr. Gert Biesta, What’s the Point of Lifelong Learning if Lifelong Learning Has No Point? On the Democratic Deficit of Policies for Lifelong Learning, in «European Educational Research Journal», vol. 5, n. 3 & 4, 2006, pp. 169-180; Id., How Useful Should the University Be? On the Rise of the Global University and the Crisis in Higher Education, in «Qui Parle», vol. 20, n. 1, 2011, pp. 35-47.
[iv] Cfr. ad es. J. Stiglitz – B. C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento, Einaudi, 2018.
[v] Cfr. P. Dardot – C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, 20192. Un’utile applicazione pedagogica della critica della governamentalità neoliberale è quella di Pietro Maltese: Foucault e la teoria del capitale umano, in «Educazione. Giornale di pedagogia critica», IV, 2 (2015), pp. 27-48; Precarietà, flessibilità e teoria del capitale umano, in «Ricerche di Pedagogia e Didattica – Journal of Theories and Research in Education», 13, 1 (2018).
[vi] G. Biesta, Giving teaching back…, p. 38.
[vii] Cfr. Gert Biesta, Why ‘‘What Works’’ Won’t Work: Evidence-based Practice and the Democratic Deficit in Educational Research, in «Educational Theory», vol. 57, n. 1, 2007, pp. 1-22; Id., What is education For? On Good Education, Teacher Judgement, and Educational Professionalism, in «European Journal of Education», vol. 50, n. 1, 2015, pp. 75-87.
[viii] Gert Biesta, Why ‘‘What Works’’…, p. 10.
[ix] Gert Biesta, “Mind the Gap!”. Communication and the Educational Relation, in «Counterpoints», vol. 259, 2004, pp. 11-22.
[x] È interessante la convergenza tra le idee di Biesta e quanto Yves Citton scrive in Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici? (:duepunti edizioni, 2012), in relazione al compito che una cultura umanistica, intesa come cultura dell’interpretazione, può svolgere dentro una società della conoscenza o del capitalismo cognitivo: per liberarsi dalle pressanti richieste di efficacia e efficienza, occorre creare un’interruzione del circuito dell’informazione e dei flussi di sapere, allo scopo di «desiderare un’altra cosa rispetto a quella che mi viene offerta» e in modo tale che «la reazione [interpretativa] possa essere nuova e imprevedibile»: pp. 73-74, ma passim.
[xi] Jean-Claude Michéa, Il vicolo cieco dell’economia, Elèuthera, 2022, p. 88.

Add comment

Submit