Print Friendly, PDF & Email

materialismostorico

Democrazia sotto assedio

Recensione di Monica Quirico

Emiliano Brancaccio, Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico. 50 brevi lezioni, Piemme, Milano, 2022, pp. 287, Isbn 978-88-566-8378-3

CatturaOltre a insegnare Politica economica presso l’Università degli studi del Sannio (Benevento), Emiliano Brancaccio svolge un’intensa attività di divulgatore e opinionista. Viene spesso presentato come un economista eretico, al quale tuttavia i colleghi mainstream prestano ascolto, dandogli talvolta perfino ragione. Nel suo ultimo libro, l’autore parte dalle ricerche empiriche condotte da lui e da altri studiosi per offrire anche a un pubblico non specialistico una chiave interpretativa del rapporto tra capitalismo e democrazia. L’alternarsi di pagine più per addetti ai lavori (come quelle sulla “Modern Monetary Theory”), riferimenti all’attualità politica e proposte di un’alternativa per il medio-lungo termine suscita a tratti un’impressione di scarsa omogeneità, anche se il filo conduttore è chiaramente individuabile: la riscoperta del Marx “scientifico”.

Nell’Introduzione, Brancaccio sfida la narrazione trionfalistica degli ordinamenti democratici occidentali. Innanzitutto, essi hanno smesso di perseguire una qualche forma di redistribuzione della ricchezza, favorendo anzi l’aumento delle diseguaglianze con ripetuti attacchi ai diritti del lavoro; una situazione che spinge moltə ad allontanarsi dalla politica. In secondo luogo, le democrazie capitaliste non garantiscono più neanche la tutela dei principi liberali; emblematica in tal senso è la normalizzazione della metafora bellica (e ora, potremmo aggiungere, della guerra nella sua drammatica concretezza, purché al di fuori dei confini occidentali). Nell’indagare i processi sottostanti a tale involuzione, Brancaccio, rifiutando teoremi complottisti, guarda, richiamandosi alla tesi althusseriana della storia come processo senza soggetto, alle marxiane “leggi di movimento” del capitalismo.

Rammaricandosi dell’oblio, quando non discredito, in cui sono state precipitate da quell’antiscientismo che ha corroso anche gli intellettuali, l’autore si concentra sulla più importante: la legge della crescente centralizzazione dei capitali, che ha portato l’80% del capitale azionario globale nelle mani del 2% degli azionisti, la “nuova oligarchia capitalista” (p. 19). Le ripercussioni sono duplici: all’interno degli Stati nazionali, una rivalità finanziaria e politica tra le diverse frazioni della borghesia (in particolare, fra globalisti e sovranisti); a livello internazionale, uno scontro tra diversi attori geopolitici che, per conquistare quote via via più ampie del mercato globale, non esitano a spingersi fino al conflitto militare.

Come sovvertire questa legge tendenziale, con tutto il carico di autoritarismo e militarismo che si porta dietro? È necessaria “una nuova organizzazione, una nuova intelligenza collettiva del lavoro, che riunifichi coloro che sono oggi dispersi e isolati” (p. 22) e rovesci la centralizzazione in una forma di pianificazione del tutto inedita.

Nella prima, e più riuscita, parte del libro, Brevi lezioni di politica economica, l’autore illustra i risultati della network analysis, una tecnica che permette di rintracciare le diramazioni del capitale globale, la cui concentrazione è stata aggravata dalla pandemia; quanto alle leggi antitrust, si sono rivelate da tempo inefficaci. Sbeffeggiando l’idea che le crisi bancarie siano la risultante del comportamento criminale di qualche speculatore senza scrupoli, Brancaccio ammonisce: "Il problema è il sistema. […] Il marcio, in altre parole, è nella logica profonda dell’odierno capitalismo oligarchico” (p. 31). La finanza cosiddetta “green”, tanto di moda, non fa eccezione; con buona pace della narrazione dominante, il sistema finanziario non è programmato per anticipare i problemi e tanto meno per risolverli; al contrario, è la causa prima delle crisi: “nel capitalismo contemporaneo il confine tra l’affare lecito e la truffa, tra il normale e il mostruoso, è più sottile di quanto vorremmo credere” (p. 39). Se la società USA costituisce, con il suo sistema sociale bloccato e iniquo, la perfetta incarnazione del capitalismo oligarchico odierno, in Europa, e in Italia, ogni residua illusione sulla giustizia fiscale è stata spazzata via da Mario Draghi e i suoi sodali. A livello globale, da molti lustri gli stati fanno a gara per abbattere le imposte che gravano sui ricchi, mentre il lavoro dipendente continua a essere tartassato. Ci si scandalizza per i paradisi fiscali e contemporaneamente i capitali sono liberi di circolare – e di farsi la guerra. Marx, e la lotta di classe, sono stati sì riscoperti, ma dai ricchi.

Il capitolo 3, L’assalto al lavoro, è di particolare interesse perché affronta un ambito in cui la divaricazione tra evidenza empirica e propaganda appare all’autore stridente. L’eterno mito della flessibilità come prerequisito di un aumento dell’occupazione non trova infatti riscontro nel mondo reale: la precarietà indebolisce i lavoratori, e i sindacati, condizionando al ribasso le dinamiche salariali e modificando la distribuzione del reddito a favore di profitti e rendite. Perfino una misura come il reddito di cittadinanza, modesta nella logica ispiratrice come negli effetti ma pur sempre apprezzabile nel suo alleviare il disagio di alcune fasce sociali, è stata oggetto di una campagna feroce. Questi problemi, scrive Brancaccio, si risolvono solo recuperando il “grande obiettivo politico della piena occupazione, da perseguire con un rilancio in chiave moderna della pianificazione collettiva degli investimenti” (p. 61). Una svolta che sarebbe tanto più urgente in un paese come l’Italia, che paga le scelte compiute negli anni ’70 dalla classe dirigente: rinunciare alla modernizzazione dell’economia una volta preso atto che la centralizzazione produttiva e finanziaria ad essa correlata favoriva l’acuirsi della conflittualità sociale. Si imboccò allora la strada della frammentazione produttiva e azionaria (la retorica del “piccolo è bello”), rendendo endemica l’evasione fiscale e dando l’assalto al lavoro dipendente. Insomma, pur di sconfiggere la classe operaia “il capitalismo italiano è arrivato all’appuntamento della grande centralizzazione europea in un ruolo subalterno” (p. 71). Accantonato l’intervento pubblico, negli anni ’90 l’Italia ha battuto ogni record in fatto di privatizzazioni. Sul punto Brancaccio prosegue la sua opera di demistificazione: dalle privatizzazioni non hanno guadagnato né lo Stato (che ha svenduto le sue imprese) né i cittadini (che hanno avuto servizi più cari, ma non più efficienti). Il paese ha finito così per ritrovarsi schiacciato nella morsa della contrapposizione (in parte apparente) tra sovranisti e gelidi tecnocrati (a partire da Draghi, definito “distruttore creativo”).

Dopo aver analizzato il ruolo della Banca centrale europea e della politica monetaria – mai neutra – alla luce dello squilibrio intrinseco all’unificazione continentale (Germania vs. resto dell’Unione), l’autore invoca una “repressione della finanza” (p. 106) che deve necessariamente passare per il controllo sulla circolazione dei capitali: Tsipras e Syriza hanno perso, nella guerra finanziaria mossa contro la Grecia dagli organi transnazionali, perché si sono rifiuti di adottare tale restrizione (che l’UE temeva molto di più dell’uscita dall’euro). Ha pesato non poco, tuttavia, anche l’isolamento cui sono stati condannati dalla sinistra europea.

Oggi sappiamo che il revival dello statalismo come lascito virtuoso della pandemia, descritto da Brancaccio come poco credibile fin dai suoi albori (se non, ancora una volta, come socializzazione delle perdite – dei privati) è durato quanto un battito di ciglia. È già in programma un taglio delle spese per la sanità, mentre vengono aumentate quelle militari. Ciò che il Covid ha lasciato in eredità non è un neokeynesismo, bensì una vera e propria economia di guerra: scritte prima del conflitto in Ucraina, queste parole suonano profetiche, così come l’avvertimento che “la tenuta della democrazia liberale americana è legata a doppio filo al successo dello sviluppo imperialista del paese” (p. 137).

A temperare questo panorama funesto, nelle pagine finali della prima parte del volume l’autore si sofferma sulla popolarità del socialismo tra i giovani, che è aumentata dopo la crisi del 2008. Come trasformare una ribellione individuale in un movimento organizzato? Al che fare è dedicata la seconda parte del volume, In cerca di unalternativa, che pone il lettore di fronte a uno dei nodi teorici più problematici. La tesi da cui prende il via la pars construens è la crescente uniformità nelle condizioni dello sfruttamento capitalistico; ora, sul piano formale (ore di lavoro, tasso di sindacalizzazione, salari ecc.) l’argomento è ineccepibile, ma non dà conto di come tale sfruttamento possa essere esercitato, ed esperito, in modo radicalmente diverso a seconda di variabili come il genere, l’etnia, l’età, ecc. L’autore ritiene infatti che le teorie dell’intersezionalità (non nominate esplicitamente) riflettano una frammentazione del lavoro salariato ormai superata; il problema è che, sottovalutando le molteplici sfaccettature del dominio capitalista, si rimuove dal quadro il problema delle alleanze. Che, come ammoniva Nicos Poulantzas, lungi dal costituire un portato automatico della proletarizzazione universale, sono tutte da costruire – e da mantenere. Peraltro bisogna dare atto all’autore che fra le tendenze “codiste” della sinistra, ossia quelle subalterne agli interessi dei piccoli o grandi capitali, sono inclusi anche i teorici (Negri fra tutti) dell’“illusione secondinternazionalista, hilferdinghiana potremmo dire, che il movimento oggettivo del capitale porti in sé al rovesciamento del rapporto sociale” (p. 178). La bandiera dell’egemonia attorno a cui ricostituire un soggetto trasformatore è individuata da Brancaccio in una rinnovata pianificazione sociale, a partire dall’introduzione di un “social standard sui movimenti internazionali di capitali” (p. 182), ossia di controlli sulla loro circolazione che penalizzino i paesi responsabili di strategie di concorrenza al ribasso (perché perseguite a spese degli standard salariali, sindacali, ambientali, sociali), garantendo al contempo il riequilibrio macroeconomico tra gli Stati. Si tratta di una misura che: va oltre la dicotomia riforme- rivoluzione; può essere adottata anche solo da un singolo paese, benché il suo successo dipenda dalla sua graduale estensione; smaschera i sovranisti, che invocano il blocco dell’immigrazione ma si guardano bene dal chiedere restrizioni ai movimenti finanziari. A chi associa il termine “pianificazione” a scenari da socialismo da caserma, Brancaccio oppone fondamentalmente due argomenti: il piano ha una lunga e complessa storia, che non può essere appiattita sullo statalismo liberticida dell’Urss, comprendendo anche esperienze di segno democratico (come le socialdemocrazie nordiche); i fallimenti organizzativi, sociali e politici del mercato possono risultare molto più devastanti di quelli della pianificazione statale. Del resto, già da tempo i banchieri centrali, che una volta “si limitavano ad assecondare le dinamiche del mercato finanziario, oggi si vedono costretti a disciplinare le ondate di speculazione che lo attraversano” (p. 206).

La terza parte del libro, Democrazia sotto assedio, raccoglie, oltre a un contributo di Domenico Suppa, i termini del confronto tra Brancaccio e Daron Acemoglu. Partendo dalla “legge” di Thomas Piketty sul rapporto tra tasso di rendimento del capitale e diseguaglianze sociali, si arriva al cuore del problema: la scientificità o meno delle leggi generali di sviluppo del capitalismo individuate da Marx, negata da Acemoglu e ribadita da Brancaccio. Queste pagine tuttavia non dissipano i dubbi che la lettura del volume suscita fin dalle prime pagine e che attengono allo statuto epistemologico assegnato dall’autore all’economia (una scienza, evidentemente, ma di che tipo?), al rapporto tra questa e la politica (descritto in termini positivistici) e alla mancata discussione sulla differenza tra esperti (che forniscono dati apparentemente inconfutabili) e intellettuali (che contribuiscono al dibattito pubblico con le loro competenze, ma senza pretese di oggettività). Sul piano politico, poi, non è immaginabile costruire un’aggregazione di soggetti trasformatori sulla base di evidenze empiriche (va detto che, nelle interviste rilasciate sul libro, Brancaccio si è dimostrato più consapevole della complessità del problema). Infine, l’insistenza sul processo di centralizzazione dei capitali deve essere integrata da una discussione sul significato odierno della teoria marxiana del valore, alla luce di cambiamenti epocali come l’automazione e la centralità della logistica, che corroborano le preoccupazioni di Brancaccio per la democrazia sotto assedio, ma al contempo possono aprire spiragli di liberazione.

Add comment

Submit