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«Grigio è l'albero della vita, verde è la teoria»

di Sandrine Aumercier 

alberoIl testo di Robert Kurz che recava questo titolo, apparve su Exit! nel 2007. In esso Kurz si prefigge di smontare tutte le «teorie dell'azione» che a partire dagli anni Sessanta si sono via via succedute, e delle quali è stato un contemporaneo, e persino un militante. Per mettere le cose in prospettiva: Kurz è stato un militante attivo nel movimento studentesco del 1968, dapprima all'interno dell'SDS (Sozialistischer Deutscher Studentenbund) e poi sotto le bandiere dell'opposizione extraparlamentare (APO, in contrasto sia con l'SPD, il Partito Socialdemocratico della Germania Ovest, sia rispetto all'URSS). Dopo la disgregazione dell'SDS, si venne a formare una costellazione di K-Gruppen; piccoli gruppi, per lo più maoisti, che formarono la Nuova Sinistra. Kurz vi ebbe parte attiva, scrivendo articoli e opuscoli insieme ad altri. Espulso dal suo gruppo nel 1976, insieme ad altri partecipò poi alla creazione di una «nuova corrente» marxista-leninista, che si rivelò essere un altro fallimento. Mentre molti altri ex partecipanti alle K-Gruppen si convertirono via via ai Verdi tedeschi e ai movimenti antimperialisti, nel 1984 Kurz lanciava, insieme ad altri, l'Iniziativa Marxistische Kritik, una struttura che avrebbe dovuto costituite le premesse per uno studio delle basi teoriche della militanza di sinistra [*1]. Nel 1984 pubblica un pamphlet dal titolo «Epitaffio per il nuovo piagnisteo», seguito nello stesso anno da «Crepe e provocazioni. Un regolamento di conti con la sinistra e la scena alternativa». Gli autori (tra cui Kurz) attribuiscono alla loro «critica radicale... della coscienza della scena oppositiva in questo paese», tutte le veementi reazioni. La critica era quindi già specificamente rivolta alla «coscienza di sinistra», e l'obiettivo di questo regolamento di conti era, in maniera particolare, la fantasmagoria di una «scena» alternativa, a partire dalla quale si sarebbe potuto rovesciare il sistema capitalistico.

Lungi dal parlare ponendosi «al di sopra della mischia», al contrario, Kurz parla invece da persona informata, dall'interno di un ambito militante in cui è stato attivo per tutti questi anni. Così, non si riesce a comprendere questo testo senza metterlo in relazione con quello che è stato il suo percorso. Egli difenderà sempre il principio di una critica immanente del sistema capitalistico. Ma questa ferma posizione andrà anche di pari passo con una critica non meno aspra nei confronti di coloro che vorrebbero affogare ogni azione e ogni critica nei rapporti di forza immanenti, facendo di tale immanenza una virtù. Per Kurz, invece, riconoscere l'immanenza della critica non significa affatto identificarsi nei rapporti sociali da cui essa trae origine; ma significa prendere atto della storia della modernizzazione capitalistica, la quale non lascia intatto alcun luogo a partire dal quale sia possibile porsi in quanto esteriorità; riferendosi in particolar modo alle illusioni «alternative» che prendono il posto dell'approccio classista alle lotte. La critica deve porsi al livello di questa immanenza senza però confondersi con essa. Per farlo, appare urgente darne conto in maniera teorica: in altre parole, comprendere cos’è che ci fa rimanere chiusi dentro. Non basta accusare il capitalismo di tutti i mali; bisogna dire come esso funziona.

Kurz rifiuta pertanto, sia una falsa posizione di superiorità, sia l'identificazione con la base militante. Va notato come questo duplice rifiuto lo porti poi a rompere con la sinistra attivista, e a rifiutare di venire integrato in un'istituzione riconosciuta; come ad esempio quella accademica. In tal senso, egli incarna una posizione del tutto originale, concreta e intransigente sul piano pratico; visto che si chiude sia alla carriera accademica che a quella attivistica, senza però smettere di alimentare la polemica permanente con questi ambiti. Pertanto, in questo modo, Kurz non ha mai affermato di essere al di fuori del sistema, ma ha proprio voluto prendere posizione al suo interno. È assai probabile che sia proprio questa intransigenza che molti non gli perdonano. A partire da Adorno, Kurz prende atto di quella che, nella sinistra movimentista, è come una sorta di intimidazione permanente ad «agire» che egli considera più che sospetta, la quale denuncia piuttosto proprio la propria endemica impotenza di fronte alla progressione della crisi. Il contributo di Kurz sviluppa quindi una lunga spiegazione critica della questione dell'azione rivoluzionaria, del suo fallimento storico e delle ragioni dello strangolamento politico della sinistra post-sessantottina e postmoderna. La teoria kurziana della crisi - crisi della valorizzazione, crisi della forma-stato, crisi della forma-soggetto - prende sul serio la necessità di spiegare questa impasse. Spesso, la critica del valore viene criticata per la sua arroganza teorica, persino per il suo «atteggiamento attendista» e per il suo «Nirvana filosofico» [*2]; mentre diversamente invece ci sarebbero altri che quanto meno si rimboccano le maniche. Ecco, a tal proposito, un giudizio che si può leggere su Streifzüge: «In termini bourdieusiani, la critica del valore si è impadronita del capitale simbolico della scienza, e ha cercato di stabilire i propri criteri di buon gusto (teorico), di porsi come un produttore di gusto e dimostrare così la propria superiorità.» [*3] Ma, allorché il medesimo autore di Streifzüge (seguito in ciò dagli autori della rivista Stoff) accusa la critica del valore di una «particolare pretesa di autorità, e quindi di svolgere una funzione di dominio sulla teoria, soprattutto nel momento in cui essa vuole diventare prassi o attinente alla prassi, [così facendo] rafforza la separazione gerarchica tra lavoro manuale e intellettuale, tra chi ha una formazione accademica e i cosiddetti non esperti», e pertanto si può dire che allora non hanno capito, o meglio che non hanno voluto capire, l'approccio e il metodo di Robert Kurz; dal momento che questi costituisce piuttosto il contro-esempio della teoria bourdieusiana della riproduzione sociale: provenendo da un ambito operaio, avendo interrotto il dottorato, essendo stato escluso da vari gruppi militanti, ed essendo rimasto per tutta la vita ai margini dei partiti e delle istituzioni, appare particolarmente abusivo attribuirgli un'appropriazione di quel capitale simbolico, che viene messa in atto dalla borghesia colta!

Kurz non rafforza la separazione tra lavoro manuale e intellettuale, ma fa esplodere dall'interno il quadro di tale separazione, per mezzo della posizione stessa che egli assume in questo dibattito, e con le scelte esistenziali che ha fatto. Chi la rafforza, al contrario, è proprio chi sottolinea costantemente l'incapacità delle classi lavoratrici a entrare in dei ragionamenti complessi, allo stesso tempo in cui esprime la necessità accondiscendente e demagogica di «mettersi al loro livello». Eppure l'ignoranza di quelle che sono le proprie condizioni inconsce attraversa tutte le classi sociali, e non è quindi una particolarità delle classi lavoratrici. Per quel che riguarda il «capitale culturale», esso può perfino costituire - piuttosto che un'apertura - un ostacolo a qualsiasi teoria critica. Proprio in quanto «capitale», esso è per definizione al servizio della propria riproduzione. Ed è reazionario in ogni caso, porre la questione della conoscenza riguardo a tutto ciò, quando lo si fa proprio nel momento in cui si difende l'idea che la posta in gioco è quella di innescare un movimento per capire, e non quella di far crescere un buon capitale. Coloro che non hanno ricevuto del «capitale culturale» insieme al biberon non devono affliggersi; essi non hanno meno diritto di altri a fare domande; perfino domande difficili! Poi esiste anche la critica di segno opposto, secondo la quale Kurz sarebbe troppo svelto nel «regolare i conti» con altri teorici. Ci sarà pure un motivo se Kurz è oggetto di due critiche così diametralmente opposte: in una appare troppo intellettuale, mentre nell'altra lo sarebbe troppo poco. Il suo intento non è quello di fare filologia, e la cosa lo porta a liquidare alcuni discorsi senza alcuna pietà, lasciando così al lettore il compito di distinguere l'intento critico da quello polemico. Se non identifichiamo i diversi strati, perdiamo il percorso che ci ha portato fin qui. Non è facile capire in che modo una teoria esigente possa svilupparsi senza «polemiche»; ivi compresi i suoi momenti di esagerazione. Anche Marx è stato un grande polemista. Tuttavia, non bisogna feticizzare la polemica, ma piuttosto entrare nel suo percorso, in modo da giudicarne i risultati. Per seguire l'intento di Kurz, andrebbero prese le distanze, sia da un intellettualismo borghese che non gli appartiene, sia da un anti-intellettualismo pseudo-antiborghese (visto che in realtà, come osserva Adorno, esso è piccolo-borghese). Solo una volta che sono state rimosse queste due catene, si può iniziare a elaborare un altro genere di rapporto con un sapere che resiste, un sapere di cui non si vuole sapere nulla, con o senza «capitale culturale».

I contraddittori biasimi nei confronti di Robert Kurz, sono l'espressione della reale dicotomia esistente tra il «pensiero» professionalizzato e istituzionalizzato - quello dei filosofi, che si trova a un estremo dello spettro sociale - e la febbrile «pratica», che si trova all'altro estremo. Ovviamente, questa dicotomia merita assolutamente di essere esaminata in quella che è la sua particolarità moderna. In "Note marginali su teoria e prassi", Adorno fa risalire il «problema della prassi», prima fino al Rinascimento, e poi «fino alla più antica divisione tra lavoro materiale e lavoro spirituale, probabilmente fin nella più buia preistoria» [*4]. Egli qui tenta di storicizzare il problema, che tuttavia viene ovviamente lasciato in un enorme limbo storico. In ogni caso, afferma che, nelle condizioni della modernità, il cosiddetto «primato della prassi» è il prodotto di un super-io collettivo che si lascia andare a un'immediatezza che egli definisce regressiva, perniciosa, irrazionale, narcisistica (i termini che usa sono questi, e si avverte un forte impulso a cercare di trovare una diagnosi adeguata!). A suo avviso, solo la teoria permette, per converso, di mediare il sistema globale della società con cui tutta la prassi si confronta, e quindi di comprendere il suo fallimento nel superare le contraddizioni sociali: «Il passaggio alla prassi priva di teoria viene motivato dall’impotenza oggettiva della teoria, ma finisce col moltiplicare quell’impotenza tramite l’isolamento e la feticizzazione del momento soggettivo del movimento storico, della spontaneità. La sua deformazione è deducibile come formazione reattiva rispetto al mondo amministrato» [*5]. Tuttavia, Adorno non è esente da quella che si rivela un'idealizzazione simmetrica della teoria, allorché vede nella separazione tra lavoro materiale e intellettuale un momento, di per sé emancipatorio, di rottura con la natura: « Questa scissione contrassegna lo stadio di un processo che conduce fuori dal cieco predominio della prassi materiale, potenzialmente verso la libertà. Il fatto che alcuni vivano senza esercitare alcun lavoro materiale, e, come lo Zarathustra di Nietzsche, si rallegrino del loro spirito, la situazione del privilegio ingiusto cioè, dice anche che ciò è possibile per tutti; e più che mai in uno stadio delle forze produttive tecniche che renda prevedibile l’universale esenzione dal lavoro materiale, ridotto al minimo » [*6]. Come comprendere una simile affermazione quando Adorno afferma, qualche pagina dopo, che l'attivismo è un effetto della moderna priorità dei mezzi sui fini, cioè del pensiero strumentale, provocato, secondo lui, dal «livello delle forze produttive tecniche»? Adorno, si trova quindi di fronte alla bizzarra alternativa (e che costituisce un vicolo cieco della teoria critica) di dover assegnare dei fini migliori ai fini irrazionali del capitalismo. Si rimane pertanto inconsapevolmente bloccati in un pensiero strumentale, ma lo si fa perseguendo però fini più elevati, prodotti sulla base di un idealismo che rimane anch'esso a sua volta il prodotto di questa moderna separazione tra fini e mezzi. Questo enunciato può essere messo in relazione alla tesi di Aurélien Berlan, circa la libertà che hanno i moderni riguardo al fantasticare sulla liberazione dalle necessità della riproduzione materiale [*7]. E a tal riguardo, Adorno non si accorge di riconvertire il soggetto del pensiero - per quanto alienato esso sia - assegnandogli a priori un'attività emancipatrice. In questo senso, egli ri-positivizza dialetticamente il momento di negatività che veniva portato avanti dalla teoria critica. Con il pretesto di scartare una falsa riconciliazione «concretista», non fa altro che riproporre l'analisi critica di questa separazione. Ciò si rende possibile solo perché stavolta afferma senza esitazione in un'unica frase che: «In virtù della scissione di teoria e prassi e della presa di coscienza di essa, l’umanità si ridesta». [*8] L'analisi della violenza strutturale del capitalismo viene poi affossata, a partire dall'ingiunzione che Adorno rivolge all'«umanità», di rinunciare alla violenza immemore, pena lo sprofondare nella catastrofe. Sono questo le imprecisioni fatali alla teoria critica. Mentre Adorno si rifiutò di partecipare al movimento del maggio '68, altri invece, come Marcuse, vi parteciparono pienamente. Per la precisione, il movimento studentesco aveva proprio voluto abolire la dicotomia tra sfera del pensiero e la sfera dell'azione, tra studenti e lavoratori; le vicende hanno dimostrato l'impasse. Kurz riprende quindi - circa trentacinque anni dopo - un dibattito che può sembrare datato, ma che in realtà testimonia lo stallo permanente della sinistra riguardo tale questione. A partire dalle stesse domande di Adorno, e rifiutando simultaneamente le delizie della riflessione strategica e dell'organizzazione - così come il dogma dell'«unità della prassi e della teoria», Kurz prenderà una strada diversa, e sulla quale rimarrà irremovibile per quel che riguarda la negatività del momento teorico. Laddove Adorno parlava ancora come se egli fosse un'emanazione dell'università, Kurz parla in quanto emanazione dei movimenti politici degli anni Settanta, sui quali opera un ritorno critico.

Questo veloce excursus dimostra come la questione posta da Kurz sia assai precisa, e che non può essere liquidata a partire da un'identificazione unilaterale la quale si pone al di fuori del suo progetto. È chiaro che da nessuna parte, mai, Kurz dice che per abolire il capitalismo, sarà sufficiente fare teoria. (Non lo dice neppure Adorno, ma l'assolutizzazione del momento teorico gli preclude in qualche modo l'accesso a una comprensione dei movimenti sociali reali). Né tantomeno Kurz ha mai detto: «Non fate nulla!». I testi della critica del valore sono, oltretutto, costellati di osservazioni incidentali, le quali testimoniano discussioni, dissapori e persino scontri sugli impegni pratici e su movimenti sociali; ma non si pongono al di sopra della questione. In un'intervista, Roswitha Scholz ha espresso una posizione chiara al riguardo: «Noi di Exit!, su questo non abbiamo alcuna ambiguità al riguardo: siamo un gruppo teorico e consideriamo la teoria come un campo di pratica sociale a sé stante, che non può essere ridotto al livello della lotta politica. Tutt'altro, e non siamo affatto contrari a un impegno critico concreto, come ad esempio contro le tendenze neofasciste. Ma questo tipo di impegno non può essere contrapposto a una necessaria elaborazione teorica che opera a un livello diverso». [*9] La critica della dissociazione-valore insiste sul fatto che un attivismo che non ne vuole sapere nulla del livello categoriale del capitalismo - cioè del funzionamento reale delle sue categorie - è condannato in anticipo, come è dimostrato dalla storia delle lotte. In altre parole, non ha senso opporsi a questo o quell'aspetto isolato del «capitalismo» se poi non si entra risolutamente in quelle che sono le determinazioni operative della merce, del denaro, dello Stato, del lavoro astratto, così come in quelle che sono le loro articolazioni logiche e storiche. Per di più, secondo Kurz - e questo è essenziale - i concetti non portano scritto nella loro sostanza quale sia la forma che l'azione deve assumere. E inoltre, tanto memo risparmieranno a tutti il mal di testa di doversi porre la domanda da sé soli. Il teorico non si trova in una posizione di avanguardia, di educare le masse, di prescrivere un'azione efficace, di determinare un calendario. Ragion per cui, Kurz è quindi estremamente rigoroso nell'imporre all'elaborazione teorica una tale astinenza. E questa astinenza non consiste nel «non fare nulla», quanto piuttosto nel dire che non è compito della teoria dirci cosa fare. Kurz rifiuta che si possa attribuire alla teoria più di quanto essa possa fornire. E così facendo, libera anche le pratiche esistenti dalla loro eventuale prelazione ideologica. Alcune cose vanno fatte indipendentemente da una giustificazione ideologica, ma vanno fatte senza fornire un alibi all'ignoranza teorica. Questo aspetto è di certo implicito in Kurz, ma è importante notare che una (relativa) indipendenza della teoria significa anche una (relativa) indipendenza della pratica, e quindi significa anche una liberazione tutte le possibilità di emancipazione da tutta quella ganga autoritaria del marxismo storico. [*10] L'impotente polarizzazione di teoria e prassi - che cerca costantemente di far coincidere le due cose ribadendone l'unità - non è affatto solo nella mente, ragion per cui basterebbe limitarsi a «prenderne coscienza», per eliminare la contraddizione. Ma si trova invece proprio nella natura stessa dei rapporti di produzione capitalistici, ed eliminarla non è nelle nostre possibilità. Kurz liquida così la vecchia questione posta dal romanziere russo Nikolai Chernyshevsky (1863), e ripresa da Lenin nel 1901, che da allora sembra averlo assillato per tutta la vita. Chiedere che fare, dire che cosa fare, è già perdersi nei vicoli ciechi della ragione strumentale e subordinare ad essa la teoria che, da serva, si trasforma volentieri nel suo equivalente contrapposto dialettico; una posizione di falsa sovranità. Potremmo dire con Freud, e citando Adorno, che ci troviamo già in presenza di un'ingiunzione del super-io. Ricordiamoci che Freud colloca, giustamente, la genesi del super-io nella cultura, e la sua forza nel complesso pulsionale: «Il Super-io del bambino non viene costruito secondo il modello dei genitori, ma su quello del loro Super-io; si riempie dello stesso contenuto, diventa il veicolo della tradizione, di tutti i giudizi di valore imperituri che per questa via si sono trasmessi di generazione in generazione». [*11]

Porre la domanda in questo modo ci costringe a interrogarci, su un piano collettivo, circa la genesi culturale di una tale urgenza di dover agire. Nella modernità capitalista, si dà un'ingiunzione all'«azione politica» che è immanente ad essa, e ne accompagna tutto il suo sviluppo. Al fine di chiarire un simile imperativo, Kurz dà un contributo essenziale, mostrando come la riproduzione capitalistica sia sempre già una contraddizione in atto che porta con sé i due momenti immanenti al suo funzionamento, e che sono la «pratica teorica» e la «pratica pratica». Il capitalismo non può funzionare «come avviene col burro», senza elaborare la sua stessa propria critica interpretativa (in particolare contro le tradizioni premoderne, e contro le fasi superate nel suo sviluppo, e ora contro le istituzioni protettive che esso stesso aveva creato nel periodo fordista) contemporaneamente a quelle ricette pratiche che si suppone ne derivino, secondo quelli che sono i modelli del risoluzionismo utilitaristico. In tal senso, il capitalismo ha bisogno di un «trattamento permanente della contraddizione» [*12], il quale si riassume in un'amministrazione della crisi e in una lotta immanente che viene portata avanti dagli interessi privati per affermare una delle interpretazioni in competizione, e che comporterà sempre anche una particolare concezione della pratica. La «lotta di classe», rappresentava, nel campo marxista, una di queste interpretazioni reali che si sono mosse all'interno del processo di modernizzazione capitalistica globale; e che nel frattempo è diventata storicamente obsoleta. A partire da questo, Kurz delinea così una teoria dell'ideologia che affonda le sue radici nel «desiderio di spiegare a sé stessi le condizioni di vita [...], o il desiderio di interpretare il capitalismo in modo tale da potersi preservare in esso». [*13] La «pratica pratica» e la «pratica teorica» sono entrambe momenti di questo processo complessivo di auto-giustificazione, e sono tutt'e due preformate a priori a partire dalla matrice feticista. Constatando «un'identità tra forma di azione e forma di pensiero», determinata dall'«aprioristico silenzioso mutamento a priori della riproduzione sociale e materiale» [*14], Kurz indica un limite a entrambe le forme, che non possono essere rovesciate se viene considerata una sola delle due parti. Ma non possono nemmeno essere superate dalla piatta proclamazione della loro unità. Kurz considera quindi alla prassi, nel senso stretto di una rivendicazione politica di trasformazione sociale immediata; tale prassi pretende di elevarsi al di sopra della prassi quotidiana - vale a dire, il trittico: lavorare, consumare, votare - senza tuttavia analizzare fino in fondo il proprio coinvolgimento nelle contraddizioni della riproduzione globale. Va notato che Kurz non intende qui le insurrezioni spontanee e le lotte vitali sui vari fronti di crisi. Il bersaglio, esplicitamente, è un pubblico assai specifico formato da intellettuali di sinistra che si considerano e si propongono - come li definiva Adorno - in quanto «organizzatori» della lotta, e si occupano, spesso solo per procura, delle crescenti difficoltà della maggioranza dell'umanità. Allo stesso modo in cui la pratica quotidiana si trova impantanata nel suo rapporto con la forma, così - secondo Kurz - lo è anche la teoria, la quale è sempre già un momento di interpretazione immanente a questa forma sociale.La teoria critica, ha come compito quello di analizzare questa ontologia, che viene data come insuperabile, e quindi superarla, senza cedere su nulla per quel che riguarda la propria negatività. Questa negatività non è il prodotto di una una reazione di indignazione, ma proviene bensì dallo sforzo di entrare nella storia della costituzione del capitalismo e del dispiegamento delle sue categorie. Non si tratta quindi di giocare la carta della teoria contro quella dell'azione, quanto piuttosto di evidenziare il loro comune compromesso nel quadro della riproduzione capitalistica. Questa analisi ci permette soprattutto di spiegare la sensazione disperante secondo cui, in questo contesto, affermazione e critica sono «identiche nel loro carattere legittimante e interpretativo, visto che tale critica mira proprio al mantenimento e al prolungamento a tutti i costi del processo sistemico capitalista». [*15] Per dirla in maniera più semplice: non si riesce più a distinguere tra un sì e un no. Non c'è da stupirsi se alcuni si rifugiano nell'agitazione sconsiderata, e altri nelle loro torri d'avorio intellettuali. A tutto questo Kurz contrappone l'ineludibile necessità di analizzare le determinazioni immanenti di questa condizione. Si tratta di una necessità della critica che non ha nulla a che vedere con la purezza di una teoria a priori. Kurz si lancia poi in una disamina delle diverse teorie che hanno condiviso il campo a partire dagli anni Settanta, e che vanno dalla pianificazione socialista del marxismo di partito fino alla metafisica dell'intenzionalità postmoderna, passando per lo strutturalismo, il post-strutturalismo, l'operaismo e il post-operaismo. Il risultato attuale è quello di una frammentazione impotente in una miriade di «lotte» che continuano a invocare in maniera sterile una loro «convergenza». Spesso non sapendo dove convergere, o semplicemente non essendo d'accordo tra loro. Le teorie esaminate da Kurz si dividono in «teorie della struttura», le quali danno la preminenza alla totalità sociale, e «teorie dell'azione», che invece partono dall'individuo. La polarizzazione di questi due momenti della medesima costituzione feticista non è consapevole in alcun modo, e non vuole sapere niente della propria unità negativa. Infatti, sostiene Kurz, «ciascuno di questi due approcci è giusto, ma lo è sulla base di un errore comune; vale a dire, dell'occultamento della costituzione-feticcio e della sua relazione con la forma». [*16] L'insistenza su uno dei poli di questa contraddizione, come fa l'oggettivismo interpretativo o il soggettivismo interpretativo, finisce inevitabilmente per rovesciarsi nel suo polo opposto. «Questa griglia ideologica non prende in esame la costituzione genetica della forma». [*17] Laddove Adorno attaccava gli attivisti per la loro teoria spontanea, Kurz attacca invece i loro pusher di teoria. L'affermazione dell'«unità di teoria e prassi» non fa altro che avallare lo stato di cose, ammantandolo nella pretesa di trasformarlo. Rifiutarsi di dedurre un'applicazione pratica dall'elaborazione teorica, mira proprio al cuore della reale separazione tra soggetto e oggetto, tra attività intellettuale e attività pratica. Né la teoria da sé sola, né l'azione da sola potranno superare queste dicotomie, ma a farlo - come insiste Kurz - non ci riuscirà neppure l'affermazione della loro unità immediata, la quale cerca di «riunire, in quanto separato, ciò che è separato» (Guy Debord), senza però misurare l'entità della separazione reale. Tra un'idea e un'azione, non esiste alcun rapporto di attuazione immediata, e ciò in quanto il rapporto di forma determina le divisioni proprie alla socializzazione capitalistica, ivi compresa la concorrenza tra gli interessi privati; cosa che trasforma ogni «buona idea» in una merce. Non si può abolire questa relazione di forma ricorrendo a un decreto del pensiero. Da Adorno, Kurz riprende da Adorno l'idea secondo cui, nella teorizzazione esiste anche un momento pratico, ma sviluppa tale idea in maniera diversa. La «pratica teorica» non è meno pratica della «pratica pratica», ma non lo è in senso strumentale. A differenza del leninismo, egli non si propone con l'intenzione di illuminare le masse, bensì di analizzare le determinazioni della realtà, al fine costruire i concetti corrispondenti e arrivare così a un altro approccio al presente, che non può essere dedotto a partire direttamente dai fenomeni. Insistendo sulla necessità e sull'indipendenza del momento teorico, Kurz si rifiuta di giocare all'avanguardia, e invita piuttosto i compagni a smettere - come avrebbe detto Hegel - di gridare «si salvi chi può», a solo sentire le parole «pensiero» e «astrazione». Infatti è stato proprio Hegel ad aver dimostrato che ciò che è più immediato - che ci sembra anche essere il più concreto - è proprio per questo che è il più astratto, nella misura in cui si trova isolato da tutte le sue determinazioni. Pertanto, un'analisi del dettaglio e una ricerca empirica possono essere preziose, ma se esse vengono rese autonome in senso affermativo e acritico, allora corrono il rischio di mettersi semplicemente al servizio della riproduzione della totalità capitalistica, la quale eccelle nella strumentalizzazione. È per questo motivo che Kurz critica le penetranti genealogie storiche di Foucault: esse ipostatizzano l'analisi trasversale dei micropoteri, e lo fanno in nome di una teoria della società che viene vista come la somma di interazioni particolari, negando così la possibilità di inscrivere queste interazioni nel campo del dominio impersonale del valore, il quale, in tal modo viene nuovamente reso invisibile.

La posizione di Kurz ha diverse conseguenze.

1/ La prima riguarda il fatto che «fare teoria» produce anche degli effetti. Alla fine di un simile percorso, non si è più gli stessi che s'era all'inizio; la teoria è in tal senso dotata di una sua intrinseca efficacia, ma si tratta di un'efficacia che non può essere «misurata» sulla scala dell'efficienza, ossia, nel senso economico del termine. Questo approccio rispetto alla teoria, contraddice il suo aspetto borghese che lo vede come un'occupazione comoda e retribuita, che alcuni possono svolgere nel mentre che altri sono impegnati nei compiti materiali della riproduzione. Al contrario, diventa una necessità dettata dall'accumularsi di crisi e impasse; una necessità di comprendere ciò che sta avvenendo, e che non ha niente del lusso intellettuale di per sé riservato a una classe colta. L'idea secondo cui si tratti di un'attività improduttiva, da magnaccia (al punto che Pol Pot ha potuto far giustiziare chi portava gli occhiali), lo si può trovare nel più bieco e volgare anti-intellettualismo. Questo odio lo si trova anche come fondamento di quella che è una una versione strutturale dell'antisemitismo , il quale fa sì che, ad esempio, la sociologia o la psicoanalisi siano state spesso definite «scienze ebree». L'associazione ebreo-intellettuale si ritrova nelle purghe staliniane contro gli intellettuali ebrei del dopoguerra, accusati di essere «cosmopoliti». Spesso, il tema dell'ebreo parassita è stato abbinato a quello dell'intellettuale parassita, ed entrambi condividono un'avversione primaria per l'esercizio del pensiero, cui vengono prontamente attribuiti poteri occulti. La società capitalista ha radicalmente fallito nel suo tentativo di dare alla conoscenza uno status diverso da quello di un privilegio elitario, «democratizzandola» al livello delle sole esigenze del sistema globale di concorrenza. Pertanto, l'appropriazione del sapere viene identificata con «coloro che riescono» a scuola e dopo, anche quando essi riescono solo a ripetere ciò che hanno imparato a memoria. Detto per inciso, la repressione e l'ambivalenza di fondo nei confronti della conoscenza inconscia scoperta da Freud, possono continuare a prosperare tranquillamente all'ombra del lavaggio di cervello scolastico.

2/ La seconda conseguenza, è che questa efficacia della teoria non va confusa con un desiderio di onnipotenza, che le conferirebbe una capacità magica di trasformazione collettiva. Nel contesto delle relazioni sociali reali, essa si trova a essere giustamente soggetta agli stessi limiti di qualsiasi altro intervento, e si scontra con la stessa atomizzazione degli individui e con la stessa impotenza delle pratiche emancipatorie, ma forse con una migliore conoscenza dei fatti. In tal modo, si posiziona diversamente nel campo delle relazioni di potere, vale a dire, sottolineando il problema della separazione sociale (indotta dalla moderna divisione del lavoro) e il condizionamento dovuto alla forma della logica della valorizzazione capitalistica, che si affanna a teorizzare a partire dal posto immanente che essa vi occupa.

La teoria, affrancata tanto dalla sua prelazione accademica, quanto dalla sua presa in ostaggio militante, mette in gioco la capacità negativa di rifiutare l'identificazione immediata con l'esistente, e lo fa anche in nome dell'urgenza. Può sembrare assai poco, e molti sono quelli che ricacciano indietro la sensazione di «ripartire a mani vuote». Ma in realtà è invece enorme, perché tutto ciò implica un alto grado di accettazione dei propri limiti; cosa che non significa affatto condannarsi a non fare nulla. La conclusione di Kurz è chiara e inequivocabile: «Nella critica del feticcio, bisogna sviluppare un nuovo concetto di pratica teorica che rifiuti qualsiasi fusione tra la riflessione critica e una contro-pratica precostituita a partire dal trattamento immanente della contraddizione; se non addirittura fusa con una metafisica del quotidiano. È necessario che venga mantenuta la necessaria tensione tra quelli che sono i due livelli dell'azione. Ogni pretesa di risolvere in maniera unilaterale questa tensione nell'azione pratica immanente e di metterla a tacere, significa lasciarla collassare su sé stessa prima ancora che abbia raggiunto la soglia di un reale superamento del capitalismo, e pertanto vorrebbe dire, in fin dei conti, farla precipitare in una pseudo-attività. Per riuscire a infrangere la costituzione feticistica, sia la pratica teorica che la contro-pratica immanente devono subire un processo di trasformazione nel proprio campo, fino a che le due parti non si supereranno a vicenda e fondendosi solo in quello che sarà il risultato. Pertanto, la famosa unità di teoria e pratica non può essere una precondizione, bensì soltanto un vero e proprio telos immanente della critica categoriale; sia che esso coincida con la trascendenza reale, o meno». [*18]

Kurz arriva fino al punto di dire che questa trasformazione reale significherebbe la fine sia della forma-teoria che della forma-pratica; vale a dire, della teoria e della pratica in quanto relazione di forma polarizzatasi nel capitalismo. Come si può continuare a rinfacciargli una posizione di superiorità intellettuale basata sui suoi privilegi? Si provi anche a misurare la distanza di questa posizione rispetto a quella di Adorno, il quale concepiva ancora la teoria come se essa fosse un momento di libertà nel non libero. Difendere risolutamente una certa indipendenza della teoria all'interno della tensione irrisolta della forma sociale, non significa assumere un privilegio di libertà che non si ha. Questa rivendicazione di indipendenza, corrisponde a un'inflessibile insistenza circa la negatività della critica, e niente di più. Serve ad affermare il non-identico fin nel cuore dell'identico. Cerca di ristabilire una differenza di principio tra il sì e il no.

Questa lettura di Kurz ,pertanto, non consente che si possa dare credito a tutti i biasimi che gli vengono rivolti, né ci dovrebbe portare - di fronte alle esigenze della pratica - a trarne una risposta automatica di disgusto nei confronti delle «lotte», che in questo modo diventerebbe ben presto quasi un riflesso difensivo. È legittimo continuare a porsi il problema della pratica, e intervenire laddove lo riteniamo opportuno. Ma la deduzione soggettiva che porta a tali interventi, non può chiedere una tutela, o una garanzia, dal momento che non è questo il ruolo della teoria. Kurz ha rifiutato di identificarsi tanto con l'avanguardismo leninista quanto con il paternalismo della classe intellettuale, che poi è una delle tante forme che assume l'infantilismo scolastico e cittadinista: qualcuno intelligente e illuminato che deve venirci a dire che cosa fare. Ma questo qualcuno non esiste, e noi non siamo liberi dalla necessità di dover affrontare la questione; la vera emancipazione inizia quanto meno proprio a partire da questo punto. La posizione kurziana implica, quindi, che in un contesto di crisi generalizzata non c'è alcun modo per riuscire a essere al sicuro: non possiamo esserlo né nell'agitazione generale e dappertutto, a un polo della contraddizione, né nell'intellettualismo autoreferenziale, al polo opposto, ma neppure nella pseudo-unità di entrambi i poli. Però, possiamo iniziare ad analizzare tutto ciò che stiamo già facendo in maniera immanente, sapendo che questa analisi avrà necessariamente delle conseguenze sulle nostre posizioni pratiche. Se Kurz si è rifiutato di porsi come apripista, ciò significa che la sua posizione reintroduce quello che è il principio stesso della differenza tra il sì e il no, proprio in relazione a quello in cui il capitalismo eccelle nel rendere indistinguibile. Questa differenza è tutt'altro che teorica.


Questo testo è la versione scritta di una presentazione svoltasi nel corso del campo estivo dell'associazione Crise & Critique il 19 agosto 2022 e il 1° ottobre 2022 a Longo Maï, Limans, nell'ambito della presentazione del libro di Robert Kurz, Gris est l'arbre de la vie, verte est la théorie, tradotto da S. Aumercier, Albi, Crise & Critique, 2022.

NOTE:
[*1] - Per i dettagli, si rimanda all'articolo di Clément Homs, "Les chiens de rue de la théorie critique. Robert Kurz e le origini della rivista Krisis (1966-1992): protagonisti e preistoria della critica della dissociazione del valore", in Jaggernaut, n°5, di prossima pubblicazione.
[*2] - Si veda Jürgen Albohn, « Kritik der Wertkritik », su Grundrisse 16, 2005, p. 20.
[*3] - Andreas Exner, « Ein Durchgangsstadium mit offener Perspektive », Streifzüge, 21 juin 2016. En ligne : https://www.streifzuege.org/2016/ein-durchgangsstadium-mit-offner-perspektive/
[*4] - Theodor W. Adorno, "Note marginali su teoria e prassi", in "Parole Chiave. Modelli critici". Sugarco
[*5] - Ivi.
[*6] - Ivi.
[*7] - Aurélien Berlan, Terre et liberté. La quête d’autonomie contre le fantasme de délivrance, La Lenteur, 2021.
[*8] - Theodor W. Adorno, "Note marginali su teoria e prassi", op. cit..
[*9] - Roswitha Scholz, « Valeur-dissociation, sexe et crise du capitalisme : interview par Clara Navarro Ruiz », dans Constelaciones. Revista de Teoria Critica, n° 8-9, 2017. Paru dans Jaggernaut, n°2, Albi, Crise & Critique, 2020.
[*10] - In tal senso, alcuni dicono: un rapporto pragmatico con le nostre azioni. Tale relazione non pretende una "coerenza soggettiva" tra le nostre idee e le nostre azioni, visto che è essa stessa immaginaria.
[*11] - Sigmund Freud, « La décomposition de la personnalité psychique », in Nouvelles conférences d’introduction à la psychanalyse, Gallimard, 1989 [1933], p. 93.
[*12] - Robert Kurz, Gris est l’arbre de la vie, verte est la théorie, Albi, Crise & Critique, 2022 [2004], p. 42.
[*13] - Ibid., p. 45.
[*14] - Ibid, p. 34.
[*15] - Ibid., p. 53.
[*16] - Ibid., p. 60.
[*17] - Ibid., p. 63-65.
[*18] - Ibid., p. 179.

fonte: GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme

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