Print Friendly, PDF & Email

conflitti e strategie 2

Un nuovo percorso teorico, di Gianfranco la Grassa*

Introduzione di Gianni Petrosillo

indexouygvbhtIn questo nuovo saggio, il cui titolo è indicativo della direzione intrapresa dallo studioso veneto, Gianfranco La Grassa fa i conti con le epoche, quella passata, quella in corso e quella che irrimediabilmente si avvicina, per fornire una chiave teorica nuova delle inevitabili transizioni e mutazioni che l’incedere della Storia porta con sé, soprattutto a livello sociale. Il suo strumento analitico privilegiato è quel marxismo che, dopo essere stato aggiornato, diventa una porta di uscita verso un nuovo approccio teorico più adatto alla comprensione dell’attuale formazione sociale. Occorre, peraltro, rammentare che La Grassa ha iniziato un faticoso lavoro di revisione teorica ormai trent’anni fa e la sua “uscita” dal marxismo deve pertanto essere considerata una gestazione travagliata che non ha saltato alcun passaggio logico, un raro caso di esame di coscienza fatto per ragioni di scienza.

Purtroppo, l’esistenza umana è troppo breve per cogliere (e spesso accettare) i profondi cambiamenti che inevitabilmente la coinvolgono (e sconvolgono), tanto più che gli accadimenti producono i loro effetti sul lungo periodo, spesso più lungo della vita di una o più generazioni, sfuggendo alla comprensione immediata di chi li vede nascere e non li vedrà giungere alle estreme conseguenze o di chi li sentirà deflagrare senza avere memoria del loro inizio, necessitando, pertanto, per essere intesi interamente di una riflessione “ampia”, utile a mettere insieme i vari frammenti evenemenziali finalizzati alla costruzione di un quadro più o meno coerente della situazione, anche se mai definitivo. Per questo la si deve “prendere alla lontana” altrimenti cause ed effetti sono destinati a essere equivocati o desunti arbitrariamente da stati e fatti troppi vicini o insistentemente fraintesi per essere adeguatamente sceverati e interpretati.

Immagino che proprio per questo, La Grassa apra il suo libro con Lenin e le sue intuizioni del 1902. Sembra un tempo remoto ed effettivamente ne è passata di acqua sotto ai ponti eppure quei casi continuano a produrre risultati ancora oggi, in una forma che era non preventivabile allora ed è poco capita anche ora. E cosa diceva Lenin in quella circostanza? Qualcosa che si fatica ad abbracciare ancora, soprattutto in certi ambienti nostalgici: la classe operaia non è in grado di andar al di là di una coscienza “tradunionistica”, cioè sindacale, tramite la quale ottenere una diversa redistribuzione dei prodotti del suo stesso lavoro. La lotta di classe non può condurre oltre questo limite e nonostante il proletariato possa prendere coscienza del proprio “sfruttamento” o comprendere che il suo nemico è l’intera classe dei capitalisti, piuttosto che il singolo padrone, o, ancora, che lo Stato non è organo super partes ma il precipitato di determinati rapporti di forza, non dispone degli strumenti oggettivi per modificare il sistema dalle sue radici. Esso ne fa parte e contribuisce col suo lavoro (forza-lavoro) o, per meglio dire pluslavoro, di cui si appropriano i dominanti, alla riproduzione della struttura essenziale del Capitale in cui egli è incardinato in posizione subalterna e costantemente riprodotta in tale subalternità.

L’operaio è inserito in determinati rapporti sociali, da quelli economici a quelli politici, sempre in maniera subordinata, non ha la visione complessiva della costruzione sociale perché subisce i processi decisionali, sia quelli “attivi”, orientati dalle scelte dei gruppi dominanti che quelli per così dire “passivi”, rivenienti dagli automatismi del sistema, dai suoi rapporti sociali che solo in minima porzione dipendono dai singoli. Anche i capitalisti, pertanto, sono agiti da queste dinamiche ma la collocazione privilegiata che hanno nelle relazioni sociali consente loro di avere ben altre prerogative e prospettive, sono appunto la classe che dirige l’intera società, secondo le leggi di quel dato tipo di configurazione storica.

Inoltre, dice ancora La Grassa riprendendo Lenin, “senza teoria rivoluzionaria non si fa la rivoluzione”. A dir il vero, bisognerebbe anche precisare che non si sovvertono gli equilibri dominanti se gli sviluppi sociali non sono giunti ad un punto di rottura o a una tensione critica non allentabile con i consueti strumenti di correzione e controllo, difatti, è solo in detti frangenti che la teoria diventa effettivamente rivoluzionaria perché può spingere per una strada piuttosto che per un’altra nelle fasi in cui cedono alcuni gangli che reggono l’impalcatura comunitaria. Non c’è modo di forzare la realtà se in questa non sono già insite delle possibilità di trasformazione e se i tempi non sono maturi, la teoria non può alimentare nessuna rivoluzione contro la Storia. Tante volte lo stesso La Grassa ha ribadito che senza i sommovimenti del 1848 l’elaborazione marxiana sarebbe rimasta una splendida analisi ma priva di quegli effetti dirompenti che ha invece avuto, a causa del precisarsi dei contrasti e conflitti conseguenti alla formazione dei gruppi sociali protagonisti della nuova situazione, cioè borghesia e proletariato.

Qui sta la differenza tra utopia e scienza. Chi ha studiato e capito Marx non dubita di questa via e non si lascia andare ai voli pindarici che sfociano in immani disastri umani. Marx non sognava la società comunista, egli l’aveva percepita nelle viscere del capitale, per questo parlava di “parto maturo”, da dover accelerare. La rivoluzione è precisamente questa accelerazione che, in un contesto oggettivo di disequilibrio delle forze esistenti e di condensazione di quelle nascenti, spinge verso una modificazione sociale inevitabile. Peraltro, il teleologismo di quella che impropriamente definiamo ineluttabilità è solo in parte supponibile dal principio, infatti, pur persistendo cosiddette condizioni oggettive, l’energia sociale si incanala verso esiti che sfuggono alle intenzioni soggettive.

Il comunismo di Marx è un prodotto del capitalismo, dell’esplosione delle sue contraddizioni, allorché questo esaurisce la sua energia propulsiva diventando troppo limitante rispetto alle forze produttive generate nel suo seno, tanto che quest’ultime, come prevede il teorico tedesco, avrebbero presto rotto il loro involucro capitalistico per liberarsi da un vincolo divenuto inibente e mortificante le loro crescenti potenzialità.

La Grassa nel suo saggio cita il III libro del Capitale perché lì si trova un passaggio fin troppo chiaro, quello in cui Marx identifica la formazione di una classe sociale intermodale, mai apparsa in precedenza e differente dalla classe operaia, il General Intellect, che va dal primo Dirigente all’ultimo manovale, non si tratta dunque del proletariato tout court ma di una nuova configurazione collettiva destinata a ergersi sulle macerie della vecchia società, sostituendo tutte le classi e con ciò abolendo la stessa divisione in classi dell’umanità.

Questo è ciò che vede Marx analizzando l’evoluzione del capitalismo borghese dei suoi tempi, quello di matrice anglosassone. Ma ciò che Marx studia non è ancora l’impresa capitalistica che siamo abituati a immaginare noi, quella con i suoi vari rami e apparati, bensì l’opificio industriale sede del processo lavorativo di tipo ottocentesco. Egli prende dunque in considerazione soltanto il dirigente di fabbrica, quello che Lenin, e non solo lui, chiamerà più tardi “specialista borghese”. Siamo ancora lontani dall’aver identificato i funzionari del capitale quali strateghi privati disgiunti dalla proprietà dei mezzi di produzione. Marx, nella prima fase del capitalismo, identifica i dirigenti con la proprietà dei mezzi di produzione. Nelle Glosse a Wagner egli scrive:

‘nella «mia esposizione in effetti anche il guadagno del capitale» non è «solo una detrazione o “furto” che si fa all’operaio». Io rappresento al contrario il capitalista come un funzionario necessario della produzione capitalistica, e mostro molto estesamente che non solo «detrae» o «ruba», ma estorce la produzione del plusvalore, e dunque aiuta a creare ciò che viene poi detratto. Mostro inoltre ampiamente che nello scambio stesso delle merci si scambiano solo equivalenti, e che il capitalista – appena ha pagato all’operaio l’effettivo valore della sua forza-lavoro – si appropria il plusvalore con pieno diritto, cioè con il diritto che corrisponde a questo modo di produzione. Tutto questo però non fa del «guadagno del capitale» un elemento «costitutivo» del valore, ma dimostra solo che nel valore, non «costituito» dal lavoro del capitalista, c’è una parte di cui egli può appropriarsi «legalmente», cioè senza violare il diritto corrispondente allo scambio delle merci’.

In questo paragrafo l’intellettuale tedesco evidenzia quanto sia essenziale, per il processo capitalistico che egli ha sotto gli occhi, questo speciale “funzionario della produzione” che contribuisce a creare il plusvalore di cui si appropria “con pieno diritto” perché, in quanto detentore della proprietà dei mezzi di produzione, dirige le attività di fabbrica e non estorce il sovrappiù con la spada in pugno come credeva scioccamente Eugen Dühring, seguito a distanza di anni anche dagli operaisti, a cominciare da quelli italiani. Inoltre qui Marx esplicita a chiare lettere che la stessa proprietà non è un furto, in primo luogo perché il furto presuppone la proprietà a livello logico e poi perché nello scambio delle merci, esito della produzione, si “scambiano solo equivalenti, il capitalista…si appropria il plusvalore con pieno diritto” perché ha partecipato, con la sua opera di gestione, alla sua generazione.

Con gli sviluppi successivi, in virtù di una dinamica intrinseca al modo di produzione capitalistico sulla quale la cosiddetta lotta di classe non ha quasi incidenza, cioè la competizione intercapitalistica che determina prima concentrazione e poi persino centralizzazione dei capitali, il grosso dei capitalisti viene espulso, a causa della concorrenza, dal mercato e si ritrova spesso assorbito nei ruoli dirigenziali del processo produttivo non più quale proprietario ma come salariato. Nella previsione di Marx, tale figura entra dunque a pieno titolo nell’“associazione dei produttori” di tipo esecutivo, benché con mansioni di concetto, mentre i restanti capitalisti, ormai ridotti di numero e con ingenti capitali a disposizione, ben oltre le necessità produttive, si dedicano esclusivamente al mercato azionario e alle speculazioni di borsa. Questa appunto l’interpretazione marxiana del processo evolutivo capitalistico, che risulta in tutta evidenza dal lungo brano citato da La Grassa.

Tuttavia, la previsione del Nostro che nessuno si è premurato di sottoporre al vaglio della scienza e dei cambiamenti epocali, come invece ha fatto La Grassa, si scontra con i susseguenti “avanzamenti” della formazione sociale generale capitalistica che da borghese diventa “manageriale”, o per dire più precisamente, appannaggio dei funzionari (privati) del capitale, in cui viene superata la centralità della proprietà dei mezzi di produzione ed emergono come preponderanti le strategie direttive (che non dipendono dalla proprietà dei mezzi di produzione) per la supremazia degli strateghi, e non solo in ambito economico.

È proprio da questa intuizione stravolgente il precedente panorama interpretativo che inizia l’opera di revisione lagrassiana. Ricordiamo ancora che per Marx la proprietà (o meno) dei mezzi di produzione è l’elemento oggettivo che produce storicamente un certo tipo di società in cui vi è crescente separazione tra quelli che, in virtù di tale fattore, si appropriano del plusvalore-pluslavoro-plusprodotto, e chi se lo vede sottrarre senza altre possibilità; almeno fino al punto in cui la base sociale produttiva sarebbe giunta a controllare pienamente il processo di produzione mentre i proprietari assenteisti si sarebbero dedicati alle manovre azionarie e di borsa. Ma Marx però sbaglia quando prevede l’unificazione delle funzioni direttive ed esecutive in un unico corpo di classe opposto ai capitalisti. Infatti, già Kautsky aveva capito che non si andava per nulla costituendo qualcosa di simile. I dirigenti dei processi produttivi, molti dei quali ex capitalisti precipitati tra i dipendenti, pur esclusi dalla proprietà, rientrano in una sfera di competenti ideologicamente affine alle classi dominanti e non sono accomunabili, per modalità e quantità di retribuzione, agli operai. Costoro convergono con i proprietari azionisti operanti ben oltre la sfera economica, all’intreccio dei vari poteri sociali, e con essi costituiscono un blocco dominante con ruoli e funzioni differenziate ma con obiettivi comuni, sono piuttosto una cinghia di unificazione della base economica con le altre sfere sociali.

I comunisti, che non potevano non accorgersi di questi aspetti, furono costretti a deviare dall’ipotesi marxiana e a concentrarsi sulle “tute blu”, quest’ultime effettivamente escluse dai processi decisionali, coartate a subire le scelte altrui e quindi potenzialmente arruolabili nella dissidenza al Capitale in funzione resistenziale ma tutt’altro che sovversiva. La questione che si finse di non vedere fu che con tale opzione si usciva dall’impianto teorico di Marx il quale aveva assegnato all’oggettività della dinamica capitalistica la definizione e divaricazione dei campi antagonistici, da un lato il lavoratore collettivo cooperativo e dall’altro i rentier. Soggettivamente si stabilì, invece, alla verifica dell’impossibilità di tenere insieme dirigenti e giornalieri, che quest’ultimi avessero potuto ugualmente avviare il sovvertimento dei rapporti sociali effettivi.

La Grassa, a supporto della sua tesi che evidenzia la crucialità di detto fraintendimento, riporta una cogente affermazione di Stalin, il quale aveva sostenuto la necessità di avere “dei dirigenti, degli ingegneri e dei tecnici tali che siano capaci di comprendere la politica della classe operaia” e di concretizzarla perché evidentemente queste figure, anche nell’URSS, nonostante le convinzioni ideologiche, non avevano molto a che vedere con gli strati operai se non per i livelli salariali i quali, peraltro, essendo uniformati verso il basso generavano malcontento, con disinteresse per l’innovazione, sia di processo che di prodotto, deprimendo la dinamicità di tutta la base produttiva. Crediamo che non sia errato affermare che questi elementi negativi abbiano contribuito, insieme ad altri, all’irrigidimento della struttura economico-sociale dell’Unione Sovietica fino al completo esaurimento di tutte le sue potenzialità e alla sua irreversibile stagnazione.

Come si può intuire, i contorcimenti ideologici per tenere in vita il marxismo, in una situazione storica che aveva abbondantemente smentito le principali previsioni di Marx, circa gli sviluppi del capitalismo e la transizione a forme più evolute di socialità, hanno prodotto una dogmatica nemica della scientificità che prima o dopo sarebbe andata a sbattere contro la realtà, come è effettivamente avvenuto. Eppure, è innegabile che in nome di quelle idee si siano mossi interi popoli e Paesi, e che, in alcune rare ma decisive circostanze, le vecchie classi dirigenti di alcuni Stati considerati marginali o periferici, rispetto all’Europa o all’Occidente, siano state travolte da quei rivolgimenti per far posto ad altro… ma a cosa di preciso? Non al comunismo e nemmeno a quel gradino intermedio chiamato socialismo. Quegli esperimenti, durati alcuni decenni, sono falliti ma da questi sono infine emersi poteri e gruppi strategici che stanno mettendo in discussione, hic et nunc, gli assetti mondiali dopo un’intera epoca storica che aspetta ancora di essere resa intelligibile.

Occorre tornare dunque ad analizzare la rivoluzione bolscevica in Russia che rappresenta l’evento spartiacque dei tempi trascorsi e anche dei nostri. Si è sempre parlato dell’Unione Sovietica come di uno Stato di dittatura del proletariato, eppure i soggetti di quella rivoluzione furono innanzitutto i contadini, ai quali si unirono i pochi operai delle grandi città e i molti soldati (sempre figli della ruralità russa), grazie anche all’intuizione di Lenin che stabilizzò quell’ alleanza, vedendo in essa, al di là delle sue stesse incrostazioni ideologiche, l’unica possibilità per abbattere lo zarismo e stanare gli sparuti elementi borghesi spesso travestiti da socialisti.

La massa di manovra di questa rivoluzione, come anche di quella cinese per fare un altro esempio, non fu il proletariato di fabbrica ma la gente della terra, appartenente per cultura e tradizione, addirittura ad un’epoca precapitalistica. Laddove le masse operaie erano più ampie e il capitalismo maggiormente sviluppato, i tentativi di sovvertimento dell’ordine sociale fallivano miseramente, si pensi alla Germania ma anche alle accuse lanciate contro l’aristocrazia operaia inglese, insensibile al comune destino del proletariato internazionale. Dalla Grande Guerra in poi l’internazionalismo proletario è stato solo uno slogan, i ceti subalterni, già a partire da quella carneficina “fratricida” degli “sfruttati”, si dimostrarono molto più sensibili alla chiamata nazionalistica che non a quella di classe. Da ciò si sarebbero dovute trarre delle giuste conclusioni e invece nacquero parecchie giustificazioni e pretesti, per non dover rinunciare alla chimera della rivoluzionarietà della classe operaia in sé o per sé (ovvero quando essa si faceva partito d’avanguardia).

La Grassa sottolinea invece che i momenti di rottura che hanno favorito simili cambiamenti si devono principalmente a due fattori: il contesto di guerra mondiale in cui cedono gli anelli deboli della catena imperialistica e le fasi di transizione che stravolgono gli assetti sociali, allorché un nuovo modello concresce sui vecchi rapporti, come con il passaggio dallo stadio contadino a quello di salariati di fabbrica del proletariato, con tutto quel che ne derivava per questi individui in termini di sradicamento e di incertezza del futuro che accresceva la loro predisposizione ad “infiammarsi”.

Tuttavia, una volta chiusosi il cerchio e avvenuta la metamorfosi, ovvero, nel nostro caso, definendosi e compiendosi il rapporto capitalistico, la classe operaia non mostrava alcuna caratteristica rivoluzionaria, anzi si inseriva organicamente nel sistema e quando si organizzava per i propri interessi, nonostante l’apparenza e la conflittualità aspra, cercava (e cerca) soltanto di ottenere una maggiore integrazione, esigendo una fetta più consistente della ricchezza e del benessere che il capitalismo produce e distribuisce in modo sperequato.

Tornando al ’17 è bene dunque rammentare che la natura di quella rivoluzione non fu affatto socialista, figuriamoci comunista. Nemmeno in seguito ci si è mai avvicinati a tale eventualità, si parlava di costruzione del socialismo, peraltro in un solo Paese, divenuto in seguito persino “Patria socialista”, in barba alla rivoluzione internazionale, unico orizzonte immaginato dalla teoria marxiana. Per questo Gramsci parlò di rivoluzione bolscevica avvenuta contro il Capitale di Marx, poiché le “ferree leggi” del materialismo storico prevedevano tutt’altro, ovvero “l’inizio di un’era capitalistica [che] instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare …alla sua rivoluzione” (Gramsci).

Il pensatore sardo affermerà che i bolscevichi “rinnegano Carlo Marx”, sotto la direzione di Lenin, proprio colui che aveva dato del rinnegato a Kautsky, perché consapevoli di dover approfittare dell’unica occasione possibile per prendere il potere. Ancora Gramsci, come anche La Grassa, ci spiegano bene quali erano gli elementi che aprivano a questa possibilità storica che permetteva di saltare ogni presunta tappa intermedia e, comunque, da non lasciarsi sfuggire: la guerra e un gruppo dirigente deciso a ribaltare i precedenti equilibri.

Parimenti, sostiene La Grassa, ogni altra rivoluzione più o meno riuscita è nata da tali presupposti storici, anche, come dicevamo innanzi, quella cinese, dopo la II guerra mondiale. La rivoluzione vinceva insomma non dove il proletariato era più forte ma dove le classi dominanti erano deboli, a causa dei conflitti policentrici che trascinavano ogni Paese nei profondi scontri per il controllo delle sfere d’influenza a livello mondiale.

Se dunque l’analisi marxiana si ferma al capitalismo di origine inglese non può dirci di più sul dopo, soprattutto sul grande cambiamento che si innesca con l’emergenza di un nuovo tipo di formazione sociale divenuta in seguito predominante, quella statunitense. Ciò comporta non semplicemente un aggiornamento della scienza teorica ma l’elaborazione di un altro impianto interpretativo, esercizio in cui si cimenta La Grassa senza alcuna pretesa di avere già le risposte a tutto.

C’è una riflessione, e non è la sola, molto illuminante in questo libro di La Grassa. Riguarda la nostra conoscenza, il modo in cui il nostro pensiero elabora la riflessione sulle epoche storiche e sulla vita. Marx nell’ “Introduzione” (del 1857) a “Per la critica dell’economia politica”, sosteneva che: “L’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia. Ciò che nelle specie animali inferiori accenna a qualcosa di superiore può essere compreso solo se la forma superiore è già conosciuta”.

Questo passaggio viene così riletto da La Grassa: “Se fosse esistita una qualche forma di pensiero all’epoca del “big bang” (accettando per ora questa ipotesi dell’origine dell’Universo), essa non sarebbe stata in grado di predire quanto sarebbe accaduto nei 14-15 miliardi di anni successivi. Bisogna sempre partire dal presente per capire il passato. Più è passato e più la luce (della ragione) lo illumina, ma in base a ciò che vediamo ora; il futuro è nell’oscurità che via via si fa debole lucore e poi infine di nuovo luce man mano che è sempre meno futuro e ricade infine nel presente. Tuttavia, sia chiaro, bisogna sempre ricordare il passato (la storia) e non vivere, come oggi si fa, nell’immediato presente.”

Partendo proprio da ciò che è stato, rileggendo il passato con gli occhi del presente, bisogna cercare di andare avanti nella nostra comprensione della situazione, cercando di tenere insieme tempo e spazio della dimensione sociale, per riagganciarci a questa nostra mutata attualità la quale pur conservando elementi di varie epoche pone delle peculiarità storiche diverse.

Marx mise in primo piano la sfera economica nei suoi effetti sulla società appoggiandosi alle tendenze del suo tempo che videro primeggiare lo sviluppo industriale e la stessa nascita dell’economica definita poi “classica”. Oggi noi osserviamo un ritorno sulla scena dei grandi attori politici, aree di paesi o addirittura paesi che coincidono con intere aree, i quali si contendono il primato geopolitico. Questa intuizione ci offre una diversa visuale, rispetto a quella marxiana, dalla quale occorre ri-partire per dare maggiore respiro a studi e programmi. Ecco come La Grassa legge la “coupure”:

“Il problema è certo il controllo del plusprodotto che l’essere umano, unico fra gli animali, ottiene con la sua attività detta lavorativa; la caccia del leone alla gazzella o il becchettare degli insetti da parte degli uccelli, e via dicendo, non si definiscono lavoro. Restare alla “superficie” dell’interazione tra scambisti nel mercato – come fanno gli economisti, i sociologi, ecc. dei dominanti – è esattamente il modo di impedire ogni comprensione su chi effettivamente comanda nella società e su come avviene l’appropriazione del plusprodotto. Dobbiamo intanto capire che tale appropriazione non è il fine supremo dei ceti dominanti in una data forma dei rapporti sociali. Lo scopo principale è appunto il mantenimento del predominio anche quando cadono le forme di dipendenza personale nella società moderna (detta capitalistica). Il plusprodotto resta certo uno strumento rilevante del predominio. Per affrontare i problemi relativi a quest’ultimo – e al suo mantenimento o rovesciamento in una data epoca storica – si deve anche passare per l’appropriazione del plusprodotto. Tuttavia “anche”, non esclusivamente o prevalentemente.

Una volta compreso il limite della centralità assegnata da Marx alla proprietà dei mezzi di produzione come carattere decisivo della dominanza, una volta appurato che non basta scindere proprietà e potere di disporre di detti mezzi tramite l’effettiva direzione dei processi produttivi (da parte dei manager, considerati allora i veri dominanti capitalistici), ho proposto da tempo, e lo ribadisco, di passare intanto alla centralità del conflitto per l’assunzione di una supremazia. Il conflitto ha certo un carattere di generalità, che tuttavia non cancella la differenza tra quello tra singoli individui all’interno di ogni dato gruppo sociale (di differenti tipologie e dimensioni, a partire dalla cosiddetta “famiglia”), quello tra vari gruppi sociali all’interno di una data popolazione considerata come qualcosa di unitario in base a date caratteristiche (prima fra tutte la lingua comune ai suoi svariati membri; ma non solo questa evidentemente, anche altre comunanze di tradizioni, abitudini di vita, forme di organizzazione specifica della vita associata, ecc.), infine quello tra diverse popolazioni di questo tipo che poi – a partire almeno da metà secolo XVII, dalla fine della “guerra dei trent’anni” – vengono definite nazioni e sono organizzate in quegli apparati, il cui complesso è detto Stato.

Se ogni conflitto mira comunque all’assunzione di una supremazia – e presuppone quindi sempre che ci debba essere un vincitore e un vinto, uno che prende il sopravvento e uno che viene assoggettato; assai più raramente annientato completamente, cancellato dalla “Storia”, obiettivo che in genere non soddisfa pienamente le esigenze di chi vince – è ovvio che esso deve essere condotto seguendo una serie di mosse tese a dare infine “scacco matto” all’avversario. Possiamo definire questa serie di mosse nel loro insieme una strategia; e lo svolgimento di quest’ultima da parte di vari gruppi in conflitto per la supremazia è in definitiva la Politica (così scritta per distinguerla da una delle tre “sfere” sociali già indicate, che consta di apparati vari). La Politica, con connessa serie di mosse strategiche, viene attuata dai soggetti in conflitto in ognuna delle tre “sfere” sociali: in quella economica (ad es. tra imprese), in quella politica (tra diversi gruppi, ad es, partiti, lobbies, ecc. che tendono ad assumere il governo o comunque la direzione di una data formazione sociale), in quella culturale (tra i portatori di diverse correnti culturali-ideologiche). Nell’epoca moderna, le “tre sfere” riguardano quelle formazioni sociali particolari dette Paesi, Nazioni, in definitiva Stati. Ed è tra questi che ormai da qualche secolo si sono scatenati i conflitti più violenti per l’assunzione di una supremazia su larga scala nel mondo”.

Il riorientamento teorico di La Grassa ci spinge, pertanto, al di là della prospettiva marxiana che si concentrava sulla base produttiva e riproduttiva della vita reale, quale fattore determinante in ultima istanza, secondo le parole di Engels. Possiamo anche tenere ferme quelle decisive acquisizioni di Marx, di molto superiori ai vaneggiamenti degli economisti liberali e delle loro molteplici scuole, che spiegano l’origine del plusprodotto e dunque anche quella del plusvalore ma ormai sappiamo che non saranno la legge del valore, o ancora peggio, la risoluzione del dilemma della trasformazione del valore nei prezzi di produzione o la presunta caduta tendenziale del saggio di profitto, a decretare il destino del mondo. Siamo di fronte a questioni storicamente mute che non spostano i rapporti di forza sociali. La Grassa ha smesso, da lunga pezza, di inseguire queste cervellotiche rappresentazioni care a una certa ortodossia marxista per dedicarsi a ciò che incide seriamente sugli assetti sociali, ovvero i conflitti tra classi dominanti. Se Althusser aveva attribuito a Marx la scoperta del “continente Storia”, nella circostanza possiamo attribuire a La Grassa la rivelazione o la riscoperta del “continente politica”, da non intendersi come mera sfera sociale ma quale gioco strategico, di mosse e contromosse, per la conquista della preminenza in ogni ambito umano.

Nel lagrassiano ripensamento della formazione sociale globale, la lotta di classe viene necessariamente derubricata ad aspetto secondario, anche se non inessenziale, nel panorama delle relazioni collettive. Questa condiziona in minima parte (anche relativamente meno della concorrenza) le attività del Capitale mentre un tempo si credeva che fosse la lotta di classe a imprimere al sistema le svolte innovative, soprattutto di processo (quelle di prodotto, ancor più fondamentali per la creazione dei nuovi mercati, sono state persino sottovalutate da una certa intellighenzia marxista), per strappare alla forza lavoro ogni conquista; in realtà essa non ha avuto quasi effetto sui gangli del sistema che dipendono dai conflitti tra agenti strategici, con ampio potere decisionale a livelli più elevati.

La storia, dunque, non è storia di lotta di classi ma scontro acerrimo tra élite dominanti, nella sfera economica, in quella politica e in quella culturale, con le loro varie diramazioni.

Inoltre, afferma La Grassa, se sostituiamo il vecchio paradigma della lotta di classe con la “politica conflittuale”, trasversale alle sfere collettive, ne deriviamo non solo che la battaglia dei ceti economici subalterni ha i limiti di cui sopra, ma altresì, ne deduciamo che il massimo potere nella società non spetta alle categorie dominanti nella produzione.

La produzione non è determinante in ultima istanza, non è più sufficiente affermare che il modo di produzione è lo scheletro portante del corpo sociale:

“Lo scheletro non decide il funzionamento dei vari organi essenziali di un corpo vivente. Avrà anche una sua influenza tramite la modificazione della forma corporea (e quindi della disposizione relazionale di detti organi), ma credo ci sia ben altro di necessario per il funzionamento in questione. Proprio per questo, è ormai tempo di abbandonare la centralità della sfera produttiva nell’evoluzione delle forme sociali. Diventa allora evidente che il concetto di modo di produzione – lasciando da parte ovviamente gli sciocchi che lo pensano addirittura come modalità tecnologiche dei processi lavorativi e considerandolo invece un sistema di rapporti sociali – non può essere assunto come fondante l’analisi teorica delle diverse società susseguitesi nella storia umana e del mutamento delle loro specifiche forme relazionali; sempre implicanti il predominio di alcuni gruppi o “classi” (più ristretti) su altri assai più ampi”.

La Storia, che nasce per l’appropriazione del sovrappiù, non è scontro tra dominanti e dominati ma lotta per il potere e l’egemonia tra i primi. I cosiddetti sottoposti sono trascinati in essa dalle battaglie tra élite e, in certi frangenti, queste sono così accese che coinvolgono l’intera struttura sociale con anche la possibilità o il rischio di disgregazione generale di quella data società. Ma in contingenze normali il cosiddetto popolo, o la sua parte proletaria, con la sua contestazione, è forse in grado di ottenere un innalzamento delle sue condizioni di vita, altrimenti, più che altro, esso viene “utilizzato” nei momenti di crisi più acuta dai gruppi dominanti in tenzone tra loro per accelerare la conservazione o il mutamento dei rapporti di forza.

Ciò che però va messo decisamente in evidenza è il ruolo della Politica così come è stato suesposto. Essa permea ogni sfera sociale rappresentando la modalità entro cui si struttura il conflitto per la supremazia; essa è, come scrive La Grassa, il modo di agire dei differenti “gruppi direttivi” nel reciproco scontro.

Allargando la visuale, sappiamo che la stessa vita è conflitto onnipervasivo che coinvolge tutta la materia vivente, come abbiamo cercato di spiegare nella precedente nota. Ma l’essere umano in particolare “produce” una storia che gli altri viventi non hanno, dal suo plusprodotto, dalla lotta per aggiudicarselo in maniera preponderante, si genera uno sviluppo sociale che implica dei conflitti di tipo politico, sempre in quella chiave summenzionata, dai quali discendono forme differenziate di sistemi di rapporti sociali. Le forme mutano con le diverse fasi sociali ma permane la necessità di raggiungere una supremazia di una parte sul resto della società. La maggioranza dei componenti si adeguerà alla situazione finché il gruppo dominante sarà in grado di garantire la stabilità che non significa assenza di attriti ma loro conduzione entro una cornice di risoluzioni abbastanza solide. Il conflitto però non è mai lineare, può essere a volte profondo e altre volte di più bassa intensità ma è comunque impossibile da comporre del tutto (come credono quei sognatori sociali che hanno sempre in testa una via di mediazione, da proporre in ogni occasione), fino a rompere i canoni prefissati, provocando l’irreversibile scompenso dello statu quo.

Infatti, dice La Grassa: ‘alla fine, lo scontro dovrà esserci; e malgrado un caos temporaneo da esso causato, poi chi studia attentamente la storia si accorgerà che in definitiva quel conflitto – terminato con la vittoria di uno dei contendenti che prende la supremazia di quella data “organizzazione sistemica” – ha evitato la grave disgregazione dell’intera “area sociale” in cui si muovono gli antagonisti… Il conflitto è costantemente in atto e prevalente; la mediazione è solo obbligata dalla particolare situazione dei rapporti di forza tra i contendenti’.

Con il Capitalismo, e questa è una vera svolta storica rispetto ad epoche antecedenti, la sfera economica e produttiva viene coinvolta nello scontro tra dominanti mentre in altri tempi l’ostilità tra potenti era visibile più che altro nella sfera politico-militare. Il mercato diventa il luogo di una acerrima competizione, detta anche concorrenza, che sembra prendere il davanti di tutta la scena facendo retrocedere altri elementi. Ma si tratta solo di un’apparenza che ha tratto in inganno i cervelli più fini. Quantunque appaia che la vita sociale possa risolversi essenzialmente e integralmente in ambito economico, e ciò soprattutto con l’avvento della società delle merci, avviene “semplicemente” un cambio di percezione delle cose. La Politica per la predominanza, esce dalla sfera omonima e si appropria anche della sfera economica dove si producono i mezzi per accrescere la proiezione della propria azione oltre quei confini.

Questo dovrebbe fare chiarezza anche su alcune false convinzioni odierne. Non esiste un primato assoluto di nessuna sfera sociale sulle altre, men che meno si può evincere quanto affermato da pseudo analisti frettolosi i quali si dicono convinti di una irreversibile finanziarizzazione della nostra contemporaneità. Non è data alcuna supremazia definitiva di una delle tre sfere in cui dividiamo la società: economica (finanziaria), politica (militare), quella ideologico (culturale). La Politica (la strategia per primeggiare) è il fil rouge che collega le diverse sfere sociali e ordisce la complessiva trama comunitaria. Di volta in volta, si può riscontrare anche la prevalenza di una di queste sfere ma non si tratta di una condizione da ultima tappa dell’evoluzione collettiva. Peraltro, da un Paese all’altro, in base ai differenziali nei rapporti di forza, muta la “composizione organica” del peso di ogni sfera, senza preludimento ad un ultimo stadio. Si riscontra, semmai, che nei Paesi più subordinati a quello centrale le manovre finanziarie possano apparire avulse dai condizionamenti politici ma ciò è l’effetto di una dipendenza politica più grande, di origine esterna.

Sappiamo però che un primato sussiste realmente, è quello della Politica così come l’abbiamo inquadrata. Con questo atto La Grassa giunge ad unificare l’intera storia delle trasformazioni evolutive dell’umanità. La Politica è il leitmotiv di questa evoluzione. Essa è meglio visibile nei momenti di squilibrio globale quando la lotta per la supremazia coinvolge gli Stati e i gruppi dirigenti di più alto livello che si affrontano nell’arena mondiale.

Con l’evidente esaurimento dell’ideologia della globalizzazione, coincidente con l’indebolimento e la disgregazione di un certo tipo di ordine internazionale, i conflitti Politici (strategici) nella sfera politico-statale imprimono una accelerazione alle contese in ogni situazione. Svanita l’illusione di un mondo cooperativo, almeno in una vasta area stabilizzata, i conflitti riemergono palesi prima ai margini di questa, laddove si rafforzano paesi antagonisti, che a loro volta si consolidano in campi avversi, e poi su tutta la scacchiera globale; le potenze costituiscono allora altrettanti poli attrattivi che scompongono il panorama dei precedenti legami geografico-sociali e lo ricostituiscono su altre basi. Dal cosiddetto unipolarismo (in cui domina una certa area, di solito a guida di un solo paese) si passa al multipolarismo (affioramento di paesi che si allontanano da quel centro di gravità) e successivamente al policentrismo (in cui vi è separazione di alcune potenze da qualsiasi influenza esterna e creazione di una propria energia catalizzatrice) che annuncia le prossime sfide per la conquista del pianeta e dunque l’imporsi di una nuova gerarchia.

Queste sono le sequenze mutative che ci sentiamo di inferire dall’esperienza passata anche se non ne traiamo una legge ferrea della Storia. Occorre tener conto che, in conseguenza dei passaggi che si verificano quando si entra in una fase di transizione, dall’unipolarismo al multicentrismo e poi policentrismo, avvengono anche mutamenti sociali che ridisegnano la struttura interna dei vari paesi. Basti pensare a come sono progredite intrinsecamente le due principali formazioni sociali antagonistiche dell’Occidente, quali Russia e Cina, il cui modello di sviluppo non è sovrapponibile al nostro per tante componenti che pur facciamo ancora difficoltà a decrittare.

Correttamente, scrive La Grassa, tale lotta tra gruppi dominanti determina profondi cambiamenti sociali, frutto del percorso di indipendenza e di accrescimento della potenza intrapreso da dette formazioni. Non è questione da poco perché è sempre dall’interno, dalla capacità di organizzarsi strutturando internamente una determinata innervazione sociale, che si trarranno le energie per affrontare gli avversari nella competizione mondiale.

Ma è inevitabile dopo una lunga fase di cosiddetto equilibrio (e ricordiamo che esso è immancabilmente esito di una predominanza che attenua e smorza i conflitti, per una certa fase storica, senza poterli mai annichilire, fino al momento in cui essi sfoceranno con virulenza in altre direzioni) che si formino nuove potenze le quali crescendo per numero e per spinta provocheranno il disordine nell’insieme della formazione globale.

Il caos agevola la contesa sempre più acuta tra i gruppi di potere al vertice delle potenze. Inizia una “deriva dei continenti” che allontana e avvicina le nazioni secondo interessi cessanti o emergenti. Si rompono le precedenti alleanze e se ne formano di diverse, si creano dei campi opposti che si articolano intorno a contrapposte esigenze egemoniche e, quando gli schieramenti si compattano sufficientemente, si giunge allo scontro frontale. Ed è la guerra. Quest’ultima non è mai totale essendo la “continuazione della politica con altri mezzi”. La guerra non è volta all’autodistruzione del genere umano ma è una modalità di risoluzione dei conflitti proprio per escludere una simile eventualità da “fine della storia”, essa è: “invece il mezzo che alla fine diventa necessario per mettere di nuovo ordine (mai completo, ma accettabile) nell’organizzazione della formazione generale (mondiale). Quindi la guerra è una delle modalità della Politica”, chiosa La Grassa.

Aggiungiamo inoltre che nel momento in cui si determina una tale situazione oggettiva di conflittualità, non immediatamente ricomponibile o mediabile con altri mezzi: “si devono compiere precisamente quelle azioni, perché gli altri non ci prevengano, per togliere agli altri la possibilità di farle a noi”. (Machiavelli). Vale a dire, ogni attore penserà di poter essere attaccato e nell’ottica di una tale circostanza, per prevenire aggressioni ai suoi danni, romperà gli indugi con l’intento di proteggersi attaccando.

Le motivazioni che hanno condotto alla guerra e le colpe di averla procurata saranno addebitate e scaricate sul nemico. “Ma chi parla del nemico è lui stesso il nemico [per qualcun altro]” parafrasando B. Brecht. Per questo non possiamo che disprezzare gli storici odierni i quali abusano della nostra pazienza sprecando montagne di carta per convincerci che alcuni regimi del passato siano stati il male assoluto. Quest’ultimo esiste solo negli occhi di chi lo vede o di chi scambia la storiografia per “teologia ideologica”. Se, per dirne una, la Seconda Guerra Mondiale si fosse conclusa con la vittoria di quelli che hanno invece perso, i nostri attuali “liberatori” sarebbero passati ai libri di storia come invasori (quali in effetti sono).

La guerra, pur in fogge rinnovate, giungerà, in ogni caso a modificare i nostri orizzonti portando con sé un nuovo ordine mondiale e un potere più stabile che garantirà ancora la pace: ‘che non è altro che lo scatenamento di conflitti meno acuti e non condotti con mezzi di distruzione e di uccisione di molti esseri umani. Ma anche il conflitto detto “guerra” dovrà sempre esistere finché c’è vita. Una vera pace universale c’è solo con la morte generale di tutto ciò che esiste’.

Il conflitto è vita, la vita si nutre di vita e non esiste organismo vivente su questa terra che possa sfuggire a questa norma. La guerra è, pertanto, inevitabile, non si tratta di amarla o odiarla o di sognare a occhi aperti il giorno in cui l’umanità l’avrà superata perché, più verosimilmente, sarà l’uomo stesso ad essere superato. Occorre valutare le cose per quello che sono anche se non ci piacciono e le vorremmo profondamente diverse. Non possiamo abitare un mondo immaginario se vogliamo provare a cogliere le leggi “fisiche”.

Ormai siamo sopraffatti da una visione fantasmagorica della vita tesa ad esorcizzare la durezza delle situazioni terrene, contestate con un linguaggio politicamente corretto e con la moltiplicazione e la concessione di diritti sempre più inutili e dannosi che stanno facendo incancrenire i rapporti sociali. Già Nietzsche metteva in guardia da quell’ “idiosincrasia antropocentrica” quale misura delle cose, quale discrimine tra “reale” e ’“irreale” che tende a rendere assoluto ciò che è solo condizionato: ‘così il mondo è stato scisso in un mondo vero e in un mondo “apparente”: e precisamente il mondo per cui l’uomo aveva inventato la propria ragione, per abitarlo, per viverci a proprio agio esattamente questo mondo venne screditato. Invece di utilizzare le forme come strumenti per renderci il mondo manipolabile e determinabile, la folle intelligenza dei filosofi scoprì che in queste categorie è nascosto il concetto di quel mondo al quale non corrisponde il mondo in cui viviamo… I mezzi furono fraintesi come un criterio del valore, persino come ciò che condanna lo scopo a cui essi intendevano servire…’

Il conflitto più importante e decisivo è, insomma, quello tra Paesi, in particolare tra potenze, quando si giunge ad una fase di multipolarismo che crea il vero disordine mondiale. Questi conflitti sono quelli che possono portare alla guerra determinando biforcazioni storiche, favorendo la successione dei sistemi di rapporti sociali. Le masse vengono trascinate in queste disfide con parole d’ordine allettanti e “popolari” ma il loro ruolo, benché necessario allo scopo di produrre l’onda d’urto sociale, non è decisivo in termini di riorganizzazione degli assetti collettivi, i quali ricadono interamente sui drappelli superiori. Soltanto con il decantare di questi processi e il consolidamento di un’altra supremazia (o il rafforzamento di quella preesistente che trova le dovute contromisure agli attacchi subiti anche attraverso alleanze inusuali, rompendo il campo avverso o accettando dei compromessi), dopo violenze anche estreme, si torna alla cosiddetta pace che è la fine della guerra ma non dei conflitti, i quali restano sempre sottotraccia svolgendosi ordinatamente per un’altra lunga fase. Col tempo però la nuova gerarchia andrà incontro allo stesso invecchiamento, i suoi apparati e i suoi intendimenti si ossideranno, ricominceranno scollamento e scompiglio nella società, riprenderà lentamente ma energicamente l’azione conflittuale di raggruppamenti convinti che le proprie prerogative e potenzialità sono mortificate dal vecchio regime. Ciò avviene sia all’interno di uno stesso Paese che tra nazioni sulla scena mondiale. Nel primo caso a mutare sono gli assetti interni di una collettività omogenea, nel secondo quelli internazionali. Le cose sono peraltro alquanto legate, perché gruppi che si rafforzano nel proprio Paese orientano, successivamente, l’egemonia conquistata anche al di fuori di esso, proiettandosi verso i vicini e anche lontani. E la storia ricomincia, sempre uguale ma diversa, senza essersi mai fermata.


* Il libro sarà disponibile dal 25 novembre.

Add comment

Submit