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Louis Althusser tra marxismo e marxismi

di Oliviero Calcagno

La «maledizione» di Althusser

0e99dc 2c90089626674fa885607033ea1e3927mv2Secondo la lettura che propongo, nella ormai lunga vicenda dei marxismi (al plurale) non vi è stato autore più frainteso (se non addirittura diffamato) di Althusser. Dal livello più superficiale al più tecnico, se ne trovano varie forme, che è possibile così suddividere:

A) Il pubblico dei semi-colti semplicemente non ne conosce né il nome, né le tesi: di conseguenza, non sa riconoscere tracce della sua elaborazione in autori alla moda. Ciò vale in particolare per quanti di costoro fanno riferimento alla psicoanalisi di Lacan.

B) Il pubblico dei colti, ma non specialisti, ne ha orecchiato il nome, e tuttavia si è abituato a leggere che la sua impresa teorica era finalizzata a costituire una neo-ortodossia marxista. Emblematica per pressappochismo la pagina dedicata su Wikipedia, che recita testualmente: «Nella filosofia, dice Althusser, è necessario ritornare a una prospettiva scientifica e determinista della teoria marxista, contro le interpretazioni e le utilizzazioni umaniste e ideologiche».

C) Il pubblico dei militanti di sinistra lo ha guardato con la diffidenza che si riserva ai teorici chiusi nell’Accademia e perciò incapaci di cogliere gli appuntamenti con la storia. Ed è un fatto che nel maggio francese del ’68 egli non esercitò alcun ruolo (da cui il calembour Althusser à rien, «Althusser non serve a niente»).

D) La comunità di nicchia degli specialisti in scienze sociali ne ha sentito parlare per il suo anti-umanesimo teorico, che è però concetto costitutivamente indigeribile per quelle discipline. D’altra parte, non si può negare che sia stata la moderna centralità antropologica ad aver dato loro origine.

E) La comunità ancor più ristretta degli specialisti in filosofia delle scienze può sopportare che il proprio codice venga messo in discussione dall’interno (da Lakatos, da Kuhn, eccezionalmente da Feyerabend), non che il discorso epistemologico venga «corrotto» con una lettura sintomale di origine psicoanalitica. Il rigore scientifico si convertirebbe in arbitrio interpretativo.

F) La comunità sempre più ridotta degli studiosi marxisti lo conosce come fautore di un marxismo anti-hegeliano, la cui radice è nella distinzione tra un Marx giovanile «filosofo» e un Marx maturo «scienziato». Ridimensionata o negata la cesura tra i due Marx, l’intera impresa althusseriana perderebbe interesse.

A parte si situano le pure e semplici malevolenze, che infestano il mondo accademico in Francia non meno che altrove. È attestato, anche se forse non abbastanza noto, quale fu il commento di un professore della Sorbona quando Althusser autodenunciò l’omicidio della moglie: «Je vous l'avais bien dit, que cette philosophie était homicide».

Sicché, così come Althusser aveva inteso liberare la lettura di Marx dalle stratificazioni interpretative che si erano sovrapposte ai suoi testi, così qui si propone di liberare la lettura di Althusser da stratificazioni interpretative altrettanto consolidate, fino ad illuminare ulteriori, possibili fraintendimenti.

Chi è stato, dunque, Louis Althusser?

 

Louis Althusser, in persona

Louis Althusser nacque a Birmandreis, nei pressi di Algeri, nel 1918 e morì ricoverato all’Istituto psichiatrico di La Verrière, presso Mesnil Saint-Denis, nel 1990. In Algeria si erano trasferiti i nonni materni ed egli vi crebbe fino al 1930, quando con la famiglia si trasferì a Marsiglia prima e a Lione poi. Come si evince dal gruppo consonantico «th», l’origine del cognome non è francese, bensì tedesca (in dialetto alsaziano, alte-Häuser, «vecchie case»); il nome, invece, gli viene dallo zio paterno, morto in guerra nel 1917 ed originariamente promesso sposo della madre. Dunque, un uomo di origine franco-tedesca, nato nell’Algeria francese da immigrati recenti, con il nome di un morto e un padre che si era sostituito al proprio fratello. Fin dall’inizio, una figura decentrata. Nel 1937 ha come professore di Liceo il filosofo Jean Guitton (che sarà poi uditore laico al Concilio Vaticano II) e aderisce ai movimenti di azione cattolica, se non che nel 1939 è arruolato nell’esercito francese, nel 1940 viene fatto prigioniero dalla Wehrmacht e fino al 1945 è detenuto in un Lager. Le conoscenze fatte durante la prigionia lo portano ad abbracciare la causa comunista, nel 1946 conosce Hélène Rytmann, di otto anni più vecchia (con la quale vivrà una relazione tormentata, non esclusiva ma duratura) e nel 1948 s’iscrive al Pcf (nel quale non ricoprirà mai incarichi dirigenti). A posteriori, Althusser non sarà mai in imbarazzo per i suoi trascorsi cattolici e sosterrà di aver trovato nel comunismo un fondamento migliore per valori universalistici. Un elemento sul quale i censori dell’anti-umanesimo teorico dovrebbero riflettere.

Il percorso di studi ha un primo risultato nel 1947, quando si laurea, relatore il filosofo della scienza Gaston Bachelard, con una tesi su Il contenuto in Hegel, in cui del filosofo tedesco propone un’interpretazione radicalmente diversa da quella, allora dominante, fornita da Kojève, e nondimeno più benevola di quella su cui avrebbe costruito la propria elaborazione matura. Dal 1948 è in organico all’École Normale Supérieure (dove rimarrà fino al 1980), ma non pubblica testi rilevanti fino al 1960 (unica eccezione il saggio Montesquieu, la politica e la storia, del 1959), allorché inizia a lasciare il segno con una serie di saggi che nel 1965 saranno raccolti nel volume Per Marx. Per la prima volta un intellettuale marxista individua una discontinuità nell’opera del Padre Fondatore: cogliere in essa una «cesura epistemologica» tra opere giovanili e opere mature significa però porre in questione l’univocità del marxismo stesso, ed è questa la posta in gioco di tutto il dibattito che ne scaturirà. In parallelo, nell’anno accademico 1964/65, Althusser conduce un seminario accademico dedicato al Capitale, le cui relazioni, tenute rispettivamente da egli stesso, nonché dagli allora studenti Étienne Balibar, Jacques Rancière, Pierre Macherey e Roger Establet, vengono pubblicate nel medesimo 1965 sotto il titolo Leggere il Capitale. È l’inizio della stagione, relativamente breve, ma movimentata, della notorietà internazionale di Althusser, che per un quindicennio agiterà il dibattito nella comunità marxista; ed è questo il nucleo originario della «scuola althusseriana», che invece si dividerà sulla valutazione degli eventi del maggio 1968. Malgrado il Pcf (in una seduta del Comitato centrale del 1966) abbia già respinto le sue proposte teoriche, Althusser – che pure inclina a simpatie maoiste – sceglie di rimanere nel partito, a prezzo di una rottura con Rancière, mentre l’ex allievo Alain Badiou aderisce all’Union des communistes de France marxiste-léniniste su posizioni maoiste radicali. Posto di fronte a questo evento dal doppio risvolto (l’irrilevanza nella crisi politica nazionale e la contestazione dall’interno della propria cerchia), Althusser elabora un’autocritica al proprio «teoricismo». A partire dal 1969, orienta la propria ricerca non più al modo di produzione delle conoscenze (la «teoria della pratica teorica»), bensì all’intervento nella congiuntura politica (la «lotta di classe nella teoria»). La sua riflessione su che cos’è e che ruolo svolge l’ideologia lo porta così a formulare il concetto di «apparati ideologici di Stato»: un tema che susciterà interesse nei partiti comunisti europei e latinoamericani, alle prese con il problema di una strategia per la conquista del potere. In particolare, nell’Italia degli anni ’70, in cui l’onda lunga delle lotte sociali è ancora in pieno svolgimento, un tale filone di ricerca suscita l’interesse degl’intellettuali che gravano intorno rispettivamente al gruppo del «manifesto» (il quale con Althusser condivide un maoismo «temperato») ed al Pci (che nel 1972 istituisce un Centro studi e iniziative per la Riforma dello Stato). La stagione dell’«eurocomunismo» gli offre lo spunto per prendere infine le distanze dal Pcf, senza tuttavia uscirne: con riferimento al XXII congresso, svolto nel 1976, egli critica il modo in cui il Partito, noto per essere tra i più stalinisti al mondo, abbia cercato una rilegittimazione «democratica» abbandonando il concetto di dittatura del proletariato…con modalità tipicamente staliniste.

Di fronte alla «crisi del marxismo» pubblicamente aperta in Francia e in Italia alla fine degli anni ’70, Althusser riesce nuovamente a spiazzare il proprio pubblico: se in precedenza la sua preoccupazione era stata di ricostituire il marxismo «autentico» (nel senso di fedele a Marx), ora legge nella crisi una crisi «interna», che vede cioè esplodere contraddizioni intrinseche al paradigma marxiano, e dalla quale si potranno liberare energie nuove. Egli rinuncia quindi a giocare «in difesa», con tutti i rischi del caso. Se non si coglie questo punto non si comprende come abbia potuto riconoscere in Toni Negri (che ha appena individuato nei marxiani Manoscritti del 1857-58, noti come Grundrisse, il testo segreto del comunismo) il maggior marxista vivente, o come abbia dichiarato, nella celebre conferenza di Terni del 1980 (l’ultimo evento pubblico di rilievo cui partecipa), la necessità di «de-socializzare». Apparenti bizzarrie, che una lettura in chiave psicologistica potrebbe porre in continuità con la tragica uscita di Althusser dalla scena pubblica, quando il 16 novembre 1980 strangola la moglie. Alla luce di una storia psichiatrica di lunga data, egli verrà dichiarato incapace d’intendere e di volere al momento dell’omicidio e passerà anni in una clinica psichiatrica. In quest’ultimo periodo scrive un’autobiografia spietata verso di sé e sconvolgente per il lettore, intitolata L’avvenire dura a lungo – testo che costituisce una sfida per chiunque voglia intraprendere l’attività di pensatore. In esso, l’autore ammette da un lato, e dolorosamente, di essere vissuto nel terrore che la propria inadeguatezza venisse scoperta; dall’altro, e paradossalmente, di aver vissuto con sollievo deresponsabilizzato l’internamento in un campo di prigionia. E dall’ultimo ricovero, accettato ma pur sempre coatto, con rari momenti di dimissione tra il 1980 e il 1990, lascerà ancora tracce di irrequietezza teorica in manoscritti che verranno pubblicati dopo la morte e che delineano una concezione filosofica complessiva all’insegna del «materialismo aleatorio».

 

L’ultimo tentativo di rifondazione del marxismo

Tra i pochi aspetti su cui la critica è concorde vi è la periodizzazione dell’opera di Althusser in tre fasi, contrassegnate da altrettante idee-forza: 1) teoria della pratica teorica (1960-1968); 2) lotta di classe nella teoria (1968-1980); 3) materialismo aleatorio (1980-1990). Vi sono molti elementi per avvalorare tale tripartizione, a cominciare dal fatto che ogni fase prende avvio da una congiuntura nuova, che induce il filosofo francese ad una riconcettualizzazione: rispettivamente, la nuova ricezione di Marx, una strategia comunista dopo il ’68, un riesame teorico dopo l’uscita di scena. E al privilegio accordato all’una o all’altra corrispondono tre pubblici differenti, interessati rispettivamente al marxismo come epistemologia, all’intreccio tra ideologia e politica, al paradigma «pluralistico» della moltitudine. Nondimeno, secondo la ricostruzione che offro, soltanto nella prima fase Althusser punta ad una rifondazione del marxismo, mentre nelle successive assume un approccio sempre più aporetico.

La prima fase, programmaticamente esposta in Per Marx e Leggere il Capitale, costituisce già un intervento nella congiuntura. Da un lato, infatti, dopo il 1956 e la destalinizzazione, il movimento comunista internazionale s’interroga sulle ragioni della degenerazione (che fino allora era stata denunciata da gruppi rimasti minoritari); dall’altro, iniziano a venire tradotti nelle varie lingue e a circolare i testi inediti di Marx che l’Istituto Marx-Engels di Mosca aveva ricostruiti dai manoscritti originali. Il nesso tra i due aspetti è che negli anni ’30 in Unione Sovietica occuparsi di Marx era la cosa più pericolosa che un intellettuale potesse fare, perché il libero esame dei testi avrebbe potuto mettere in discussione l’interpretazione ufficiale (così come nell’Europa del XVI secolo la chiesa cattolica non poteva tollerare la pretesa protestante del libero esame della Bibbia). Per converso, l’allentamento della censura permette al dibattito marxista internazionale di approdare a una fase «riformata», in cui ci si può lasciare alle spalle certi bizantinismi inoffensivi e si possono proporre letture spregiudicate.

Se non che, la direzione principale presa dal dibattito punta a ritrovare nelle opere giovanili di Marx, in particolare del 1843-44, come la Critica del diritto pubblico di Hegel, La questione ebraica e i Manoscritti del 1844, una filosofia dell’uomo, più precisamente dell’essenza umana alienata, da riscattare in una società comunista. Non sembra costituire un problema il fatto che quei testi, che pure vanno in quella direzione, siano stati scritti da Marx intorno ai venticinque anni e mai più ripresi, a differenza delle opere mature, talvolta incompiute, ma mai abbandonate. Fondare il comunismo sul riscatto di un’essenza umana alienata permette d’altra parte d’individuare un punto di fuga prospettico, sia dalla cappa repressiva in cui era caduto il movimento comunista nel trentennio staliniano (dal 1924 al 1953), sia dallo sviluppo incontrollato (e incontrollabile) del capitalismo nell’era atomica.

L’opposizione di Althusser a questa tendenza gli procura da subito l’accusa di neostalinismo, e a nulla varranno le ulteriori riflessioni sull’involuzione staliniana che egli condurrà negli anni a venire: il peculiare tentativo althusseriano di rinnovare il marxismo tornando alle fonti si scontra da subito con una ricezione ostile. Le fonti scelte, infatti, sono differenti, e la ragione è che la lettura umanistica ritiene il Capitale nient’altro che un manuale di economia politica, sul quale (filosoficamente) non resta altro da dire; viceversa, per Althusser in esso trova compimento una rivoluzione teorica che costituisce sì la filosofia matura di Marx, ma di cui non è esplicitato il nucleo concettuale. Marx avrebbe cioè continuato a presentare la propria teoria attraverso concetti di matrice hegeliana (il celebre kokettieren, «civettare»), dando origine ad un equivoco in cui il successivo marxismo teorico sarebbe caduto in pieno. Per contro, sarebbe possibile cogliere il significato delle innovazioni marxiane in sede extrateorica, perché a esse (e non ai loro fraintendimenti o alla loro insufficiente formulazione) è riconosciuta conforme la pratica rivoluzionaria dei grandi dirigenti comunisti, Lenin e Mao su tutti.

Come si può intuire, la premessa attirò su Althusser una valanga di polemiche, che giocavano facilmente sulla pretesa di capire quello che il grande e indiscutibile Marx non aveva dichiarato, o addirittura compreso, del proprio stesso pensiero. Con convinzione crescente, il filosofo francese riteneva invece che, per rendere il pensiero di Marx teoreticamente efficace, occorresse formularne esplicitamente il nocciolo scientifico, definito per differenza da quattro discorsi ideologici, rispettivamente l’essenzialismo, l’umanesimo, l’economicismo e lo storicismo.

Nell’essenzialismo Althusser coglie una caratteristica paradossalmente comune all’idealismo e all’empirismo, poiché in entrambe le filosofie agirebbe il mito religioso della lettura. Nell’idealismo, la conoscenza è concepita come manifestazione di una voce (il Verbo) che parla attraverso la razionalità del Lògos: l’essenza si dà in modo trasparente anche nel suo rovescio, quando cioè si aliena; nell’empirismo, la conoscenza è concepita come conoscenza di una parte dell’oggetto, ritenuta «essenziale», che si dà nella sua purezza una volta separata per astrazione intellettuale dall’«inessenziale» cui è commista. In entrambi i casi, il processo di conoscenza è conquista della semplicità: l’oggetto viene assimilato senza residui dal pensiero.

Nell’umanesimo teorico, l’analisi farebbe capo ad un generico concetto di uomo (vincente o perdente, prometeico o alienato), sovrano delle proprie scelte e preesistente al legame sociale. Marx sarebbe diventato adulto quando avrebbe rotto con questa visione ideologica: da qui la nozione di cesura e/o rottura epistemologica, ripresa dal filosofo della scienza Gaston Bachelard, ma trasposta dal campo delle scienze naturali al campo di una nuova scienza, la scienza della storia. La scansione dell’itinerario marxiano nelle quattro fasi 1841-1844 (opere giovanili), 1845 (opere della rottura), 1845-1857 (opere della maturazione) e 1857-1883 (opere della maturità) delineerebbe così le fasi attraverso cui Marx, compiuta la cesura con un immaginario giovanile ancora idealistico, costruisce la teoria del modo di produzione non più partendo dall’essere umano, ma dall’insieme dei rapporti sociali: procedendo per questa strada, Althusser finiva per considerare centrale l’estorsione del plusvalore a scapito del nesso tra merce e valore – il quale rinvia invece al predominio del lavoro morto sul lavoro vivo, cioè all’alienazione o reificazione delle capacità creative dell’essere umano.

Nell’economicismo, la novità del discorso di Marx verrebbe mistificata e ricondotta nei confini dell’economia politica. E se ciò che definisce l’economia politica è la centralità dello sviluppo (neutrale) delle forze produttive, ciò che definisce la marxiana critica dell’economia politica è la centralità dei rapporti sociali (antagonistici) di produzione. Con una mossa teoreticamente raffinata (che avrebbe influenzato le analisi di Charles Bettelheim e Gianfranco La Grassa), Althusser riusciva così a criticare simultaneamente il riformismo gradualistico di matrice socialdemocratica e l’industrializzazione accelerata di matrice staliniana.

Nello storicismo, non si tratterebbe della separazione accademica tra scienze della natura e scienze dello spirito, con focalizzazione su queste ultime: per Althusser, il cuore segreto dello storicismo è in una visione ideologica (di cui il giovane Marx, debitore di Hegel e Feuerbach, sarebbe ancora prigioniero) espressa nel mito dell’origine, del soggetto e del fine, in quanto presuppone un’essenza umana «piena»(l’origine), l’indistruttibilità del portatore di questa essenza, anche ove si alieni (il soggetto), e in ultimo la possibilità di riscatto integrale dell’essenza dall’alienazione (il fine). Una teleologia immanente soggiacerebbe alla continuità storica, con l’effetto di rimuoverne gli aspetti conflittuali.

Si può definire la critica all’essenzialismo una premessa epistemologica alle seguenti, che costituiscono tre declinazioni di una sola critica, finalizzata ad un impegnativo programma di rifondazione del marxismo, ma condotta con strumenti eterogenei. In primo luogo, l’uso di un lessico ordinario, che tuttavia dà alle parole un significato nuovo per il contesto rilevante in cui le pone, e che a una semantica temporale (causa, origine, evoluzione, sviluppo, fine) ne privilegia una spaziale (campo, posizione, scarto, eccedenza, congiuntura). In secondo luogo, la ridefinizione di termini appartenenti alla tradizione marxista, quali «materialismo storico» (che non esprime più il primato del fattore economico, ma coincide con la scienza non ideologica della storia) e «materialismo dialettico» (che non identifica più la fusione di una presunta dialettica naturale con una teleologica dialettica storica, ma costituisce un’autoriflessione dei concetti del materialismo storico ed è considerata l’unica possibile filosofia marxista). In terzo luogo, l’uso di strumenti metodologici che mostrano un originale innesto della storicizzazione delle scienze operata da Bachelard sulla rilettura della psicoanalisi freudiana operata da Lacan. Con la spinoziana critica al finalismo sullo sfondo.

In tal modo, Althusser riteneva di aver concretizzato il concetto di dialettica materialistica (che è conforme a quelle caratteristiche di complessità, asimmetria e contrasto proprie della materia), in opposizione alla dialettica idealistica (che persegue invece quelle caratteristiche di ordine, proporzione e simmetria proprie del pensiero, in quanto ancora prigioniero dell’ideologia). Si tratta di un elemento decisivo per comprendere la cifra filosofica della proposta: sulla scorta di Spinoza, l’ideologia non è concepita come un fattore esterno alla conoscenza; non viene inculcata, ma si produce necessariamente e spontaneamente, come conseguenza della posizione decentrata dell’essere umano nel mondo. Viceversa, la conoscenza scientifica non è spontanea e per emergere presuppone una rottura totale con l’ideologia, la quale – come già in Marx – è falsa coscienza in quanto coscienza necessariamente falsa.

Ne risulta una concezione della conoscenza non come ricerca di semplicità, ma produzione di complessità; non come specchio contemplativo, ma pratica trasformativa; non come destinata a produrre una verità ultima e finalmente trasparente, quanto invece degli «effetti di conoscenza», che a loro volta ne produrranno altri, e così all’infinito. Se il discorso scientifico dà luogo a un’analisi interminabile, ciò non avviene perché esso si può avvicinare solo asintoticamente alla verità (data comunque per esistente, benché inattingibile), bensì perché lavora sullo scarto tra il detto e il non detto di ogni discorso teorico e su come questo scarto necessariamente si ponga.

Lo strumento che permette d’illuminare questo scarto è una lettura che Althusser, sulla scorta di Freud, chiama sintomale e che consiste nell’analizzare un testo non soltanto per quello che dice dicendolo, ma anche per quello che dice non dicendolo, nonché nel rapporto tra i due piani: come Freud, attraverso il gioco delle libere associazioni, intendeva vincere le difese del paziente, cogliendo nelle incongruenze il sintomo di una rimozione; così Althusser coglie nello scarto tra un problema e la sua soluzione non una semplice insufficienza teorica, quanto invece il sintomo della rimozione del problema, che torna come risposta a una domanda che non è stata posta, mentre resta senza risposta la domanda esplicitamente formulata.

Se l’intento dichiarato era di rifondare il marxismo sulla base di un ritorno al Marx autentico, non si può negare che, sul piano metodologico, Althusser utilizzi autori e discipline estranee al marxismo stesso. Un paradosso, certo, ma un paradosso portatore di risultati che vanno al di là delle intenzioni del filosofo francese. Un tema che oggi può apparire stucchevole, ma che all’epoca era molto dibattuto, è quanto la posizione di Althusser dovesse allo strutturalismo suo contemporaneo. Com’è noto, era all’epoca invalsa la tendenza a estendere all’intero campo delle scienze sociali alcuni procedimenti metodologici elaborati dal linguista Ferdinand de Saussure e pubblicati postumi, nel 1916, come Corso di linguistica generale, a cominciare dal primato della struttura sui suoi elementi e, di conseguenza, dell’esigenza di guardare ai fenomeni indagati dall’esterno e non dall’interno (giacché porsi all’interno significa porsi come elementi della struttura). In assenza di un manifesto teorico da sottoscrivere o respingere, sono moltissimi gli autori «sospettabili» del vizio di strutturalismo, e Althusser non ne fu risparmiato. Per i detrattori, un altro innesto extramarxista, e per di più di una moda intellettuale del momento, da parte di un autore che dichiarava la propria fedeltà a Marx.

Data la premessa di applicare all’opera di Althusser le sue stesse categorie, non è rilevante che egli abbia protestato di non avere aderito all’«ideologia strutturalista» e di essere semmai stato (inconsapevolmente) spinoziano. Rilevante è invece che, nel contesto culturale francese degli anni ’60 (in cui forme di analisi strutturale prendevano sempre più spazio), egli abbia saputo coniare un paradigma teorico coerente fondato sul concetto di modo di produzione. La storia non è più vista come un continuum che fa da substrato agli eventi, bensì come una successione discontinua scandita dai differenti modi in cui la società produce e si riproduce. E tuttavia, un modo di produzione tipologicamente «puro», semplicemente, non esiste: esistono differenti formazioni sociali, che sono articolazioni concretamente esistenti di quel peculiare modo di produzione. Il rapporto tra i due termini è quello tra un oggetto di conoscenza (il modo di produzione) e l’oggetto reale (le formazioni sociali). Si tratta della maggiore innovazione epistemologica introdotta da Althusser: la scienza non si occupa dunque di oggetti reali (come fatti o dati), ma di oggetti di conoscenza (concetti scientifici), poiché rifiuta come mito religioso la trasparenza del reale. Nel momento in cui sostiene che il modo in cui si producono i concetti scientifici è diverso dal modo in cui si producono gli oggetti reali, egli non soltanto respinge l’identificazione vichiana di verum e factum (fonte d’ispirazione per la variante marxista proposta da Lukács e Korsch negli anni ’20), ma riconosce che la complessità del reale non può mai venire risolta in un concetto supremo, né in un/una fine della storia. Si tratta di una concezione costruttivistica e non realistica della scienza, che ripensa in modo originale la «crisi delle scienze» d’inizio secolo e che ha come contenuto latente la denuncia della demagogia politica, anche (soprattutto) quella esercitata dai dirigenti politici comunisti.

L’accusa, che così frequentemente Althusser ricevette in quegli anni, di «negare la storia», nasce da una resistenza a prenderne in considerazione la proposta teorica secondo i suoi propri princìpi: è infatti per rendere conto della conflittualità della storia reale che egli introduce un modello alternativo a quello evoluzionistico. Nella misura in cui il filosofo francese definisce la formazione sociale come una struttura complessa, in cui sono compresenti vari modi di produzione, caratterizzati da temporalità contraddittorie (nel modo di produzione capitalistico, la temporalità tendente all’infinito della valorizzazione del capitale e la temporalità ciclica della riproduzione della forza-lavoro) e posti sotto la dominanza specifica di un determinato modo di produzione, non soltanto fornisce una interpretazione estremamente persuasiva del modello marxiano (come esposto nella celebre Introduzione del 1857 a Per la critica dell’economia politica), ma mostra altresì di avere assimilato le acquisizioni dell’antropologia culturale nello studio delle società extraeuropee.

Da un lato, dunque, le intrinsecamente ideologiche filosofie della storia, la cui teleologia riproduce (anche laddove anticipi) il divenire dominante di una classe; dall’altro, la marxiana teoria della storia, che svelerebbe alle classi dominate le forme della dinamica storica, al di fuori della subalternità a concezioni ideologiche. Che tra gl’intellettuali comunisti si fosse affermata una forma di storicismo teleologico costituirebbe la prova di una insufficiente cesura con la concezione borghese del mondo e di un avvenuto accademismo. Althusser si poneva così in rotta di collisione con la strategia culturale di quel «partito nuovo», concepito da Palmiro Togliatti, che tra gli anni ’50 e gli anni ’70 veniva considerato un punto di riferimento dagli analoghi europei.

 

Il riesame interminabile

Per quanto articolata, la costruzione teorica di Althusser si reggeva su una e una sola base: la distinzione tra scienza e ideologia. Gli eventi del maggio francese avevano però mostrato l’inoperatività di quella teoria, che pure egli riteneva finalmente scientifica, nella lotta politica. Se era stato persuasivo nel tratteggiare una concezione attiva della conoscenza, non era stato in grado di indicare come dalla conoscenza si potesse passare all’azione. La prassi si trovava all’interno della scienza, la costituiva anzi in quanto tale, ma non sapeva andare oltre. Così, ulteriore paradosso, toccò a lui venire tacciato di accademismo, complice l’adesione non dichiarata alla tendenza strutturalista.

Si tratta dunque di concepire la prassi al di fuori della scienza: per tutto il seguito della propria vita intellettuale, Althusser inseguirà una soluzione al problema della fusione tra teoria e lotta di classe, senza più trovare un punto fermo. Anticipata già alla fine del 1967 in interventi sparsi (e che costituirono una specifica aggiunta all’edizione italiana del 1968 di Leggere il Capitale), l’autocritica al proprio precedente «teoricismo» lo conduce dapprima ad un rinnovato confronto con Gramsci e infine a una insistenza sui limiti teorici dello stesso Marx, come si può constatare mettendo a confronto i saggi Ideologia ed apparati ideologici di Stato (pubblicato nel 1970) e Marx nei suoi limiti (risalente al 1978 e pubblicato postumo). L’ambivalenza dell’iniziale giudizio su Gramsci è rivelatore di due possibili prospettive: criticato in quanto teorico dello storicismo assoluto, e come tale disinteressato alla problematica specificamente scientifica, viene invece valorizzato in quanto unico marxista che abbia riflettuto sull’egemonia come costruzione organizzata di consenso; prevalendo la seconda, attraverso questa rilettura su come le sovrastrutture funzionano, il fuoco della riflessione si sposterà nuovamente su Marx, per evidenziare però che, più se ne assimilano le innovazioni, più si evidenziano i problemi aperti.

Un elemento coerente all’originaria impostazione di Althusser è il tentativo di concepire il rapporto struttura-sovrastruttura in termini non meccanici. A chi non riesce a penetrare nella problematica althusseriana potrà apparire incomprensibile che un critico dell’idealismo voglia individuare la relativa autonomia della sovrastruttura, attraverso la formula (invero un po’ bizantina) di determinazione in ultima istanza, e tuttavia di questo si tratta. Agisce qui un paradigma filosofico irriducibile sia alla causalità meccanica propria dell’empirismo, sia alla causalità espressiva propria dell’idealismo. In entrambi i casi, sia che una forza ne metta in moto altre, sia che si irradi dall’interno di tutti gli enti, si è in presenza di una forma di causazione lineare. Ciò che Althusser intendeva enucleare è invece una causalità strutturale, in cui la combinazione asimmetrica dei vari elementi nella struttura rende ragione dei rapporti tra quegli stessi elementi.

Le sovrastrutture hanno dunque un ruolo specifico, che il filosofo francese cerca di concepire in modo «materialistico» attraverso il concetto di apparati. In tale direzione, la nozione gramsciana di egemonia diventa un punto di riferimento ambivalente, perché da un lato permetterebbe di non pensare il rapporto tra l’economico e il politico come una relazione essenza-fenomeno, dall’altro misconoscerebbe il ruolo sovradeterminante della lotta di classe rispetto a quella particolare macchina che è lo Stato. E se l’apprezzamento per il primo aspetto è già presente negli scritti althusseriani degli anni ’60, l’insoddisfazione per il secondo prende sempre più piede in quelli degli anni ’70. Da qui anche il disaccordo con l’analisi del potere politico proposta da Nicos Poulantzas.

Sullo sfondo, vi è però un radicale, inconfessato ribaltamento di paradigma, che stravolge i rapporti precedentemente delineati tra scienza, ideologia e politica. Nell’elaborazione degli anni ’60, non la vittoria della Rivoluzione aveva dimostrato la validità del marxismo, ma, al contrario, in quanto il marxismo è valido aveva potuto essere applicato. La validità del marxismo era data dalla sua capacità di essere indice del vero e del falso, secondo il modello antiempiristico dell’idea vera in Spinoza; e, in tal senso, Althusser aveva onestamente ammesso il proprio debito negli Elementi di autocritica del 1974. All’inverso, nell’elaborazione degli anni ’70, le insufficienze nella concezione marxiana delle sovrastrutture, e in particolare dello Stato, divengono banco di prova dell’(in)adeguatezza del marxismo teorico. La partita non si gioca più sull’opposizione binaria tra scienza e ideologia, bensì sull’efficacia della teoria nella congiuntura della lotta politica. E, in quanto l’ideologia ha in essa una sua operatività, non viene più concepita come uno stadio prescientifico da abbandonare, bensì come un campo di rappresentazioni da investigare. L’elemento ideologico, cacciato dalla porta epistemologica, rientra dalla finestra politica, una volta acclarato che non di solo rigore scientifico vive la lotta di classe.

A questa apertura d’interesse, che pure contraddice al programma originario, si deve una delle formulazioni più incisive, nonché più problematiche, di Althusser: «l’ideologia c’interroga come soggetti». Il ruolo della soggettività non è dunque presupposto, ma si definisce se e solo se risponde a un sistema di credenze che costituisce «un tutto strutturato già dato», dando luogo a ideologie di contestazione o legittimazione dell’ordine vigente. È però evidente che, così definito, l’elemento ideologico assume caratteristiche strutturali e non superabili («l’ideologia non ha storia»): la teoria scientifica non ne prenderà mai integralmente il posto; o, in altre parole, non verrà mai meno lo scarto tra apparenza e realtà. Che è una metafora del venir meno della promessa comunista di palingenesi universale.

Posto in questa prospettiva, passa in secondo piano un problema di coerenza argomentativa su come agirebbe l’ideologia: se infatti, attraverso l’interrogazione, essa si rivolge alle coscienze individuali, il ruolo di attore è affidato alla risposta dei singoli, ritenuti passibili di scelta; se invece gli Apparati Ideologici di Stato, a cominciare dall’istituzione scolastica, funzionano come tali, sono puri strumenti della dominazione di classe e veicolano una e una sola ideologia.

Nel primo caso, si tratterebbe di una clamorosa retromarcia dall’impostazione marxiana matura (tanto lodata da Althusser perché centrata sui rapporti sociali anziché sull’interiorità della coscienza): radicata nell’inconscio e come esso eterna, l’ideologia viene a coincidere con il concetto di immaginario in Lacan; nel secondo, ci si troverebbe nell’impossibilità di definire uno spazio, esterno agli effetti dell’ideologia, per organizzare la lotta di classe: la medesima aporia in cui sarebbe incorso Foucault nell’analisi sulla pervasività microfisica del potere nelle relazioni sociali. Di fatto, nell’intento di indagare la «consistenza materiale dell’ideologia», Althusser intreccia ambiguamente due significati di che cos’è «materiale»: nel primo, ciò che, per quanto abbia origine nell’immaginario, produce effetti reali; nel secondo, ciò che si riproduce attraverso istituzioni dotate di una propria materialità. La mancata distinzione di funzione e struttura può sconcertare, ma non è che uno degli equivoci cui storicamente ha dato luogo la nozione stessa di materialismo – da Althusser considerata, letteralmente, intoccabile.

Che la nuova elaborazione del tema fosse pervenuta a risultati autocontraddittori doveva costituire un’ulteriore spinta al riesame, che infatti si protrasse negli anni successivi. Lungo questo percorso, la lotta di classe nella teoria è la parola d’ordine con cui, da un lato, Althusser dichiara di non avere nulla da ritrattare della propria elaborazione originaria, se non la cornice; dall’altro, di essere impegnato in un continuo lavoro di (auto?)emendazione dai residui d’ideologia borghese. Esemplare in tal senso la sua Introduzione al I libro del Capitale (del 1969), in cui prescrive di saltare l’intera I sezione, densa di «fumisterie hegeliane», e di iniziare la lettura dalle sezioni seguenti, dedicate alla teoria del plusvalore e rivolte a illustrare in che cosa consiste lo sfruttamento della forza-lavoro. Dietro l’indicazione di lettura vi è però una precisa linea di demarcazione dei destinatari: da un lato, intellettuali e professionisti, che possono essere attratti dai filosofemi, ma che sono costitutivamente inadeguati ad assimilare la teoria del Capitale; dall’altro, proletari e salariati, che invece fanno esperienza quotidiana dello sfruttamento e non devono venire distolti da questa visione trasparente. L’intenzione di espungere come spuria ogni traccia dell’eredità hegeliana produce la conseguenza di relativizzare e spostare sempre più in là il momento della cesura: una «cesura continuata», che ha un inizio, ma non una fine. L’oggetto-Marx stava sfuggendo di mano.

In chiave polemica, l’enunciazione della categoria di processo senza soggetto né fine (come parte di un confronto del 1972 con il marxista umanista inglese John Lewis) distingue tra l’azione che gli esseri umani conducono, in condizioni che non hanno potuto scegliere e con esito non preventivabile, rispetto alla pretesa di vedere nell’Uomo astratto, proiezione dell’individualismo borghese, il motore della storia. In chiave positiva, ma problematica, la domanda «È facile essere marxista in filosofia?», posta a titolo di una conferenza del 1975, esprime la difficoltà di condurre il proposito fino in fondo. Considerati gli apprezzamenti di Althusser alla linea di Mao-Tse-Tung, non è azzardato affermare che egli abbia inteso così assimilare il tema della «rieducazione degli intellettuali» sbandierato dalla «rivoluzione culturale» cinese.

Al netto delle circostanze che lo portarono a spargere dubbi sul marxismo ufficiale (reso in effetti eclettico dalla sovrapposizione di esigenze tattiche dei partiti comunisti), ad Althusser va in ogni caso riconosciuto il merito di avere introdotto il dibattito (non soltanto marxista) ad una dimensione nuova; in questo è stato un iniziatore inquieto, non un sistematizzatore coerente, e come tale va valutato. Egli, in effetti, stava rimettendo in gioco tutto: i suoi scritti sul materialismo aleatorio ne sono l’estrema testimonianza.

Rivelatore di un complessivo ripensamento, in una fase biografica che vedeva Althusser ormai privo di qualsiasi ruolo pubblico, è la ricerca di una genealogia filosofica a partire da quello stesso Epicuro cui Marx aveva dedicato, nel 1841, la tesi di laurea. Se però in Marx l’interesse per l’atomismo greco non era stato ulteriormente approfondito, in Althusser fornisce la traccia per delineare «la corrente sotterranea del materialismo dell’incontro», riconosciuto altresì come «l’unica tradizione materialistica». La caduta casuale degli atomi nel vuoto fornisce così il paradigma per una concezione totalmente nuova della dialettica storica: dall’incontro contingente di traiettorie indeterminate può nascere una nuova configurazione, a patto che l’incontro «faccia presa». Nel dibattito marxista, l’esigenza di pensare il nuovo nella storia aveva già ispirato spunti non deterministici, come per i concetti di crisi rivoluzionaria in Lenin o di tempo presente (Jetztzeit) in Benjamin: ma in quel caso si trattava di concettualizzare un «pieno» inatteso, l’evento della rivoluzione; nel caso dell’ultimo Althusser, il concetto di «vuoto», cui tutta l’elaborazione ruota intorno, è l’interiorizzazione dello svanire dei punti di riferimento. Il rifiuto del finalismo viene radicalizzato in una forma parossistica, con il risultato di svuotare la consistenza di quella prassi massimamente finalizzata che è l’azione politica. Emblematico di questa estrema problematicità, nonché dell’onestà mentale che la sottende, è il modo in cui anche l’immagine di Marx ne esca trasformata, e che risalta nel confronto tra due differenti genealogie filosofiche: mentre Toni Negri aveva individuato una linea del potere costituito (che va da Hobbes a Rousseau a Hegel) cui contrapporre una linea della potenza costituente (che va da Machiavelli a Spinoza a Marx), Althusser individua una linea idealistica (che va da Leibniz a Hegel al Marx della teleologia) cui contrapporre una linea materialistica (che va da Machiavelli a Spinoza al Marx della contingenza). Ancora i «due Marx», ma in un senso diverso, perché posti in compresenza, non più in successione. È difficile non pensare che questo Marx irrimediabilmente dimidiato non fosse che una proiezione (necessariamente inconsapevole) di Althusser stesso.

 

L’esplosione dei paradossi

Nel complesso, l’opera del filosofo francese mostra una proliferazione di paradossi. Fatto che, se valutato da un punto di vista prettamente razionalistico, sarebbe sufficiente a negarle ogni valore teorico. La mia tesi è che invece si tratti di un’opera in tanto più notevole in quanto è paradossale.

Il primo e fondamentale paradosso è che, nella visione di Althusser, il marxismo è uno; e tuttavia, la presunzione di restituire il marxismo originale, attraverso un lavoro di continuo riesame, finirà per dare vita a uno tra i tanti possibili marxismi. Se infatti il marxismo non è un sistema teorico conchiuso, bensì una modalità d’intervento teorico, nelle congiunture che di volta in volta si danno si generano i marxismi. Come esito di una coerenza radicale, il marxismo «ortodosso» è diventato un marxismo (auto)critico. È grazie a questo paradosso che l’elaborazione di Althusser non ha cessato di esaurire i propri effetti. Ne è un esempio la filologia marxiana, in cui la distinzione tra un Marx giovane e un Marx maturo è ormai corrente, benché non nei termini proposti da Althusser. Le sue tesi non si sono imposte, e nondimeno ogni studioso che è venuto dopo ci si è dovuto confrontare.

La medesima considerazione vale anche laddove Althusser si rivela autoconfutativo. La dichiarata autosufficienza teorica del marxismo (a metà tra l’illusione e l’ossessione) è smentita dalla pratica che lo stesso Althusser ha seguito, con l’assimilazione nel proprio contesto teorico di temi desunti esplicitamente da Machiavelli e Spinoza, e tacitamente da Nietzsche e Heidegger. Egli ha fatto il contrario di quanto sosteneva, dimostrando a suo modo la non autosufficienza teorica dal marxismo: ha così ottenuto il risultato, certamente più duraturo, di mettere in relazione un marxismo possibile con altre famiglie teoriche.

Indicativo di un itinerario aperto è il modo in cui Althusser ha trattato la dialettica. In quegli stessi anni, il tentativo di separare Marx da Hegel era stato condotto dalla scuola di Della Volpe e dalla tendenza operaista. E in entrambi i casi, a opera rispettivamente di Lucio Colletti e di Toni Negri, ne era risultato un rifiuto definitivo della dialettica, che per il primo era anti-scientifica e per il secondo conciliativa. Viceversa, Althusser continuò a perseguire un’altra dialettica. Il suo anti-hegelismo nasceva dal rifiuto di una immagine del sapere come «circolo di circoli, sfera di sfere» (in una parola: speculativo), considerata ideologica in quanto proiezione di una borghesia ormai egemone e soddisfatta di sé. Che l’Intero non sia il Vero, ma il Falso, è peraltro un punto in cui le critiche a Hegel di Althusser e di Adorno inaspettatamente convergono. Una lettura avvertita della Fenomenologia dello spirito dimostrerebbe che in Hegel la teleologia è ricostruita sempre a posteriori, dallo sguardo retrospettivo della coscienza divenuta autocoscienza. E tuttavia, questo pregiudizio non ha impedito ad Althusser di formulare dialetticamente la sua tesi più scandalosa: che è necessario l’anti-umanesimo teorico per l’umanesimo pratico e, a essa correlata, che l’umanesimo teorico si converte in economicismo pratico.

La ricerca di Althusser conduce a paradossi effettivamente problematici riguardo al tema dell’alterità, con l’effetto di riproporre quella forma di contraddizione semplice di cui aveva denunciato la matrice idealistica e che aveva proposto di sostituire con la nozione di contraddizione sovradeterminata. L’ipotesi della lotta di classe nella teoria presuppone infatti un antagonismo irriducibile tra borghesia e proletariato, in cui quest’ultimo è l’Altro per eccellenza, un soggetto assente che va reso presente: la lotta è per l’assunzione nel pensiero di questo elemento rimosso. Tuttavia: o il soggetto è a tutti gli effetti assente, e in tal caso è soltanto una finzione teorica – con il che si conferma il costruttivismo epistemologico, ma si ricade nel «teoricismo»; o questo soggetto esiste realmente, e in tal caso è un attore storico – con il che si passa alla prova empirica, ma si ricade nella metafisica dell’origine, del soggetto e del fine. E se la lotta di classe nella teoria si rivelasse, né più né meno, funzione di un soggetto (della lotta di classe), non sarebbe essa stessa… ideologia? Indicazioni in tal senso, in effetti, hanno la ricorrenza dei lapsus. Che proletari e salariati avessero agevolmente «capito» il Capitale (come affermato nell’Introduzione del 1969) era già una tesi contraddittoria con tutta la cura epistemologica profusa negli scritti precedenti, oltreché storicamente incauta. Che la lotta di classe costituisca un fatto strutturale, anche quando non è palese, e che nelle porosità del modo di produzione capitalistico viva già una forma di comunismo interstiziale segna un ulteriore passo verso la presupposizione di una Presenza. Che infine il materialismo dell’incontro costituisca, in quanto corrente sotterranea, il rimosso della filosofia/ideologia è l’ultimo tentativo di dare consistenza a un Fondamento.

 

Rileggere Althusser, in filigrana

L’ultima argomentazione che intendo avanzare è che, se non si coglie la peculiare fisionomia intellettuale di Althusser, ci si condanna a perpetuare il fraintendimento della sua impresa teorica.

Un tratto caratteristico, che lo accomuna a Lacan, al di là dello specifico teorico, è l’atteggiamento intellettuale verso il maestro – nel primo caso Freud, nel secondo Marx: un commento infinito, che anziché stabilire (o ristabilire) un’interpretazione inconfutabile produce un risultato originale e anziché produrre una sintesi definitiva ritorna continuamente sui propri passi.

Un tratto meno evidente, che lo accomuna a Wittgenstein, al di là della personalità ossessiva, è una medesima istanza teorica: la neutralizzazione di ogni dimensione interiore della filosofia, che in Wittgenstein prende la forma del rifiuto della psicoanalisi e della focalizzazione sulla dimensione intersoggettiva dei giochi linguistici, mentre in Althusser la forma della demistificazione di un soggetto presupposto integro proprio attraverso la psicoanalisi.

Ne consegue che il lascito di Althusser ha un futuro nel campo dell’intersoggettività, grazie a due fondamentali acquisizioni. La prima è di natura filosofica e si esprime in una concezione del sapere che rifiuta la verità, non le verità: un processo senza soggetto, in quanto non si irradia dall’interno del ceto intellettuale, ma si colloca nelle relazioni tra i soggetti; e un processo senza fine, in quanto non è iscritto in una narrazione, ma risponde a congiunture sempre nuove. A differenza di quanto sarebbe divenuto usuale in seguito, il richiamo alla complessità non è utilizzato per sfumare i contorni delle situazioni ed evitare di prendere posizione, bensì per accentuarne l’aspetto conflittuale e individuare le linee di demarcazione. Aver respinto congiuntamente tanto l’idealismo (comunemente considerato nemico della scienza moderna) quanto l’empirismo (considerato comunemente la base della scienza moderna) e aver proposto una concezione alternativa della conoscenza, che attraverso l’uso di categorie psicoanalitiche è posta a confronto con il suo lato nascosto, costituisce una mossa mai tentata prima per rompere l’autoreferenzialità del discorso scientifico. L’in-finità della conoscenza che ne risulta è una forma di universalismo teorico.

La seconda è di natura politica e si esprime nella denuncia delle grandi narrazioni: in anticipo su Lyotard, ma con finalità opposte, Althusser aveva colto il punto cieco cui conduceva l’autorappresentazione della lotta per il comunismo. Un autoinganno che avrebbe necessariamente presentato il conto. Ma se la grande narrazione dell’Origine, del Soggetto e del Fine viene smascherata come proiezione prometeica dell’universale fittizio «Uomo» (oggi si direbbe del maschio bianco occidentale eterosessuale), diventa possibile tracciare un ponte con l’acquisizione, dovuta agli studi culturali, post-coloniali e di genere per cui il Soggetto non è che una sequenza di fallimenti. È una strada che talune ricerche già percorrono. Perché questo percorso proceda, in un’epoca in cui la modalità narrativa dello storytelling tende a eclissare la fatica del concetto, assume un significato ancor più prezioso l’appello di Althusser a «non raccontare/non raccontarsi storie». È stato questo il suo modo di essere materialista.


Nota bibliografica
I due testi fondamentali per conoscere la proposta teorica di Althusser restano: Per Marx, Editori Riuniti, Roma 1967, con nota introduttiva di C. Luporini, nuova edizione riveduta e ampliata a cura di M. Turchetto, Mimesis, Milano 2008; e Leggere il Capitale, Milano, Feltrinelli, Milano 1968 contenente i soli contributi di Althusser e Balibar, nuova edizione Mimesis, Milano 2007, che reintegra i contributi di Rancière, Macherey ed Establet.
Per la svolta successiva al 1968 i testi cruciali sono: Lenin e la filosofia, Milano, Jaca Book, Milano 1968; Umanesimo e stalinismo, De Donato, Bari 1973, poi ripubblicato come I marxisti non parlano mai al vento, Mimesis, Milano 2005; Elementi di autocritica, Feltrinelli, Milano 1975; Freud e Lacan (che contiene il saggio Ideologia e apparati ideologici di Stato), Editori Riuniti, Roma 1977; Marx nei suoi limiti, Mimesis, Milano 2004.
Per gli ultimi scritti: Sul materialismo aleatorio, Unicopli, Milano 2000. Per iniziativa dell’Associazione Culturale «Louis Althusser», altri lavori sono stati pubblicati o in corso di pubblicazione nella collana Althusseriana, presso le edizioni Unicopli prima e Mimesis poi.
Le ragioni della rottura con l’allievo Pierre Rancière sono documentate da quest’ultimo in Ideologia e politica in Althusser, Feltrinelli, Milano 1974.
Per l’Italia, la più articolata discussione sui temi althusseriani è nel volume collettivo La cognizione della crisi. Saggi sul marxismo di Louis Althusser, Angeli, Milano 1986. Per i testi postumi, si veda F. Dinucci, Materialismo aleatorio. Saggi sulla filosofia dell’ultimo Althusser, CRT, Pistoia 1998. Per un riepilogo della ricezione, si veda C. Lo Iacono, Althusser in Italia. Saggio bibliografico (1959-2009), Milano, Mimesis, 2011.
All’allievo più devoto di Althusser, Étienne Balibar, si deve la raccolta Per Althusser, manifestolibri, Roma 1991, che contiene la migliore e più simpatetica ricostruzione del pensiero del maestro, nonché (nello scritto Zitto ancora, Althusser!) il commento del collega universitario sull’uxoricidio.
A Yann Moulier-Boutang si deve un interessante progetto di biografia, che va ormai considerato accantonato e di cui è uscito il solo primo volume (inedito in traduzione italiana), Louis Althusser. Une biographie. Vol.1: La formation du mythe (1918-1956), Paris, Grasset, 1992.
Per comprendere la figura umana di Althusser non si può prescindere dall’autobiografia L’avvenire dura a lungo, Parma, Guanda, 1992. Benché il fatto sia passato inosservato, ricordi e considerazioni in essa contenuti hanno chiaramente ispirato Michel Houellebecq per delineare il personaggio di Bruno Clément nel romanzo Le particelle elementari.

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