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L’angelo della storia. Rileggendo Benjamin

di Alessandro Visalli

alfbenj 2“9. C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”[1].

Siamo nel 1940, una data decisiva per comprendere il testo, Walter Benjamin rompe radicalmente, nel manoscritto detto delle “Tesi di filosofia della storia[2] con tutta l’ideologia del progresso che è tanta parte del marxismo. L’operazione che il grande intellettuale ebreo compie è di ibridare nel corpus rivoluzionario marxista elementi derivanti sia dalla critica romantica della civilizzazione, sia dalla tradizione messianica ebraica. Sono allora sedici anni, da quando ha incontrato il marxismo attraverso la lettura di Lukács e l’incontro caprese con la russa Asja Lacis, e quindici da quando in “Strada a senso unico[3] riconosce nella rivoluzione un esito non già inevitabile, o naturale, quanto una sorta di estrema difesa davanti al disastro. Un “tagliare la miccia accesa” prima dell’esplosione.

Il lavoro che compie sul marxismo, in particolare a metà degli anni Trenta, è da allora rivolto a dissotterrare le componenti romantiche ed antiborghesi che lo stesso Marx recepisce, ma che sono sepolte abbastanza accuratamente dal marxismo tedesco nella fase della sua affermazione politica.

Per riuscirvi occorreva abbattere due feticci: le illusioni del progresso e l’idealizzazione del lavoro industriale. Ovvero prendere le distanze da quegli elementi dell’ideologia borghese ottocentesca transitati nella teoria, per liberarne il potenziale critico. Prendendo con cura le distanze, in particolare, da quel mix di positivismo e marxismo, evoluzionismo darwiniano e culto del progresso che si identifica con la socialdemocrazia tedesca tra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento. Dove, in particolare, il progresso è identificato sotto forma dello sviluppo delle scienze naturali e delle capacità di manipolazione della natura regalate dalla tecnica, restando insensibili ai fattori di regressione sociale spesso implicati necessariamente.

Qui cadono i manoscritti terminali sulla Filosofia della Storia, di pochi mesi precedenti alla drammatica e prematura morte.

“Articolare storicamente ciò che è passato non vuol dire conoscerlo ‘come è stato veramente’. Vuol dire impadronirsi di un ricordo per come balena nell’istante di un pericolo”[4].

Un ricordo che balena nell’istante del pericolo, formidabile formula benjaminiana. Oggi il “pericolo” al quale chiama la riflessione è questo ridursi di tutto “a strumento della classe dominante”. Di fronte a ciò bisogna “cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla”, beninteso perché in essa ci sono semi in attesa. Questi ‘semi’ che sono anche un lascito e un impegno. Quello a riscattare nella memoria e riparare la sofferenza dei vinti, compiendo gli obiettivi per i quali hanno lottato. Queste lotte che, rammemorate in tutta la loro tragica complessità ed incompiuta grandezza, stanno dietro noi, o avanti, con il dolore che è stato e quello che sarà. Se il significato più compiuto della formula vaga ‘materialismo storico’ è la pratica feconda di una storia come lotta permanente tra oppressori ed oppressi, come vorrebbe Benjamin, allora il solo modo di onorarlo è rispettare la richiesta muta dei vinti. Saper essere anche l’esecutore del testamento che resta nelle nostre mani da molti secoli di lotta e sogni di emancipazione.

Continua la “tesi VI”:

“Per il materialista storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui si impone imprevista nell’attimo del pericolo, che minaccia tanto l’esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari”.

Ciò, perché il pericolo è sempre di divenire, senza avvedersene, l’ennesimo strumento nelle mani della classe dominante. Questo è il problema sul quale l’intero testo che avete per le mani si affatica. Evitare sia la falsificazione e l’oblio delle lotte, sia, soprattutto, lo sfruttamento dell’energia della moltitudine contro di essa. L’accelerazione verso il burrone dell’ennesima sconfitta, del tradimento di sé e del pieno trionfo, ancora ed ancora, dei pochi e felici contro i molti e ciechi. Michael Lowy riporta[5] un passo contenuto nelle note preparatorie, che richiama direttamente la metafora del ‘sistema frenante’:

“Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno”.

Traspare qui la critica di fondo all’atteggiamento attendista della socialdemocrazia tedesca che rileggeva la secolarizzazione del messianesimo prodotta da Marx e la sua idea del comunismo come società senza classi, con strumenti neokantiani proiettandola all’infinito (mentre in Marx è hegelianamente inquadrata dialetticamente nel quadro della “lotta”). Da Schmidt a Stadler, o Natorp, e Volrlander, i principali ideologi socialdemocratici tedeschi del tempo si pongono quindi con calma, come nell’anticamera del tempo, ad aspettare l’inevitabile sopraggiungere (un giorno) della “situazione rivoluzionaria”. Per Benjamin, al contrario, fino a che si attende passivamente essa non giungerà mai. Rileggendo invece la storia come prassi umana, ricca di possibilità e soprese, si riconosce che ogni istante racchiude un “potenziale”, che va attivato. È necessario anzi attivarlo con urgenza, proprio perché nella visione proposta i binari del treno si dirigono irresistibilmente verso l’abisso.

Scriverà nelle “Tesi”:

“Nulla ha corrotto la classe operaia tedesca come l’opinione di nuotare con la corrente. Lo sviluppo tecnico era il filo della corrente su sui credeva di nuotare. Di qui c’era solo un passo all’illusione che il lavoro di fabbrica, trovandosi in direzione del progresso tecnico, fosse già un’azione politica”[6].

Nella tesi 13, più profondamente, il concetto di progresso è affrontato direttamente, relazionato ad un’immagine della storia come se percorresse, indefinitamente ed eternamente, un tempo “omogeneo e vuoto”. È dunque “la critica dell’idea di questo processo [che] deve costituire la base della critica dell’idea di progresso come tale”. E questa critica consiste nel rileggere la storia come il luogo di un tempo non vuoto ma “pieno di ‘attualità’” (Jetztzeit). Ad esempio, la Roma, cui si riferiscono i giacobini durante la rivoluzione, è quel “balzo di tigre nel passato” che lo riattiva, che rende attuale un elemento nella “selva del passato”, facendo l’unica vera operazione rivoluzionaria. Anzi creando ciò che la rivoluzione propriamente è: il salto del continuum della storia nell’attimo dell’azione (tesi 15). Il materialista storico, per Benjamin (ovvero il rivoluzionario), si attiene ad un concetto del presente in cui vive come istante in bilico. In bilico nel tempo ed immobile. Non in passaggio ed in attesa. Egli quindi in questo istante in bilico “per suo conto scrive la storia”. In ogni secondo intravede, come gli ebrei, “la piccola porta dalla quale poteva entrare il Messia”[7].

Con questo testo si manifesta il tentativo di tenere insieme, in qualche modo, di rivitalizzare dal suo incipiente grigiore, il materialismo storico con elementi coscientemente messianici e libertari. Ovvero di fonderlo con una teologia appena nascosta (come il nano nell’automa della prima tesi) e anche con elementi anarchici. Si tratterebbe, secondo una famosa lettura di Habermas[8], di integrare la concezione anarchica dei ‘tempi-ora’, che “attraversano con intermittenza il destino, a guisa di folgori”, con la teoria materialistica dello sviluppo sociale. Ovvero, secondo l’aspra critica del filosofo ex francofortese, il “cappuccio fratesco di una concezione antievoluzionistica della storia”. Malgrado l’idiosincrasia del modernista ed evoluzionista filosofo tedesco, che torna sul tema in “Il discorso filosofico della modernità[9], questi individua correttamente il punto: la rivoluzione per Benjamin non corona, attendendola, l‘evoluzione storica. Essa, piuttosto, interrompe (con un “balzo di tigre”) la continuità storica della dominazione[10]. E per farlo, tra l’altro’ “spazzola la storia contropelo” (Tesi VII), prestando nuovamente orecchio a chi è caduto nel tempo sotto, come scrive Lowy, “sotto le ruote dei carri maestosi e magnifici chiamati Civiltà, Progresso e Cultura”[11]. Lo onora, ricordandolo con il più alto senso del presente[12] e battendosi, appunto, controcorrente.

Il tentativo di Benjamin, dunque, si spende nello sforzo di conciliare materialismo e messianismo, cosciente ed esplicito, quindi di radicare l’utopia dal ‘punto di vista dei vinti’. Si manifesta come aspirazione al riscatto che resiste contro ogni forza, ma si radica nella storia e nella materia. Che agisce nel produrre quella ‘scissione irrimediabile’[13] nei confronti della sopravvivenza della cultura borghese ottocentesca entro il cuore stesso del marxismo. È un passo di montagna che va superato.


Note
[1] - Walter Benjamin, “Tesi di filosofia della storia”, 9. In Angelus Novus, Einaudi, 1962.
[2] - In realtà il titolo è incerto, sulla copia T4b del manoscritto è “Geschichtphilosophische Thesen”, mentre nel T4a “Uber der begriff der Geschichte”, e Adorno gli diede invece “Geschichtphilosophische Reflexionen”.
[3] - Walter Benjamin, “Strada a senso unico”, Einaudi 1983 (ed. or. 1928)
[4] - Walter Benjamin, “Sul concetto di storia”, 6, in Senza scopo finale. Scritti politici (1919-1940), Castelvecchi 2017 (p.242). Anche in “Angelus novus”, Einaudi, 1962, p. 77.
[5] - Michael Lowy, “La rivoluzione come freno d’emergenza”, Ombre corte, 2020 (ed. or. 2019), p. 47.
[6] - Walter Benjamin, “Sul concetto di storia”, in “Angelus novus”, Einaudi, 1962, p. 81
[7] - Cit., p. 86
[8] - Jurgen Habermas, “Critica che rende coscienti o critica che salva. L’attualità di Walter Benjamin”, in “Cultura e critica”, Einaudi 1980 (ed.or. 1973), p. 233.
[9] - Jurgen Habermas, “Il discorso filosofico della modernità”, Laterza, 1987 (ed. or. 1985).
[10] - Secondo le sue parole: “Benjamin si impegna in un drastico rovesciamento del rapporto tra orizzonte delle aspettative e ambito dell’esperienza, attribuendo a tutte le epoche passate un orizzonte di aspettative insoddisfatte, ed al presente orientato verso il futuro il compito di sperimentare nella rimemorazione un passato di volta in volta corrispondente in modo tale che noi possiamo soddisfarne le aspettative con la nostra debole forza messianica”. Habermas, cit., p. 14.
[11] - Michael Lowy, “Segnalatore d’incendio”, op.cit., p. 73
[12] - Qui il riferimento obbligato è al Friedrich Nietzsche di “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, Newton Compton, 1978 (ed. or. 1874).
[13] - In una lettera ad Horkheimer, spedita il 22 febbraio 1940, Benjamin scrive: “Ho appena terminato di scrivere un certo numero di tesi sul concetto di storia. Queste tesi si collegano, da un lato, alle concezioni che si trovano abbozzate nel capitolo I dei ‘Fuchs’. D’altro canto, esse devono servire da armatura teorica al secondo saggio su Baudelaire. Costituiscono un primo tentativo di fissare un aspetto della storia che deve stabilire una scissione irrimediabile tra il nostro modo di vedere e le sopravvivenze di positivismo che, a mio avviso, connotano così profondamente persino quei concetti di storia, che, in sé stessi, ci sono più prossimi e familiari” (cit. in. Michael Lowy, “Segnalatore d’incendio”, Ombre corte, 2022 (ed. or. 2014).

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