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consecutiorerum

Ordinamenti e sguardo antropologico

Su Ordoliberalismo di Adelino Zanini

di Ubaldo Fadini

9788858339602 0 350 0 75Leggendo il recente e magistrale studio di Adelino Zanini, Ordoliberalismo. Costituzione e critica dei concetti (1933-1973), il Mulino, Bologna 2022, mi è venuta in mente un’immagine, tra Lyotard e Deleuze, che ne può restituire il disegno teorico che si delinea in più di 500 pagine, vale a dire quella del ‘figurale’, con il suo intento di fondo di carattere anti-rappresentativo, anti-narrativo e decisamente performante in senso radicalmente critico, per così dire.

Può avere un qualche senso questa associazione nel momento in cui questo libro di Zanini si presenta innanzitutto come un tentativo di segno storico-concettuale di ricostruzione di una costellazione di temi e figure, quella dell’‘ordoliberalismo’, così contraddistinto dall’emergere di tante differenze e sfumature non insignificanti da risultare infine come estremamente spregiudicata? È a tale spregiudicatezza, messa ulteriormente a valore dal suo parziale fluire in ciò che è noto come ‘parola-baule’ che ha segnato buona parte della vita economica, sociale e politica del nostro Continente: ‘economia sociale di mercato’, che vorrei fare riferimento in questo mio contributo, virando in particolare e per concludere verso questioni che mi sono più vicine e che riguardano il complesso teorico dell’antropologia filosofica moderna.

Ma prima di arrivare a ciò mi pare opportuno indicare le componenti essenziali di Ordoliberalismo che sono da rinvenire nell’analisi puntuale, quasi a formare delle distinte e accurate monografie, dell’opera di tre studiosi imprescindibili come Walter Eucken, Franz Böhm e Alfred Müller-Armack.

E in effetti non si può non partire da Eucken e dal liberalismo della Scuola di Friburgo, da distinguere radicalmente da quello della Scuola di Vienna, se si avanza la pretesa di cogliere principi di sostanza della tradizione del pensiero ordoliberale, ad esempio quelli ‘costitutivi’ e ‘regolativi’ dell’ordinamento concorrenziale. Certamente ciò che emerge da tale ambito come elemento di specificazione imprescindibile è che l’ordinamento concorrenziale rinvia a sua volta a un “principio di prestazione” (Leistungsprinzip) che non può che reclamare la presenza di uno “Stato forte” (starker Staat): è a questo punto che Zanini suggerisce anche indirettamente – e qui può valere la mia singolare associazione di inizio contributo, con il suo rilievo performativo – come il motivo dell’ordinamento concorrenziale non trovi risoluzione facile nel sistema odierno della multilevel governance europea, per arrivare appunto ai giorni che ci sembrano quasi “nostri”, favorendo piuttosto la realizzazione di un “ibrido” nel quale alcune caratteristiche della tradizione del pensiero ordoliberale non trovano sempre adeguata espressione.

Prezioso è il richiamo, in apertura dello studio, all’introduzione di taglio programmatico alla collana di testi denominata Ordnung der Wirt- schaft (1936), al primo volume: in quelle pagine, nella Unsere Aufgabe, vero e proprio manifesto del pensiero ordoliberale, Böhm, Eucken e Hans Grossmann-Doerth riflettono sul venire meno, nella Germania del tempo, del punto di appoggio dell’ambito della giurisprudenza con quello dell’economia politica, con l’effetto nefasto che l’idea di diritto e quella di verità vengono a essere relativizzate, disponendosi così opportunisticamente all’adattamento a ciò che accade, “ai fatti mutevoli e alle opinioni”, perdendo infine la loro “forza spirituale e morale”. L’intento dei tre autori è allora quello di riaffermare alcuni punti di metodo (e di merito) a cui rimandare per evitare l’opportunismo a cui aveva portato la convinzione che lo sviluppo economico e il progresso sociale, in-formato pure giuridicamente, “avrebbero necessariamente condotto al meglio”. Dopo aver sottolineato la convinzione, da parte soprattutto di Eucken, a proposito del carattere tutto sommato transitorio del regime nazista, Zanini sintetizza efficacemente la Unsere Aufgabe rimarcando come il punto teorico focale fosse da individuare nel “riconoscimento della centralità dell’idea di costituzione economica (Wirtschaftsverfassung) – un concetto di grande rilevanza nella tradizione weimariana, basti pensare a Hugo Sinzheimer –, da intendersi come ‘una decisione politica generale circa la vita economica nazionale’, atta, quindi, a stabilire principi idonei e conclusivi tramite i quali interpretare i molteplici aspetti del diritto pubblico e privato, in relazione non solo alle leggi basilari, ma anche a quelle speciali, aventi, ad esempio, carattere economico. Plasmare un ordinamento giuridico in rapporto a una costituzione economica avrebbe significato pensare l’uno disponendo degli strumenti dell’altra e viceversa. Si sarebbe così potuto realizzare un ‘processo di avvicinamento’ tra specialismi, indispensabile per delineare un ordine/ordinamento economico (Wirtschaftsordnung)” (p. 11). E ancora, dopo aver ribadito come la costituzione economica, così intesa, venisse ad essere presentata sotto la veste di una “decisione politica generale” le cui articolazioni non potevano essere pensate in modalità semplificate in quanto il carattere stesso del decidere non consentiva una definizione in termini formali, al di là del rinvio ad una “presupposta legge fondamentale” (Grundgesetz) – visto oltretutto che quelle stesse articolazioni non trovavano un riferimento soltanto al quadro giuridico-istituzionale ma anche al complesso delle convezioni di natura informale, alle tradizioni di pertinenza delle molteplici attività economiche e all’ordinamento sociale –, Zanini osserva: “Nello specifico di un’economia di mercato, proprietà privata, libertà contrattuale, libera concorrenza avrebbero rappresentato solo i principi di un ordinamento economico basato di fatto su di una costituzione economica articolata secondo l’interagire di sistemi e sottosistemi formali e materiali. Ordinamento giuridico e ordinamento economico, non certo sovrapponibili, si sarebbero condizionati reciprocamente. Il primo, tramite la legislazione e la giurisdizione, avrebbe potuto attribuire una ‘forma’ ai fatti economici, palesando una costituzione di mercato fondata sulla concorrenza giuridicamente regolata; il secondo avrebbe potuto, tra le altre cose, influenzare gli ordinamenti giuridici materiali. Il tutto, insisterà Eucken, senza chiamare in causa ‘gradi’ o ‘stili’ di matrice storicistica – ciò che a suo modo farà invece Müller-Armack, pur ribadendo la critica di tale matrice” (pp. 11-12).

Già il rimando al concetto di “grado” in Müller-Armack non può che colpire l’attenzione del cultore dell’antropologia filosofica novecentesca, per una sua certo accidentale e qui non propriamente pertinente proiezione sul capolavoro plessneriano su Die Stufen des Organischen und der Mensch (1928), ma ora interessa segnalare altri aspetti a mo’ di chiarimento, come il fatto che la costituzione economica manifesta un contenuto normativo-materiale in grado di influenzare concretamente, di regolamentare i comportamenti degli agenti economici. Zanini sottolinea come in tale ottica la costituzione economica richiami certamente le politiche del diritto proprio nel senso di fornire alla competizione economica spazi e regole chiare anche per impedire il costituirsi di gruppi di potere di natura privata, portati a “sconvolgere il sistema concorrenziale” stesso, quel suo principio determinante, cioè la Leistungskraft, che si può indicare anche come la “capacità di prestazione fondata sul merito derivante da una reale efficienza”. Nel momento in cui la costituzione economica si presenta come vera e propria “decisione generale”, le politiche del diritto devono puntare alla realizzazione di un ordine/ordinamento normativamente efficace e in grado di definire regole appropriate al fine della più fluida articolazione di una dinamica economica libera di svilupparsi nel migliore dei modi possibili. È a questo punto che si afferra la distanza del contesto di riflessione ordoliberale dalla tradizione vetero-liberale, vale a dire la presa in carico problematica, in termini politico-ordinamentali, del processo economico-concorrenziale, da cogliersi appunto come ciò che richiede l’affermazione in termini giuridici dello “Stato forte”, con quel suo strumentario decisionale – ripeto: di carattere giuridico – indispensabile per quella che si vuole quale genuina economia competitiva di mercato. Ciò vuol dire mettere strettamente in relazione il formarsi di una società fondata essenzialmente sul diritto privato con l’indispensabile presenza, in tale prospettiva, dello Stato impegnato a garantire giuridicamente l’ordinamento competitivo.

Zanini riassume con chiarezza questo elemento di analisi, che sta alla base di una argomentazione che si contraddistingue, nel suo testo, per la capacità di sintetizzare il percorso storico dell’ordoliberalismo che va dal periodo della crisi di Weimar fino agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso e quel suo estremamente rilevante e parziale risolversi nell’affermazione dell’“economia sociale di mercato”. Tornando infatti alla richiesta di tutela specifica dell’ordine competitivo, questa vale nel senso di assicurare che il “fine della lotta” non metta in discussione “i caratteri fondativi della concorrenza, intesa come forma di mercato, ma anche come diritto soggettivo”. E l’autore aggiunge, in modo che a me pare decisivo: “Che in tutto ciò potesse sembrare esservi una certa circolarità dipendeva dal fatto che ove si diceva ordinamento economico si presupponeva, in verità, il carattere normativo di un ordinamento concorrenziale, pur riconosciuto essere di per sé non bastevole e necessitante di politica attiva. Accanto a una teoria dell’ordinamento avrebbe dovuto esprimersi perciò una politica dell’ordinamento, sotto forma di politiche del diritto pensate a sostegno di un ordine concorrenziale effettivo, ispiratore di una politica economica non congiunturale: di una Wirtschaftspolitik nel senso più ampio, di politi- che per l’economia (al plurale)” (p. 13).

È certamente Eucken a evidenziare, soprattutto nei suoi testi degli anni ’50, le difficoltà specifiche dei vari tentativi di articolazione di una politica economica centralmente amministrata appunto non in grado di determinare bilanciamenti adeguati a livello infrasettoriale e neppure di risolvere il problema della distribuzione. L’instabilità degli ordinamenti è ciò che segna di sé un’economia internazionale industrializzata, il moderno sviluppo economico. E accanto a tale fenomeno si devono poi porre tutti i rischi che riguardano sempre più la stessa natura umana e collegati strettamente alla tecnica, alla massificazione/tecnicizzazione dilagante. Il problema centrale è insomma quello dell’equilibrio, vero e proprio obiettivo di ogni politica economica, e ciò non appare per nulla risolto dagli “esperimenti” portati avanti laddove si cerca di realizzare un compromesso – di matrice keynesiana – tra la libertà e la direzione economica centralistica. Nei paesi in cui questi esperimenti sono stati favoriti, si è assistito all’affermarsi di una Gruppenanarchie, l’esatto opposto del raggiungimento di un solido equilibrio. L’esplicazione di svariate opportunità di controllo e di esercizio del potere, propria di un’economia industrializzata, può tradursi in modalità che difficilmente consentono la risoluzione del decisivo Ordnungsproblem, in quanto si assiste, riprendendo alla lettera Eucken, alla presa di potere di un singolo gruppo politico in grado così di comandare l’apparato complessivo o alla presenza di diversi gruppi di potere, di fatto compiutamente privati o sostenuti dallo Stato, operanti congiuntamente o in netta contrapposizione. In alcune pagine assai stimolanti, Zanini indica come la soluzione del problema della Ord- nung, della determinazione delle sue “forme” economiche, fosse avvertita ancora più lontana da Eucken, a metà del ventesimo secolo: “La politica del laissez-faire aveva delegato la definizione delle Ordnungformen economiche al privato; le politiche di centralizzazione – nelle loro articolazioni pubblico/privato – l’avevano semplicemente risolta rimuovendola o coartandola. La contrapposizione tra economia pianificata ed economia libera aveva condotto il dibattito a un punto morto. L’esperienza avrebbe dimostrato però che il problema dell’ordinamento non poteva essere accantonato. Lo scavo doveva essere semplicemente approfondito, al fine di valutare quali fossero le possibilità di esistenza di un ordinamento economico in un mondo industrializzato. A tal fine, sarebbe stato necessario guardare avanti, non indietro, quantunque le ‘forme’ già realizzate potessero […] ritornare utili per comprendere un aspetto decisivo: ossia, che ‘il loro nu- mero [era] esiguo’ e che l’alternativa andava individuata tra una conduzione economica centralmente amministrata e un ordinamento concorrenziale, ma non riducibile certamente, al laissez-faire, perché l’equivalenza tra ‘libera’ economia ed economia concorrenziale (Wettbewerbswirtschaft) non sarebbe stata affatto scontata. […] era impellente la necessità di distinguere, anche da un punto di vista terminologico, tra una costituzione di mercato fondata sulla concorrenza giuridicamente regolata (wettbewerbsrechtlichen Marktverfassung) e la semplice forma economica di mercato (wirtschaftli- chen Marktform), attribuendo alla politica per la concorrenza (Wettbewerb- spolitik) una funzione trasformatrice” (p. 100).

Sintesi quanto mai efficace, questa di Zanini, nel senso di presentare il compito decisamente arduo e complesso di formulare una politica economica all’altezza di una dinamica di industrializzazione che richiedeva con forza la definizione di un ordinamento funzionale capace di assicurare agli individui e alle famiglie una possibilità di condotta di vita responsabile e soddisfacente, basata anche e soprattutto sul superamento della scarsità dei beni disponibili. Si trattava allora per Eucken di pensare, a tal fine, una idonea costituzione economica e ciò non poteva essere affidato al mero evolversi dello stesso ordinamento economico oppure affrontando via via le singole questioni economiche: i fenomeni dovevano essere compresi nella loro interdipendenza e l’ordinamento complessivo doveva risultare proprio dal loro interagire. Da qui il carattere cruciale proprio della questione della elaborazione concettuale delle costituzioni economiche a venire, in riferimento ai differenti e inevitabili problemi economico-politico-costituzionali (wirtschaftsverfassungspolitische Probleme) del presente.

La questione è in ogni caso sempre quella del plasmare un ordinamento giuridico in rapporto ad una costituzione economica e viceversa, laddove ciò che emerge nella sua essenzialità è quella circolarità normativa che si concretizza e stabilisce tra l’ordinamento economico e quello propriamente concorrenziale, con gli ovvi richiami alla presenza operativa di uno “Stato forte”. Non si può quindi ridurre tale complessa dialettica alla semplice relazione intrinsecamente oppositiva tra il mercato libero e lo Stato interventista e ciò era stato ben visto da Michel Foucault nel suo corso del 1978-1979, al Collège de France, sulla Naissance de la biopolitique. È in riferimento alle dense pagine di Franz Böhm su Privatrechtsgesellschaft und Marktwirtschaft, del 1966, che Zanini richiama in maniera ampia quelle osservazioni foucaultiane che riguardano la distanza tra la concezione vetero-liberale del monopolio e quella effettivamente neoliberale, in grado di andare oltre il paradosso consistente nel considerare il monopolio come un fenomeno degenerativo della concorrenza, il che voleva dire affermare che per salvare quest’ultima dalle sue stesse conseguenze si doveva agire sui meccanismi economici: “In relazione a ciò, dice il filosofo francese, i neoliberali mostreranno come il monopolio e la tendenza monopolistica non fossero parte della logica economica e storica della concorrenza, bensì espressione di fenomeni d’intervento di tipo arcaico, di processi di rifeudalizzazione legati all’esistenza di strutture giuridiche residuali che tali processi avrebbero permesso o facilitato. Dunque, i neoliberali si sarebbero sottratti al paradosso della concorrenza riaffermando la centralità del non intervento nel processo economico, a patto di stabilire un quadro istituzionale atto a impedire che poteri individuali o pubblici potessero intervenire per creare forme di monopolio. Perciò, si sarebbe dovuto governare per il mercato, anziché a causa del mercato; e rispetto al vetero-liberalismo, il rapporto sarebbe risultato essere inverso” (pp. 307-308).

Ciò che Foucault non sembra però prendere in considerazione è proprio la posizione risoluta, assai rilevante, di Böhm, non menzionato quando invece si fa riferimento a Röpke, Rüstow e von Mises. È proprio nel lavoro complessivo di Böhm che si può rinvenire l’elemento-chiave della “concezione neoliberale”, quello del Monopolkampf, che Zanini efficacemente e con spirito “deleuziano” indica come divenire monopolio, contrassegnato nella modalità della “lotta” dall’esercizio di un “grado di potere”, “privato”, tale da indicare come non si trattasse di una “forma statica di sfruttamento” di una quota di potere, bensì di un “processo dinamico” sprigionante minacce serie rispetto alla tenuta del sistema economico e degli “equilibri costituzionali di una democrazia moderna”. La ricerca di Böhm è attenta proprio ai processi economici che si relazionano materialmente e con virtù di elasticità a volte insospettabili con una società basata sul diritto privato. È in tale ottica che va afferrato anche quel “doppio processo di snaturamento” che vede “da un lato l’impiego vantaggioso del potere economico” come ciò che “avrebbe di per sé snaturato l’ordinamento di diritto privato, dall’altro, quest’ultimo, consapevolmente snaturato e corrotto, avrebbe facilitato l’incrementarsi e il consolidarsi del potere economico stesso. La necessità di una volontà di decidere in termini politici derivava di qui e questa emergenza imponeva il superamento di uno stato di tolleranza strisciante tramite un ordinamento economico-politico-costituzionale. Una moderna costituzione economica avrebbe dovuto avere quale fondamento una chiara e univoca volontà di decidere in termini politici” (p. 309).

La prosperità del potere privato si concretizza in un processo dinamico che risulta giuridicamente opaco ed è ciò che sottolinea ancora l’importanza della questione dello starker Staat, da intendersi come garanzia – in quanto effettivamente dotato degli strumenti opportuni – di fronte “al prodursi e al concentrarsi di forme avallate, perché tollerate, ma non legittime, di potere privato”. Qui si può agganciare nuovamente Foucault, poiché lo studioso francese ha ben mostrato la distanza tra il complesso del pensiero ordoliberale e il vetero-liberalismo o le forme del contemporaneo anarcocapitalismo americano. Alla base di tale differenza sta la tesi, osserva ancora Zanini, di un governo che in un regime liberale non può che essere “attivo, vigile”, che insomma intervenga; e ciò senza porre “la distinzione tra agenda e non agenda e definendo invece uno style gouvernemental inerente al ‘come’ intervenire” (p. 310).

Non si può certamente aggirare in ogni caso la riflessione foucaultiana quando si prende in considerazione il liberalismo tedesco contemporaneo rilevandone, così come osservato dallo stesso Foucault, l’originalità consistente nel fatto che esso non rilancia affatto una centralità del mercato indicato in autonomia pura costante, “lasciato a sé”, appellandosi al contrario ad una “politica attiva” contraddistinta da un minimo d’interventismo economico e da un rilevante interventismo giuridico. Preso atto di ciò, a Zanini interessa, attraverso anche la sua dettagliatissima ricostruzione delle vicende della Freiburger Schule, mettere in evidenza come il richiamo generale all’ordo porti con sé un’idea di Wesensordnung o di Naturordnung da intendersi più come un predicato a cui pervenire piuttosto che una condizione da cui partire. E qui è senz’altro da condividere la tesi in fondo dominante di Ordoliberalismo, cioè che l’ordinamento in questione sia da considerarsi appunto come “il risultato di una staatliche Veranstaltung” a cui si perviene “grazie alla formulazione giuridica del principio economico”. Questa modalità d’intervento è ciò che poi sarà possibile ritrovare, almeno in parte e con molte sfumature rivelatrici dell’occorrenza di altri fattori di formulazione, di contenuti materiali e ancora prossimi a noi, in quella relazione con la Soziale Marktwirthschaft che segna la vicenda europea degli ultimi decenni, caratterizzata dall’ovvio riaffiorare della questione del proliferare delle incognite, del presentarsi di istanze decisionali consegnate ad una spesso drammatica ineffettualità, il che vuol dire collegare, tra l’altro, lo stesso ordoliberalismo ad una modernità novecentesca da considerarsi assai fluida per non rimarcarne ulteriormente il suo non mai risolto, l’essenziale “irrisolto”.

Un ultimo punto, quello a cui tengo personalmente ancora di più, la particolare antropologia filosofica del neoliberalismo. Già Dario Gentili se ne è occupato, in un suo recente contributo su «aut aut» (n. 321, 2021), in rapporto soprattutto a come si delinea in molte pagine di Friedrich von Hayek, sottolineando la vicinanza – comunque parziale – dell’antropologia “negativa”, ad esempio nella ricerca di un filosofo/sociologo come Arnold Gehlen, al delinearsi di una antropologia economica sempre però “negativa” data la scarsità di mezzi di cui fruiscono gli esseri umani per la soddisfazione dei loro bisogni, degli “oneri” che sempre accompagnano la loro vicenda vitale. Si sa appunto che per Hayek, in tale ottica, i mezzi scarsi hanno nell’istituzione sociale del mercato non tanto quello che consente lo sgravio indispensabile per la condizione naturale, bensì un vero e proprio “ordine spontaneo” dotato di una razionalità autonoma mai padroneggiabile a livello individuale e mai pienamente orientabile socialmente e politicamente. C’è Hobbes e c’è Hume dietro a tutto questo, in relativo e però estremamente chiaro conflitto tra di loro, se mi è permesso dire così, e per quanto mi riguarda, rispetto al nodo dell’istituzione come mezzo di soddisfazione imprescindibile, mi sono spesso mosso in una direzione di ricerca, ormai di lunga durata e di respiro ampio, che teneva di conto di alcune suggestioni deleuziane non lontanissime dal contesto teorico che qui viene considerato, per rimarcare la possibilità di connettere il complesso istituzionale non ad una ben definita negatività umana, bensì a un fattore d’invenzione “sociale” riferito a condensati di immaginazione/fantasia tutt’altro che marginali sempre nel delinearsi del figurale dell’esistere umano. Ma non è su questo che voglio insistere, poiché mi interessa qui rilevare, come suggerisce Zanini, la presenza di una attenzione seria da parte degli studiosi tedeschi interni in un qualche modo al discorso dell’ordoliberalismo all’antropologia filosofica moderna, di un occhio di riguardo che percepisce alcune questioni in maniera diversa dall’antropologia economica “negativa” a cui ho fatto cenno richiamando il testo di Gentili.

In questa prospettiva spicca l’impegno scientifico di Alfred Müller-Armack, già attento nel suo testo del 1932, Entwicklungsgesetze des Kapitalismus, all’antropologia plessneriana e in particolare, a me sembra, al capitolo più ‘filosofico’, il settimo, di I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’an- tropologia filosofica (il capitolo su La sfera dell’uomo). Müller-Armack concentra il suo sguardo sui processi sociali di sviluppo, sulla loro dinamicità, sulla base della convinzione che il ricorso inevitabile ad una “teoria della storia” non possa che rinviare al piano decisivo dell’antropologia filosofica, compresa come quella corrente di ricerca in grado di individuare, nel confronto con gli altri gradi della vita organica, la specificità umana proprio a partire dalla sua “posizionalità eccentrica” o, per dirla diversamente, dal compito mai pienamente risolvibile di combinare pienamente la costitutiva “apertura al mondo”, l’essere weltoffen, con il bisogno materiale di delineare ambienti artificiali di esistenza, indispensabili per il perseguimento di una sempre più positiva conservazione in vita. È tale compito a fare storia, che risulta così, da parte propria, come un movimento incessante che non può essere prefissato e che com-prende al suo interno tutte le manifestazioni reali e anche potenziali di un essere vivente che ha in sé, nella sua natura e per il suo “spirito”, le risorse indispensabili per andare oltre ogni vincolo con pretese di durata senza fine. È la produzione del finito, della fine sotto veste storica, a porsi allora come oggetto di una teoria della storia liberata da qualsiasi ipoteca meta-fisica contrassegnata dall’assegnazione/imposizione di fini. Si delinea qui una particolare “antropologia della storia”, che a mio parere risulta da una visione sociologicamente avvertita del proporsi dell’umano come espressione insieme di un piano di “carenza” (il “negativo” dinamicizzato, se si vuole…) e di un altro piano che rinvia all’“eccesso pulsionale”, ancora con Gehlen, a quelle risorse naturali che si condensazione nella delineazione/elaborazione delle facoltà (dall’intelletto alla sensibilità, all’immaginazione…) che aprono l’essere umano al “mondo”, che rendono l’umano una dimensione di variabilità su sfondo appunto “storico”.

Zanini ricostruisce il percorso della ricerca complessiva di Müller-Armack, soprattutto laddove perviene alla formulazione del tema della Soziale Marktwirtschaft, attraverso passaggi appunto segnati dal confronto con l’antropologia filosofica che si fa antropologia della storia, transiti contraddistinti dalla elaborazione del rapporto di tensione tra economia e religione, tra immanenza e trascendenza. Passaggi che hanno come elemento di riferimento il motivo ordoliberale della Wirtschaftsordnung e che però, proprio in ragione anche (e non soltanto, ovviamente…) del rapporto con l’antropologia filosofica, vanno nella direzione della formulazione di quel concetto di Soziale Marktwirtschaft che nella versione degli anni ’50 si rende ancora più concreto nel ragionamento su come le forze economiche non possano assicurare un più di comunità ai popoli europei senza il necessario ricorso alla realizzazione di istituzioni politiche all’altezza di un compito così difficile come quello di integrare intenti politici spesso assai distanti gli uni dagli altri. Il sociologo di Köln presenta a tal fine l’idea di uno “stabilizzatore politico-congiunturale”, in grado cioè di armonizzare le politiche generali dei diversi Stati con le finalità della cooperazione internazionale. Zanini ne ricostruisce, di tale tentativo, di tale proposta, le ragioni e le difficoltà insite nello sforzo-processo della realizzazione di unità, per concludere nei seguenti termini: “Era il 1951, e il rapporto tra ragionevolezza economica e riluttanza politica era, comprensibilmente, esplicita condizione di ogni Vertrag europeo. Il giudizio afferrava però le radici della questione, nel profondo, e delineava il profilo indeciso e indecidibile della sagoma dell’Europa a venire. Questo il punto: il politico era qualificato economicamente, ma l’integrazione economica non poteva decidere se non per il compromesso, del quale era presupposto la differenza d’interessi nazionali e conseguenza l’indecidibilità politica comunitaria. Dunque, un circolo vizioso, mai risolto. E a questo destino non si sarebbe sottratta la Soziale Marktwirtschaft, se esportata. Anzi essa l’avrebbe ribadito in pieno. Eppure, ancora nei tardi anni Settanta del Novecento, Müller-Armack nutriva la speranza che l’economia sociale di mercato rappresentasse ‘la concezione di una futura politica economica europea’. Sempre a prescindere, chiaramente, dalle ‘richieste vaghe’ di un’unica moneta e di un unico Stato” (pp. 468-469).

Considerazioni molto nette e condivisibili, che restituiscono una fase precisa dei rapporti tra l’economia e la politica, tra la Germania e l’Europa, che in parte sta ancora alla base della nostra storia più recente e del nostro stesso presente. Quest’ultimo e il passato prossimo forse vanno affrontati con delle complicazioni di studio, riferite proprio agli ultimi decenni, che necessitano di altri concetti, accanto a quelli rapportabili alla stagione “nobile” dell’ordoliberalismo, in grado di rinnovare, all’interno di una “teoria della società”, l’indagine sul nesso di economia e appunto società, laddove la dominante concettuale sia sempre quella del riconoscimento degli intrecci essenziali di stabilità e instabilità, di dipendenza-da e di capacità inventiva. In questo senso, a me sembra che l’antropologia filosofica che si fa antropologia storica possa fornire ancora strumenti utili per cogliere segnali decisivi dell’eventuale manifestarsi del possibile, dei potenziali di trasformazione radicale, nell’ambito di ciò che appare, soltanto però a prima vista, rigorosamente istituito, definitivamente “fatto”.

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