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losguardo

L’algoritmo pensante

Recensione di Remo Trezza

C. Barone (a cura di), L’algoritmo pensante. Dalla libertà dell’uomo all’autonomia delle intelligenze artificiali, Il pozzo di Giacobbe, 2020

Barone a cura di Lalgoritmo pensante. Dalla libertà delluomo allautonomia delle intelligenze artificiali 350x510Il volume qui recensito, sicuramente di grande attualità, fa parte della collana dei Quaderni di Synaxis dello Studio Teologico ‘S. Paolo’ di Catania ed è stato curato da Christian Barone, docente di Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma e presso lo Studio Teologico su menzionato.

Contributo ‘delicato’, che appassiona e determina una certa dose di curiositas, stimola la riflessione e cerca di scandagliare le problematiche relative all’avvento delle nuove tecnologie (I.A., algoritmi, robot, etc.…), ponendosi in un dialogo di ordo ordinans, sempre più intersezionale con i principi fideistici della cristianità e dei valori etici fondanti la cattolicità.

L’hortus conclusus, ovvero la struttura del volume, caratterizzata - secondo chi scrive - da un divenire argomentativo mai stancante, ma sempre avvincente e dinamico, può essere sintetizzato come di seguito.

La premessa (pp. 5-19), del curatore dell’intera opera, si apre con una citazione - nell’opinione di chi recensisce - lapidaria. Seppur la ‘quote’ sia di Isaac Newton ed il testo in italiano, si preferisce riportare la versione in lingua latina della frase, avente il medesimo significato, di qualcuno che di storia se n’è inteso, a motivo della più concisa rappresentazione della realtà: ‘nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes’. Ciò non fa altro che immergere il lettore in questioni novae, ma sempre veterae. Cosa c’è di notevolmente ‘nuovo’ nelle ‘nuove tecnologie’? Punto nodale della premessa è fondato sul ‘pensiero umano’, che - specie nella nuova dimensione dell’innovazione - si scontra con la possibilità di essere sostituito - in quanto homo sapiens - dai procedimenti decidenti e decisori di automi.

Rilevante, quasi come se il curatore dell’opera volesse portare con mano il lettore per le vie impervie delle intelligenze artificiali, è l’attenzione posta sui concetti di machine learning, neuroscienze, neuroimaging, artificial neural networks, deep learning etc..., attraverso l’approccio definitorio dei quali, nasce un primo grande interrogativo: chi programma le macchine? Quali capacità deve avere il programmatore? E chi scrive aggiunge: quale responsabilità giuridica sarà imputabile al programmatore qualora vi sia una decisione non conforme alle variabili algoritmiche introitate?

Con le parole del curatore, anche chi scrive si chiede se gli algoritmi saranno capaci (se non lo siano già) di rivoluzionare il mondo sociale, in una dimensione antropologica del tutto mutata ed in una dimensione fenomenologica del tutto trasformata. Una riflessione assai convincente è relativa ad una nuova visione della ‘performatività’. Come può cambiare il mondo, che ha dei suoi linguaggi - alcuni dei quali totalmente fondati sulla naturalità - alla luce dell’artificiosità delle macchine? Quale orizzonte per questo tecno-mondo? È solo una ‘elucubrazione fantascientifica’, una ‘fervida immaginazione trans­umanista’ o qualcos’altro? Come deciderà una macchina? Chi immetterà nelle macchine i valori umani fondanti, i principi etici su cui si fonda la nostra essenza, affinché possano decidere? Il curatore, inoltre, solo nella parte conclusiva della premessa, ricorda che il volume - di per sé collettaneo - racchiude i contributi di eminenti studiosi offerti al Convegno di studi intitolato Dio, macchine, libertà celebrato dallo Studio Teologico San Paolo e dall’Università degli Studi di Catania.

Il primo capitolo (pp. 21-38) racchiude le osservazioni di Giuseppe O. Longo, docente emerito di Teoria dell’informazione presso il Dipartimento di Ingegneria e Architettura dell’Università degli Studi di Trieste, incentrate principalmente sul connubio uomo-tecnologia, sulle origini storiche dell’intelligenza artificiale e sulla ‘metamorfosi paradigmatica’. La ‘delega tecnologica’, sulla quale si nutrono dubbi circa l’estensione possibile di rischi, annichilisce man mano l’agire dell’uomo, lo calpesta nelle sue attività intellettive, lo divora completamente, imbrigliandolo - alcune, ma ormai fin troppo spesse, volte - nel vortice dell’iper-tecnologismo. L’uomo viene sempre più colpito da una quantità - a dire il vero incalcolabile - di dati e di informazioni. Si potrebbe dire che si tratti di una vera e propria ‘bomba informativa’, che quasi sfocia nella c.d. ‘datacrazia’. La parte più rilevante del primo capitolo è relativa al ‘libero arbitrio’, dalla cui personale concettualizzazione dell’Autore discende l’analisi del caso di Phineas Gage e dell’interessantissima teoria del ‘determinismo’. Si passa, poi, a quella che l’Autore definisce ‘vergogna prometeica’, ovvero alla concezione che - secondo l’analisi di chi scrive - può essere sintetizzata così: l’uomo ‘impotente’ nei confronti della ‘potenza’ irraggiungibile della macchina. Verso la fine del suo analitico contributo, il professor Longo - in maniera del tutto condivisibile - affronta il tema dell’anonimato che in rete di certo non esiste. Ciò pone una serie di riflessioni ‘serie’ intorno al tema della protezione dei dati personali nella ‘virtualità’ che non va mai - salvo casi eccezionali - fatta prevalere sulla ‘realtà’. L’analisi - si ribadisce, acuta - dell’Autore termina con una considerazione di certo non fondata sulla positività: «in questo mare magnum della comunicazione mediata dalla tecnologia digitale, rischiamo davvero di naufragare [...] qualunque grado di libera scelta ancora abbiamo, lo stiamo rapidamente perdendo». Ciò induce a pensare che l’uomo debba salvaguardare il suo essere uomo - senza se e senza ma - non facendosi ‘schiavizzare’ dagli automi, ma sfruttandone l’occasione per far sì che essi lo passano ‘servire’, ‘aiutare’. Diventi la macchina un mezzo, ma non il fine. Vi sia ‘funzionalismo’, mai ‘schiavismo’.

Il secondo capitolo (pp. 39-56), redatto da Paolo Arena, docente di Automatica presso il Dipartimento di Ingegneria elettronica e Informatica dell’Università degli Studi di Catania, è, dal punto di vista strettamente metodologico, ineccepibile. Si muove, infatti, secondo una ‘triplice’ direzione. La prima, è fondata sui ‘robot per l’uomo’; la seconda, invece, sui ‘robot tra gli uomini’; infine, la terza sui ‘robot con l’uomo’. È una concezione triadica di sicuro interesse, dato che l’Autore - al quanto appassionato della materia - discorre, in una maniera del tutto costruttivistica, di concetti tecnici, ma attraverso esemplificazioni - quasi paraboliche - che rendono la strada per la comprensione più fluida e chiara al lettore. L’argomentazione è incentrata sul lavoro/ausilio delle intelligenze artificiali, sulle protesi mediche e sui robot umanoidi di ‘ispirazione biologica’. Si può dire che l’Autore si soffermi sulla c.d. ‘biologia meccanica’. La presa d’atto è che si è di fronte ad una vera e propria ‘rivoluzione industriale’. Condivisibile l’affermazione secondo cui «è compito delle istituzioni garantire l’uso etico di tali potenti strumenti». Viene in luce il ‘nocciolo duro’ del tema, ovvero la relazione eticità-meccanicità. Nelle sue conclusioni, l’Autore enfatizza che ‘la spinta positiva della scienza e della tecnologia, innate nell’uomo al principale scopo di creare oggetti, manufatti, dispositivi e complessi sistemi artificiali per contribuire al miglioramento della qualità della vita, ben fa quindi da risonanza al perenne anelito dell’assemblea cristiana’ per cui l’onnipotente Dio abbia affidato all’uomo l’opera della creazione e posto al suo servizio le immense energie del cosmo, il quale dovrà collaborare a un mondo più giusto e fraterno. Vien da chiedersi se le nuove tecnologie siano in grado di raggiungere una ‘giustezza meccanica’. Oppure la giustizia è un concetto - non assolutamente astratto - rinvenibile solo nell’ontologia naturale dell’essenza umana?

Il terzo capitolo del lavoro (pp. 57-84), scritto da Salvatore Amato, docente di Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania, parte - in maniera avvincente, appassionata e appassionante - dal concetto di ‘personalizzazione della persona’, ovvero si interroga su come la materia sia mai potuta diventare intelligente nel corso della sua evoluzione. Domanda retorica quella dell’Autore? Dietro la personalizzazione vi è - sine dubio - la ‘teocrazia’. Non si dimentichi «[...] a sua immagine e somiglianza li creò». Il Logos (la teologia stricto sensu) è per l’Autore la risposta al ‘riduzionismo materialistico’. Partendo da un rifiuto della concezione poc’anzi delineata, Egli si sofferma sulle vicende assai complesse che investono il cervello umano, il quale - in buona sostanza - finirebbe per apparire solo «un fenomeno chimico, regolato dalla fisica. L’Io, il soggetto, la coscienza e le stesse singole decisioni non sarebbero altro che l’esito imponderabile delle connessioni tra le reti neuronali, la conseguenza imprevedibile delle qualità emergenti di una molteplicità di particelle biochimiche». È questo ciò che si vuole raggiungere? Un’approssimazione dell’Io e una superficialità dell’Essenza? L’Autore - bisogna riconoscerlo, in maniera pregevole - si pone due domande di rilevante caratura riflessiva: «La nostra intelligenza sarà la loro (delle macchine) intelligenza? La nostra coscienza sarà la loro coscienza?». Sulla stessa scorta interrogativa dell’Autore, si può proseguire con un terzo punto di domanda: «La nostra dignità sarà la loro dignità?» In chiave ‘evoluzionista’, il contributo passa al rapporto tra Dio e caso, inter-relazionate con l’intelligenza artificiale. Da Goethe, l’Autore approda a Gianmarco Veruggio, padre della robotica italiana, passando per la c.d. ‘translatio creativitatis’ di Sloterdijk e ritornando al Logos inziale, grazie al quale l’uomo, in relazione con Dio - Summum Bonum - non può che tendere al bene. La macchina, ci si chiede, se non ‘sorvegliata’ dall’uomo, tenderà mai al bene? Ma l’uomo, ancor prima della macchina, sa cosa sia il bene e sa come si fa a raggiungerlo? Attraverso un’esegesi etimologica della parola daimon, prendendo spunto - ma forse esagerando, ed è lo stesso Autore ad ammetterlo - dal De Civitate Dei di Sant’Agostino, Egli arriva a definire il daimon - nella sua radice greca - come ‘scienza’. «La scienza gonfia, la carità costruisce». Ebbene, anche in tal caso, conosceranno le macchine l’emblema altisonante della carità? Sanno essere caritatevoli con l’uomo? Forse dovranno insegnare all’uomo la tecnica, ma a quest’ultimo toccherà - come principio indissolubile di moralità - insegnare loro la carità. Le intelligenze artificiali senza carità sono assimilabili - secondo l’Autore - al concetto di default. Ma a quale default si vuole fare riferimento? Ad un default tecnologico oppure ad un default esistenziale? In accordo con il pensiero dello scrivente, l’Autore, nelle battute finali del suo iter logico-argomentativo, ribadisce la ‘funzionalizzazione’ delle macchine e la loro ‘inclinazione’ al soddisfacimento dei bisogni dell’uomo, senza che questo ne diventi ‘assuefatto’. Coerentemente, poi, Egli afferma che

i giuristi affrontano il problema delle macchine intelligenti, cercando di configurare una sorta di personalità giuridica e dignità ‘numerica’, in analogia con la personalità e dignità umana, proprio quando vacillano i presupposti (libertà e responsabilità) dell’attribuzione della personalità giuridica agli esseri umani.

La scienza, per poter essere Vera e Giusta, deve essere una ‘scienza caritatevole’. Siamo davvero liberi? O il nostro libero arbitrio, come affermato anche nel primo capitolo, soggiace ad un determinismo meccanicistico che ci imbriglia nell’immobilismo esistenzialista?

Il quarto capitolo del lavoro (pp. 85-102), di estrema importanza per chi scrive, in quanto relativo all’apparato normativo ‘intelligente’, è stato redatto da Giovanni Di Rosa, docente di Diritto privato e di Biodiritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania. L’Autore fornisce una serie di indicazioni sul quadro giuridico - assai dirompente e soprattutto di matrice europea - relativo alle nuove tecnologie e - in special modo - alle responsabilità giuridiche discendenti dal malfunzionamento delle macchine o, ancora di più, dalle errate decisioni frutto dell’articolato e assai complesso procedimento algoritmico. Si è d’accordo sul fatto che non vi sia una definizione univoca di robot sul versante tecnologico e sulla concezione dell’homo tecnologicus come ‘figura ibrida’. Dal punto di vista del congegno responsabilistico, l’Autore ben sottolinea che le categorie della responsabilità variano a seconda che si tratti di robot tele-operati, robot autonomi, e robot cognitivi. Egli, inoltre, è palesemente contrario - si evince dalle marcate osservazioni - all’attribuzione della ‘soggettività giuridica’ ai robot, anche se le nuove indicazioni europee sembrano convergere verso una possibile adozione di una personalità elettronica. Inoltre, a tal proposito, si è proprio espresso il Comitato economico e sociale europeo, il quale si è detto contrariato ad una simile attribuzione. Il robot, seppur cognitivo, ha una cognizione talmente tanto elevata che possa ad esso essere attribuita addirittura una ‘capacità giuridica e di agire’? Si dovrebbe quasi prevedere un codice civile degli automi? Se così fosse, ci si troverebbe davvero davanti all’‘affievolimento’ della persona umana, intorno a cui ruota tutto il sistema di protezioni e di tutele del codice sostanziale, ma specie della Carta costituzionale. Molto interessante - seppur in chiave discorsiva e solo in alcuni punti risolutiva - è la panoramica sui risvolti della perpetrazione dei danni e delle conseguenze risarcitorie, quantificatorie e assicuratorie. La responsabilità degli automi, in definitiva, va ricercata nelle categorie giuridiche già esistenti o nella creazione di un apposito strumentario? Pare che l’idea dell’Autore - come quella di chi scrive - è di prevedere un sistema di responsabilità del produttore o, quanto meno, di una responsabilità del programmatore. Infine, il software dovrà essere considerato un bene mobile oppure no? I proprietari delle macchine, si aggiunge, dovranno dotarsi di un’assicurazione obbligatoria - esattamente come quella per le automobili - e, si spera, dovrà essere anche previsto un Fondo di garanzia per il risarcimento dei danni per quegli owners che non se ne siano dotati. Di certo, la materia civilistica in tal senso, collegata all’intelligenza artificiale, è ancora sotto la lente di studio dei più e ci si aspetta che i fatti dipendenti da strumenti elettronici possano trovare quanto prima certa e decisa tutela. Ex facto oritur ius. L’opinione personale è che bastano le categorie giuridiche esistenti per incasellare i ‘fatti elettronici’ nelle fattispecie ad essi collegabili, attraverso ovviamente l’adozione di uno sforzo interpretativo ad hoc.

Il quinto capitolo del saggio (pp. 103-116), scritto da Antonio Allegra, docente di Storia della Filosofia presso il Dipartimento di Scienze umane e sociali dell’Università per stranieri di Perugia, si apre con un titolo stimolante: Transhomo Deus. Forme tecnoutopiche di reincantamento del mondo. Lampante è l’idea per cui l’Autore abbia voluto discorrere circa il ‘trans-umanesimo’ che - nel mondo del divenire odierno - sempre più si affianca alla post-modernità e al post-umanesimo. Tale concetto è strettamente ancorato alla dimensione ‘futuristica’ e a quella dell’‘immortalità’. Non esiste il futuribile? Esiste solo il futuro? L’Autore - in completa sinergia con la mens riflessiva dello scrivente - afferma che «[...] si tratta di una narrazione teologica. Al suo centro c’è l’uomo, ma l’uomo nella misura in cui è capace di fare di se stesso qualcosa di diverso, di più». Espressiva ed eloquente è l’immagine dell’‘antropocentrismo’ a scapito del ‘meccanocentrismo’. O meglio — secondo le riflessioni di chi scrive — ci si potrebbe augurare una concezione ‘antropo-meccanica’, ovvero quella fondata sulla relazione uomo-macchina, laddove il primo sia sempre ‘agente’ e mai ‘succube’ della seconda. Per l’Autore, le mitologie transumane sono l’immortale e il cyborg, al quale la prima è inscindibilmente connessa. Tutto si sintetizza nella domanda se sia possibile che l’uomo, anche nella sua corporalità o, meglio dire, nella sua materialità corporale, possa in qualche modo farsi aiutare dalle macchine per migliorare la sua esistenza. La risposta è certamente positiva, ma tutto ciò trova dei limiti specifici nella dignità umana che è e sempre sarà il baluardo su cui poggia l’impianto giuridico italiano. Di fronte a tutto ciò - in sintonia con l’Autore - si ribadisce che «il compito intellettuale non può che essere quello del richiamo inattuale alla cautela, alla misura, alla tradizioni demodè dell’umanesimo, insomma allo sguardo criticamente ortogonale rispetto al movimento».

Il sesto capitolo del lavoro (pp. 117-123), redatto da Andrea Vella, dottore di ricerca in Filosofia e Storia delle Idee presso l’Università degli Studi di Catania, esplora il campo - assai inusuale - dell’applicabilità alla macchina del senso della fede. Un automa può mai avere in sé il senso della religione? Domanda forte perché bisognerebbe che la macchina, oltre ad essere dotata di intelligenza, sia dotata anche di un’anima. Ma l’anima elettronica può mai esistere? In definitiva - in chiave assolutamente nuova e disincantata - l’Autore ritiene di poter rispondere a tali domande mediante tre risposte. La prima è quella di un «imperativo categorico à la Kant»; la seconda è ispirata alla «dottrina aristotelica del giusto mezzo», ovvero bisognerà dotare l’intelligenza artificiale di buon senso; la terza, basata sull’ipotesi di uno stretto legame tra religiosità e moralità, «sarebbe quella di dotare le macchine di un senso di religiosità». Infine - forse in un’accezione assai provocatoria - ci si chiede se dotare l’I.A. dei miracoli possa aiutare a sviluppare in essa la fede. Riflessioni sicuramente curiose, ma che non troveranno appiglio in una dimensione di ‘assenza di animismo’ di cui sono dotate le macchine. Potrebbe essere solo l’uomo di fede (chi?) a poter introdurre la fede (quale?) nella macchina, ma ci si rende conto che sono solo delle ‘superfetazioni’.

L’ultimo capitolo del volume, il settimo (pp. 125- 134), si chiude con le riflessioni scritte di Giovanni Basile, docente invitato di Filosofia presso lo Studio Teologico San Paolo di Catania, il quale nel suo ‘Cur homo machina?’ tenta di far comprendere la dimensione salvifica della fede, in una visione squisitamente teologica, ponendo in risalto il rischio del ‘sovvertimento umano’ e della ‘sovversione religiosa’ per mezzo delle intelligenze artificiali. L’Autore afferma che ‘quello che stiamo vivendo con le I.A. non è altro che l’attuazione dell’anti-destino degli uomini, l’inatteso che si è fatto accadimento’. L’homo faber è uomo finito, è uomo che non si salva mediante le macchine (anche se crede il contrario), ma solo attraverso quell’Uomo che ‘ci salva’. L’I.A. porterà mai alla noia? L’I.A. ci guarirà? L’I.A. ci ‘grazia’? Infine - per riportare delle osservazioni dell’Autore che molto convincono chi scrive —

nel gioco di ruolo delle I.A. contro gli uomini, ne sono certo, [...], saranno gli uomini ad avere la meglio. Anche perché saremo noi ad assegnare alle macchine una etica perfetta, una intelligenza perfetta, una moralità perfetta, persino probabilmente una fede perfetta, e sarà per questo che alla fine saranno le macchine a rendersi conto che gli uomini deludono poiché insaziabili [.].

Secondo quest’ottica, in buona sostanza, l’uomo deve essere il ‘controllore’ delle azioni meccaniche, decidere con la sua testa in quanto avente una ‘dignità intellettiva’ che discende direttamente dalla ‘dignità dell’essere’ e perfezionare la macchina per il raggiungimento di una sua più serena e tranquilla esistenza. Tutto ciò - e si conclude - conferma anche quanto sostenuto dallo scrivente, ovvero che la responsabilità giuridica delle macchine è del programmatore (introiettore, il deus ex machina), a meno che non si tratti di meri malfunzionamenti (in tal caso potrà essere imputata al produttore).

La mia considerazione - davvero per chiudere - è un plauso a chi ha curato questo volume che, seppur piccolo nella quantità, trasuda qualità di riflessioni, qualità di stimoli culturali e qualità di insenature argomentative. Un volume che si innesta in un solco - ormai sempre più acceso - di iniziative, opinioni, tesi e teorie avallanti una posizione piuttosto che un’altra, ma in ottica sempre più sinergica e in una dimensione totalizzante di arricchimento del sapere scientifico.

Prendendo spunto dal sillogismo aristotelico e dal brocardo di Santi Romano, si può affermare che: Ubi homo, ibi machina; ubi machina, ibi ius; ergo, ubi homo, ibi ius. Alla fine è sempre l’uomo, soggetto dell’‘umanità’, ad avere la responsabilità morale di regolare il caos sregolato della ‘tecnicità’ con il cosmos della ‘giuridicità’.

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