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Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali

di Luca Benedini

Spunti vitali per il presente e per il futuro a partire dai complessi rapporti tra antichità comunitaria e patriarcato, tra il democratico “socialismo scientifico” marx-engelsiano e i “marxismi” spessissimo fasulli e autoritari, tra l’attuale società ipercomplessa e lo sguardo di don Milani e del pensiero olistico, con alcune osservazioni di fondo sull’attuale drammatica crisi della “sinistra” e sulle vicende storiche e politico-culturali della filosofia dialettica

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La tensione storica tra democrazia e società patriarcale

In occasione della traduzione italiana di un’opera di Robert Eisler redatta nell’originale inglese a metà ’900 (Uomo diventa lupo, pubblicata da Adelphi nel 2019), Michelangelo Cianciosi sintetizzava nella rivista Il Senso della Repubblica dell’agosto 2020 una serie di considerazioni storico-antropologiche presentate appunto in quel testo dall’autore austriaco: in particolare, il fatto che sin dalla preistoria umana si trovano ampie ed ineludibili tracce sia di popolazioni pacifiche ed evidentemente ricche di spirito collaborativo sia di popolazioni violente e predatrici. In tal modo – concludeva Cianciosi – «Eisler ci pone in maniera quasi brutale nudi di fronte alla nostra libertà: far parte di una società di competizione spietata e di sopraffazione o costruirne una di rapporti armonici e pacifici è una scelta a portata dell’essere umano, non un destino» [1].

In pratica, quegli apporti di Robert Eisler riformulavano su altri piani osservazioni storiche precedenti come quelle esposte da Lewis Henry Morgan e da Friedrich Engels nella seconda metà dell’Ottocento e, a loro volta, sono stati approfonditi in seguito in varie direzioni soprattutto da autrici come Marija Gimbutas e Riane Eisler e più recentemente da David Reich [2]. Il fulcro della questione sta nel fatto che a partire dalla seconda metà del ’900 si sono moltiplicate le prove archeologiche (e indirettamente paleogenetiche) che indicano in un’ampia parte del continente eurasiatico l’antica presenza – fino solitamente intorno ai 5 millenni fa – di società pacifiche, solidali, non sessiste e non pesantemente classiste.

Negli scavi archeologici riguardanti strati di terreno precedenti a quell’epoca di cambiamento, infatti, si trovano tipicamente tracce di centri urbani privi di mura esterne di protezione e gli insediamenti risultano ricchi di reperti artistici che celebrano la fertilità soprattutto femminile e non di rado anche la natura e la sensualità, mentre vi è un’estrema scarsità di reperti costituiti da armi o relativi alla celebrazione di guerrieri, di combattimenti, ecc.. Dopo quell’epoca il mutamento è praticamente totale: si moltiplicano le fortificazioni attorno ai centri urbani e i reperti mostrano un’intensa enfasi sulle armi, sulla gloria dei guerrieri, sulla celebrazione dell’autorità e in generale del ruolo maschile.

Il fattore-chiave che spinse a un tale ribaltamento sociale e culturale appare esser stato costituito da cambiamenti climatici che in quel periodo provocarono in certe regioni dell’Asia un pesante inaridimento e altri effetti ambientali dannosi per le attività agricolo-pastorali. In quei territori divenuti stepposi o semidesertici appaiono essersi evolute, così, tipologie di società orientate più alla conquista armata di altri territori e ad una gerarchia autoritaria e bellicosa che a forme di cooperazione e di “buon vicinato” con le popolazioni contigue e ad una gestione solidale e collaborativa del territorio locale. Un fattore circostanziale che pare aver contribuito a quel ribaltamento è il fatto che a quell’epoca praticamente non ci fossero più dei territori considerevolmente fertili e accoglienti che fossero anche scarsamente abitati: i precedenti millenni di ripetute migrazioni e di sviluppo demografico e produttivo avevano fatto sì che la specie umana si fosse già diffusa in modo ampio sostanzialmente in tutto il pianeta.

Parallelamente a ciò, si sa che nelle Americhe vi sono state popolazioni estremamente bellicose e molto inclini ai sacrifici umani – come gli incas nelle Ande e la sequenza incentrata su olmechi, toltechi e aztechi nell’odierno Messico – che si sono imposte con la violenza su culture pacifiche preesistenti che si ispiravano a figure leggendarie (note principalmente con i rispettivi nomi di Quetzalcóatl e Viracocha) portatrici di saggezza, di solidarietà sociale, di amorevolezza, di conoscenze tecniche e appunto di pace. E anche in Africa vi sono tracce locali di fenomeni simili.

Si potrebbe pensare che in questi scontri tra popolazioni si sia in un certo senso testata la generale capacità culturale e tecnica delle une e delle altre, così che alla fine vinsero i più evoluti e in questo modo si ebbe una sorta di sviluppo e progresso della società umana attraverso metodi per così dire darwiniani. Ma le cose non stanno per niente così. L’esempio dell’isola di Creta – con la sua civiltà nota comunemente come “minoica” – è emblematico a questo riguardo: negli anni intorno al 1900, degli scavi archeologici condotti nell’isola in modo casuale lasciarono stupefatti gli storici e gli archeologi perché rivelarono l’esistenza di una cultura, risalente a circa 3-4 millenni prima, che da tantissimi punti di vista era molto più evoluta di ogni altra società di quell’epoca e che però sembrava emergere dal nulla, essendo qualcosa di totalmente sconosciuto. Si scoprì poi che quella cultura era stata letteralmente distrutta dai dori (una delle popolazioni pastorali delle steppe asiatiche che si erano trasformate in invasori di altri territori), i quali erano molto meno progrediti sia dal punto di vista tecnologico-produttivo complessivo che da quello artistico-letterario, ma erano di gran lunga più potenti dall’esclusivo punto di vista degli armamenti e delle strategie belliche ed erano estremamente sciovinisti, caratterizzati cioè dalla tendenza a detestare e rifiutare ogni civiltà diversa dalla propria....

In pratica, le scoperte degli ultimi 150 anni hanno fatto “piazza pulita” di idee estremamente diffuse, come innanzi tutto il fatto che il mondo fosse sempre stato patriarcale, classista e guerresco tranne forse per una primissima fase estremamente primitiva – quindi trascurabile dal punto di vista della modernità – e in subordine il fatto che, se per caso le cose fossero andate altrimenti e ci fosse stato qualcos’altro di corposo prima del bellicoso e gerarchico patriarcato, allora l’avvento di quest’ultimo avrebbe comunque portato con sé un progresso per lo meno tecnico, economico-produttivo, pragmatico.... Ciononostante, si tratta di idee ancora molto presenti nella società odierna, grazie alla diffusa ignoranza storica e all’evidente interesse del “sistema” a mantenere in vita tali idee anche se ineludibilmente erronee, così da poter dire: “È sempre stato così...”.

Democrazia antica, sulla base della parentela,
e democrazia moderna, sulla base della geografia

Riguardo alla democrazia, mentre moltissimi pensano tuttora che l’abbiano inventata gli ateniesi del 1° millennio a.C., la realtà è che tipicamente quelle svariate popolazioni pre-patriarcali appaiono essere state profondamente democratiche, come hanno ampiamente mostrato con un’ampia serie di dati Morgan ed Engels già appunto nel tardo ’800. L’Atene classica ha avuto semplicemente il merito di essere abitata forse dalla meno sciovinista e più collaborativa tra le varie popolazioni delle steppe che durante i due millenni precedenti avevano invaso a più riprese quasi tutto il continente euroasiatico: gli ioni. Quella democrazia ateniese – faticosa, problematica e sempre a rischio di venire sostituita da qualche forma di tirannide – era sostanzialmente il riemergere delle modalità democratiche che pressoché certamente erano presenti in un gran numero di territori prima delle invasioni in questione e che gli invasori stessi avevano nel loro passato prima di divenire culture conquistatrici, strutturate con modalità sempre più gerarchiche....

Oltre tutto, quella ateniese era una democrazia estremamente parziale e relativa, dal momento che ne erano esclusi non solo coloro che erano ridotti in schiavitù, ma anche tutte le donne di stirpe ateniese, gli immigrati e i liberti (tre gruppi sociali che comunque avevano almeno il diritto alla libertà). E a questo riguardo si tenga conto che – come scrisse ad esempio Engels – in media ad Atene, «al tempo del suo massimo splendore, [...] per ogni cittadino adulto di sesso maschile c’erano [...] almeno diciotto schiavi e più di due residenti senza pieni diritti», oltre ovviamente ad almeno una donna ateniese....

Al contrario, nella democrazia vissuta dalle popolazioni in cui il patriarcato non esisteva ancora – o non si era ancora consolidato ­– la consuetudine era che donne e uomini avessero pari diritti e che non vi fossero schiavi (consuetudine tuttora valida in vari popoli tribali o comunque non apertamente patriarcali, che vivono nei diversi continenti extraeuropei). Il limite di quella democrazia era la sua strutturazione sulla base della parentela (attraverso la gens), una base che alla fin fine non poteva comunque permanere in un mondo di facili spostamenti, di intensi commerci e di innovazioni tecnologiche [3].

Ma dalla democrazia gentilizia si sarebbe potuti passare direttamente – anche allora – ad una società basata su forme di democrazia locale coordinate tra loro su scale più ampie, se non si fossero inserite queste ondate di invasori violenti e molto spesso desiderosi di comandare sugli altri. Rimane vero che prima o poi qualunque società democratica avrebbe dovuto comunque affrontare pressanti tensioni derivanti dal tendenziale aumento della pressione demografica, dalla disparità di risorse tra le varie regioni del globo, dai disagi e dalla fatica associati specialmente a certe attività produttive e/o da eventuali problematiche climatico-ambientali. Nella nostra era post-glaciale, a quanto pare, ciò è avvenuto in gran parte del mondo a partire dagli ultimi millenni a.C.....

 

Un continuo braccio di ferro

Con l’arrivo dell’epoca degli imperi – come per esempio quelli macedone, persiano, cinese, romano e inca – e poi col medioevo, la democrazia riapparve soltanto molto saltuariamente e in località più che altro isolate (fatta eccezione appunto per una serie di piccole popolazioni rimaste stabilmente organizzate in modo tribale, specialmente all’interno delle foreste pluviali) [4]. Ciò fino alla progressiva conquista moderna del suffragio universale da parte dei lavoratori. Ma – come ha scritto mezzo secolo fa uno storico “classico” come Geoffrey Barraclough in Guida alla storia contemporanea (Laterza, 1971) – negli «Stati Uniti [...] il suffragio (per i bianchi, non per i neri) era già universale per l’elettorato maschile intorno al 1825». E, fin dal «1828, erano già ben delineati i contorni della macchina partitica che avrebbe dominato in futuro: la macchina di capi, dirigenti e cricche operanti con la concessione, la collusione e il clientelismo per prevalere nei congressi primari, per organizzare le liste elettorali e per manipolare comitati e assemblee» [5]. In Europa il percorso verso il suffragio universale fu più lento, ma, quando ci si arrivò, anche qui le formazioni partitiche di stampo borghese «furono in un batter d’occhio assoggettate ai voleri dei leader del partito», e nel giro di qualche tempo fenomeni analoghi si registrarono anche nei partiti dell’area cosiddetta socialista, nei quali «è noto che in pratica lo sviluppo di rigide oligarchie di partito ha ridotto a funzione puramente nominale il controllo della base».... Col tempo, esperienze analoghe hanno preso piede anche in moltissime altre parti del mondo, tendendo a perpetuare un’ormai plurimillenaria mentalità che intende la vita sociale come un’oligarchia che dirige e un popolo che è abituato a delegare.

In altre parole, la classista e sessista società patriarcale ha intrapreso ovunque un sotterraneo e asperrimo braccio di ferro con le classi popolari appena queste ultime sono riuscite a conquistare il suffragio universale: uno dei principali terreni di scontro è la democrazia stessa, che le élite dominanti cercano di svuotare il più possibile attraverso procedure istituzionali che favoriscano il costituirsi di caste politiche, burocratiche, ecc. facilmente controllabili da tali élite o pronte a trasformarsi esse stesse in élite anche economiche (come nel regime staliniano e negli altri che hanno seguito le sue orme in Cina, a Cuba, ecc.) [6].

I “cittadini comuni” dovrebbero difendersi con impegno e perseveranza da questi tentativi, ma – quasi ovunque – le cose fino ad ora continuano ad andare come sintetizzava Barraclough e soprattutto continua sostanzialmente a mancare la consapevolezza di come si possa costruire nei fatti una democrazia davvero degna di questo nome [7]. La posta in gioco è costituita dalla qualità della vita popolare e più in particolare dall’economia, che le élite dominanti stanno indirizzando verso un neoliberismo produttore di innumerevoli lavoratori disoccupati, precari e/o supersfruttati, oltre che superstressati, con enormi sofferenze popolari da un capo all’altro del globo e con la ben nota tendenza a pesantissimi danni ambientali planetari.

In questa sfida, al porre l’accento su tale qualità è associato evidentemente (e necessariamente) il passaggio ad una cultura ricca di solidarietà, ecologicamente sostenibile, creativamente impegnata per il “bene comune”, olistica, indirizzata allo sviluppo scientifico e – aspetto indispensabile se si vuole lasciarsi davvero alle spalle le impostazioni sociali di tipo gerarchico – basata sull’effettiva attuazione dei diritti umani: una cultura che grazie anche a tutte queste caratteristiche sia finalmente in grado di rispondere in maniere alternative ed efficaci alle pressanti tensioni che da millenni erodono il cammino della democrazia.


Note alla parte I
[1] Si tratta dell’articolo Il lupo dietro l’uomo - L’interpretazione di Robert Eisler, di Michelangelo Cianciosi (Il Senso della Repubblica, agosto 2020).
[2] Cfr. in particolare La società antica, di Lewis H. Morgan (del 1877), L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, di Friedrich Engels (del 1884), La civiltà della Dea - Il mondo dell’antica Europa, di Marija Gimbutas (Stampa Alternativa, 2 voll., 2012-13; orig. ingl. 1991), tre testi di Riane Eisler – Il calice e la spada (Pratiche, 1996; Forum, 2011; orig. ingl. 1987), Il piacere è sacro (Frassinelli, 1996; Forum, 2012; titolo originale: Sacred Pleasure) e Il potere della partnership (Forum, 2018; orig. ingl. 2002) – e Chi siamo e come siamo arrivati fin qui - Il DNA antico e la nuova scienza del passato dell’umanità, di David Reich (Cortina, 2019). Particolarmente significativi appaiono anche libri di Heide Goettner-Abendroth come Le società matriarcali - Studi sulle culture indigene del mondo (Venexia, 2013) e Madri di saggezza - La filosofia e la politica degli studi matriarcali moderni (Castelvecchi, 2020). Nel sito di “Sinistra in rete” si vedano pure due recenti interventi di Pierluigi Fagan su due libri di argomento storico scritti da Harald Haarmann (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/24673-pierluigi-fagan-la-questione-indoeuropea-e-la-nascita-delle-societa-gerarchiche.html” e “https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/24733-pierluigi-fagan-culture-dimenticate.html”, entrambi del gennaio 2023). Riane Eisler è anche lei di origine austriaca ed è omonima di Robert ma non sua parente in senso stretto.
Interessanti commenti specifici riguardanti alcuni aspetti del testo engelsiano qui ricordato (che venne realizzato a partire da un’ampia serie di appunti e annotazioni lasciati da Marx, scomparso nel 1883) sono stati espressi, alla luce sia delle successive scoperte storiche e scientifiche sia delle parallele elaborazioni del movimento femminista, da Kate Millett in La politica del sesso (Rizzoli, 1971), in particolare nel capitolo “La rivoluzione sessuale: prima fase 1830-1930”.
[3] Ovviamente, in un mondo di lenti spostamenti e di relazioni interetniche solitamente pacifiche (come appare essere stato il mondo pre-patriarcale), la democrazia basata sulla gens era anche funzionale in senso geografico. In pratica, è stato soprattutto con l’addomesticamento del cavallo e con la conseguente possibilità di spostamenti umani molto più rapidi che si è aperta la strada ad una progressiva divaricazione tra quella forma di democrazia e la sua funzionalità dal punto di vista geografico.
Alla progressiva e tendenzialmente inevitabile dissoluzione della democrazia basata sulla parentela e sui tentativi di impiantare al suo posto delle forme di democrazia a base geografica – tentativi che dopo l’avvento del patriarcato però sono di solito sfociati col tempo in società autoritarie, gerarchiche e bellicose, specialmente nelle regioni ricche di risorse economico-produttive, risultando quindi sostanzialmente falliti – Engels ha dedicato ampie parti della seconda metà del suo volume già citato L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (in pratica dal capitolo “La gens greca” in poi).
[4] Sulla presenza storica di culture intrinsecamente pacifiche e di forme locali di democrazia (specialmente in località economicamente marginali e relativamente povere di risorse) anche dopo la dissoluzione quasi generale della “democrazia gentilizia”, cfr. p.es. – oltre al già ricordato La società antica, di Lewis H. Morgan, e all’articolo di Engels Un caso scoperto recentemente di matrimonio di gruppo, apparso nel 1892 nella rivista tedesca Die Neue Zeit e spesso ripubblicato poi in appendice alle edizioni postume del volume engelsiano già citato – L’acqua del Duemila, di Joyce Lussu (Mazzotta, 1977), La sfida dei primitivi, di Robin Clarke e Geoffrey Hindley (La Salamandra, 1980), e Il buon selvaggio - Educare alla non-aggressività, a cura di Ashley Montagu (Elèuthera, 1987). Sulla tendenziale maggiore funzionalità di forme di democrazia diverse da quella rappresentativa nei territori economicamente poco sviluppati, si veda la nota 45 della seconda parte di Il neoliberismo non è una teoria economica, pubblicata nel sito di “Sinistra in rete” nel maggio 2020. L’argomento è stato brevemente toccato anche nel paragrafo “Appunti su classi popolari e mondo politico nei paesi dell’UE ed oltre e su movimento socialista e democrazia”, nella terza parte di Il neoliberismo non è una teoria economica (pubblicata nel luglio 2020 nello stesso sito). Ecco i rispettivi indirizzi di queste due parti di quel testo:
https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/17845-luca-benedini-il-neoliberismo-non-e-una-teoria-economica-2.html”;
https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/18403-luca-benedini-il-neoliberismo-non-e-una-teoria-economica-3.html”.
[5] Questa degenerazione della democrazia rappresentativa statunitense era stata notata molto ampiamente già nell’Ottocento stesso: in italiano si vedano in particolar modo l’Introduzione di Engels alla riedizione del 1891 di La guerra civile in Francia (un testo diffuso pubblicamente dalla prima “Internazionale” nel 1871 e scritto da Marx appositamente per essa) e i numerosi riferimenti bibliografici messi in evidenza a quel proposito da Massimo L. Salvadori in Democrazie senza democrazia (Laterza, 2009). Vale la pena di osservare che Marx, in un’intervista apparsa sulla Chicago Tribune del 5 gennaio 1879, espresse più sinteticamente considerazioni analoghe a quelle che Engels esplicitò per iscritto e con argomentazioni più ampie una dozzina d’anni dopo. Una traduzione italiana di tale intervista è stata resa disponibile di recente con la pubblicazione del vol. 24 delle Opere complete di Marx ed Engels (Lotta Comunista, 2022).
Sul fatto che la degenerazione in questione appare esser stata fortemente favorita dal sistema elettorale maggioritario (tipico degli Usa) e da altre caratteristiche dei meccanismi istituzionali statunitensi – come in particolare la nomina presidenziale dei giudici della Corte Suprema – cfr. Oltre il “busillis” dei sistemi elettorali (un intervento pubblicato nel marzo 2014 su Internet) e le ulteriori osservazioni presentate sul sistema maggioritario nell’articolo Verso un sistema elettorale equilibrato (Il Senso della Repubblica, luglio 2020) e su tale Corte nella già citata nota 45 di Il neoliberismo non è una teoria economica. Ecco i rispettivi indirizzi a cui sono attualmente disponibili l’intervento del marzo 2014 e l’articolo del 2020:
https://share.mail.libero.it/ajax/share/0a3a23510edea145a8e0717edea1427e91ac45089bea79c2/1/8/MjY/MjYvNQ”;
https://www.democraziapura.it/wp-content/uploads/2020/07/07-SR_Luglio_20-1.pdf” (pagg. 10-11).
[6] In considerazione del fatto che specialmente durante il ’900 un’ampia parte della cosiddetta “sinistra” ha contestato i collegamenti tra democrazia e socialismo (collegamenti che invece costituivano un aspetto politico e prospettico molto comune nel movimento socialista ottocentesco ed erano considerati praticamente fondanti per il concetto stesso di socialismo da moltissimi esponenti di tale movimento), per ulteriori approfondimenti – più strettamente politici – sulla questione si veda la seconda parte di questo intervento, inclusi i riferimenti bibliografici in essa contenuti.
[7] È proprio a diversi aspetti di questa possibile costruzione che sono stati dedicati espressamente il già citato Oltre il “busillis” dei sistemi elettorali, l’ulteriore intervento Una radicale controlettura della questione delle Province da dentro la “società civile” (pubblicato nel maggio 2014 su Internet) e più recentemente la serie di articoli su democrazia e meccanismi istituzionali apparsa mensilmente su Il Senso della Repubblica tra il giugno 2020 e l’agosto 2021 (serie di cui il presente intervento rielabora alcuni articoli). Il testo del maggio 2014 è attualmente disponibile al seguente indirizzo:
https://share.mail.libero.it/ajax/share/08bb1ea707f77e4080f3ae17f77e4b72a6c093c32764dd13/1/8/MjY/MjYvMTc”.

* * * *

II

Come i movimenti alternativi del passato possono tendenzialmente influiresul presente: la democraticità profonda di Marx ed Engels, quella relativa di Lenin, quella pressoché assente del “dopo Lenin” e il parziale recupero del ’68

Mentre nell’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento il “socialismo scientifico” marx-engelsiano aveva conquistato una posizione predominante nell’ambito del movimento socialista internazionale, il Novecento ha visto un progressivo travisamento di quell’approccio e un suo sostanziale abbandono da parte delle organizzazioni politiche collegate ai lavoratori.

Quello che a posteriori colpisce maggiormente è il fatto che non si trattò di vere e proprie critiche ben fondate e ben argomentate che portarono giustamente all’affossamento di un approccio rivelatosi debole e insufficiente, ma – al contrario – di posizioni superficiali oppure fortemente segnate dall’ambizione personale che misero da parte un approccio ancora estremamente efficace, ma scomodo per chi non intendeva rinunciare alla propria superficialità e/o alle proprie ambizioni personali [1]....

 

Le tendenze novecentesche

Per quasi tutto il Novecento vi sono state due correnti nettamente principali in tali organizzazioni: la “sinistra moderata” e la “sinistra rivoluzionaria”, che si sono entrambe allontanate moltissimo dal “socialismo scientifico” marx-engelsiano sulla base soprattutto del dare un’estrema priorità ai rapporti con il potere, mentre per Marx ed Engels la priorità stava nell’evoluzione politica e culturale delle classi lavoratrici stesse.

Dalla metà degli anni ’10 in poi, per mezzo secolo quelle due correnti sono state talmente egemoni da lasciare nelle classi popolari l’impressione che non ci fossero socialmente altre possibilità per i lavoratori se non il blandire il potere borghese (come faceva in pratica la “sinistra moderata”) o il dare la caccia al potere mediante uno scontro antagonistico – di tipo politico ed eventualmente anche militare – con la borghesia (come faceva in sostanza la “sinistra rivoluzionaria”).

Ambedue queste correnti si sono autonominate di fatto “rappresentanti dei lavoratori”: l’una nella forma della rappresentanza parlamentare e sindacale-contrattuale; l’altra nella forma dell’avanguardia proletaria che conduce alla rivoluzione la massa lavoratrice essendo rispetto a questa molto più consapevole. In entrambi i casi, nella sostanza si è trattato di orientamenti molto scarsamente democratici, che hanno trascinato il popolo in una posizione di amplissima delega della politica a quei loro “rappresentanti”.... Nel contempo, il fatto che la “sinistra rivoluzionaria” – a dispetto della sua effettivamente enorme distanza dal pensiero marx-engelsiano – si autodefinisse comunemente “marxista” ha indotto moltissimi a credere erroneamente che fosse vero che il pensiero in questione corrispondesse all’agire dei rivoluzionari novecenteschi giunti al potere nella loro nazione: Lenin, Stalin, Mao, Fidel Castro, ecc..

Dati quegli orientamenti verticistici proseguiti appunto per mezzo secolo, non è stato certo casuale il fatto che gli anni intorno al ’68 abbiano portato con sé l’intensa rivendicazione delle classi popolari di contare in prima persona e di agire senza bisogno di qualche burocrate che le indirizzasse dall’alto.... Da quell’esperienza hanno preso significativamente piede anche una terza e poi una quarta corrente: la “sinistra spontaneista” e un orientamento riformista-keynesiano – diffusosi specialmente nell’area scandinava e in alcuni paesi latino-americani – mirante ad istituire nella propria nazione un efficace e tendenzialmente onesto “Stato sociale” [2]. Ma anche queste due correnti non hanno generalmente colto il fatto che il pensiero marx-engelsiano sia stato tipicamente travisato in modo estremo durante il ’900.

 

L’approccio del “socialismo scientifico” marx-engelsiano

In merito a questo travisamento basti notare – riguardo ad un’espressione marxiana usatissima dai rivoluzionari novecenteschi, la “dittatura del proletariato” – che Engels, nel suo fondamentale Per la critica del progetto di programma socialdemocratico 1891 (pubblicato postumo nel 1901), argomentò che la «repubblica democratica [...] è la forma specifica per la dittatura del proletariato». Il concetto rielaborava – in profonda sintonia – quanto scriveva Marx nel 1875 nella Critica al programma di Gotha (anch’essa pubblicata postuma, nel 1891): «la libertà consiste nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa», frase che in base al contesto appariva chiaramente associabile a fasi storiche come il «periodo politico di transizione» al socialismo (periodo definito da Marx appunto anche come «dittatura rivoluzionaria del proletariato») e come la successiva costruzione del socialismo stesso. E la cosa è resa ancor più manifesta dal fatto che Marx poi aggiungeva che in linea di massima è «nella repubblica democratica», «in questa ultima forma statale della società borghese», che «si deve definitivamente decidere» l’eventuale passaggio da tale società alla transizione al socialismo: se questo passaggio implica appunto un aumento della libertà e quindi della democrazia, ciò significa che in tale transizione avrebbero dovuto esserci per Marx per lo meno i diritti civili e la partecipazione popolare alla vita politica possibili nella repubblica democratica [3].

Da tutto ciò emerge in modo chiaro e inequivocabile che per Marx ed Engels la società di transizione da loro chiamata “dittatura del proletariato” non doveva affatto essere una dittatura in senso politico-istituzionale, ma una società profondamente democratica, incentrata su diritti e libertà civili, nella quale – come si sottolineava in quel testo del 1875 – iniziasse un progressivo passaggio da «funzioni statali» a «funzioni sociali» [4]. In quell’espressione, il termine “dittatura” era semplicemente ripreso dall’espressione “dittatura della borghesia sul proletariato”, che essi associavano appunto alla società borghese ma non in un senso strettamente politico-istituzionale – giacché già nell’Ottocento tale società si esprimeva anche in forme sostanzialmente democratiche, come ad esempio negli Stati Uniti – bensì in un senso sociale ed economico [5].

Invece, dopo il 1917 il concetto di “dittatura del proletariato” – pur non mutando minimamente di nome – ha acquisito una valenza radicalmente differente da quella marx-engelsiana, associando al significato sociale ed economico anche e soprattutto un significato politico-istituzionale: cioè l’accentramento autoritario del potere politico e statale nei vertici del partito costituitosi a livello nazionale in rapporto con una rivoluzione vittoriosa specifica, avvenuta in un particolare paese.

Il “socialismo scientifico” marx-engelsiano si espresse in intense rivendicazioni miranti a un’ampia democratizzazione delle pubbliche istituzioni anche all’interno della società contemporanea basata sull’economia di mercato. Ciò, in particolare, privilegiando l’approccio proporzionale nei sistemi elettorali della “democrazia rappresentativa”, proponendo un forte decentramento amministrativo e delle forme esplicite di “democrazia diretta” con la possibilità di referendum popolari (sia propositivi che abrogativi) e mantenendo una prospettiva complessiva fondata sulla riappropriazione della vita politica da parte delle classi lavoratrici, prospettiva in cui si teneva conto anche di possibilità operative collegate alla “democrazia assembleare e consiliare” (che trovò un’esplicita espressione nel 1871 nella “Comune di Parigi”) [6].

Vale la pena di ricordare che nella visione storica marx-engelsiana uno dei presupposti del socialismo nell’era moderna era costituito dalla presenza di condizioni oggettive che permettessero di realizzare diffusamente un sostanziale benessere materiale (superando così la tendenza classista ed egocentrica che viene favorita dalle condizioni produttive in cui per rispondere ai bisogni materiali umani occorre una grande quantità di fatica e di lavoro manuale, magari anche in circostanze particolarmente dure ed aspre). In tal modo, un ampio sviluppo tecnico-scientifico e produttivo tendeva evidentemente ad essere uno dei requisiti di una moderna rivoluzione socialista secondo Marx ed Engels [7]. Parallelamente, per poter sopravvivere e svilupparsi nel tempo, questa rivoluzione socialista avrebbe dovuto essere appunto anche profondamente democratica e aver luogo su una scala ampiamente internazionale (contrariamente al cosiddetto “socialismo in un solo paese” poi affermato dal dittatore Stalin...) [8]. E va sottolineato che la storia novecentesca appare aver confermato ognuno di questi aspetti di fondo della visione storica marx-engelsiana [9].

La democrazia assembleare e consiliare nella
Comune di Parigi” e nella rivoluzione russa

Nella storia più antica – o forse si dovrebbe dire più tecnicamente “preistoria” [10] – le forme di democrazia assembleari e consiliari appaiono essere state estremamente diffuse: in generale nelle società basate sulla gens e più in particolare nelle culture di tipo tribale, spesso associabili a una sorta di “socialismo primitivo”. La ricomparsa di questo tipo di forme nella storia moderna (a parte ovviamente le società tribali sopravvissute, presenti di solito in aree forestali o marginali) [11] prende sostanzialmente le mosse da esperienze popolari spontanee come i comitati che iniziarono a costituirsi tra i lavoratori soprattutto manifatturieri e industriali nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento – specialmente sotto la spinta della prima “Internazionale” – e come la “Comune di Parigi”, che nel 1871 si basò invece su elezioni di quartiere effettuate a suffragio universale.

Nella sostanza si trattò di due forme organizzative socialmente piuttosto simili, in quanto anche le elezioni della Comune – avvenendo in un clima drammatico di guerra tra Francia e Germania e di scontro a Parigi tra classi popolari e classi privilegiate – videro la partecipazione quasi solo delle classi lavoratrici. La Comune mirava anche ad espandere potenzialmente all’intera nazione l’istituzione di strutture consiliari simili alla propria e basate su dei delegati [12], in un possibile percorso democratico alternativo alla tipica democrazia rappresentativa, che allora era solitamente monopolizzata per un motivo o per l’altro dalle classi più ricche e istruite. Dopo un paio di mesi di vita, la Comune perse però a livello militare lo scontro parigino con le classi privilegiate, scontro che vide la morte di un gran numero di comunardi, provocò la fuga di molti di loro verso altre nazioni e innescò un’aspra repressione su scala europea nei confronti dei socialisti [13].

I comitati di lavoratori acquisirono un grande peso soprattutto alcuni decenni dopo in Russia, col nome di soviet (cioè Consigli), prendendo ampiamente piede nella ribellione popolare del 1905 e moltiplicandosi poi nel 1917 non solo tra gli operai ma anche tra i soldati e i contadini, al punto da acquisire un vero e proprio ruolo cruciale nella “rivoluzione d’ottobre” che si affermò nel paese sulla base di tre parole d’ordine fondamentali: la pace, la terra ai contadini e “tutto il potere ai soviet” (sulla base dei quali si rivendicava una struttura consiliare nazionale che ricordava quella progettata dalla Comune, anche se a partire non da organismi locali eletti a suffragio universale ma da specifici comitati formati appunto da lavoratori o soldati).

Nonostante questo, dopo tale rivoluzione i soviet vennero rapidamente emarginati e messi sostanzialmente in disparte, mentre il potere veniva accentrato sempre più nelle mani della dirigenza del partito bolscevico, tra evidenti perplessità e crescenti critiche da parte di diverse delle correnti che in Russia avevano animato la rivoluzione (e ciò anche all’interno del partito stesso) o che l’avevano appoggiata da altri paesi.

La cosa si può comprendere soprattutto se si tiene conto che i bolscevichi, sotto la guida di un Lenin molto più acuto tatticamente degli altri dirigenti del partito, furono alla fin fine l’anima politica della “rivoluzione d’ottobre” e che Lenin però era il primo a non credere strutturalmente nel ruolo dei soviet. In un articolo apparso nella rivista rivoluzionaria russa Proletarskoie Dielo del 20 luglio 1917 col titolo redazionale Clima politico, egli infatti spiegava chiaramente che i soviet potevano servire alla prospettiva rivoluzionaria solo fintantoché fossero stati caratterizzati da una maggioranza in sintonia col partito bolscevico e che i bolscevichi stessi avrebbero dovuto essere pronti a disfarsi sostanzialmente dei soviet qualora questi ultimi non risultassero più in sintonia con loro [14].... In sintesi, per i principali esponenti del bolscevismo – che in Russia si considerava interprete e avanguardia soprattutto della classe operaia industriale – i soviet avevano un valore tattico e non necessariamente anche strategico.

Una piena conferma di quella posizione di Lenin viene dal confronto tra la prima e la seconda edizione del suo libro forse più famoso, Stato e rivoluzione, completate rispettivamente a fine 1917 e a fine 1918 e andate poi rapidamente in stampa. Mentre nella prima edizione lo Stato proposto da Lenin alla Russia dell’epoca era basato dal punto di vista istituzionale sui soviet e sullo spirito della Comune di Parigi (in accordo con la tattica bolscevica del momento), nella seconda vennero aggiunte alcune pagine nelle quali si specificò che quello Stato avrebbe potuto avere anche molte altre forme politiche (in accordo con la nuova tattica assunta dai bolscevichi e più in generale con la loro visione strategica). Benché il libro fosse incentrato sul “socialismo scientifico” marx-engelsiano (che, come si è visto, era profondamente e inequivocabilmente democratico nelle sue proposte e prospettive), soltanto la prima edizione rimase considerevolmente in sintonia con quest’ultimo, mentre l’aggiunta inserita nella seconda edizione significò una tendenziale rottura di fondo con esso, finendo così con lo svuotare praticamente di senso un’ampia parte del libro stesso....

Dietro a questa ambiguità prospettica del partito bolscevico vi era palesemente un crescente cambiamento nel concetto di rivoluzione socialista rispetto a Marx ed Engels: in contrasto con le loro ben argomentate motivazioni che vedevano tale rivoluzione in una prospettiva ampiamente industrializzata e internazionale, il bolscevismo si spostò sempre più verso l’idea di poter stabilizzare lungamente una tale rivoluzione e il potere dei rivoluzionari anche in un solo paese non industrializzato, come trasparì dall’attacco dell’Armata Rossa a Kronstadt dopo la fine della guerra civile [15] e come Lenin suggerì esplicitamente nel marzo 1923 nel suo ultimo articolo Meglio meno, ma meglio [16]. Quest’idea fu poi ufficializzata e trasformata in dogma da Stalin – che nel frattempo si trasformava a sua volta in un violento dittatore – e in seguito venne fatta propria anche dalle rivoluzioni cinese, cubana, vietnamita, ecc. [17].

Dal punto di vista più specificamente produttivo, questo cambiamento implicò uno sviluppo forzoso di tendenze economiche socialiste (o forse sarebbe più appropriato il termine “stataliste”) e una spinta accelerata all’industrializzazione in paesi preindustriali dove – come lo stesso Lenin riconobbe molte volte – tipicamente la massa della popolazione aspirava non tanto al socialismo quanto a forme di società di tipo piccolo-borghese, basate soprattutto sulla proprietà contadina e artigiana. In altre parole, in questi paesi i rivoluzionari proiettati verso una rapida attuazione di strutture produttive di tipo socialista (o, appunto, statalista) erano tendenzialmente destinati ad essere una minoranza e dunque – se volevano conservare il potere strettamente nelle loro mani dopo una rivoluzione vittoriosa – a dover evitare le varie forme di democrazia [18]....

Tra l’altro, la concretizzazione di uno Stato basato strutturalmente sui Consigli dei lavoratori (quali erano appunto i soviet) rischierebbe in effetti, col tempo, di incentivare nelle loro assemblee aspetti come la retorica, l’aggressività e il narcisismo, di facilitare nelle persone una – culturalmente ristretta – identificazione con la propria attività professionale e, oltre tutto, di favorire una pesante emarginazione generale di gruppi di popolazione socialmente non certo trascurabili: anziani, studenti, lavoratori malati, eventuali lavoratori in proprio, eventuali disoccupati, eventuali dirigenti d’azienda....

Come concetto di ampia, stabile e duratura struttura consiliare dotata di una piena valenza politico-amministrativa, quello delineato dalla Comune di Parigi appare complessivamente molto più equilibrato [19].

 

Il confronto più essenziale

In sintesi, se si guarda alla drammatica e cruciale tensione storica esistente tra democrazia e società patriarcale [20], Marx ed Engels si sono messi chiaramente dalla parte della democrazia (non si dimentichi a questo proposito che erano anche esponenti dell’umanesimo e sostenitori della “filosofia dialettica” intesa in senso estremamente antidogmatico) [21], mentre durante il ’900 la “sinistra moderata” e la “sinistra rivoluzionaria” [22] si sono messe comunemente dalla parte della società patriarcale [23] e, a loro volta, la “sinistra spontaneista” [24] e quella riformista-keynesiana hanno tenuto tendenzialmente un atteggiamento intermedio e sostanzialmente irrisolto [25].

Anche per questo il “socialismo scientifico” marx-engelsiano meriterebbe di essere ampiamente riscoperto nella sua effettiva autenticità.


Note alla parte II
[1] Per un’introduzione alle più spiccate differenze tra le organizzazioni politiche novecentesche collegate ai lavoratori e il “socialismo scientifico” marx-engelsiano, cfr. Dopo gli errori di Seattle (un intervento pubblicato nel sito di “Sinistra in rete” nel dicembre 2018) e il già citato paragrafo “Appunti su classi popolari e mondo politico nei paesi dell’UE ed oltre e su movimento socialista e democrazia” nella terza parte di Il neoliberismo non è una teoria economica (del luglio 2020). Data la fondamentale posizione occupata dall’economia nella visione marx-engelsiana della vita sociale, cfr. anche Quale economia oggi per il bene comune? (intervento pubblicato nel medesimo sito nell’ottobre 2018). Ovviamente – per evitare sia inutili ripetizioni sia prolissità che non sarebbero state adatte agli spazi limitati di una rivista – quanto già messo in luce in quelle sedi è in pratica riassunto qui in maniera estremamente sintetica, oppure è stato ulteriormente approfondito nel testo principale o in qualche nota redatta appositamente per la presente stesura realizzata per “Sinistra in rete”. Ecco i rispettivi indirizzi dei due interventi del 2018:
https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/14007-luca-benedini-dopo-gli-errori-di-seattle.html”;
https://www.sinistrainrete.info/teoria/13528-luca-benedini-quale-economia-oggi-per-il-bene-comune.html”.
[2] In queste due ultime correnti, a paragone con i “moderati” e i “rivoluzionari” l’accento si è allontanato dai “massimi sistemi” e dalla presenza di tendenze decisamente ideologiche, spostandosi verso obiettivi e contesti più limitati e, nel contempo, più facilmente affrontabili tenendo d’occhio la partecipazione – o almeno una certa consultazione – popolare. Vale la pena di notare che la quarta delle correnti in questione – interessata ovviamente in modo particolare alle politiche keynesiane – si è posta generalmente in esplicito contrasto con i politici solo formalmente keynesiani che hanno predominato in molte nazioni a partire dal periodo del boom economico successivo alla seconda guerra mondiale (e che dal punto di vista degli schieramenti partitici potevano essere visti in realtà come parte del “centro”, anche se spesso si autodefinivano come esponenti della “sinistra moderata”). Per alcune ulteriori considerazioni su questi politici “keynesiani fasulli” si veda la terza parte del presente intervento.
[3] Sulla questione dei diritti nella vita sociale, vale la pena di aggiungere che la loro accentuazione presente in moltissime delle proposte socialiste ottocentesche era accompagnata spesso da delle considerazioni parallele sui doveri, collegate tipicamente all’esigenza di sottolineare l’eguaglianza di fondo tra le persone. Negli statuti stessi della prima Internazionale (risalenti in pratica alla metà degli anni ’60 di quel secolo) si trova in particolare che «l’emancipazione delle classi lavoratrici dev’essere opera dei lavoratori stessi»; che la lotta per questa emancipazione «non è una lotta per costituire nuovi privilegi e monopoli di classe, ma per diritti e doveri eguali per tutti e per abolire ogni predominio di classe»; e che l’Internazionale non riconosceva «nessun diritto senza doveri, nessun dovere senza diritti». Come sottolineava p.es. Engels qualche decennio dopo, in Per la critica del progetto di programma socialdemocratico 1891, «gli eguali doveri sono, per noi, un completamento particolarmente importante degli eguali diritti democratico-borghesi, e tolgono a questi il loro specifico significato borghese» (giacché la tendenza borghese era appunto quella di rivendicare una serie di diritti senza però alcun dovere di fondo, così da consentire nella società estreme – e devastanti – diseguaglianze socio-economiche...).
[4] Da diversi materiali si comprende più chiaramente a quali aspetti della società si potesse riferire Marx nel rivendicare quella subordinazione (dello Stato alla società) e quel passaggio come parte nodale di un percorso verso il socialismo: ai lavoratori associati nel movimento cooperativo e in organizzazioni sindacali; agli organi del decentramento amministrativo (Consigli comunali, ecc.), tenendo anche conto – come si vedrà meglio più avanti in questo stesso paragrafo e nel prossimo – della possibilità di sostituire alla “democrazia rappresentativa” forme di “democrazia assembleare e consiliare”, come in particolar modo quella vissuta e proposta dalla Comune di Parigi; alla “democrazia diretta” attuabile soprattutto mediante referendum popolari; in breve, a delle situazioni locali di autogoverno popolare. Tra tali materiali spiccano alcuni testi già ricordati – il marxiano La guerra civile in Francia (inclusa la successiva Introduzione di Engels) e l’engelsiano Per la critica del progetto di programma socialdemocratico 1891 – e i programmi politici socialisti redatti in quei decenni con la diretta partecipazione di Marx ed Engels: quello presentato nel 1880 dal partito operaio francese (e pubblicato su L’Égalité del 30 giugno 1880) e quello tedesco discusso e adottato nel 1891 a Erfurt (al quale collaborò ovviamente soltanto Engels, essendo Marx scomparso nel 1883).
In aggiunta, a proposito della prospettiva costituita dalla transizione verso il socialismo, Engels sottolineò – p.es. in una lettera del 23 gennaio 1886 ad August Bebel (pubblicata postuma in forma parziale nel 1920) – che né lui né Marx avevano «mai dubitato che, in caso di passaggio all’economia comunista, sarebbe stato necessario utilizzare su larga scala l’impresa cooperativa come gradino intermedio, a condizione che [...] gli interessi particolari dei cooperatori nei confronti della società non potessero consolidarsi», mentre da un altro lato, in La questione contadina in Francia e in Germania (del 1894), puntualizzò che era «evidente che, quando saremo in possesso del potere statale, non ci penseremo nemmeno ad espropriare con la forza i piccoli contadini» e invece anche tra di loro sarebbe stata incoraggiata la partecipazione a forme di cooperazione. Tra l’altro, nel 1875 Marx – in suoi appunti pubblicati postumi nel 1926 sotto il titolo Note a “Stato e anarchia” di Bakunin – si espresse in maniera del tutto analoga a quanto Engels scrisse su socialismo, cooperazione e contadini uno o due decenni dopo. Ciò a ulteriore conferma del profondo parallelismo che per tutta la vita unì interiormente i due filosofi sin dal loro incontro nel 1844.
Nell’ultimo quarto dell’Ottocento per Marx ed Engels insomma, anche se dal punto di vista della proprietà i maggiori mezzi di produzione avrebbero dovuto comunque diventare statali in un futuro periodo di trasformazione della società verso il socialismo (confermando dunque con ciò le valutazioni generali espresse nel capitolo II del Manifesto del partito comunista, nel 1848), comunemente la gestione concreta di tali mezzi avrebbe dovuto esplicitamente essere affidata non certo allo Stato ma ad altre forme organizzative della società stessa (più semplici, più locali, più direttamente coinvolte), mentre era considerata accettabile la piccola proprietà anche di mezzi di produzione. È una posizione nettamente più sfaccettata, complessa e consapevole di quella molto più sbrigativa – e sostanzialmente ancora un po’ “primitiva” – che era stata presentata nel 1848. Nonostante la corposità del cambiamento, non appare comunque trattarsi affatto di un’inversione ad U, ma semplicemente di un approfondimento, una puntualizzazione essenziale, una precisazione, un addentrarsi maggiormente in dettagli, un miglioramento (che appare essere stato stimolato in modo particolare dall’esperienza della prima Internazionale, con gli intensi contatti tra correnti socialiste diverse che ne conseguirono e con gli altrettanto intensi confronti e dialoghi che ne nacquero). Tra l’altro, uno dei significati di questa fondamentale precisazione è un allargamento del concetto di democrazia, concetto che viene ad essere interpretato e rivendicato da Marx ed Engels in senso non solo politico (le forme di governo locale, nazionale, globale; le pubbliche istituzioni; le leggi che pongono direzioni, indirizzi e limiti alla vita della società, incluse in tali leggi l’eventuale futura appropriazione pubblica dei grandi mezzi di produzione e i suoi princìpi applicativi...) ma anche economico (le forme di gestione sociale dell’attività produttiva, sul luogo di lavoro, nella comunità locale, nell’insieme della nazione e del pianeta stesso; la generale impostazione economico-produttiva di un territorio come frutto di scelte operate dai lavoratori stessi attraverso metodi strettamente democratici; il sostanziale diritto di ciascuno di impostare le proprie attività economiche su basi autonome, cooperative oppure interne a qualche grande azienda o addirittura a un conglomerato di aziende strettamente collegate tra loro, casi questi ultimi in cui ovviamente un’eventuale gestione di tipo cooperativo avrebbe valenze operative molto diverse da quelle tipiche di una piccola cooperativa locale...).
Mentre sia le società di tipo borghese sia le società post-rivoluzionarie novecentesche che si sono dette ispirate al socialismo hanno mantenuto la strada “patriarcale” di un’attività economico-produttiva che in grandissima parte è impostata dall’alto e in senso fortemente elitario e gerarchico (contrariamente a quanto appunto proponevano e sostenevano Marx ed Engels), nel corso dell’ultimo centinaio d’anni vi sono stati molti contributi socialmente marginali o specificamente locali che hanno sviluppato quel tipo di proposte: ad esempio, il mondo del “commercio equo e solidale”, i difensori dei “beni comuni” (come Elinor Ostrom) e delle comunità locali (come Vandana Shiva, Rigoberta Menchú e molti gruppi presenti qua e là nel mondo), più in particolare i sostenitori dell’autonomia, della capacità decisionale e dell’autogoverno delle popolazioni tribali (come molti esponenti di quelle popolazioni stesse e l’associazione Survival International), varie fondazioni e O.n.g. operanti soprattutto nel Terzo mondo, e così via. In Italia sul piano concettuale ha approfondito questo approccio specialmente il “movimento nonviolento”, con in particolare Aldo Capitini (col suo concetto di “omnicrazia”) e più di recente Claudio Morselli (col suo impegno nel settore dei “distretti di economia solidale” e in altre iniziative collegate), mentre su una scala più vasta appaiono particolarmente degne di nota l’attività di Murray Bookchin tra ecologia sociale e “municipalismo libertario” e le pregnanti proposte di un’agricoltura su base fortemente locale e contadina presentate principalmente da Bill Mollison, Masanobu Fukuoka e Miguel A. Altieri. Un’ulteriore tematica strettamente collegata a questa è costituita dall’“economia della cura”, che durante gli ultimi decenni è stata messa in evidenza e profondamente rivendicata – soprattutto come patrimonio plurimillenario della cultura delle donne – ad opera principalmente del movimento femminista (come si è già sottolineato nel summenzionato intervento Quale economia oggi per il bene comune?, specialmente nella sua nota 5 comprendente anche vari riferimenti bibliografici).
[5] Per ulteriori commenti sulla questione, cfr. p.es. la Prefazione di Umberto Cerroni al volume antologico marx-engelsiano Critica al programma di Gotha (e testi sulla transizione democratica al socialismo) (Editori Riuniti, 1976), volume nel quale è stato anche corretto un importante errore di traduzione rispetto alle precedenti edizioni italiane del principale scritto contenuto in quell’antologia, realizzato da Marx nel 1875.
Il fatto che negli ultimi decenni dell’Ottocento il funzionamento concreto della democrazia statunitense sia stato fortemente criticato da Marx e da Engels (come si è già accennato nella nota 5 della prima parte del presente intervento) non significa che per essi le classi lavoratrici non potessero utilizzare proficuamente le possibilità offerte dalla democrazia rappresentativa, come Marx riassunse in modo particolarmente incisivo nel 1880 nell’introduzione da lui redatta per il già menzionato programma dal partito operaio francese e come Engels argomentò più ampiamente p.es. nell’Introduzione che egli scrisse nel 1895 per una riedizione del marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 e che, in pratica, divenne anche il “testamento politico” di Engels.
[6] Riguardo a questo insieme di rivendicazioni di tipo democratico cfr. in particolare alcuni materiali già menzionati: La guerra civile in Francia (inclusa la successiva Introduzione engelsiana), scritto da Marx per la prima “Internazionale” nel 1871, e i programmi socialisti alla cui stesura parteciparono Marx ed Engels (quello francese del 1880 e quello tedesco del 1891). In merito al programma di Erfurt cfr. anche il già citato testo di Engels Per la critica del progetto di programma socialdemocratico 1891.
[7] “Moderna”, qui, nel senso di riferita ad una popolazione che – come avveniva comunemente già nel tardo ’800 nei paesi in via di industrializzazione e come è giunto ad accadere in una grandissima parte del globo nel corso del ’900 – aspirasse a una società non “primitiva”, ma dotata di capacità operative tecnologicamente complesse e in continua evoluzione. Su questo aspetto della visione storica marx-engelsiana, cfr. in special modo, oltre alla già citata Introduzione di Engels del 1895 per il marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, l’opuscolo engelsiano del 1880 L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (per la prima edizione del quale – realizzata in francese col titolo Socialismo utopistico e socialismo scientifico – Marx scrisse appositamente una prefazione che ufficialmente venne firmata da suo genero Paul Lafargue, uno dei più attivi socialisti francesi dell’epoca), opuscolo basato sulla rielaborazione di alcuni capitoli di una precedente opera di Engels molto più voluminosa, l’Antidühring (del 1878), che Marx aveva approvato integralmente prima della sua pubblicazione scrivendone anche un capitolo.
[8] Così Marx riassunse il quadro generale alla base di questa tematica nella sua pregnante Critica al programma di Gotha, del 1875: «S’intende da sé che [...] la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma “per la forma”. Ma “l’ambito dell’odierno Stato nazionale”, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente “nell’ambito del mercato mondiale”, politicamente “nell’ambito del sistema degli Stati”. Anche il primo commerciante che capiti sa che il commercio tedesco è allo stesso tempo commercio estero, e la grandezza del signor Bismarck consiste appunto nel suo perseguire il proprio tipo di politica internazionale». A questa ineludibile internazionalità corrispondono altrettanto ineludibili «funzioni internazionali della classe operaia». Attraverso di queste «essa dovrebbe render la pariglia alla propria borghesia, già affratellata contro di essa con la borghesia di tutti gli altri paesi, e alla politica di cospirazione internazionale» di governanti come p.es. appunto in Germania il «signor Bismarck». Alcuni anni dopo, nell’intervista pubblicata sulla Chicago Tribune del 5 gennaio 1879, Marx osservò che le principali cose che il socialismo era riuscito a fare nel corso della sua storia erano due: «I socialisti hanno mostrato la generale lotta universale esistente tra capitale e lavoro – in una parola la natura cosmopolita della questione – e conseguentemente hanno cercato di realizzare un accordo fra i lavoratori dei diversi paesi, accordo che è divenuto maggiormente necessario man mano che i capitalisti sono diventati maggiormente cosmopoliti nell’assumere lavoratori, nel contrapporre i lavoratori stranieri a quelli nati nel paese non solo in America ma anche in Inghilterra, Francia e Germania».... In breve, il socialismo non è «meramente una questione locale, ma internazionale, da risolvere attraverso l’azione internazionale dei lavoratori». Proprio per il “contenuto internazionale” già percepibile dietro e dentro alla “forma nazionale” nell’Occidente borghese del 19° secolo, analogamente Engels – in una lettera particolarmente espressiva inviata a Paul Lafargue il 27 giugno 1893 (e pubblicata postuma nel 1956) – mise in rilievo che «l’emancipazione proletaria non può che essere un fatto internazionale», aggiungendo con una certa causticità: «se voi [in Francia, N.d.R.] cercate di farne un fatto esclusivamente francese, la state rendendo impossibile», con ulteriori effetti come «snaturare il movimento proletario internazionale» e «coprire la Francia di ridicolo come fanno i blanquisti», che esprimono appunto «queste pretese»....
Su questa esigenza di una scala ampiamente internazionale, cfr. in particolar modo anche il capitolo su Feuerbach nel testo marx-engelsiano L’ideologia tedesca (del 1846, pubblicato però solamente postumo nel 1932), l’engelsiano I princìpi del comunismo (una bozza di testo redatta nel 1847 e apparsa postuma nel 1914), il marxiano Discorso sul congresso dell’Aja (del 1872) e la prefazione di Marx ed Engels all’edizione russa del 1882 del loro Manifesto del partito comunista, oltre a quest’ultima opera in se stessa (del 1848). In tale notissima opera i due autori non avevano trascurato la questione, ma si erano limitati ad osservare sinteticamente che «l’azione unita, per lo meno nei principali paesi civilizzati, è una delle prime condizioni dell’emancipazione del proletariato».
Una chiarissima e palese verifica di quanto fosse diffusamente noto nei primi decenni del 20° secolo questo aspetto nodale della visione storica marx-engelsiana è costituita dalle innumerevoli discussioni svoltesi intorno ad esso in Russia durante gli anni ’10 e ’20, non solo nel partito bolscevico ma anche in altri (discussioni che hanno acquisito una particolare rilevanza e una marcata notorietà internazionale a seguito della rivoluzione russa dell’ottobre 1917). Riguardo ai maggiori aspetti concreti assunti dalla questione in Russia dopo tale rivoluzione, cfr. più specificamente il già citato Dopo gli errori di Seattle (in particolare la parte III del Commento per “Sinistra in rete”).
[9] Si veda più avanti la nota 23 per degli approfondimenti su queste sostanziali conferme fornite dalla storia.
[10] Nel lessico degli “addetti ai lavori”, la differenza principale tra storia e preistoria è costituita dalla scrittura: presente nella storia, assente nella preistoria. In questo senso una grandissima parte delle antiche società “non patriarcali” esistite sul nostro pianeta fa parte della preistoria. La maggiore eccezione sarebbe costituita dalla civiltà minoica già ricordata nella prima parte del presente intervento, ma la scrittura che era utilizzata in quella civiltà e che ha poi costituito la base pratica dello sviluppo della scrittura greca non è stata ancora decifrata. Quindi, quella civiltà farebbe ampiamente parte della storia, ma la nostra incapacità di comprenderne la scrittura la lascia di fatto per noi, in un certo qual modo, nell’ambito della preistoria....
[11] Cfr. nel presente intervento la nota 4 della prima parte.
[12] In pratica, in ogni città e in ogni area rurale si sarebbe potuto eleggere una “Comune” locale, che attraverso l’elezione di delegati avrebbe potuto partecipare alla formazione di un Consiglio relativo ad un’area più vasta (p.es. una provincia), che a sua volta assieme agli altri Consigli omologhi avrebbe potuto partecipare tramite delegati alla formazione di un Consiglio inerente ad un’area ancor più vasta (p.es. una regione), fino ad arrivare – attraverso questo genere di procedura – a un Consiglio nazionale con competenze simili a quelle di un Parlamento, inclusa la nomina di un governo. Poiché – come ha sottolineato anche Engels nella sua già ricordata Introduzione alla riedizione del 1891 del marxiano La guerra civile in Francia – il 30 marzo 1871 la “Comune di Parigi” stessa proclamò che «la bandiera della Comune è la bandiera della repubblica mondiale», nella visione prospettica dei comunardi questa rete di strutture consiliari avrebbe potuto essere estesa all’intero globo, con l’ulteriore formazione di Consigli su base p.es. continentale e mondiale a partire, naturalmente, dall’elezione di delegati ad hoc da parte di ciascun Consiglio nazionale.
[13] Fu una repressione così intensa che la prima “Internazionale” venne spinta dapprima a decidere nel 1872 lo spostamento della propria sede centrale al di fuori dell’Europa, a New York, e poi a sciogliersi del tutto nel 1876, rinunciando in tal modo alla propria esistenza come organizzazione effettiva. La drammaticità e in pratica l’ingestibilità delle circostanze in cui venne a trovarsi in Europa il movimento socialista traspare p.es. tra le righe di una lettera che Marx scrisse il 27 settembre 1873 a Friedrich Adolph Sorge, allora Segretario generale dell’“Internazionale” a New York: «Per come vedo la situazione europea, allo stato attuale è estremamente utile far passare in secondo piano l’organizzazione formale dell’Internazionale [...]. Gli avvenimenti e l’inevitabile sviluppo e intreccio delle cose si preoccuperanno del risorgere dell’Internazionale in una forma migliore. Per il momento è sufficiente non perdere i contatti con i più capaci nei diversi paesi». E Marx aggiungeva che «è un colpo ai piani dei governi continentali il fatto che lo spettro dell’Internazionale si rifiuti, per il momento, di servir loro nella contingenza reazionaria che si profila; in realtà, dappertutto la borghesia considera tale spettro morto e sepolto».... Tra l’altro, poche settimane prima era stato organizzato un congresso dell’Internazionale a Ginevra, ma era praticamente fallito per le varie grandi difficoltà che quasi tutti i membri che non risiedevano in Svizzera avevano di fatto a recarvisi.
[14] Nelle Opere complete di Lenin ricompare il titolo da lui originariamente scelto per l’articolo: La situazione politica. Nelle settimane successive Lenin ampliò e rafforzò ulteriormente l’argomento nell’opuscolo Sulle parole d’ordine (edito dal comitato di Kronstadt del partito bolscevico).
[15] Su quella complessa, cruenta e drammatica vicenda cfr. Kronstadt 1921, di Paul Avrich (Mondadori, 1971).
[16] A proposito di quest’ultimo articolo, si vedano in particolare le osservazioni presentate su di esso in Dopo gli errori di Seattle (nella già ricordata parte III del Commento per “Sinistra in rete”). Si riparlerà qui di tale articolo più avanti, nella nota 23.
[17] E queste ultime mantennero un atteggiamento di fondo decisamente analogo a quello concretizzato da Stalin: rigidamente dogmatico e tendente all’accentramento del potere in pochissime mani, al dirigismo, al “culto della personalità”, all’autoritarismo, alla violenza, ecc..
[18] Questo aiuta a comprendere la pressoché assoluta assenza di procedure democratiche dopo le rivoluzioni in questione. I primi ad accorgersi del “problema” furono – per forza... – i bolscevichi russi, che nelle elezioni post-rivoluzionarie dell’Assemblea Costituente e poi del sistema complessivo dei soviet si ritrovarono ogni volta in minoranza. Va aggiunto che molto rapidamente i bolscevichi misero a punto vari metodi per “riequilibrare” numericamente nei diversi tipi di organismi sovietici i delegati operai e quelli contadini (oppure i delegati delle aree urbane e quelli delle aree rurali), ma anche questo non soddisfece mai Lenin e il suo partito. Ciò mostra che il loro “problema” non era costituito soltanto dal rapporto quantitativo tra le varie classi produttive (contadini, salariati agricoli, operai dell’industria, tecnici, artigiani, commercianti, impiegati impegnati nei vari lavori d’ufficio...), ma anche dall’aspetto qualitativo della cultura popolare dell’epoca: cultura che anche nelle città – e persino tra gli operai – era notevolmente impregnata di uno spirito caratterizzato non tanto da ampi orizzonti concettuali e geografici e dall’aspirazione al socialismo, quanto dal legame con la civiltà contadina, artigiana e piccolo-borghese e col suo tipico localismo....
Oltre tutto, non si dimentichi che il socialismo non era incluso fra le parole d’ordine della “rivoluzione d’ottobre”, il che suggerisce intensamente che – specialmente dopo la fine della guerra civile – i bolscevichi in realtà forzarono alquanto la mano al popolo russo col loro voler mantenere il potere nelle proprie esclusive mani sulla base della loro maniera di intendere il progetto socialista, maniera ritenuta da loro molto più “evoluta” delle effettive aspirazioni correnti di gran parte del popolo (che in tal modo divenne sempre più una sorta di avversario per i bolscevichi stessi...). Quindi, in realtà la “rivoluzione d’ottobre” non era stata una rivoluzione veramente socialista, anche se l’avevano effettivamente diretta i bolscevichi – o meglio, sostanzialmente Lenin, a quanto parrebbe – in quanto più abili tatticamente a comprendere che vi era la possibilità di un’insurrezione dotata di un grande sostegno popolare: sostegno che venne ottenuto grazie all’identificazione di alcuni obiettivi condivisi da gran parte della popolazione, cioè appunto la pace, una riforma agraria che consegnasse la terra ai contadini e una democrazia impostata dai lavoratori anziché dalle classi privilegiate.
Il ritirarsi dei bolscevichi da qualsiasi forma di democrazia applicata alla società nel suo insieme – ritiro estremizzato poi da Stalin col rifiuto della democrazia anche all’interno del partito al potere – divenne negli altri paesi “in via di sviluppo” una sorta di Vangelo per i rivoluzionari successivi e, parallelamente, influenzò la sinistra anche nei paesi “sviluppati”, sull’onda delle varie conquiste del potere effettuate con successo da quei rivoluzionari, prima appunto in Russia e poi in Cina, a Cuba, ecc.. Nel mondo “sviluppato”, però, l’atteggiamento accentratore, statalista e antidemocratico propugnato in parte dal leninismo e con una inscalfibile convinzione da stalinismo, maoismo, ecc. ebbe meno successo, scontrandosi più o meno seccamente con le aspirazioni democratiche sviluppatesi col tempo – e maturate ormai – in ampi settori delle classi lavoratrici.... E, tra l’altro, anche nel caso degli eventi rivoluzionari cinese, cubano, ecc. ci si potrebbe chiedere legittimamente quanta parte del popolo, anche proprio nelle aree urbane e ancor più specificamente tra gli operai, apprezzasse davvero l’idea di un rapido passaggio ad un’economia “socialista” – o forse si dovrebbe dire “statalista” – strettamente diretta dalla dirigenza di un partito unico al potere (come in Cina) o da un’autocratica “élite rivoluzionaria” (come a Cuba) e quanta parte preferisse un’evoluzione economico-produttiva più lenta e variegata e più indirizzata dal popolo stesso attraverso delle pubbliche istituzioni effettivamente democratiche.
In breve, mentre il progressivo passaggio da «funzioni statali» a «funzioni sociali» prospettato da Marx accennava chiaramente a crescenti forme pratiche di autogoverno della popolazione dopo una rivoluzione socialista, invece dopo le rivoluzioni novecentesche vi è stato sistematicamente un grande irrigidimento sulle “funzioni statali” e un intenso mettere in disparte le “funzioni sociali”. Anche da questo specifico punto di vista il cosiddetto “socialismo reale” novecentesco si è rivelato catastrofico per quanto riguarda l’effettiva partecipazione popolare alla sfera politico-economica, mostrando alla fin fine di essere diventato col tempo – specialmente appunto dopo l’avvento di Stalin nell’Urss e il grande seguito mondiale dato a molte delle idee e prospettive da lui formulate – semplicemente un progressivo passaggio da una forma di aspro dirigismo ad un’altra....
Dopo le rivoluzioni in questione, è solitamente avvenuto un grande cambiamento produttivo ed economico già nell’arco di uno o due decenni, con un grande incremento sia del lavoro salariato, sia dell’industria, sia dell’accesso popolare a una certa istruzione (necessaria anche per un’adeguata formazione professionale dei lavoratori del periodo corrente e del futuro), sia dell’urbanizzazione. A sua volta, il fatto che questo cambiamento non abbia minimamente mutato il dirigismo formatosi nelle élite insediatesi al timone dell’economia e dello Stato mostra con ancor più evidenza che quello che ai bolscevichi appariva come un problema di carattere soprattutto sociologico è divenuto rapidamente un problema di carattere fondamentalmente politico: un problema di potere. In altre parole, il principale problema di fondo è il sempre più irriducibile attaccamento sviluppato nei confronti del potere da una serie di esponenti del gruppo politico dominante, che ogni volta hanno cercato – e cercano – di giustificare tale attaccamento con infondate e del tutto implausibili considerazioni sul bisogno che la società ha della loro impareggiabile competenza e delle loro grandiose ed uniche capacità intellettuali, progettuali e amministrative....
[19] Nel breve periodo, tuttavia, una struttura nazionale o regionale basata sui Consigli dei lavoratori può rivelarsi estremamente efficace, ponendosi come una sorta di possibile situazione intermedia tra un comitato rivoluzionario ristretto (con una funzione analoga a quella che ebbero p.es. il CLN in Italia durante la seconda guerra mondiale o gli organismi di coordinamento dei rivoluzionari in occasione di un’insurrezione in questa o quella parte del mondo) e una struttura istituzionale molto ampia e tendenzialmente molto duratura come p.es. l’insieme formato dal Parlamento, dal governo e dagli enti locali in un paese a democrazia rappresentativa.
[20] Su tale tensione cfr. la prima parte del presente intervento.
[21] Cfr. su questo specialmente i vari scritti filosofici marxiani degli anni 1841-47 e testi engelsiani come l’Antidühring (del 1878) e Dialettica della natura (una raccolta di scritti risalenti in grandissima parte agli anni ’70 e ’80, mai completata dall’autore a causa dei tanti impegni e pubblicata postuma in un’edizione effettivamente affidabile solo nel 1952, dopo una prima edizione molto manchevole nel 1925 e una parzialmente migliorata nel 1935).
[22] Alla fin fine, buona parte delle differenze esistenti tra il socialismo marx-engelsiano e le due correnti principali della sinistra novecentesca potrebbe essere riassunta con i punti che seguono.
Per Marx ed Engels, come già si è notato, «l’emancipazione delle classi lavoratrici dev’essere opera dei lavoratori stessi» (come dicevano gli statuti della prima “Internazionale”, che operò dal 1864 al 1876 e che all’epoca raccoglieva gran parte delle correnti politiche e sindacali collegate ai lavoratori) e le classi lavoratrici in questo loro agire cercano di conquistare – in maniera alquanto ovvia e naturale – già nell’attuale società borghese un’ampia democrazia, che dovrebbe rafforzarsi ancor più sia in un’eventuale società di transizione al socialismo sia poi in un’eventuale società socialista (democrazia che quindi permetterebbe a tali classi di compiere progressivamente il loro percorso di autoemancipazione). Diversamente, nella “sinistra moderata” e nella “sinistra rivoluzionaria” novecentesche si è imposto sempre più un atteggiamento elitario che considera sostanzialmente incapaci di autoemanciparsi i lavoratori e che quindi pretende di affiancarli necessariamente e paternalisticamente con, a seconda dei casi, dei burocrati operanti nel mondo politico e nei sindacati oppure con dei “rivoluzionari di professione” (spesso trasformati ormai in burocrati anch’essi...); questo atteggiamento finisce, parallelamente, col disprezzare la democrazia effettiva e col proporre una sostanziale partitocrazia che situi di fatto il potere politico non nella “sovranità popolare” (a parole osannata sistematicamente da ciascuna delle varie forme di tale partitocrazia...), ma in una “casta politica” come quella che si era già formata negli Usa raccogliendo critiche feroci e giustificatissime da parte di Marx ed Engels e di numerosi altri commentatori (e che poi in pratica si è espansa a quasi tutto il mondo ad economia di mercato) oppure in una élite strettamente e rigidamente monopartitica come quella stabilizzatasi in Russia con Stalin negli scorsi anni ’30 (e poi “copiata” a livello strutturale dopo ognuna delle successive rivoluzioni novecentesche di ispirazione socialista).
Da un lato, autoemancipazione delle classi lavoratrici e democrazia; dall’altro, paternalistico e manipolatorio rifiuto sia di lasciare a tali classi la gestione della società presente e la costruzione prospettica della società futura, un giorno dopo l’altro, sia di rinunciare alla struttura sociale intensamente gerarchica che è tipica della civiltà patriarcale (e che è caratterizzata strutturalmente dalla tendenza a varie e pesanti forme di alienazione, a partire dal classismo di fondo che si sviluppa in qualsiasi gerarchia sociale consolidata e dalla deformazione maschilista del naturale rapporto uomo-donna al quale Marx ed Engels dedicarono molta attenzione specialmente nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, l’uno, e in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, del 1884, l’altro). In questo modo, nel Novecento le classi lavoratrici sono state praticamente espropriate non solo del potere politico a cui stavano avvicinandosi nel corso dell’Ottocento, ma anche di quanto da loro costruito sul piano culturale e appunto politico durante tutto quel secolo....
[23] Nonostante le numerose rivoluzioni di ispirazione socialista che hanno avuto successo nei cosiddetti paesi “in via di sviluppo” durante il ’900, vi è stato un pieno fallimento dei vari tentativi di costruire in tali paesi società non solo stataliste (caratteristica questa alquanto “facile” da concretizzare, una volta conquistato il potere militare e politico) ma anche socialiste, o per lo meno di transizione al socialismo (definizioni queste che, secondo il pensiero di Marx ed Engels e degli altri principali esponenti del socialismo ottocentesco, implicherebbero nel paese una capacità democratica concreta per lo meno pari alla capacità democratica delle democrazie rappresentative “borghesi”, così come avvenne p.es. nella “Comune di Parigi”, in cui tra l’altro predominavano di gran lunga non i socialisti vicini a Marx ed Engels ma quelli “proudhoniani” e “blanquisti”). A questo proposito, si può aggiungere che fino sostanzialmente all’ultimo articolo elaborato da Lenin – il già citato Meglio meno, ma meglio, pubblicato sulla Pravda del 4 marzo 1923 – una tale concezione della società di transizione al socialismo e del socialismo stesso stradominò nel movimento socialista internazionale.
Quell’articolo, provenendo da una figura molto autorevole di tale movimento e suggerendo la possibilità che in Russia il partito bolscevico – o meglio, la sua dirigenza – mantenesse il potere strettamente nelle proprie mani a lungo, e non solamente per un breve periodo transitorio prima di un rapido e pieno riassestamento delle procedure democratiche nel paese, produsse una grossa crepa in quel pressoché universale apprezzamento socialista per la democrazia e aprì la porta all’idea di una duratura e stabile partitocrazia post-rivoluzionaria nel nome della transizione al socialismo. Dopo che Stalin ebbe spalancato ed attraversato con decisione quella porta, la situazione da lui creata divenne la nuova “normalità” per i rivoluzionari socialisti dei paesi “in via di sviluppo”, nonostante gli orribili misfatti compiuti da lui e dai suoi principali collaboratori. Nemmeno le rivelazioni che Krusciov fece nel 1956 su quei misfatti, rendendoli evidenti anche a chi in precedenza aveva sempre cercato di non vederli, cambiò le carte in tavola: lo stalinismo rimase in pratica la bandiera di gran parte di quei rivoluzionari e, anzi, Mao Tze-tung e il suo gruppo dirigente cinese litigarono profondamente con Krusciov e il suo gruppo dirigente russo anche riguardo a come valutare Stalin.... Mao divenne addirittura un “maestro” nell’imbonire i cinesi sul fatto che la cosiddetta “democrazia” post-rivoluzionaria cinese (cioè il potere pressoché assoluto della dirigenza del partito di Mao) era infinitamente più avanzata ed evoluta della misera democrazia borghese (che permetteva ignobilmente di votare indistintamente a lavoratori, tecnici, intellettuali, imprenditori, ecc., e non solo ai convinti rivoluzionari raggruppati in quella dirigenza e ai loro fedeli seguaci...). Su questo aspetto dell’oratoria di Mao cfr. anche il paragrafo “Appunti su classi popolari e mondo politico nei paesi dell’UE ed oltre e su movimento socialista e democrazia”, parte di un precedente intervento qui ricordato nella nota 1.
Nel complesso, quel pieno fallimento appare costituire in effetti una conferma delle considerazioni storiche sviluppate da Marx ed Engels, dato anche che esso ha affondato le sue radici proprio nei meccanismi da loro previsti: tendenza alla formazione di strati sociali miranti alla marcata conquista di privilegi e potere rispetto al resto della società; tendenza alla scarsità di una coscienza socialista nelle società fondate principalmente sull’attività produttiva contadina e su altre forme di produzione a base tipicamente famigliare o individuale, come l’artigianato (in cui sono molto frequenti appunto le “botteghe artigiane” dirette da una persona o da alcuni famigliari e completate da alcuni apprendisti ed eventualmente da qualche operaio dipendente); tendenza dei paesi organizzati sulla base del capitalismo a non collaborare con paesi orientati al socialismo e a scontrarsi più o meno esplicitamente con loro, dal punto di vista economico ed eventualmente anche militare. Questo ovviamente non significa affatto che Marx ed Engels non avrebbero condiviso e sostenuto le rivoluzioni novecentesche in questione, anzi: significa soltanto che dopo tali rivoluzioni essi avrebbero considerato più sano e sensato – e tanto più dopo le prime avvisaglie di una profonda sfasatura tra i socialisti e la maggioranza della popolazione del paese – impostare il periodo post-rivoluzionario non in un senso statalista, accentratore e calato dall’alto, ma in un senso democratico, il più possibile progressista e pronto anche ad accettare un orientamento generale basato strutturalmente sull’economia di mercato se fosse stato questo il punto di vista manifestato democraticamente da gran parte della popolazione (sulla questione si vedano le indicazioni bibliografiche riportate qui nelle note 7 e 8).
Tutto ciò risulta ancor più motivato dopo che negli scorsi anni ’30 le esperienze di “economia keynesiana” hanno portato nel capitalismo (che oggi costituisce la modalità espressiva principale dell’economia di mercato) possibilità operative radicalmente diverse dal liberismo che aveva imperato sino ad allora e – rispetto ad esso – nettamente più capaci di tenere in considerazione non solo le dinamiche del profitto ma anche le esigenze delle classi lavoratrici. Inoltre, per degli accenni a delle forme produttive tendenzialmente alternative che appaiono attualmente possibili in un’economia di mercato oltre al capitalismo, cfr. in particolare l’intervento già menzionato Quale economia oggi per il bene comune? (specialmente il paragrafo “Integrare pluralisticamente il mercato”) e qui la nota 4. Chiaramente, il neoliberismo si è posto in estremo contrasto con l’“economia keynesiana” e con queste forme alternative ed ha ripristinato da parte delle classi privilegiate l’asperrimo e diretto atteggiamento di scontro nei confronti delle classi popolari che caratterizzava il liberismo dell’Ottocento e dei primi del Novecento. Adesso però si tratta di un atteggiamento ancor più becero, feroce e umanamente ingiustificabile, dal momento che si conoscono ampiamente altre – e decisamente funzionali – modalità di gestione dell’economia di mercato, a partire appunto dalle elaborazioni di Keynes e dagli aggiornamenti e approfondimenti apportati ad esse da vari autori, anche come effetto di esperienze sostenute da movimenti socialmente alternativi (su quelli che possono essere indicativamente considerati i principali di tali autori cfr. più avanti la nota 3 della terza parte del presente intervento e, inoltre, la parte finale della nota 4 di questa seconda parte). Peraltro, questo medesimo discorso può essere applicato alla fin fine anche ai regimi del cosiddetto “socialismo reale”: benché appunto a partire dagli anni ’30 le potenzialità dell’economia di mercato applicabili socialmente si siano ampliate di molto rispetto all’epoca di Marx o a quella di Lenin, questi regimi hanno continuato ad opporsi strutturalmente a tale economia come se fosse inevitabilmente un vero e proprio inferno per le classi popolari (quale tendeva ad essere di fatto, e pressoché incurabilmente, in quelle epoche) e a proporre il proprio statalismo autoritario e gerarchico come qualcosa di indiscutibilmente molto migliore per tali classi, quando chiunque si può rendere conto che non era – e non è – affatto così. Non a caso, il regime cinese collabora in maniera strettissima con diverse delle multinazionali più antioperaie e sfruttatrici che esistono nel pianeta e, più in generale, con la logica stessa dell’attuale globalizzazione neoliberista: tra simili evidentemente ci si riconosce, e si coopera senza difficoltà....
È ovviamente da specificare con queste considerazioni non s’intende minimamente significare che se Marx ed Engels avessero conosciuto le “politiche keynesiane” avrebbero abbracciato il capitalismo, ma semplicemente che avrebbero cercato di fare uso delle potenzialità insite in esse e non avrebbero avuto alcun problema a fare pieno ricorso anche a tali politiche nel percorso di creatività e lotta delle classi lavoratrici verso l’emancipazione propria e dell’umanità in genere, come già si è messo in rilievo in Oltre Keynes (Rocca, 1° luglio 2017), un articolo disponibile anche al seguente indirizzo:
https://www.sinistrainrete.info/keynes/10306-luca-benedini-oltre-keynes.html”.
[24] Appare opportuno mettere qui in evidenza anche che, durante il ’900, in diversi paesi la “sinistra rivoluzionaria” ha preso l’avvio esprimendo una notevole componente spontanea che la rendeva abbastanza simile a quella che nel periodo intorno al ’68 venne poi chiamata “sinistra spontaneista”; generalmente, solo dopo qualche anno – e specialmente dopo una vittoriosa rivoluzione nazionale – si è potuto riscontrare un ormai stabilizzato cambiamento da una predominante spontaneità variegata e innovatrice a un sempre più pressante ricorso alla rigidità, a un orientamento di tipo fortemente gerarchico, a un’aspra emarginazione dei “dissidenti” e ad altri aspetti sociali e culturali quanto mai caratteristici delle società patriarcali (dal sessismo al fideismo nei confronti dei leader, da un tipico moralismo per lo più di facciata al dare grande importanza agli armamenti, ecc.). Ciò è avvenuto in modo palese sia nella Russia della “rivoluzione d’ottobre”, sia nella Cina della rivoluzione della “lunga marcia”, sia nella Cuba della rivoluzione di Fidel e del “Che”, e così via. Dopo questo tipo di esperienze, in ulteriori parti del mondo le varie formazioni della “sinistra rivoluzionaria” hanno cominciato sempre più a costituirsi sin dagli inizi in maniere rigide e dogmatiche, al punto che in Occidente il ’68 (che ha visto una proliferazione di nuovi movimenti, soprattutto tra i giovani) è stato caratterizzato da una sostanziale e alquanto netta separazione tra la corrente “rivoluzionaria”, generalmente ispirata soprattutto a Lenin, e la corrente “spontaneista”, più legata o a un’assenza di figure politiche di chiaro riferimento o a figure politiche estremamente irregolari come p.es. il “Che” Guevara. Quest’ultimo a un certo punto si allontanò radicalmente da Cuba – nonostante l’avvenuta rivoluzione, che si stava rivelando sempre meno appagante per lui – per “fare il rivoluzionario” in altri paesi, senza peraltro riuscire ad ottenere molto successo (anzi, in una di queste sue missioni – che alla fin fine, benché indubbiamente coraggiose e ricche di entusiasmo, stavano tra l’avventuroso, per certi versi l’inutile e un po’ lo scriteriato, perché poco preparate sul luogo dal punto di vista socio-politico e culturale – fini col trovare una scarsa accoglienza, una pesante emarginazione e infine la cattura e la morte).
[25] Il ’68 ha cercato di riprendere il percorso di autoemancipazione delle classi lavoratrici che era stato elaborato e avviato nell’Ottocento e che si era poi praticamente interrotto durante il Novecento (cfr. qui la nota 22). Purtroppo si è trattato però di un tentativo troppo parziale e troppo sradicato, risultando anche, in questo, per certi versi troppo poco intuitivo o troppo “ignorante”: si è ripartiti in pratica o da zero o da Lenin, come se prima di lui non ci fosse stato niente di davvero significativo e ispirante (e, oltre tutto, lui stesso era stato un grande tattico nella vita sociale e politica della Russia ma si è poi trovato in grandissime – e non casuali – difficoltà dal punto di vista delle strategie a medio-lungo termine). Il Marx ricordato – e preso in considerazione – nel ’68 era in fondo il Marx filtrato attraverso Lenin (che lo aveva piegato moltissimo ai propri modi personali di vedere la vita sociale e la storia) più, per alcuni che erano particolarmente inclini allo studio, il Marx giovanile dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (che erano stati pubblicati solo nel 1932 e che Lenin ovviamente non aveva avuto a disposizione). In questo testo – rimasto nella forma di bozza incompiuta anche per le difficoltà incontrate da Marx nel cercare un editore – si potevano trovare orizzonti filosofici e culturali che non potevano essere compressi nel leninismo (a partire dal tema dell’alienazione e da quello della qualità esistenziale del vivere) e che però erano stati ancora poco vagliati dal dibattito internazionale. In tal modo, la loro capacità di illuminare aspetti del pensiero di Marx che avevano continuato ad essere vivi e vitali nel corso di tutta la sua vita, senza tuttavia che – dopo l’ondata rivoluzionaria del 1848 – egli dedicasse loro un spazio particolarmente corposo e ponesse su di loro una marcata accentuazione, era ancora fragile e poco sondata. Anche il movimento culturale della new age, che si avviò lentamente intorno al ’68 e che cercò invece anche altre fonti d’ispirazione in secoli precedenti, ha sofferto di problematiche intrinsecamente non molto dissimili, traendo spunto generalmente da più o meno antiche filosofie orientali però colte tipicamente con superficialità, in modo poco profondo.... Nei decenni dopo il ’68, diversi rami del movimento femminista e del pensiero olistico hanno saputo andare oltre una parte molto ampia di tutte queste problematiche, complicazioni, difficoltà, ecc., ma sino ad ora – nonostante gli straordinari sviluppi che sono riusciti ad avere – sono rimasti purtroppo una sorta di “fenomeno di nicchia” proprio nelle loro caratteristiche più creative e profonde.
Quello che allo stato attuale appare essere il principale “punto debole” di tale movimento e di tale pensiero – come del resto di tutto l’insieme degli odierni movimenti alternativi – è il rapporto delle persone con la politica. Su tale rapporto e sulle possibilità di una sua rivitalizzazione in campo sia istituzionale, sia operativo in generale, cfr. alcuni interventi già menzionati: Oltre il “busillis” dei sistemi elettorali e Una radicale controlettura della questione delle Province da dentro la “società civile” (entrambi del 2014) e soprattutto Dopo gli errori di Seattle (del 2018). Come introduzione alla questione possono risultare efficaci anche il dossier di una quindicina d’anni fa La caduta della politica in Italia (e non solo) (Mantova Beppe Grillo Meetup Group, 2007) e i tre successivi articoli Da Seattle alla crisi dei mutui (Rocca, 15 aprile 2009), Lavoratori e globalizzazione (La Civetta, settembre 2010) e Riappropriarsi della politica: una sfida per la “società civile” (id., settembre 2011). Inoltre – dal momento che la problematica più pesante vissuta nella politica da un capo all’altro del pianeta appare essere costituita da secoli, e a un livello gravissimo, dalla diffusa tendenza delle persone di ogni classe a maniere dualiste di reagire emotivamente e di pensare – su tale tendenza culturale nel mondo moderno e sulla ricerca di modi per superarla si vedano, da un lato, specialmente l’intera opera di Erich Fromm, di Carl R. Rogers, di Krishnamurti, di Mary Daly, di Riane Eisler e di Robin Norwood e, dall’altro lato, le specifiche considerazioni sulla filosofia dialettica presentate soprattutto da Fromm in L’arte d’amare (Il Saggiatore, 1963), nel libro a più mani Psicoanalisi e buddhismo zen, realizzato con Daisetz Teitaro Suzuki e Richard De Martino (Astrolabio, 1968), e in Marx e Freud - Oltre le catene dell’illusione (Il Saggiatore, 1968, 1989) e da Vito Mancuso in Il coraggio di essere liberi (Garzanti, 2016), oltre ad un testo pienamente intriso di spirito dialettico come è il già citato Il piacere è sacro, di Riane Eisler. Vale la pena di ricordare qui che i dualismi sono in pratica il contrario della filosofia dialettica (sulla quale nel presente intervento si veda anche, più avanti, la nota 4 della terza parte). Il dossier del 2007 e i tre articoli dal 2009 al 2011 sono disponibili a questi indirizzi rispettivi:
https://share.mail.libero.it/ajax/share/0543fe5a0ba331425f7da1cba3314f49b4a603df9ecac199/1/8/MjY/MjYvMTk”;
https://share.mail.libero.it/ajax/share/0f57a81608400140fe38c50840014858a61dac2dafc1555e/1/8/MjY/MjYvNg”;
http://www.civetta.info/download/civetta_08_10.pdf” (pag. 16);
http://www.civetta.info/download/civetta_08_11.pdf” (pag. 18).

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III
Che cosa farsene oggi della democrazia: riflessioni a partire da don Milani e dal pensiero olistico

A partire in pratica dai decenni centrali del ’900, una serie di aspetti della vita sociale hanno reso evidente che la conoscenza è ormai diventata il principale fattore-chiave per poter incidere dal punto di vista pratico sull’andamento della società: tra questi aspetti, in special modo l’evoluzione scientifica e tecnologica, il concreto e complesso svilupparsi delle forme di programmazione economica (dalle politiche keynesiane ai tentativi di pianificazione ispirati a concetti socialisti), la crescente diffusione delle istituzioni pubbliche almeno formalmente democratiche e la proliferazione di norme avvenuta nelle varie legislazioni nazionali e nel diritto internazionale.

Si è trattato di un cambiamento piuttosto radicale rispetto alle epoche precedenti, quando il potere politico poggiava più che altro sulla “canna del fucile” (riferimento simbolico alle forze armate in genere, inclusa la capacità produttiva applicata agli armamenti), oltre che eventualmente sulla ricchezza come capacità di acquisire “risorse materiali e umane”.

 

Gli anni ’60 e don Milani

La voce che in questo senso è stata più pronta, attenta e “al passo coi tempi” appare essere molto probabilmente quella di don Lorenzo Milani, che già negli anni ’60, dall’emarginatissima scuola popolare di Barbiana, sottolineò che uno dei motivi principali per cui sia i ricchi e i potenti che i poveri e gli esclusi sono tali è il fatto che – detto ovviamente in modo molto sintetico e in parte simbolico – i primi “conoscono molte più parole” [1]....

Intorno a questa maggiore conoscenza gira un gran numero di aspetti della società attuale, col risultato pratico che le classi e i ceti privilegiati sono comunemente molto più al corrente sia degli eventi contemporanei, dei loro moventi effettivi e delle loro prospettive, sia dei meccanismi interni della società stessa. Ovviamente, molti esponenti delle élite economiche hanno personalmente conoscenze alquanto limitate su un gran numero di queste tematiche, ma pagano profumatamente degli esperti (ingegneri, scienziati, economisti, giuristi, politologi, ecc.) perché lavorino a favore delle élite in questione eventualmente facendo loro anche da consulenti e – all’occorrenza – da megafoni mediatici....

Entrando maggiormente nei particolari, non si può non notare che le forme di programmazione economica hanno fornito alla pubblica amministrazione (P.A.) una capacità molto più grande di intromettersi nell’economia e di darle indirizzi, mentre il diffondersi delle istituzioni democratiche ha fornito ai popoli una possibilità molto ampia di intromettersi nella vita della P.A. e di darle indirizzi. In tal modo i popoli, che sono costituiti in gran parte da lavoratori e non certo dagli esponenti di classi e ceti sociali privilegiati, hanno una possibilità estremamente profonda di intromettersi nella vita economica e di darle indirizzi, attraverso la P.A. e quindi attraverso la politica.

Ma, perché questa possibilità popolare possa esprimersi davvero, occorre che i popoli stessi comprendano almeno nei sommi capi come funzionano l’economia, il rapporto tra P.A. ed economia e il rapporto tra “cittadini comuni” e P.A.. Altrimenti, il primo politico o il primo economista che passa può raccontare alle classi popolari qualunque bubbola e queste potrebbero credergli anche se si tratta di colossali stupidaggini....

Tra l’altro, questo è appunto ciò che è avvenuto nel mondo a partire dagli scorsi anni ’80, con le varie entità sovranazionali – come ad esempio il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio (maggiormente nota con l’acronimo inglese, WTO) e la stessa UE – gestite di solito dai vari governi senza minimamente consultare i cittadini, col progressivo affermarsi del neoliberismo e con le tante elezioni che in un gran numero di paesi hanno visto vincere partiti ed esponenti politici che erano più o meno esplicitamente sostenitori dell’approccio neoliberista all’economia. Alcuni esempi particolarmente eclatanti di tali bubbole colossali – prive di un effettivo senso economico ma estremamente vantaggiose per le élite miranti ad espandere costantemente il proprio accesso a ricchezze, potere e privilegi – sono stati i famigerati “piani di aggiustamento strutturale” del Fmi e i programmi di austerità predisposti da entità subcontinentali come per esempio l’UE degli ultimi decenni.

In tutto questo, una delle questioni fondamentali è il fatto che in molti paesi i principali avversari politici dei neoliberisti erano dei “keynesiani fasulli” che usavano strumentalmente le politiche keynesiane per godere soprattutto degli effetti di pratiche come la corruzione, il clientelismo e il malgoverno: pratiche che possono approfittare del corposo ruolo che tali politiche affidano alla P.A. [2]. In tal modo, in molti paesi le classi popolari non sono riuscite per decenni a dar vita a forze politiche autenticamente interessate al “bene comune” e ad un congruo impiego delle politiche keynesiane, ma sono rimaste prese tra l’incudine dei politici “keynesiani fasulli” e il martello dei politici neoliberisti.... Una doppia fregatura possibile soltanto grazie all’estrema ignoranza popolare inerente a temi come appunto il funzionamento dell’economia, le possibilità di indirizzarla attraverso la P.A. e i meccanismi intrinseci delle istituzioni democratiche che a loro volta indirizzano la P.A..

Finché le classi popolari lasceranno che di economia e di pubbliche istituzioni si interessino solamente coloro che intendono usare l’economia stessa e quelle istituzioni contro tali classi, come stupirsi se l’economia e le pubbliche istituzioni continuano appunto a funzionare contro tali classi...?

Oltre tutto, benché le élite economiche e politiche tendano ad accreditare l’idea che l’economia e la gestione complessiva delle pubbliche istituzioni siano faccende estremamente complicate (così da scoraggiare il più possibile un’attenzione popolare rivolta verso di esse...), l’opera divulgativa di vari autori ha mostrato che le cose in realtà non stanno affatto così e che non occorre una duplice laurea in economia e in scienze politiche per comprendere come vanno le cose nella vita sociale e come incidere costruttivamente con forza su di esse [3].

 

Il mondo odierno e l’approccio olistico

Rispetto all’epoca di don Milani, la questione è oggi resa ancor più cruciale e multiforme dalla complessità sempre crescente (tecnologica, economica, normativa, istituzionale, mediatica, ecc.) della società attuale, dall’accumularsi di una grave crisi ambientale planetaria e dall’ormai imprescindibile diffusione della globalizzazione, che rende tendenzialmente rilevante nelle varie parti del mondo non solo ciò che avviene a livello locale, ma anche ciò che avviene – per lo meno in campi come l’economia, l’attività produttiva, l’ambiente e indirettamente la politica – in qualsiasi altra parte del mondo. A confronto con gli scorsi anni ’60, tutti e tre questi fattori accrescono ulteriormente il corpus di conoscenze e i contatti interpersonali di cui si ha bisogno sia in molte attività professionali, sia – evidentemente – nell’azione politica se si vuole che questa sia puntuale, incisiva e centrata.

Anche per questo – a fianco dell’evidente esigenza popolare di comprendere meglio campi specifici come l’economia e la democrazia e le loro interrelazioni – oggi appare necessaria una vera e propria cultura a 360 gradi. In altre parole, oggi occorre un po’ a tutti una cultura olistica, come è stata quella sia degli esponenti di spicco di basilari movimenti culturali dell’era moderna come il Rinascimento e l’Illuminismo, sia di approcci filosofici come il “socialismo scientifico” marx-engelsiano, il “principio dialogico” di Martin Buber e la psicoanalisi umanistica di Erich Fromm, sia delle correnti di pensiero che negli ultimi decenni hanno intrecciato tra loro le tematiche di movimenti come quelli connessi ai diritti umani, al femminismo, all’ambientalismo, all’evoluzione scientifica e alla ricerca spirituale.

È un ampliamento culturale che appare necessario anche a fronte dell’intensa opera di “persuasione occulta” che le élite economiche e politiche del globo stanno attuando nei confronti delle classi popolari per convincerle della indubitabile validità di concetti come il neoliberismo, il consumismo, il delegare la politica ai politici di professione (così che questi possano facilmente costituire una vera e propria “casta”...) e la spettacolarizzazione del vivere (attraverso per esempio i social network, il divismo che ormai permea non solo cinema e tv ma anche musica e sport, i riti collettivi come l’happy hour e le discoteche a tutto volume, più in generale la “cultura di massa” diffusa dai maggiori mass-media, e via dicendo) [4].

Ciascuno poi sceglierà in base alla sua situazione personale su quali argomenti concentrarsi maggiormente nella sua vita concreta. Ma un aspetto nodale che appare strutturalmente collegato a questo percorso culturale è il fatto che, poiché ovviamente a nessuno si richiede un’erudizione enciclopedica, dovrebbe risultare vitale la capacità di ciascuno di collaborare creativamente con numerosi altri per costruire assieme – anche attraverso una particolare attenzione per l’ascolto e per la comunicatività – un movimento sfaccettato [5] che sappia occuparsi in maniera alternativa e costruttiva dei molteplici e svariati aspetti della vita sociale.


Note alla parte III
[1] Cfr. specialmente Lettera a una professoressa (Lef, 1967): un testo realizzato dalla Scuola di Barbiana, dove appunto si è concretizzata a lungo l’opera di don Milani.
[2] L’azione di questa tipologia di politici è stata già ricordata p.es. in Chi ha paura dello Stato sociale? (La Civetta, dicembre 2011) e nel già citato Oltre Keynes. L’articolo del 2011 è in rete a questo indirizzo:
http://www.civetta.info/download/civetta_11_11.pdf” (pag. 13).
[3] Cfr. p.es., negli ultimi decenni, autori come in particolar modo Joseph E. Stiglitz, Giuliana Martirani, Rob Van Drimmelen, Muhammad Yunus, Vandana Shiva, André Gorz, Greg Palast, Elinor Ostrom, Luigino Bruni, Stefano Zamagni, Riane Eisler, Paul Krugman, Thomas Piketty, Gaël Giraud, Lori Wallach, Ina Praetorius e Thomas Fazi. Si veda anche il già ricordato Quale economia oggi per il bene comune? (del 2018). Estremamente significativo è stato anche Michal Kalecki, che nei confronti di Keynes è stato – più che un continuatore – un prezioso commentatore. Di lui si veda in particolare un fondamentale articolo del 1943, in cui sono stati previsti con grande precisione gli aspetti socio-economici essenziali della società occidentale emersi poi negli anni ’60, ’70 e ’80. È uno scritto apparso anche in questo sito, all’indirizzo “https://www.sinistrainrete.info/teoria-economica/2834-micha-kalecki-aspetti-politici-del-pieno-impiego.html”.
Le esperienze e le opere di autori come questi e come gli altri già ricordati nella nota 4 della seconda parte di questo intervento mostrano che a livello mondiale il lato economico della politica e dell’azione pubblica è stato discusso, esaminato e approfondito molto ampiamente anche in maniere effettivamente impegnate e ricche di stimoli riguardanti l’intera vita sociale attuale, benché purtroppo in quasi tutti i paesi queste esperienze vivamente concrete o prospettiche e questi intensi dialoghi siano riusciti molto poco ad entrare nella cultura popolare (di solito influenzata molto fortemente da una superficiale e banalizzante “cultura di massa” che i maggiori mass-media propongono tipicamente con un’insistenza pressoché instancabile...). Su alcuni di questi argomenti può risultare utile anche Il neoliberismo non è una teoria economica, scritto pubblicato in tre parti nel sito di “Sinistra in rete” tra il dicembre 2019 e il luglio 2020. La prima delle tre parti di questo scritto (le altre due sono state già segnalate nella nota 4 della prima parte del presente intervento) si trova all’indirizzo seguente:
https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/16503-luca-benedini-il-neoliberismo-non-e-una-teoria-economica.html”.
[4] Il pensiero olistico – che negli ultimi decenni è rappresentato in modo più specifico da autori tra scienza e umanesimo come p.es. Fritjof Capra, Lynn Margulis, Vandana Shiva e Bill Mollison, ma è in pratica condiviso anche da molti altri, in campi più particolari o di portata più limitata – è anche un eccellente antidoto nei confronti del fatto che l’attuale sistema scolastico e universitario (con la sua tendenza alla iper-specializzazione) e l’odierna “cultura di massa” (con la sua caotica superficialità) finiscono ambedue col lasciare le persone praticamente prive di strumenti davvero efficaci e adeguati di fronte all’enorme massa di informazioni che passa attraverso i media al giorno d’oggi. Per alcuni approfondimenti su pensiero olistico e filosofia dialettica si veda l’appendice.
[5] Si tratta di un tema che da un lato è estremamente semplice e lapalissianamente evidente in se stesso e che, nel contempo, da un altro lato ha profonde connessioni con alcuni complessi aspetti di quanto si è osservato in due interventi già menzionati: nel 2011 in Riappropriarsi della politica: una sfida per la “società civile” e nel 2018 in Dopo gli errori di Seattle (in particolare nel paragrafo “Fratture novecentesche” e nella quinta e ultima parte del “Commento per ‘Sinistra in rete’”). Costituisce anche uno dei principali aspetti di quanto si è notato sul rapporto tra persone e politica – senza addentrarsi nei particolari – nella nota 25 della seconda parte del presente intervento
In sintesi, la questione di fondo è che occuparsi efficacemente di politica richiede una capacità di operare con efficacia a 360 gradi, cioè in tutti gli aspetti essenziali della vita di una società. Se si prendono in considerazione le quattro principali correnti della cosiddetta “sinistra” nel ’900 ed oltre, si colgono immediatamente e indiscutibilmente i loro enormi limiti o addirittura il loro predominante aspetto controproducente. La “sinistra moderata” è diventata una stampella – spesso di fondamentale rilevanza – di un potere politico-economico borghese che da più di un secolo continua a produrre a dismisura indicibili forme di sfruttamento e di alienazione, conflitti armati di molti generi (ma sempre sanguinosi, brutali e pretenziosamente aggressivi), e via dicendo.... La “sinistra rivoluzionaria” si è trasformata in vari tipi di incubo (tipicamente peggiori del loro supposto avversario borghese in molti aspetti ma non in tutti), mostrandosi altrettanto elitaria e ambiziosa, ancor più autoritaria e ipocrita, e però meno feroce tanto economicamente nei confronti dei ceti sociali più deboli quanto militarmente con gli altri paesi: due caratteristiche che compensano in una certa misura il maggiore ricorso all’autoritarismo e all’ipocrisia, con l’effetto che ad esempio dopo il crollo dell’Urss una parte considerevole – ma non maggioritaria – della popolazione ha ripetutamente espresso la sua preferenza per il regime precedente, rispetto alle tendenze democratiche che l’hanno sostituito (e che in numerosi casi sono risultate più formali che sostanziali).... La “sinistra riformista-keynesiana” (che peraltro ha trovato notevole spazio con una certa continuità solo in quei pochi paesi in cui un consistente “spirito civico” popolare e la presenza di istituzioni democratiche basate su sistemi elettorali di considerevole qualità hanno dato forza a partiti rispecchianti sia quello spirito sia la collegata tendenza amministrativa al senso sociale e all’onestà) si è rivelata tipicamente molto conformista, debole e umanamente insensibile nella politica internazionale, che ha un’enorme peso nelle vicende della società nell’odierno mondo globalizzato e che di solito però per la sua ampiezza e complessità viene scarsamente seguita dalle classi lavoratrici anche in quei paesi.... La “sinistra spontaneista” continua ad esprimere saltuariamente fiammate di impegno sociale ed ambientale particolarmente significative, ma continua anche a rifiutare di approfondire in una maniera sufficientemente profonda vari aspetti della vita sociale che oggi risultano estremamente significativi, come le dinamiche istituzionali, il complesso e sfaccettato rapporto politico-culturale tra le varie classi sociali, gli andamenti dell’economia specialmente sul piano internazionale, e così via. Le ultime fiammate di questo tipo internazionalmente rilevanti possono essere considerate il “movimento di Seattle” degli anni intorno al 2000 (movimento chiamato spesso, e soprattutto dai giornalisti, no global oppure new global) e il recente movimento giovanile dei Fridays for Future, mentre su un piano nazionale si hanno ogni tanto in molti paesi ondate relativamente spontanee di manifestazioni, contestazioni, proteste, ecc. per qualche provvedimento governativo o per l’indirizzo generale di un governo, ma si tratta di movimenti e ondate che continuano ad essere caratterizzati in modo ineludibile e sostanziale dai limiti politici in questione....
Finché questi movimenti orientati alla spontaneità non sapranno andare oltre le pur importanti e necessarie rivendicazioni e proteste su qualche specifico tema e non sapranno fare davvero politica a 360 gradi smettendo di delegarla in quasi tutti i suoi aspetti ai politici – che si trovano oltre tutto alle prese con le innumerevoli e “corpose” profferte delle sempre più ricche lobby economiche attuali... – o finché il lodevole “spirito civico” di certe popolazioni non arriverà ad abbracciare anche i loro rapporti con tutti gli altri paesi (in pratica, la sinistra “moderata” e quella “rivoluzionaria” le si possono dare allo stato attuale per perse, sostanzialmente annegate in un dualismo estremamente miope che percepisce solo un piccolo pezzo della ricchezza esistenziale e culturale umana e in ambizioni personali ormai incontrollate), la cosiddetta “sinistra” e le classi popolari stesse non riprenderanno ad incidere con forza nella vita sociale del mondo di oggi....

* * * *

Appendice

Annotazioni su pensiero olistico e filosofia dialettica

Il pensiero olistico non è altro, in fondo, che una moderna riproposizione della filosofia dialettica di cui si sono occupati con particolare profondità in passato figure seminali come Eraclito, Socrate, Lao-tze, Hui Neng, Marx ed Engels, oltre ad essere anche una sorta di prosecuzione dell’umanesimo che nella cultura europea ha preso corpo specialmente col Rinascimento. Anch’esso comunque – come tale filosofia e come l’umanesimo stesso – ha bisogno di essere ciclicamente aggiornato, di fronte alla continua evoluzione della società, degli eventi, delle scienze e delle tecnologie, e ha bisogno di essere mantenuto fluido, creativo e vitale, a fronte dei tentativi (deliberati o più che altro inconsapevoli) che provenendo da più direzioni tendono invece a svuotarlo sostanzialmente della sua essenza e a renderlo statico, ripetitivo e, in pratica, funzionale ai poteri costituiti e incline ad un certo dogmatismo.

È in pratica una problematica simile a quella che ha colpito con grande rapidità e intensità la filosofia dialettica marx-engelsiana tra la fine del secolo XIX e i primi decenni del XX, con appunto un radicale svuotamento della sua essenza da parte sia di politici come p.es. Eduard Bernstein e Karl Kautsky da un lato e Stalin e Mao Tse-tung dall’altro lato (e prima di questi ultimi due in parte anche da Lenin), sia dei cosiddetti “filosofi” che hanno abbracciato la causa dell’uno o dell’altro di tali politici. Il pensiero fluido, creativo, vitale, antidogmatico e davvero dialettico spaventa enormemente chi ha potere e/o privilegi e vuole conservarli – o addirittura ampliarli – e spesso anche chi ancora non ce li ha ma li vorrebbe molto intensamente (su ciò cfr. anche l’appendice filosofica contenuta nella terza parte del summenzionato Il neoliberismo non è una teoria economica).... Poiché però il pensiero olistico – diversamente dalla filosofia dialettica marx-engelsiana e molto prima da quella della Grecia “classica” – è rimasto finora sostanzialmente una “esperienza culturale di nicchia” (come già si è accennato qui in precedenza) [1], i tentativi tendenti a combatterlo e a svuotarlo di senso sono decisamente meno intensi e persistenti di quelli che sono stati riservati a quelle due filosofie sin da quando giunsero a conquistare un consistente spazio nella vita sociale dell’epoca (Socrate addirittura venne messo a morte perché considerato dai suoi concittadini un pensatore troppo libero, troppo profondo, troppo “impegnato” e troppo destabilizzante...).

Sui politici di cui sopra e sui loro rapporti con la dialettica marx-engelsiana, si vedano in particolar modo – oltre naturalmente alle indicazioni bibliografiche già riportate a proposito di Marx ed Engels [2] – di Bernstein I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (del 1899), di Lenin Materialismo ed empiriocriticismo (del 1909, riedito poi nel 1920 con una nuova introduzione che rispetto alla prima edizione non esprimeva alcun cambiamento di visione da parte dell’autore) e la raccolta postuma Quaderni filosofici (contenente una serie di scritti risalenti soprattutto agli anni ’10 e per lo più pubblicati per la prima volta tra il 1925 e il 1933), di Kautsky La concezione materialistica della storia (del 1927), di Stalin l’opuscolo Materialismo dialettico e materialismo storico (del 1938) e di Mao le raccolte Discorsi inediti (dal 1956 al 1971), a cura di Stuart R. Schram (Mondadori, 1975), e Senza contraddizione non c’è vita - Inediti sulla dialettica, a cura di Fernando Orlandi (Bertani, 1976). In quest’ultimo volume sono riportati in appendice anche scritti politico-filosofici di Mao già ampiamente noti, come Sulla contraddizione, Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo, ecc.. In tutti questi casi, che vanno in pratica dalla fine dell’Ottocento agli scorsi anni ’70, si tratta sistematicamente di rapporti con la dialettica marx-engelsiana mal impostati o addirittura pessimi, e caratterizzati da una marcata – o addirittura estrema – superficialità filosofico-esistenziale. Queste caratteristiche sono state tipicamente mascherate, però, dietro ad immagini di facciata minimizzanti oppure incentrate su degli ipocriti, fasulli e ingiustificati concetti di miglioramento, di aggiornamento scientifico o politico-culturale, e via dicendo.... I successivi esponenti di spicco della cosiddetta “sinistra moderata” dopo Bernstein e Kautsky, così come i successori di Stalin in Urss (Krusciov, Brežnev, ecc.) e di Mao in Cina (Deng Xiaoping, Xi Jinping, ecc.), sostanzialmente non hanno cambiato le concezioni filosofiche relative alla dialettica – e alla sua relazione con la vita concreta – che erano state espresse, prima di loro, da quei loro predecessori.

La questione può essere sintetizzata brevemente prendendo spunto da un recente intervento di Roberto Fineschi su Marx e Hegel [3], in cui si notava molto lucidamente che Marx – diversamente da altri come Hegel appunto o Lassalle – non voleva affatto «applicare schematicamente categorie a un contenuto esterno» ad esse, ma «poter sviluppare la dialettica del contenuto stesso»: in altre parole, «Marx cerca di svolgere la cosa stessa, sviluppare la sua dialettica intrinseca, la logica specifica dell’oggetto specifico, non applicare la dialettica a un qualcosa di dato». Analogamente, Engels p.es. nella sua lettera del 21 maggio 1895 a Kautsky lo criticò perché nelle bozze di un libro che quest’ultimo stava scrivendo sulla storia del socialismo – e che tra le altre cose faceva riferimento alla “guerra dei contadini” avvenuta in Germania alcuni secoli prima – Kautsky non aveva «pienamente compreso la collocazione economica internazionale della Germania nel mercato mondiale (nella misura in cui se ne può parlare) alla fine del XV secolo», giacché secondo Engels «solo questa collocazione può spiegare come mai quel movimento borghese-plebeo in forma religiosa fallito in Inghilterra, Paesi Bassi e Boemia poté avere nel XVI secolo in Germania un certo successo: il successo del suo travestimento religioso, mentre il successo del contenuto borghese rimase riservato al secolo seguente e ai paesi dove nel frattempo era sorta la nuova tendenza del mercato mondiale: l’Olanda e l’Inghilterra» (la lettera venne pubblicata postuma in forma parziale durante quello stesso 1895, in Die Neue Zeit). Engels fa insomma la stessa cosa di Marx: non applica i meccanismi della dialettica a qualcosa, ma osserva attentamente e approfonditamente quella cosa per comprenderne la dialettica, o – se si preferisce – per comprendere come la vita e le sue complesse dinamiche dialettiche abbiano preso forma e sostanza in quella particolare cosa. In ciò non si dimentichi che tali dinamiche erano state ampiamente sviscerate in Europa dagli antichi filosofi greci e poi da Hegel e dagli stessi Marx ed Engels e in Oriente dall’antica filosofia yin-yang, successivamente dal taoismo e in epoca medioevale da certi rami dello Zen e dello yoga (tutte correnti orientali di pensiero che erano pressoché ignote nell’Europa ottocentesca), con risultati che colpiscono per la profonda similarità esistente nelle loro conclusioni tra i filosofi dialettici europei e quelli orientali, e tanto più se si tiene conto delle caratteristiche storiche, socio-economiche, tecniche e geografico-ambientali delle varie epoche e regioni implicate.

Invece, già Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo sottolineò dogmaticamente l’«opinione, accettata dai marxisti, che la teoria di Marx [definita anche come “materialismo dialettico”, N.d.R.] è una verità oggettiva».... Si tratta, in sostanza, del contrario sia dell’impostazione filosofica di Marx ed Engels sia, parallelamente, di quanto era originariamente implicito nell’espressione “socialismo scientifico”. A questo riguardo si consideri che, mentre nella moderna “cultura di massa” l’aggettivo “scientifico” ha spesso una connotazione (filosoficamente erronea) di “assolutamente esatto e dimostrato” e di “privo di dubbi”, così che facilmente può portare ad atteggiamenti dogmatici, nel linguaggio marx-engelsiano e in quello di qualsiasi scienziato metodologicamente attento ha invece il significato (filosoficamente corretto) di qualcosa che è profondamente legato ai fatti e al loro studio e che nel contempo è anche pienamente consapevole di essere soltanto un’approssimazione, un risultato migliorabile e per certi versi anche discutibile: in breve, tutt’altro che un dogma e una pretesa di “verità oggettiva”.... Inoltre, come si riporta ad esempio nel capitolo dell’Antidühring intitolato “Dialettica. Negazione della negazione”, per Marx ed Engels i due più importanti princìpi di fondo della dialettica erano la profonda unità e “compenetrazione” degli opposti – antagonisti tra loro ma molto spesso anche complementari, specialmente quando si tratta di processi naturali ed esistenziali – e appunto la “negazione della negazione”, o in altre parole la sintesi dopo l’opposizione esistente tra tesi e antitesi (tra l’altro, si tratta di princìpi corrispondenti ai princìpi filosofici cinesi di “yin e yang” e del “due produce tre”). Diversamente, Lenin nei Quaderni filosofici tratta con molta asprezza questa semplicità e la sua tendenziale potenzialità armonica. Nell’annotazione da lui stesso intitolata A proposito della dialettica (del 1915), Lenin parte infatti scrivendo che «condizione della conoscenza di tutti i processi del mondo nel loro “automovimento”, nel loro sviluppo spontaneo, nella loro vivente realtà, è la conoscenza di essi come unità degli opposti», ma poi aggiunge che «lo sviluppo è “lotta” degli opposti» e che «lo sviluppo come unità degli opposti» è «sdoppiamento dell’uno in opposti che si escludono l’un l’altro e loro rapporto reciproco» e infine conclude: «L’unità (coincidenza, identità, equipollenza) è condizionata, provvisoria, transitoria, relativa. La lotta degli opposti reciprocamente escludentisi è assoluta, come assoluto è lo sviluppo, il movimento».

Stalin e Mao porteranno ancor più avanti questi concetti leniniani, radicalizzandoli ulteriormente e rifiutando inoltre la “negazione della negazione”, e quindi bloccando la propria visione del mondo su una sorta di eterno – e immodificabile nella sostanza – acre conflitto antagonistico degli opposti correlati. Tra l’altro, per quanto riguarda il rapporto che Mao ebbe con la storia della cultura cinese, paradossalmente egli su questo tema filosofico – e in tantissime altre cose – si dimostrò lontanissimo dall’antica tradizione dialettica taoista e molto più vicino allo scarsamente dialettico confucianesimo. A questo proposito si veda anche un ampio testo di Paolo Selmi, Il substrato confuciano e tradizionale del “marxismo” di Mao Zedong (tesi di dottorato presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, 2012) [4].

Bernstein, a sua volta, in pratica criticò l’altro lato della dialettica marx-engelsiana: se Lenin sminuì il lato della tendenziale complementarità e della spinta unitaria tra gli opposti (seguito appunto con ancora più forza in questo da Stalin e Mao), prima ancora Bernstein sminuì – specialmente nella vita sociale – il lato dell’opposizione e della contraddizione, rifiutando sostanzialmente di vedere nel corso della storia passata e soprattutto presente l’esistenza quanto mai palese di innumerevoli ed intensi conflitti di classe (è anzi probabile che la posizione filosofica assunta da Lenin fosse anche una reazione a questa posizione assunta da “socialisti moderati” come Bernstein). Pure Kautsky col passare dei decenni giunse ad un modo di pensare non molto lontano da quello di Bernstein (da lui inizialmente criticato con molta intensità), ma dal punto di vista concettuale e filosofico percorse un’altra strada, sostituendo in pratica alla dialettica e al senso delle polarità un atteggiamento tendente al positivismo e all’interpretare la dinamica della vita e della società come una semplice evoluzione gradualista, basata sull’oggettività e necessarietà dei principali mutamenti. Una delle più pregnanti, efficaci e ineludibili critiche moderne a un pensiero come quello di Bernstein può essere costituita dall’intervista al notissimo economista statunitense John Kenneth Galbraith pubblicata sul Corriere della Sera del 9 novembre 1998 a cura di Riccardo Orizio col titolo La società opulenta? Un’illusione, ma si tratta di un pensiero così “fuori tema” e “fuori luogo” che per smontarlo potrebbe bastare semplicemente uno sguardo un po’ attento sulla storia socio-economica e politico-militare mondiale dell’ultimo mezzo secolo. Nel caso di Kautsky, le più evidenti prove moderne della limitatezza e della superficialità della concezione politica e filosofica cui egli giunse specialmente a partire dagli anni ’10 del ’900 (quando appunto cominciò ad allontanarsi sempre più esplicitamente dallo spirito della dialettica) possono essere costituite dalla riprova dell’agire delle polarità – e non di un semplice gradualismo evoluzionista – nella vita sociale e nella natura: più in particolare, nella società il ripetuto precipitare di crisi che possono anche essere di estrema intensità (come è stato per esempio con le due guerre mondiali e varie altre guerre successive – diverse delle quali sono peraltro tutt’oggi in corso – e con l’affermarsi di un brutale neoliberismo dopo alcuni decenni di predominanti “politiche keynesiane” alquanto più morbide socialmente); nella natura le innumerevoli dinamiche che mostrano di avere una struttura di fondo basata in effetti su fattori opposti e sostanzialmente complementari, come suggeriva già Engels soprattutto in Dialettica della natura e come in seguito la scienza ha mostrato sempre più (dalla polarità stelle/pianeti in astrofisica a quella protoni/elettroni a livello atomico, da quella maschile/femminile in biologia a quella animale/vegetale negli ecosistemi, da molti dei meccanismi omeostatici in fisiologia alla sfuggente sfaccettatura onda/particella nella quantistica subatomica, ecc.).

Si potrebbe commentare in sostanza che chi ha criticato l’impostazione dialettica marx-engelsiana (di solito sulla spinta di questioni politiche e/o ambizioni personali vissute in modo pressante) sembra tipicamente aver dimenticato che quell’impostazione non era semplicemente un’elaborazione personale di Marx ed Engels, ma, come qui si è già accennato, era una sintesi delle elaborazioni e riflessioni sia di un’intera serie di antichi filosofi greci – tra i quali in particolar modo Eraclito, Socrate, Platone, Aristotele ed Epicuro – sia di figure più recenti come specialmente Baruch Spinoza, Georg W. F. Hegel, Charles Fourier e Joseph Dietzgen oltre che di una vasta gamma di scienziati che avevano indagato sulla struttura fisica del mondo, e che le conclusioni di tali elaborazioni e riflessioni erano profondamente in sintonia con le parallele conclusioni raggiunte in Oriente dall’antica corrente filosofica yin-yang e poi da Lao-tze, Hui Neng e altri filosofi taoisti, yoga o Zen.

In altre parole, per riuscire davvero a criticare la filosofia dialettica marx-engelsiana bisognava anche prendere in esame e criticare la sintesi delle conclusioni di tutti questi altri filosofi (così come degli altri che in seguito hanno proseguito questa ricerca filosofico-culturale [5], a partire specialmente da una serie di esponenti della psicologia e psicoanalisi umanistica, del movimento femminista e del pensiero olistico). Niente di tutto questo è riuscito ai Bernstein, ai Kautsky, agli Stalin, ai Mao e ai loro continuatori....


Note all’appendice
[1] Nella nota 25 della seconda parte del presente intervento.
[2] Nella nota 21 della seconda parte del presente intervento.
[3] All’indirizzo “https://www.sinistrainrete.info/marxismo/24997-roberto-fineschi-marx-e-hegel.html”.
[4] Disponibile all’indirizzo “https://www.academia.edu/3394081/Il_substrato_confuciano_e_tradizionale_del_marxismo_di_Mao_Zedong” .
[5] A diversi di essi si è già accennato p.es. nella nota 83 della più volte ricordata terza parte di Il neoliberismo non è una teoria economica.

* * * *

Nelle sue tre parti principali, il presente intervento rielabora leggermente alcuni articoli – o loro sezioni – apparsi in Il Senso della Repubblica, rivista mensile on-line, e li amplia in diversi punti grazie soprattutto alla possibilità di uscire qui dai pressanti limiti di spazio comunemente caratteristici di un periodico. In tali tre parti si è cercato di inserire i cambiamenti soprattutto nelle note, mentre il testo principale è rimasto praticamente identico nei contenuti anche dove qualche modifica è risultata opportuna per la comprensibilità del testo stesso o per la precisione di qualche suo dettaglio, oppure dal punto di vista della scorrevolezza o di qualche altro aspetto stilistico (in particolare, sono stati aggiunti quasi tutti i sottotitoli). Anche i cambiamenti effettuati nelle note, comunque, non hanno mutato l’essenza dei contenuti, pur espandendoli – anche ampiamente – in vari aspetti. La parte I dell’intervento si basa sull’omonimo articolo La tensione storica tra democrazia e società patriarcale (gennaio 2021); la II sull’articolo Sorpresa! Anche Marx ed Engels erano profondamente democratici (luglio 2021) e su parte dell’articolo La “democrazia partecipativa” e le sue prospettive (agosto 2021); la III sull’articolo Democrazia oggi - Da don Milani al pensiero olistico (giugno 2021). L’appendice è stata scritta appositamente per “Sinistra in rete”.

Comments

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Paolo Selmi
Monday, 08 May 2023 11:28
Ciao Luca!

Grazie mille per avermi citato nel tuo titanico lavoro! Una doverosissima precisazione: il mio lavoro su Mao dura, essenzialmente, quattro anni, poco più del tempo del dottorato di ricerca, dove sin dall'inizio ho iniziato a lavorare alla tesi.

E' un lavoro di ricerca sulle fonti originali, così come recuperate da un sinologo giapponese negli anni Settanta, prima delle foglie di fico messe dai curatori delle Opere scelte. Interventi di revisione seri, pesanti, stravolgenti, nel senso letterale del termine.

Ma se devo mettere il faccione di traverso dietro Marx, Engels, Lenin e Stalin, non posso lasciare che i miei scritti, raccolti nell'immancabile raccolta divenuta CLASSICO a tutti gli effetti siano, risultino in qualche modo, "eretici".

E' stato un lavoro titanico, impegnativo, a tratti estenuante perché fatto nelle pause pranzo e due ore al mattino prima di attaccare a lavorare e, purtroppo, incompleto.

Mao avrà anche la sua fase "taoista", quando prese ecletticamente un po' di "ipse dixit" funzionali al proprio, CONTINGENTE, discorso politico. Sezionato nella critica da Il'enkov nel suo "Dialektika ili Eklektika?" (dialettica o eclettismo?)
http://caute.ru/ilyenkov/texts/vf/diekl.html

Tra l'altro "apro una parente". In Dialektik ohne Dogma? (Dialettica senza dogma, Robert HAVEMANN, Einaudi, recuperato fra i portici dei libri usati a Torino anni fa) il buon Havemann fa paralleli MOLTO interessanti fra fisica quantistica, marxismo-leninismo e Dao De Jing. "Chiudo la parente".

Ma se avessi dovuto correre dietro a tutto fino al 1976, sarei ancora qui a metà strada... probabilmente ancor prima del Grande balzo in avanti. Quindi dopo il dottorato ho pensato prima a cambiare pannolini e poi a occuparmi di pianificazione in un'economia a proprietà interamente sociale dei mezzi di produzione (deve esserci un nesso fra le due cose... ne sono sicuro!)

E ho mollato la pista delle fonti di Mao. Anche perché a me quello che interessava, aldilà dell'eclettismo, della contingenza, dell'ipse dixit buono per quell'occasione, era dimostrare l'esistenza di un substrato confuciano che andava, e va, OLTRE MAO. Un po' come il nostro substrato giudaico-cristiano. Lavorare su questo.

Per il resto hai aperto un vaso di pandora per cui questa mia "breve" (che breve non è), sembrerebbe un aforisma o, peggio, una targhetta del prezzo, e di quelle che si trovavano una volta nei vecchi supermercati, e si trovano ancora oggi dove non si usa il codice a barre. Leggere, ruminare, capire cosa mi trova d'accordo e cosa non mi trova d'accordo, o rivedrei perché partendo da un'altra direzione poi si arriva alle stesse conclusioni ma senza questo o quest'altro... e prima della prossima vita perché, come continuo a dire ormai alla nausea, rinascerò lichene: sopra i tremila metri, vista vallata.

Un abbraccio!
Paolo
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