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resistenze1

Marxismo e classe, parte 3

Analisi di classe o politica identitaria?

di Chris Nineham

Qui parte 1 e parte 2

Nel terzo articolo della serie dedicata alla classe, Chris Nineham spiega perché è necessaria un'analisi di classe per comprendere e combattere l'oppressione

1980 01 01 fiat workers 1Il marxismo concepisce la società come una totalità. Tenta di comprendere tutti gli aspetti del nostro mondo come interconnessi e plasmati dal sistema capitalista al cui interno tutti noi siamo nati. Dal momento che il capitalismo è guidato dall'incessante ricerca del profitto da parte di coloro che ci dominano, il marxismo pone la classe al centro della sua analisi. Per questa ragione, i marxisti vengono talvolta accusati di riduzionismo. Queste critiche, tuttavia, si fondano su un equivoco. Lungi dal sottovalutare le molteplici modalità in cui le persone sono oppresse nella società moderna, l'analisi di classe implica la comprensione delle specificità dell'oppressione e il tentativo di combattere ogni forma di discriminazione. Implica inoltre la capacità di integrare tutte queste specificità nel contesto complessivo della violenza e dello sfruttamento.

Per i marxisti la classe non è un'identità tra le tante. Anzi, nel contesto dell'enorme espansione dei beni di consumo, il fatto che la classe venisse considerata alla stregua di un'identità ha contribuito a oscurare le reali distinzioni di classe. I commentatori amano ripetere che la progressiva scomparsa di una caricaturale «vecchia classe operaia» in berretto di panno e cappotto ci avrebbe resi tutti quanti membri della classe media - oppure di nessuna classe. Il fatto che persone di ceto diverso indossino talvolta scarpe da ginnastica della stessa marca o utilizzino lo stesso tipo di cellulare ci viene additato come prova concreta del fatto che viviamo ormai in una società post-classista, in cui i modelli di consumo degli individui contano più della loro posizione nel mondo del lavoro.

Per Marx, la classe era innanzitutto una categoria oggettiva, un modo per comprendere i ruoli delle persone nel funzionamento elementare della società, a prescindere da ciò che esse pensavano riguardo a se stesse. Dal momento che le società sono definite innanzitutto da come producono le merci necessarie per la vita (e le merci di lusso), questo significa capire come gli individui sono inquadrati nei processi e nei rapporti della produzione.

Il capitalismo è plasmato dai suoi meccanismi economici, più di ogni altro sistema esistito nella storia. Come scrive Marx nei Grundrisse, in tutte le società divise in classi «vi è una determinata produzione che decide del rango e dell'influenza di tutte le altre, e i cui rapporti decidono perciò del rango e dell'influenza di tutti gli altri. È una illuminazione generale in cui tutti gli altri colori sono immersi e che li modifica nella loro particolarità È una atmosfera, particolare che determina il peso specifico di tutto quanto essa avvolge».1

Ma nel capitalismo sviluppato, la produzione delle merci plasma la società a un livello senza precedenti. Innanzitutto, ha semplificato i rapporti di classe:

«Nelle precedenti epoche storiche noi troviamo dovunque una suddivisione completa della società in diversi ceti e una multiforme strutturazione delle posizioni sociali. Nell'antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo, feudatari, vassalli, membri delle corporazioni, artigiani, servi della gleba, e ancora, in ciascuna di queste classi, ulteriori specifiche classificazioni.

La moderna società borghese, sorta dal tramonto della società feudale, non ha superato le contrapposizioni di classe. Ha solo creato nuove classi al posto delle vecchie, ha prodotto nuove condizioni dello sfruttamento, nuove forme della lotta fra le classi.

La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si caratterizza però per la semplificazione delle contrapposizioni di classe. L'intera società si divide sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi che si fronteggiano direttamente: borghesia e proletariato.»2

Come abbiamo visto in un precedente articolo di questa serie, a causa della natura estrema del suo sfruttamento la classe operaia non ha la possibilità di sfruttare altri gruppi, e non ha interesse alla prosecuzione dello sfruttamento di alcun gruppo. Per liberare se stessa, la classe operaia deve in realtà porre fine a tutte le altre forme di oppressione. I lavoratori, scriveva Marx nel 1844, formavano una classe che «non può emancipare se stessa senza... emancipare tutte le rimanenti sfere della società».3 Questa fu una delle intuizioni centrali del marxismo, su cui Marx ritornò più volte.

 

Marxismo e oppressione

Comprendere che è interesse dei lavoratori opporsi all'oppressione, tuttavia, è molto diverso dal ridurre l'oppressione alla classe. Anzi, se compresa correttamente, questa realtà significa proprio l'opposto, e cioè che il movimento della classe operaia deve prestare particolare attenzione al modo in cui operano tutte le forme di oppressione. Sia Marx sia Engels, infatti, si concentrarono a fondo sugli specifici meccanismi che conducevano a specifiche forme di oppressione. Nell'Ideologia tedesca, per esempio, fanno risalire le origini dell'oppressione delle donne all'evoluzione delle relazioni familiari che, ricondotte a sviluppi storici più ampi, hanno dinamiche proprie:

«La monogamia così non appare in nessun modo, nella storia, come la riconciliazione di uomo e donna, e tanto meno come la forma più elevata di questa riconciliazione. Al contrario, essa appare come soggiogamento di un sesso da parte dell'altro, come proclamazione di un conflitto tra i sessi sin qui sconosciuto in tutta la preistoria».4

Engels sviluppa questa analisi ne L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, dove sostiene che lo sviluppo della famiglia era collegato alla nascita della proprietà privata. Il legame tra la proprietà e la famiglia fece sorgere l'idea che la proprietà dovesse essere ereditaria all'interno della famiglia. Questo, a sua volta, determinò quella che Engels definisce «la sconfitta storica del sesso femminile», poiché allo scopo di garantire che la loro proprietà potesse essere ereditata dai loro figli biologici, gli uomini tentavano di controllare le donne con le quali desideravano avere dei figli. Questa fu l'origine della famiglia patriarcale, struttura organizzativa cruciale dell'oppressione delle donne.

Marx riprese più volte il tema dell'oppressione delle donne e dell'evoluzione del ruolo della famiglia. Considerava infatti la misura in cui le donne erano libere ed eguali come un indice di progresso della società. Le sue analisi dei rapporti tra lavoro e vita familiare sono dialettiche e articolate - tutt'altro che riduzioniste. Nel Capitale, per esempio, Marx scrive che l'ingresso delle donne nella forza-lavoro implicava potenzialmente un aumento del loro potere nelle loro vite private, in quanto da quel momento esse contribuivano finanziariamente al sostentamento della famiglia e non erano più soggette al controllo dell'uomo in casa durante l'intera giornata. Per contro, i lunghi orari di lavoro applicati alle donne e ai bambini tendevano a indebolire la famiglia e a dare luogo a una situazione in cui i bambini non venivano accuditi adeguatamente. In un brano successivo, Marx giunge alla conclusione che anche questi sviluppi puntano nella direzione di una «forma superiore di famiglia» in cui donne e uomini potrebbero essere realmente eguali.

Marx ed Engels interpretarono anche il razzismo come un prodotto di sviluppi storici complessi caratterizzati da dinamiche proprie, che dovevano essere studiati attentamente e combattuti. Marx interpreta per esempio il razzismo contro gli irlandesi come una delle conseguenze della brutale colonizzazione dell'Irlanda da parte degli inglesi:

«L'operaio comune inglese odia l'operaio irlandese come un concorrente che comprime il suo tenore di vita. Egli si sente di fronte a quest'ultimo come parte della nazione dominante e proprio per questo si trasforma in strumento dei suoi aristocratici e capitalisti contro l'Irlanda, consolidando in tal modo il loro dominio su se stesso».5

Marx coglieva un parallelismo nella situazione degli Stati Uniti, dove il razzismo generato allo scopo di giustificare la schiavitù avvelenava le menti della popolazione bianca. «Ogni movimento operaio autonomo», scrive, «è rimasto paralizzato finché la schiavitù deturpava una parte della repubblica. Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi là dove è marchiato a fuoco in pelle nera».6 Una volta creati, questi modelli venivano deliberatamente mantenuti dalla classe dominante allo scopo di mantenere divisi i lavoratori.

L'establishment britannico, per esempio, si dava un gran daffare per gettare benzina sul fuoco del razzismo anti-irlandese, che veniva «alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti». Secondo una celebre battuta di Marx, questo razzismo costituiva «il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese».7

Essendo i meccanismi di oppressione così radicati all'interno delle strutture della società, per combattere l'oppressione occorreva ben altro dei semplici appelli all'unità. Era necessaria una lotta specifica e concertata. Marx ed Engels erano particolarmente orgogliosi del sostegno prestato dagli operai britannici alla lotta degli Stati americani del Nord contro gli Stati schiavisti del Sud durante la Guerra di Secessione americana. Essi stessi ebbero un ruolo centrale nell'organizzare una campagna contro l'oppressione degli irlandesi in Inghilterra. Sotto la guida di Marx, il Consiglio Generale dell'Internazionale fece del sostegno agli irlandesi un elemento centrale della sua campagna di agitazione in Gran Bretagna.

 

Politica ed economia

Da tutto ciò derivano diverse conclusioni, che nell'insieme hanno conseguenze importanti sul dibattito contemporaneo sull'oppressione. In primo luogo, sostenere che le oppressioni sono insite nell'economia della società non significa affatto sottovalutare la loro importanza. È vero il contrario - significa infatti prendere atto della gravità del problema, riconoscendo che se le oppressioni sono radicate e tenaci è proprio perché sono un prodotto degli impulsi fondamentali del sistema. Significa sostenere che la lotta contro le oppressioni non si esaurisce nel riconoscimento di particolari identità, nel cambiamento dell'atteggiamento delle persone e nemmeno nella conquista dei diritti politici, per quanto importanti siano questi aspetti. Deve implicare la lotta contro la struttura di potere in quanto tale.

Inquadrare l'oppressione in questo modo, cioè riconoscere che è imperniata sulle necessità del capitale, conduce a una seconda conclusione. Se si respinge l'idea della classe come identità, e la si concepisce - come Marx - come la relazione sociale decisiva all'interno della società, allora la classe assume un ruolo assolutamente centrale nel progetto di liberazione del genere umano nel suo insieme. Data la loro posizione economica, i lavoratori organizzati possiedono una forza e una capacità senza pari di paralizzare il sistema e iniziare a trasformarlo. Nella visione di Marx, questa trasformazione è necessaria per liberare l'intera società. Tale liberazione rimane tuttavia soltanto una possibilità.

Per sradicare con efficacia l'oppressione è necessario è che il movimento capisca, denunci consapevolmente e combatta ogni suo aspetto.

Marx ed Engels lottavano per le libertà politiche, per i pari diritti, contro la discriminazione, per il suffragio universale - per tutte le promesse formulate ma raramente mantenute delle rivoluzioni borghesi. Queste lotte erano importanti in sé, ed erano cruciali per superare le divisioni esistenti tra i lavoratori.

Marx ed Engels, tuttavia, erano anche consapevoli del fatto che sarebbe stato impossibile sconfiggere definitivamente l'oppressione con mezzi puramente politici o legali. La separazione della politica dall'economia è una delle strategie di sopravvivenza del capitalismo. Limitare le lotte ai diritti politici significa lasciare intatte le strutture e le forze che producono l'oppressione in prima istanza. Una lotta che miri a porre fine all'oppressione richiede il confronto diretto con ogni forma di discriminazione e di ingiustizia. Ma richiede anche il confronto con il sistema economico da cui esse scaturiscono.

 

I limiti dell'identità

Non tutto il radicalismo politico contemporaneo è caratterizzato da questo approccio generalizzato. Vi è anzi una forte tendenza a concentrarsi sulla specificità delle esperienze, invece che sull'interpretazione dell'oppressione come realtà strutturale e sulla ricerca di un terreno comune su tale base. Tutte le rivendicazioni di identità avanzate da gruppi o individui oppressi implicano in qualche misura una sfida alla realtà dominante. Ma quella che viene talvolta definita «politica identitaria», pur essendo nata come tentativo di portare alla ribalta nel dibattito dominante le esperienze degli emarginati, ha spesso condotto ad attribuire la priorità all'esperienza individuale rispetto alle interpretazioni generali. Come afferma Asad Haider nella sua analisi della politica identitaria contemporanea, l'affermazione della propria identità in quanto tale implica il rischio di escludere dall'analisi le cause dell'oppressione:

«Essa si basa sulla richiesta di riconoscimento da parte dell'individuo e pone come punto di partenza l'identità dell'individuo. Dà per scontata tale identità e mette da parte il fatto che tutte le identità sono costrutti sociali. E dal momento che ognuno di noi ha inevitabilmente un'identità che è diversa da quella di tutti gli altri, indebolisce la possibilità di un'auto-organizzazione collettiva. La cornice identitaria riduce la politica a ciò che ciascuno è in quanto individuo e alla conquista di un riconoscimento in quanto individuo, invece di concentrarsi sull'appartenenza dell'individuo a una comunità e sulla lotta collettiva contro un sistema sociale oppressivo».8

In assenza di un approccio ragionato alla struttura di potere della società nel suo insieme, la politica identitaria può imboccare direzioni controproducenti. Scrivendo negli anni Sessanta, poco dopo che la de-segregazione aveva aperto alcuni spazi ai professionisti, ai dirigenti e agli uomini d'affari afroamericani, l'esponente dei Black Panthers Huey Newton denunciò che l'identità nera o il nazionalismo nero rischiavano di essere sfruttati dall'élite nera emergente per assumere il controllo del movimento radicale e sopprimere le rivendicazioni dei lavoratori neri, i cui interessi erano in realtà molto diversi dai suoi. Come osserva Keeanga-Yamahtta Taylor nella sua analisi dell'omicidio di Freddy Gray e della rivolta a esso seguita a Baltimora nel 2015, questo processo ha fatto passi da gigante:

«Sono sempre esistite differenze di classe tra gli afroamericani, ma è la prima volta che queste differenze di classe si sono manifestate sotto forma di una minoranza di neri che detiene una quota rilevante di potere politico e autorità sulle vite della maggioranza dei neri. Questo solleva interrogativi critici sul ruolo dell'élite nera nella persistente lotta per la libertà - e su dove essa sia schierata in tale lotta. Questa non è un'esagerazione. Quando un sindaco nero che amministra una città in maggioranza nera contribuisce alla mobilitazione di un reparto militare comandato da una donna nera per reprimere una rivolta di neri, significa che ci troviamo in una nuova fase della lotta per la liberazione dei neri».9

Le lotte per i diritti civili e il multiculturalismo hanno riportato vittorie cruciali e aperto opportunità di ogni sorta. Ma nel contesto del neoliberismo e della crescita di una facoltosa élite manageriale che ama gloriarsi dei propri valori di inclusività, queste vittorie rischiano di ridursi a quelli che Catherine Liu ha definito «protocolli identitari» - cioè all'introduzione di corsi di formazione sulla diversità e di quote per i posti di lavoro più prestigiosi. Il che va benissimo per la minuscola minoranza di esponenti di gruppi oppressi che può aspirare a questi posti di lavoro prestigiosi, e naturalmente è importante che queste opportunità vengano ampliate. L'esperienza degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e di altri Paesi, tuttavia, ha dimostrato che la presenza di più donne, trans o persone di colore nelle posizioni di potere e di influenza non ha praticamente alcuna conseguenza sulle vite della maggioranza degli oppressi. Questi ultimi continuano a subire razzismo, sessismo e discriminazione strutturale. Il sistema che genera queste forme di oppressione e lo sfruttamento che esso ha al centro rimangono intatti, e possono perfino rafforzarsi quando sono in grado di apparire inclusivi. Nell'ambito della classe professionale e manageriale dei nuovi ricchi, porre l'accento sulla discriminazione di razza e di genere è divenuto un utile espediente sia per sfoggiare le proprie virtù, sia per sviare le preoccupazioni relative alle diseguaglianze di classe. Citando Catherine Liu:

«Come classe, professionisti e manager amano parlare di pregiudizi più che di uguaglianza, di razzismo più che di capitalismo, di visibilità più che di sfruttamento. Per loro, la tolleranza è il valore laico supremo - ma la tolleranza non ha praticamente alcun significato politico o economico».10

In sé questa diversificazione delle élite è un fatto positivo; ma in assenza di una messa in discussione delle strutture economiche fondamentali della società, offre anche alla destra un'opportunità di fare progressi con le sue varianti specifiche della politica identitaria. Queste ultime implicano le proteste contro il presunto abbandono dei lavoratori bianchi e per la difesa della cultura e delle tradizioni nazionali contro le élite liberali e multiculturali. In questo contesto, la sinistra deve elaborare una linea politica indipendente che combatta per i gruppi oppressi in modo più efficace e completo, ma che offra anche una prospettiva ai lavoratori in generale.

 

La necessità di unirsi

A tale riguardo, concepire la classe come un'altra identità «interconnessa» non può essere una risposta. La ragione è che riconoscersi come membri della classe operaia implica iniziare a comprendere il modo in cui il sistema funziona nel suo insieme. Apre quindi la possibilità di superare le identità, che sono inevitabilmente determinate soprattutto dal sistema dominante. Un segnale di questa universalità è che la classe operaia racchiude in sé la stragrande maggioranza degli oppressi, e incarna quindi se non altro la possibilità di una concreta unità di lotta.

Il potenziale della classe operaia di elaborare una concezione olistica del mondo, tuttavia, ha radici più profonde. Come abbiamo visto, per i lavoratori superare le divisioni di razza, sesso o genere è una questione di urgenza strategica - in ultima analisi, una questione di vita o di morte. «L'unione fa la forza», «Uniti si vince, divisi si perde» sono slogan che emergono organicamente dalla natura stessa della lotta della classe operaia, dalla posizione dei lavoratori all'interno della società.

A ciò è legato il fatto che l'esperienza dello sfruttamento da parte dei lavoratori fornisce loro un punto di osservazione privilegiato per comprendere il modo in cui funziona il sistema, per «considerare la società a partire dal centro, come un intero coerente», nelle parole di György Lukács.11 Prendere atto di questo non significa ricondurre ogni aspetto della società alla classe. Mentre la classe dominante ha la necessità di nascondere con qualunque mezzo il modo in cui funziona la società, per la classe operaia comprendere in modo approfondito tutte le complessità del capitalismo è essenziale per dare vita a un cambiamento sociale fondamentale - per liberare se stessa.

Questa concezione olistica non emerge automaticamente, come vedremo in un successivo articolo di questa serie. La divisione della forza-lavoro, la natura reificata del lavoro e il fatto che i lavoratori producano un intero mondo sociale che è sottratto al loro controllo ostacolano nella maggior parte dei casi la sua comprensione. Ciò significa che chi ci domina ha sempre la possibilità di creare divisioni nelle nostre file, e che all'interno del movimento si deve condurre un'incessante campagna contro ogni forma di pregiudizio e di arretratezza.

In quanto bersaglio principale di un sistema sempre più perverso e sfruttatore, tuttavia, la classe operaia rappresenta un impareggiabile baluardo dell'opposizione al capitalismo, dal quale è possibile lanciare una resistenza efficace contro il sistema - quel sistema che deve essere rovesciato se si vuole porre fine all'oppressione.


Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

Note:
1 Marx, Grundrisse, Introduzione, 1.3.
2 Karl Marx e Friedrich Engels, Il manifesto del Partito Comunista, I.
3 Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione.
4 Friedrich Engels, L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, II (1884).
5 Karl Marx, Lettera a Sigfried Meyer e August Vogt, 9 aprile 1870.
6 Karl Marx, Il capitale, Libro I, sezione III, capitolo VIII, 7.
7 Karl Marx, Lettera a Sigfried Meyer e August Vogt, 9 aprile 1870.
8 Asad Haider (2018) Mistaken Identity, Verso, Londra, p. 24.
9 Keeanga-Yamahtta Taylor (2016) From #BlackLivesMatter to Black Liberation, Haymarket, Chicago, p. 80.
10 Catherine Liu (2021) Virtue Hoarders: The Case against the Professional Managerial Class, University of Minnesota Press, Minneapolis, p. 8.
11 György Lukács, Storia e coscienza di classe, 1971.

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