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Guerra, ideologia e tecnica

Fabio Bentivoglio

Pubblichiamo l'intervento di Fabio Bentivoglio al convegno "1914-2014: Cento anni di guerre", tenuto a Napoli il 4-12-14, organizzato dall'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dal Rotary Club.
(M.B.)

100 0829I cento anni di guerra (1914-2014) oggetto della nostra attenzione sono scanditi dalla Prima e Seconda guerra mondiale (1914-1918 e 1939-1945), dalla guerra fredda (1945-1991) e, in seguito, da un ciclo di guerre indicate in forma generica con varie dizioni: “guerra infinita”, “guerra globale” “guerra al terrorismo”… È mio intento cogliere dal punto di vista storico gli aspetti di continuità e discontinuità del fenomeno “guerra”, riguardo l’origine dei conflitti, l’ideologia e la tecnica.

 

Origine dei conflitti

Uno dei rari casi in cui nella storia è possibile registrare una costante, confrontando anche epoche molto lontane, è proprio quello sulla natura delle dinamiche che danno origine alle guerre: le guerre sono state e sono espressione di progetti politico-militari riconducibili a dinamiche economiche, di potere, predominio, ricchezza, controllo del territorio e simili. Ovviamente ogni epoca storica si differenzia dalle altre per la configurazione dei rapporti economici e per le forme di potere, ma i moventi che determinano le guerre hanno una matrice comune.

Se in età feudale le guerre erano espressione di conflitti tra settori delle aristocrazie che si contendevano le rendite feudali - soprattutto nelle fasi in cui tali rendite declinavano - in età moderna i nuovi orizzonti geografici ed economici generano nuovi conflitti: si pensi alla guerra di successione spagnola (1700-1713), vera e propria prima guerra mondiale della storia moderna, la cui posta in gioco riguarda, attraverso la successione spagnola, il controllo dei traffici delle Americhe e di quelli dell’Africa e dell’Asia collegati con le Americhe. Insomma, mutano i quadri storici e mutano le forme attraverso cui i poteri dominanti esercitano la loro egemonia, ma nella sostanza non mutano le leve che muovono le guerre: sono leve antiche, come antica è l’arte della guerra che si ispira al principio del divide et impera. Ciò vale, come vedremo, anche nel 2014.

 

 

Le “cause” della guerra

Corollario del tema della guerra è l’indagine sulle “cause” all’origine dei conflitti. In sede storica “causa” è un termine da usare con attenzione: nell’ambito della scienza fisica e in Natura il termine rimanda alla sfera della necessità (il Sole è causa dell’evaporazione delle acque) mentre nell’ambito delle vicende umane siamo nella sfera della libertà per cui il termine va interpretato nel quadro di scelte frutto della libera volontà degli uomini. Pertanto, le analisi tese alla comprensione di quel fenomeno specificatamente umano che è la guerra, più che alle cause, devono mirare a identificare il contesto, o meglio, il progetto strategico che si prefigge uno Stato o un potere politico-economico dominante, perché è tale progetto che fa sì che un determinato evento o fatto diventi poi “causa” di guerra.

Non c’è alcuna necessità che l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando il 28 giugno 1914, a Sarajevo, diventi la “causa” della Prima guerra mondiale: lo diventa nel momento in cui, conclusa l’eccezionale fase di espansione economica 1896-1905, si restringono i mercati di sbocco generando tensioni tra le maggiori potenze economiche dell’epoca (Germania, Francia, Inghilterra, Russia…) non più risolvibili con mediazioni politiche. Lo stato maggiore tedesco dispone fin dal 1905 di un accurato piano militare (il cosiddetto “piano Schlieffen”) per condurre una guerra di annientamento contro Francia e Russia. È un progetto che mira ad annientare la potenza finanziaria della Francia e a impadronirsi delle risorse minerarie (zinco e piombo) della Polonia russa. La “causa” della guerra, dunque, non è l’attentato a Francesco Ferdinando (vicenda, tra l’altro, tutta interna alle irrisolte tensioni dell’Impero austro-ungarico) ma, in ultima istanza, è il progetto politico, militare ed economico tedesco - non compatibile con analoghi progetti di Francia, Inghilterra e Russia - che ha incorporata la guerra.

È dunque il progetto strategico politico-militare-economico che fa diventare un evento “causa” di guerra e non viceversa! È necessario attenersi a tale criterio metodologico per comprendere anche le guerre contemporanee. Non dimentichiamo in merito la lezione della filosofia: il “comprendere” –insegna Kant- consiste nel “sussumere il particolare nell’universale”. Se ad esempio osserviamo attentamente la tesserina (il particolare) di un mosaico (l’universale) la “comprensione” di quella tesserina passa attraverso la visione generale del mosaico di cui essa è parte. Un’osservazione isolata della tesserina potrà portare a conoscerla nei minimi dettagli e nelle sue più recondite sfumature, ma non certo a comprenderla. Questo tipo di approccio parziale caratterizza la nostra epoca dell’immagine: le guerre sono poste all’attenzione pubblica moltiplicando e replicando immagini sempre più dettagliate, senza però fornire la connessione di tali immagini con il “mosaico” di cui sono parte e che solo potrebbe consentirne la comprensione (a evitare equivoci ricordiamo che, in sede storica, comprendere non è sinonimo di giustificare). Gli episodi di una guerra sono compresi se letti alla luce della totalità storica (l’universale) che li ha prodotti, diversamente osserviamo frammenti sparsi che generano disorientamento, così da creare lo spazio per la diffusione di facili e superficiali schemi di lettura.



IDEOLOGIA

 

Gli eserciti delle due guerre mondiali, diversamente da quelli che hanno combattuto le guerre precedenti, sono costituiti non da apparati militari separati dalla società civile ma da milioni di uomini sottratti alle loro professioni per combattere una “guerra totale”. I poteri politici e militari dei paesi belligeranti imposero una riorganizzazione della vita collettiva in funzione esclusiva dello sforzo bellico con conseguente militarizzazione della società ed enormi sacrifici e privazioni per la popolazione. Per realizzare progetti di tale portata è necessario il consenso dell’opinione pubblica e quindi - ecco l’ideologia - rappresentare e divulgare le finalità della guerra facendo appello a valori e ideali condivisi dalla comunità. Affinché l’obiettivo della “vittoria totale” sia accettabile a livello di massa è cioè necessaria un’ ideologia “forte”, perché deve fornire alla popolazione e ai milioni di uomini sradicati dalla vita civile e inviati al fronte, una motivazione che li possa sostenere anche psicologicamente nelle spaventose e terrorizzanti condizioni di guerra, in cui la vita è sempre in pericolo.

Nel corso della Prima guerra mondiale si diffonde nella società europea una cultura per la quale la guerra è guerra tra il bene e il male: ogni schieramento, ricorrendo alla propria tradizione culturale identifica se stesso come il bene in contrapposizione al nemico-male. Nei Paesi dell’Intesa l’ideologia della Prima guerra è incentrata essenzialmente sull’idea della difesa della democrazia e della patria (si ripete all’epoca: “chi per la patria muor, vissuto è assai”): l’argomento più ricorrente era quello di attribuire ai tre Imperi l’intento di voler distruggere Inghilterra, Francia e Belgio proprio perché nemici dei principi democratici. Nel mondo tedesco si replicava a questa rappresentazione della guerra denunciandone la falsità con l’argomento che l’Intesa era alleata con la Russia zarista, paese autocratico e feudale. Il vero obiettivo dell’Intesa, dicono gli intellettuali tedeschi, non è la civilizzazione democratica ma livellare le diversità storiche e quindi distruggere la Germania e le sue tradizioni storiche, identificate con le tradizioni medioevali e con la spiritualità luterana. “L’esistenza tedesca è il nostro obiettivo di guerra, non il profitto” scrive Max Weber nel 1916. La guerra è interpretata come una drammatica contrapposizione di opposte visioni del mondo, come una vera e propria “guerra di religione e di fede”. In questo scontro epico, gli individui, in entrambi gli schieramenti, sono chiamati a rinunciare alla loro personale individualità e diventare strumenti passivi di ordini superiori. In entrambi gli schieramenti l’ideologia occulta le vere ragioni di una guerra scatenata dagli aggressivi interessi economici dei protagonisti, in primo luogo dalla Germania.

Analogo discorso - circa la connotazione forte dell’ideologia - vale ancor di più per la Seconda guerra mondiale: la guerra come scontro “democrazia versus dittatura” ha il suo riflesso nelle coscienze di uomini che consumano la loro esistenza nel tragico scenario degli orrori dei fascismi e della dittatura staliniana. Questa ideologia ha già in pectore la successiva fase della guerra fredda.

 

L’ideologia nel dopo guerra fredda

Se confrontiamo le rappresentazioni ideologiche che caratterizzano il ciclo di guerre successivo alla guerra fredda con la precedente fase storica, notiamo sia aspetti di continuità sia di forte discontinuità.

La discontinuità ha la sua genesi nella composizione degli eserciti: non più milioni di uomini proiettati sul fronte di battaglie infernali ma truppe di professionisti addestrati all’uso di sofisticati sistemi d’arma con il ricorso sempre più frequente e massiccio a schiere mercenarie di contractor programmati per la guerra. Viene meno l’esigenza di un’ideologia “forte”, ad ampio spettro: per questa tipologia di militari, diversamente dal passato, l’ideologia si riduce a coltivare lo “spirito di corpo”, perdendo anche questa residua valenza nel caso dei contractor. La continuità, circa il ruolo dell’ideologia, consiste nell’assolvere la funzione di garantire il consenso della pubblica opinione circa la necessità di operare su lontani teatri di guerra in nome di minacce che non attentano più i confini della patria. La regina della divulgazione ideologica della nostra epoca è l’immagine veicolata attraverso la rete mediatica globale. È il mezzo vincente che ha scalzato dal trono la parola scritta di altri tempi. Nel corso delle guerre del Novecento l’uso dei media c’è sempre stato, ma il dibattito si svolgeva essenzialmente sui giornali, tra élite dotate di strumenti culturali. Sotto questo riguardo è stato il fascismo ad aprire la stagione moderna della comunicazione, attraverso l’utilizzazione di cinema, radio e sport come veicoli di propaganda. Oggi la rete mediatica è globale: la decapitazione dell’ostaggio o l’esecuzione brutale di persone inermi, entra in tutte le case. Il linguaggio delle immagini è universale, più diretto della parola: non è un caso che sia utilizzato indistintamente con lucida strategia da tutti gli attori delle guerre in corso. L’abitudine indotta dall’immagine veicolata dalla rete mediatica globale, priva di qualsiasi mediazione ragionata, ha prodotto l’effetto di radicare nelle coscienze il principio per cui esiste solo ciò che si vede con gli occhi. Ancora una volta: vediamo i particolari, i frammenti, la “tesserina”, con gli occhi, ma non siamo più abituati a “vedere” con gli occhi della mente il mosaico di cui quei frammenti sono parte.

 

Il Nemico è oscuro e si nasconde negli angoli bui della terra

Un altro aspetto di discontinuità che caratterizza le attuali rappresentazioni della guerra rispetto alle ideologie della Prima e Seconda guerra mondiale e poi della guerra fredda è il venir meno di un’immagine ben identificata del Nemico contro cui combattere. L’URSS e la minaccia dell’espansione del comunismo erano il Nemico indicato dalla propaganda delle democrazie occidentali negli anni della guerra fredda; specularmente, per il blocco comunista, il Nemico era l’imperialismo americano e i suoi alleati. Ad oggi l’immagine del Nemico dal volto riconoscibile è evaporata: sotto questo riguardo, proprio nell’età dell’onnipotenza della tecnica, la rappresentazione della guerra è regredita a immagini di stampo medioevale con l’aggravante che in età medioevale quelle immagini avevano un senso decodificabile attraverso il linguaggio universale della religione, mentre oggi galleggiano nel nulla. Emblematica la frase del presidente George Bush J. che nel 2001, in occasione della guerra in Afghanistan (predisposta dai comandi militari americani fin dal 1998, sotto la presidenza Clinton) così individua il nemico da sconfiggere: ”Abbiamo di fronte il nemico oscuro che si nasconde negli angoli bui della terra”! Non siamo minacciati da Stati o da poteri costituiti (come esigerebbe la parola “guerra” usata correttamente), ma da entità quasi demoniache. Analogamente Russia e Cina nel 2001 creano l’OCS (Organizzazione della Cooperazione di Shangai) con l’obiettivo di garantire la sicurezza regionale e di combattere il terrorismo, il separatismo e l’estremismo definiti “le tre forze maligne”. Abbiamo dunque a che fare con il male (e questa non è una novità quando si parla di guerre) ma non più un male dal volto riconoscibile (e questa è una novità!). In un recente intervento per indicare i punti di riferimento della strategia degli Stati Uniti, Obama ha indicato, nell’ordine, la Russia, la furia bestiale dell’ISIS e l’ebola (!), associando in una sorta di connubio premoderno il male prodotto da un’epidemia a un “male” che meriterebbe ben altre analisi.

 

La scarsa credibilità delle versioni ufficiali presso l’opinione pubblica

Un fenomeno di recente formazione rispetto all’immagine che si intende divulgare della guerra è il crollo della credibilità delle versioni ufficiali circa la necessità e i risultati delle operazioni politiche e militari. Che il ciclo di guerre post guerra fredda abbia lo scopo di realizzare idealità che si richiamano alla democrazia, alla pace o a interventi umanitari è veramente creduto da pochi. Anche il più semplice degli osservatori oggi diffida di questa vulgata circa le motivazioni della guerra e, se richiesto di un parere in merito, ci direbbe, brutalmente, che le guerre sono fatte per il petrolio. Il quadro è certo più complesso, ma la percezione comune della “causa” delle guerre in corso non si discosta da questa convinzione. Che tale sostanziale verità storica sia poi soffocata dalla “volontà di credere” alle guerre umanitarie, agli scontri di civiltà o a simili amenità è altra cosa.

Si rifletta su una vicenda che molti ricorderanno. Seconda guerra del Golfo: Colin Powell - ai massimi vertici del potere militare e politico degli Stati Uniti dal 1987, artefice della politica estera di Bush dal 2001 al 2005 - il 2 febbraio 2003, in veste di Segretario di Stato, mostra all’ONU le “prove” delle armi batteriologiche in possesso di Saddam per motivare l’urgenza della guerra all’Iraq. Nell’ottobre 2008 Powell dichiarerà pubblicamente che quel 2 febbraio 2003 “È stato il giorno più umiliante della mia carriera”, per aver dovuto esibire prove false per giustificare l’intervento armato degli Stati Uniti in Iraq (con conseguenze catastrofiche per l’incolpevole popolazione civile). Ebbene, nonostante questa pubblica e scandalosa ammissione, l’opinione pubblica occidentale non è scossa da alcun moto di indignazione. Eppure in quei giorni fu martellante la propaganda che giustificava la guerra per salvare la civiltà da un tiranno sanguinario armato di armi letali. Perché le dichiarazioni di Powell non hanno suscitato reazioni indignate, squalificando anche un personaggio il cui operato aveva contribuito a determinare una tragedia umanitaria di proporzioni inaudite? La risposta è semplice: nessuno, già nel 2003, credeva alla versione ufficiale delle “prove”, per cui quel che si è saputo ufficialmente nel 2008 non ha turbato le coscienze. L’ideologia della guerra condotta per valori democratici o umanitari è un velo sottile che copre coscienze intorpidite.

 

Gli anni del tornante storico decisivo: 1989-1991

Atteniamoci al criterio metodologico di cui si è detto all’inizio e individuiamo il contesto strategico entro cui si consumano le guerre attuali; la continuità rispetto alle guerre del passato riguarda i moventi reali all’origine dei conflitti, mentre radicale è la discontinuità per quanto riguarda la tecnica e i sistemi d’arma. Procediamo con ordine e fissiamo le date di riferimento del tornante storico decisivo, quello in cui si delinea l’orizzonte geopolitico del nostro tempo. È in sostanza il passaggio dalla guerra fredda al dopo guerra fredda. Un passaggio che determina il riorientamento strategico della Nato1 :

1989, crollo del Muro di Berlino

1991, luglio, si scioglie il patto di Varsavia

1991, 26 dicembre, si dissolve l’Urss

1991, Prima guerra del Golfo: è la prima guerra che, nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, gli Stati Uniti non motivano con la necessità di arginare la minacciosa avanzata del comunismo. Consente agli Stati Uniti di rafforzare la loro presenza militare nell’area strategica del Golfo, dove si concentra la gran parte delle riserve petrolifere mondiali.

Ma qual è il nuovo quadro strategico entro cui collocare questo nuovo ciclo di guerre? La fonte cui attingere sono i documenti pubblici della Casa Bianca, del Dipartimento della Difesa o delle Commissioni del Pentagono. Qui ci limitiamo a citare un documento interno stilato nel febbraio del 1992 da Paul D. Wolfowitz, (stretto collaboratore del Presidente George Bush senior) che costituisce il modello di riferimento di tutti i successivi documenti ufficiali in cui si delinea la strategia militare degli Stati Uniti. Dopo aver definito la guerra del Golfo “il primo conflitto del dopo guerra fredda, un evento determinante nella leadership globale degli Stati Uniti” si indicano e pianificano gli obiettivi della nuova strategia:

“In Medio Oriente e nell’Asia sud-occidentale il nostro obiettivo generale è quello di rimanere la potenza esterna predominante e preservare l’accesso statunitense e occidentale al petrolio della regione […] Come è stato dimostrato dall’invasione irachena del Kuwait, resta di fondamentale importanza impedire che una potenza egemone o una coalizione di potenze domini la regione.” Tale strategia sarà adottata in tutte le “regioni critiche per la sicurezza degli Stati Uniti, le quali comprendono l’Europa, l’Asia orientale, il Medio Oriente, l’Asia sud-occidentale e il territorio dell’ex Unione Sovietica. Abbiamo in gioco importantissimi interessi anche in America Latina, Oceania e Africa subsahariana. […] il nostro obiettivo primario è impedire il riemergere di un nuovo rivale sul territorio dell’ex Unione Sovietica o altrove, che ponga una minaccia nell’ordine di quella posta precedentemente dall’Unione Sovietica. La nuova strategia richiede che noi operiamo per impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione le cui risorse sarebbero sufficienti, se controllate strettamente, a generare una potenza globale. Tale strategia deve essere attuata nei confronti non solo di qualsiasi potenza ostile, ma anche dei paesi industriali avanzati, per dissuaderli dallo sfidare la nostra leadership o cercare di capovolgere l’ordine politico ed economico costituito. Infine dobbiamo mantenere i meccanismi per scoraggiare i potenziali competitori anche dall’aspirare a un maggior ruolo regionale o globale” ( Defense Planning Guidance for the Fiscal Years 1994-1999, “The New York Times”, 8 marzo 1992. Il documento è citato da Manlio Dinucci “Il potere nucleare”, Fazi Editore 2003, p. 112).

 

Linguaggio e scopi reali; linguaggio e scopi ideologici

Due considerazioni. La prima: si noti lo scarto esistente tra questo linguaggio asciutto e pragmatico, che è poi quello reale che determina i fatti, e il linguaggio retorico dell’ideologia, destinata al pubblico, in cui si ricorre a improbabili scontri di civiltà, a disquisizioni sui testi sacri e quant’altro. Tutti i protagonisti di queste guerre hanno in comune l’appartenenza alla medesima “inciviltà” del denaro e del potere (emblematica la storia della famiglia Bin Laden e dei suoi stretti rapporti di affari con la famiglia texana dei Bush); diverso è il modo con cui ciascun attore rappresenta a se stesso - l’ideologia, appunto - i fini dei propri atti di guerra, attingendo ciascuno in forma strumentale alla propria tradizione culturale. Democrazia e libertà da un lato, linguaggio religioso (le masse mussulmane sono educate a tale linguaggio) dall’altra.

La seconda considerazione: si è fatto cenno, all’inizio, alla genericità delle formule con cui è indicato il ciclo di guerre che ha preso avvio dopo la fine della guerra fredda, per cui si parla di guerra al terrorismo, guerra infinita, globale ecc… . La ragione è che si tratta di formule ideologiche che non corrispondono alla vera natura della guerra il cui scopo - indicato nel documento citato - è di ampliare la presenza militare e il controllo politico da parte degli Stati Uniti nelle aree mediorientale e centroasiatica. La dizione “guerra al terrorismo”, se non come metafora, è priva di senso: una guerra è un confronto militare tra Stati o comunque tra centri di potere sovrano. Il “terrorismo”, poi, non è alcunché di unitario, ma consiste in una particolare natura e finalità dell’atto di violenza della più diversa origine. Se il termine guerra perde ogni specificità semantica e lo si utilizza in senso metaforico allora si potrebbe parlare anche di guerra alla mafia, alla droga ecc… . Ma ciò implicherebbe anche azioni conseguenti: la “guerra” alla mafia, ad esempio, implicherebbe non certo l’uso di missili e portaerei, ma piuttosto di esperti ragionieri che verificassero l’origine dei flussi finanziari delle banche e il riciclaggio del denaro, e di un potere politico degno di questo nome che scardinasse i paradisi fiscali e offrisse alla popolazione occasioni di lavoro tali da prosciugare il bacino di arruolamento della mafia. Non diverso il discorso sul terrorismo che si alimenta di circuiti finanziari internazionali e di un traffico d’armi che vede protagoniste tutte le grandi potenze del pianeta. La scelta militare di intervenire con missili e bombardamenti per sconfiggere il terrorismo ha lo stesso senso che avrebbe bombardare Milano, Roma, Napoli e Palermo causando la morte di migliaia di civili, perché in tali città sono operanti potenti cellule mafiose e camorriste. Non si cada nella trappola di pensare che si tratti di scelte sbagliate rispetto all’obiettivo dichiarato a livello mediatico; l’obiettivo vero, in tutta evidenza, è un altro ed è quello indicato nel documento di cui sopra. Ecco perché, allora, i bombardamenti hanno un senso ed ecco perché la guerra sarà “infinita” e globale: si tratta di garantire occupazione permanente del territorio, impianto di basi militari a scopo logistico, destabilizzazione di Stati che oppongono resistenza ecc. … A tale scopo ci vogliono missili e bombe che oltre alla morte semineranno odio e rancore presso la popolazione e ciò, con tragico circolo vizioso, alimenterà gli atti terroristici.

 

La guerra in Jugoslavia

Tornando al nostro documento, il nuovo concetto strategico viene messo in pratica nei Balcani nel luglio 1992: è la guerra in Jugoslavia sostenuta con grande impegno dall’Italia che la giustifica ideologicamente con motivi umanitari. È la guerra che inaugura l’espansione della Nato nel territorio dell’ex Patto di Varsavia e dell’ex Unione Sovietica. Inizia “la conquista dell’Est”: gli Stati Uniti riescono nel loro intento di sovrapporre a un'Europa basata sull’allargamento dell’Unione Europea un'Europa basata sull’allargamento della Nato, perché, ricordiamolo, il Comandante supremo alleato in Europa è un generale statunitense nominato dal Presidente, e tutti i comandi strategici sono controllati direttamente dal Pentagono. Quindi “entrare in Europa” significa entrare nella Nato e quindi porsi sotto il diretto controllo militare - e non solo - degli Stati Uniti.

 

E l’Italia? In quegli anni decisivi anche l’Italia si allinea al “nuovo modello di difesa”. Anche in questo caso facciamo parlare i documenti ufficiali. Ottobre 1991, rapporto Modello di Difesa e Lineamenti di sviluppo delle FFAA negli anni ’90 stilato durante il settimo governo Andreotti:

“Considerata la significativa vulnerabilità strategica dell’Italia soprattutto per l’approvvigionamento petrolifero, gli obiettivi permanenti della politica di sicurezza italiana si configurano nella tutela degli interessi nazionali, nell’accezione più vasta di tali termini, ovunque sia necessario, in particolare di quegli interessi che direttamente incidono sul sistema economico e sullo sviluppo del sistema produttivo, in quanto condizione indispensabile per la conservazione e il progresso dell’attuale assetto politico e sociale della nazione”.

Nel 1993, mentre l’Italia partecipa all’operazione militare lanciata dagli USA in Somalia, lo Stato maggiore della difesa dichiara che “occorre essere pronti a proiettarsi a lungo raggio per difendere ovunque interessi vitali al fine di garantire il progresso e il benessere nazionale mantenendo la disponibilità delle fonti e vie di rifornimento energetici e strategici”. La demolizione dello Stato libico nel 2011 è un’altra tappa di questa strategia. Sarebbe, però, da discutere quale sia davvero “il progresso e il benessere nazionale”: allo stato delle cose la Libia è precipitata nel caos con la conseguenza, tra l’altro, di alimentare drammatici flussi migratori verso l’Italia. Insomma: l’articolo 11 della nostra Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”) viene definitivamente consegnato alla storia come ricordo di un tempo che fu.

Questo è il progetto strategico, politico, militare ed economico che costituisce il mosaico di cui le guerre in corso sono le tesserine che lo compongono. È un progetto che in tutta evidenza incorpora la guerra, perché muove da un’affermazione unilaterale di governo del mondo incompatibile con un quadro globale caratterizzato da un nuovo ordine (o disordine?) mondiale che vede emergere nuove grandi potenze come Russia e Cina, India, Brasile…; l’approccio corretto non consiste nello stabilire chi sono i buoni e chi sono i cattivi, ma nel recuperare un sano realismo storico che si ispiri al valore della giustizia, per cui è urgente liberarsi dal dogma della competizione economica globale che genera uno stato permanente di conflittualità e non più sostenibile sia a livello sociale che ambientale. È necessario elaborare un progetto di convivenza globale compatibile con una nuova realtà storica che ha nell’Asia il suo centro propulsore. Diversamente è guerra, per la quale non mancano certo le “cause”.

 


TECNICA

 

Rimane da affrontare l’ultimo dei temi indicato nella scaletta del nostro incontro, concernente ruolo e natura della tecnica: nell’agosto 1945 Hiroshima e Nagasaki inaugurano l’era nucleare che segna una discontinuità assoluta rispetto alle precedenti fasi storiche. Una discontinuità che meriterebbe più di un approfondimento. Il diverso statuto della tecnica contemporanea rispetto alla tecnica delle età precedenti è stato oggetto di riflessione da parte di giganti del pensiero filosofico del Novecento quali Heidegger, Jonas, Anders, Jaspers... In questa sede limitiamoci a porre il problema e ad avviare una riflessione comune.

Negli ultimi decenni abbiamo sperimentato quanto rapida sia stata l’evoluzione della tecnica, e quanto abbia inciso in ambito lavorativo, nelle attività quotidiane, modificando i nostri stili di vita e le relazioni con gli altri. L’ambiente tecnologico in cui inscriviamo le nostre azioni (navigatori, cellulari, tablet, computer…) è il riflesso nella dimensione civile di quanto accade nel cielo della ricerca militare. Sappiamo bene che il nostro navigatore non è stato progettato per evitarci la fatica di chiedere informazioni allo scopo di individuare la pizzeria dove ci incontreremo con gli amici. Le costellazioni satellitari ci indicano sì la pizzeria, ma sono nate per guidare bombe, aerei, missili e quant’altro su obiettivi identificati. GPS è la costellazione satellitare degli Stati Uniti; glonass quella della Russia; beidou quella cinese; Galileo dovrebbe essere quella europea, ma di fatto, non svolge ancora funzione attiva (e questo la dice lunga sull’autonomia dell’Europa dagli Stati Uniti).

Sia detto per inciso: quando ci serviamo del navigatore, il sistema satellitare individua il nostro obiettivo con un margine di errore indotto dal sistema stesso; solo i comandi militari dotati di codice di accesso avranno l’indicazione puntuale del sito da individuare, e questo per evitare che la costellazione satellitare sia utilizzata da agenti ostili.

Ebbene, se il ritmo dell’innovazione tecnologica nell’ambito delle attività civili è incalzante, in ambito militare l’innovazione ha un’accelerazione enormemente più rapida: ora c’è la corsa ai missili antimissili, aerei non intercettabili dai radar, che, a sua volta, attiverà la ricerca di radar che intercettano aerei non intercettabili… Il margine di superiorità militare dura pochissimo e le gigantesche spese di questo inarrestabile processo di innovazione tecnologica è finanziato con fondi sempre tratti dalle spese pubbliche supportate dallo Stato, non dal privato.

 

La percezione della guerra e della morte mediati dall’apparato tecnologico

Più che di tecnica planetaria è corretto parlare di tecnologia planetaria della distruzione che mira a uccidere e distruggere in modi sempre più sofisticati e asettici. Questa connotazione tecnologica assunta dai sistemi d’arma contemporanei ha modificato, rispetto al passato, sia il modo di condurre le guerre, sia la nostra percezione dell’orrore della guerra e della morte. Su quest’aspetto riflettiamo davvero poco. Pensiamo all’attacco alla baionetta della Prima guerra mondiale, con corpi sventrati e agonizzanti, oppure, oggi, alla visione delle immagini di ostaggi decapitati dai combattenti dell’Isis e divulgate dalla rete mediatica. Sono visioni che provocano orrore assoluto, senso di rigetto e nausea. Ci mancherebbe altro. Sono pratiche barbare che suscitano indignazione: la morte violenta e atroce portata dalla guerra si mostra con il suo vero volto, direttamente, senza mediazioni. Prendiamo il caso, invece, assai più aggiornato, di un operatore in California che seduto a una consolle dispone di uno strumento che somiglia a un video gioco, guida a distanza di 14.000 km un drone armato e fa partire un missile, diretto poi sull’obiettivo dal sistema di guida satellitare. L’immagine asettica che a volte (poche) ci è data in visione è quella di un’inquadratura con mirino puntato su qualcosa di poco identificabile, poi coperto da una nuvoletta grigia, accompagnato dal commento che è stato colpito un covo di terroristi o qualcosa di simile. Domanda: queste immagini opache, unitamente alla potenza tecnologica che sottintendono, suscitano orrore come nel caso della baionetta nel ventre o della gola tagliata? No: sono immagini che suscitano più stupore, meraviglia e soggezione a fronte di tanta potenza “chirurgica” ma non orrore. La morte non si “vede”, è lontana, anche se intuiamo che probabilmente in quella nuvoletta di fumo sono state bruciate vittime innocenti. Non è questa la sede per fare l’elenco delle tragedie immani prodotte dai bombardamenti “intelligenti” o “chirurgici” nelle guerre di quest’ultimo ventennio, ma chiunque può documentarsi.

 

Le nuove frontiere della ricerca militare

Gigantesche sono le spese per armamenti nucleari in grado di cancellare più volte (!) ogni forma di vita: credo si intuisca la differenza tra il dotarsi di 500 carrarmati in più del nemico e il dotarsi, ad esempio, di nuove bombe nucleari (schierate dagli USA anche in Italia) le B61-12 a guida di precisione da integrare con gli F35 (400-500 bombe, ciascuna in media con potenza 50 Kiloton, quattro volte Hiroshima, costo 8-12 miliardi di dollari) che devono sostituire le B 61 a caduta libera. Ma la ricerca sta andando ben oltre le armi come le conosciamo oggi : armi elettromagnetiche, laser, batteriologiche, e non abbiamo il tempo per aprire l’altra drammatica pagina della cosiddetta “guerra ambientale”2 .

Solitamente, più si descrivono gli effetti catastrofici per la vita umana e per l’ambiente dei sistemi d’arma in circolazione - e il riferimento non è solo alle armi nucleari - più scatta una sorta di meccanismo psicologico di autodifesa, che rassicura che tali armi non saranno mai usate proprio per i loro effetti. Sarebbe opportuno cominciare a invertire questa percezione, in considerazione del livello insostenibile delle tensioni di guerra che caratterizzano questa fase storica.

 

Il fine dello sviluppo della tecnica è il suo potenziamento senza fine e senza fini, ed è incorporato nella tecnica stessa

Concludiamo con una riflessione su cui chiedo davvero attenzione. La questione del potenziamento tecnico dei sistemi d’arma cui abbiamo fatto cenno, non è inscrivibile sotto la specie della continuità, rispetto alla storia degli armamenti. La tecnologia planetaria con cui oggi abbiamo a che fare non è più lo strumento di cui l’uomo si serve per conseguire i propri scopi, come la tecnica dei tempi moderni. È qualcosa di profondamente diverso: il potenziamento della tecnologia è un fine che, per capirci, non è posto dall’esterno, ma è incorporato nella tecnologia stessa. Il potenziamento senza fine e senza fini è il principio motore dello sviluppo, che si autoalimenta. Tale accelerazione innovativa non ha precedenti nella storia, e la conseguenza è di rendere obsoleti i sistemi d’arma nel volger di tempi sempre più brevi. È una dinamica suicida: la ricerca per l’innovazione tecnologica in ambito militare condiziona i centri universitari e arruola i migliori talenti, divorando una quantità gigantesca di risorse sottratte al bene pubblico. Questo combinato disposto (competitività globale e spese militari) prosciuga le risorse da destinare ai beni pubblici e gli effetti sociali sono sotto gli occhi di tutti: disoccupazione, fine dello Stato sociale, aumento indecente delle diseguaglianze, mancanza di protezione per le fasce più deboli ecc...

Gli USA hanno una spesa militare intorno al 4,5% del PIL, l’Italia al 2%. In Italia, di fronte a qualsiasi richiesta che abbia per oggetto un bene di natura pubblica, si ripete la litania della mancanza di soldi. La Nato quantifica la spesa militare italiana in 52 milioni di euro al giorno; Il Sipri (Istituto di Ricerca internazionale sulla Pace di Stoccolma) la valuta intorno ai 70 milioni. Su scala globale la spesa è 3 milioni di dollari al minuto. Poi, intendiamoci, sono voci al ribasso e in parte camuffate: ad esempio la spesa per le armi nucleari USA è inscritta non nel bilancio del Pentagono, ma in quello del Dipartimento dell’energia!

 

Siamo tutti prigionieri e vittime della logica che presiede al potenziamento della tecnica

Si obietterà: è sempre la volontà degli uomini a dirigere il potenziamento della tecnica. Certamente, ma in che misura questa “volontà” è a rimorchio di una dinamica storicamente inedita? Un banale esempio per intendere il senso della questione: quando l’innovazione incalza e rende il nostro cellulare o il nostro pc non più aggiornato rispetto alla modalità preminente della comunicazione, lo cambiamo. In che misura è una nostra scelta libera, giacché se operassimo una scelta diversa saremmo tagliati fuori dai circuiti non solo relazionali ma anche di lavoro? E di quel potenziamento ne avevamo davvero bisogno? L’apparato tecnologico nel quale viviamo non è più caratterizzato (come nel caso della tecnica in accezione moderna) da strumenti isolati tra loro, e che possono o meno essere utilizzati per libera scelta. La pervasività tecnologica costituisce il vero ambiente entro cui operiamo, tale da sussumere le nostre azioni. Se dai cellulari ci spostiamo ai sistemi d’arma, ecco che se il “progresso” consente di armare aerei con bombe nucleari a guida satellitare, allora sono necessari gli F35, perché i Tornado non sono in grado di adattarsi a questa nuova prospettiva. Quindi dobbiamo cambiare la flotta aerea, quindi dobbiamo cambiare i sistemi di rilevamento militare, quindi… Ma per quanto tempo gli F35 o chi per loro sarà “aggiornato”?

La mia tesi è che siamo tutti prigionieri e vittime di questa logica che non ha alcuno sbocco, se non il dissanguamento esponenziale del bene pubblico. Se non si interrompe questa logica planetaria, di soldi per il bene pubblico ce ne saranno sempre meno.

Se oggi “non ci sono i soldi” per lo Stato sociale, aggiungiamo noi, è bene sapere che ce ne saranno sempre meno anche perché la quota dirottata sul militare, proprio per la logica di auto potenziamento della tecnica di cui si è detto, è destinata ad aumentare.

Che fare? Invocare la pace? È un fine nobile che non tiene conto però che è la giustizia il valore fondante la convivenza sociale. La filosofia ci chiama a recuperare la capacità di sdegnarci ricordandoci, appunto, che pace non significa non-violenza, non significa pacifismo: pace significa giustizia.

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Note
1. Per la ricostruzione storica di questo passaggio epocale e delle vicende che ne seguono, si veda la chiara e rigorosa analisi di Manlio Dinucci all'interno del volume Se dici guerra….Basi militari, tecnologie e profitti (a cura di) Gregorio Piccin; edizioni Kappa Vu, Udine, marzo 2014.
Manlio Dinucci è autore di numerose collane di libri di testo per le scuole secondarie di primo e soprattutto secondo grado di geografia generale ed economica edite da Zanichelli: segnaliamo “Il sistema globale” e “Geolaboratorio”. È giornalista esperto di questioni internazionali, geopolitica, armamenti e politiche militari ed è autore di numerosi saggi. È stato uno dei precursori della geostoria, con la pubblicazione del testo “Geostoria dell'Africa”, 2000.
2. Con l’espressione “guerra ambientale” s’intende “l’intenzionale modificazione di un sistema ecologico naturale (come il clima, i fenomeni meteorologici, gli equilibri dell’atmosfera, della ionosfera, della magnetosfera, le piattaforme tettoniche ecc…) allo scopo di causare distruzioni fisiche, economiche e psicosociali nei riguardi di un determinato obiettivo geofisico o una particolare popolazione”.
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