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manifesto

La frontiera scientifica della società in rete

«Tecnologia e democrazia» di Luciano Gallino. Una importante raccolta di saggi sulla diffusione del sapere tecnico-scientifico

Franco Carlini

scienzaIl Fest, Fiera dell'editoria scientifica di Trieste, da pochi giorni si è chiuso, e con un buon successo. Dove «editoria» andava intesa come tutto quello che viene messo in pubblico - «pubblicato» appunto, in qualsivoglia formato e su qualsiasi supporto. Non solo libri e riviste, dunque, ma siti web, radio, filmati, Dvd. Ha confermato, una volta ancora, che di scienza ben narrata c'è fame in Italia, forse a colmare un ritardo storico, culturale e sociale. E infatti un po' ovunque per la penisola si sono moltiplicati convegni, festival della scienza (il più noto è quello autunnale di Genova), nonché master in Comunicazione della Scienza (il più rinomato è quello presso la Sissa di Trieste). Il genovese Vittorio Bo, che già fu alla direzione dell'Einaudi e che poi ha dato vita a Codice Cultura, è uno dei pochi che ha avuto il coraggio di rischiare prestigio (e capitali) nel campo storicamente abbandonato dell'editoria scientifica italiana per svecchiarla e sprovincializzarla, anche a costo di proposte assai specialistiche.

Tutto ciò certo aiuta a recuperare un divario rispetto ad altri paesi, specialmente Francia e Inghilterra, dove la scienza è da sempre considerata un costituente essenziale della cultura civica e delle politiche dei governi. Tanto rinnovato entusiasmo, che corrisponde anche a un discreto fatturato in eventi e convegni, è consolante. Ma ci basta? La domanda emerge, implicita, dalla lettura del recente libro di Luciano Gallino, lo studioso torinese da anni dedito alla sociologia del lavoro e dell'industria. Tecnologia e democrazia (Einaudi, pp. 296, euro 22) ripropone alcuni dei suoi molti saggi, dedicati alla ragione tecnologica, ai decisori, alle scienze dell'informazione. Tutti densi e importanti, ma qui sia lecito concentrarsi sul filo rosso che li cuce, che si concentra sul tema dell'ignoranza, quella dei singoli scienziati e quella sociale.

 


Oltre il velo dell'ignoranza


E si sgomberi il campo: il problema delle società moderne della conoscenza, sostiene Gallino, non è semplicemente quello di meglio divulgare le scienze a una popolazione vasta che poco le conosce e che, proprio per questo, ne sarebbe diffidente. Questo atteggiamento è tipico di molti ricercatori e governi i quali spiegano così, con troppa faciloneria, il rifiuto di massa nei confronti di alcune scienze che si fanno tecnologia: perché mai si oppongono al nucleare civile, quando sarebbe pulito e comunque, nella sua lunga storia ha prodotto danni molto minori dell'automobile? Perché rifiutano di acquistare alimenti basati su organismi geneticamente modificati, quando si tratta soltanto di una spintarella alla natura, più rapida e controllata di quanto fa l'evoluzione adattando le piante agli ambienti e di quanto fanno i contadini incrociando le varietà vegetali?

Si oppongono - si dice - perché non sanno e non sapendo, si lasciano prendere da paure irrazionali. L'elitè scientifica italiana, quella che scrive sui grandi giornali e che «consiglia» i politici, è in maggioranza attestata su tale facile spiegazione, con alcune importanti eccezioni, che sovente troviamo anche su questo quotidiano; valga per tutti il libro di Marcello Cini, pubblicato l'anno scorso con il titolo Il Supermarket di Prometeo. La scienza nell'era dell'economia della conoscenza (Codice Edizioni).

La ricetta semplice degli scienziati mainstream alla fine si riduce a uno slogan soltanto: divulgazione, divulgazione, divulgazione. Che evidentemente non basta, malgrado gli sforzi. Lo stesso Gallino lo fa notare: «L'approccio comunicativo si fonda sul presupposto che gli unici depositari del sapere utilizzabile siano gli esperti o i politici da essi informati». Sta a loro dunque assumersi il compito di dissipare il velo di un pubblico «considerato per definizione ignorante» e che, in quanto tale, «può opporre resistenza alla diffusione di una tecnologia perché non ne comprende l'utilità e le conseguenze».

Gallino invece segnala, a monte, un'altra e più preoccupante tecno-ignoranza, che non riguarda affatto il volgo a cui divulgare, ma i saggi che dovrebbero farlo. Anzi a ben vedere sono due le pericolose ignoranze in circolazione: l'una a-specifica, quando gli esperti «non sanno quello che non sanno», e dunque procedono tranquilli, senza nemmeno avvertire il vuoto di conoscenze in cui si muovo. L'altra è un'ignoranza specifica, nel proprio singolo settore, che troppo facilmente viene trascurata e rimossa, fidando nel fatto che intanto la ricerca avanzi e, soprattutto, realizzi; se poi sorgeranno dei problemi, si rimedierà con più ricerca e altre mirabolanti tecnologie.


I beni pubblici globali


Gallino non è certamente un nemico della tecnologia, né un irrazionale, e dunque si guarda bene dal trascurare i benefici che la scienza applicata ha portato alla nostra specie. Tuttavia avverte: questi che tutti consideriamo «beni pubblici globali» possono anche portare con sé delle conseguenze negative, sì da trasformarsi eventualmente in «mali pubblici». Può capitare, e forse già sta capitando alle biotecnologie; potrebbe essere il rischio insito nelle nanotecnologie. Nel caso delle manipolazioni genetiche applicate all'agricoltura un po' di cautela c'è stata, specie in Europa, ma alla fine, sotto la spinta dell'impaziente mercato che non può aspettare, esse sono comunque dilagate, approfittando di una curiosa e fasulla forma di valutazione scientifica. Si è accettata infatti la «consolidata tendenza degli esperti a interpretare l'assenza di conoscenze (riguardo ai pericoli di una tecnica; ndr) come la prova che non esistono conseguenze negative». Insomma l'ignoranza proclamata viene trasformata in via libera, il che, anche metodologicamente, fa inorridire.


L'approccio partecipativo


C'è un'altra strada? Per Gallino questa si chiama «approccio partecipativo», che ovviamente è importante per la tecnologia quanto per tutte le altre questioni che riguardano la decisione politica. Il presupposto è questo: «il pubblico, qualora gli sia dato modo di discutere ed esprimersi in forme e luoghi appropriati, (sarà) in grado di orientare gli esperti verso ciò che non sanno o non sanno nemmeno di non sapere».

Non si tratta di un'invenzione teorica, perché metodi del genere sono largamente usati in altri paesi, specialmente in riferimento alle questioni del territorio e dell'ambiente. Robuste sono sia le elaborazioni teoriche che le pratiche diffuse, e la lettura più illuminante al riguardo è forse quella di un altro sociologo torinese, Luigi Bobbio («A più voci», scaricabile anche all'indirizzo www.cantieripa.it/allegati/A_più_voci.pdf). Nessuno si illuda, peraltro: la democrazia così partecipata non potrà eludere il conflitto: non è un convegno, ma una dialettica, in cui politici ed esperti, peraltro, potrebbero scoprire la sapienza delle masse sparpagliate (il fenomeno che in rete viene chiamato Crowdsourcing). La democrazia della conoscenza scientifica può arrivare solo così.

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