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manifesto

Memoria a rischio sulle pagine etichettate «cultura»

Marcello Cini

Pericoli - Il rischio di un ritorno a concezioni tradizionali non può giovare all'apertura alle sfide del XXI secolo Recinti Non più un'esplorazione dei campi del sapere ma una loro delimitazione rigida entro confini disciplinari tradizionali

culturaCari compagni, questa lettera nasce dal mio bisogno di rendere pubblico il crescente disagio che provoca in me, collaboratore del manifesto fin dalla sua fondazione, la lettura delle sue attuali pagine culturali. Metto le mani avanti: non intendo dare voti a nessuno. Soltanto mettere in evidenza la radicalità del cambiamento intervenuto negli ultimi tempi rispetto al loro ruolo tradizionale all'interno della linea del giornale. Non posso fare a meno, a questo proposito, di prendere come riferimento gli anni in cui se ne occupava un grande amico scomparso, Michelangelo Notarianni.

Sono andato a scorrere la raccolta dei suoi articoli pubblicata tre anni fa da manifestolibri con il titolo (malauguratamente profetico) La memoria a rischio, per confrontarla con alcuni dei contributi apparsi negli ultimi mesi sulle pagine etichettate «cultura». La differenza che salta agli occhi è la rigorosa coerenza degli interventi di Michelangelo con un disegno di fondo che li illumina, nonostante la varietà degli argomenti affrontati. Che, tanto per citarne alcuni, spaziavano dalle questioni ambientali (quando l'ambiente era una parolaccia anche per l'estrema sinistra) a Leopardi, dal capitalismo italiano straccione e truffaldino ai personaggi più significativi della storia italiana remota e recente, dalla rivoluzione basagliana della psichiatria alle tesi di Hans Jonas sul rapporto fra etica e tecnica.

Per contrasto a me pare evidente che il termine «cultura» non denota più, nel giornale attuale, una esplorazione dei campi del sapere illuminata da criteri comuni di visione della realtà sociale, ma una loro delimitazione rigida entro confini disciplinari tradizionali. Per dirla tutta sembra che per il manifesto di oggi la «vera» cultura sia tornata ad essere appannaggio dei filosofi e dei letterati. Per esempio, separare i temi della rivoluzione digitale per collocarli dentro un contenitore distinto, come fosse roba per addetti ai lavori, non giova certo all'apertura della cultura alle sfide del XXI secolo. Anche se non sarebbe giusto non riconoscere che alcuni articoli di Benedetto Vecchi in favore dell'open source e del free software sono stati un utile anello di congiunzione fra i due contenitori.

 

Questo ritorno alla concezione tradizionale della cultura non può non disorientare i lettori. Faccio qualche esempio. Il primo riguarda un tema di grande attualità. Si tratta delle idee di un personaggio, Benedetto XVI, del quale tutti i telegiornali riportano quotidianamente ogni parola. Un dotto articolo di Franca D'Agostini, una filosofa esperta di «patristica», intitolato La sfida filosofica del papa, ne ha commentato di recente le basi filosofiche. Una iniziativa senza dubbio meritoria. L'articolo parte da una chiara formulazione degli obiettivi e delle motivazioni del compito che il professor Ratzinger si è dato, nella sua veste di capo della chiesa cattolica. Questo compito consiste nella «appropriazione della filosofia da parte del cristianesimo» al fine di «dare all'Occidente quella filosofia prima di cui è da molto tempo privo e di cui da molto tempo sente il bisogno».

A questo punto uno si sarebbe aspettato che sul manifesto si fossero chiariti bene i gravi pericoli per la libertà della cultura e per la stessa democrazia che questo programma comporta. Dovrebbe essere importante infatti sottolineare che se si accetta la tesi che la religione ha le radici nella sfera della ragione e ne illumina il cammino, il secolo dei Lumi e tutto ciò che ne è seguìto è da buttare. Questa aspettativa, tuttavia, è andata delusa. L'autrice si dichiara addirittura d'accordo con il papa che «i dibattiti attuali (nella scienza nella cultura, e nella politica) sembrano richiedere a gran voce il lavoro di una nuova filosofia prima».

L'unica obiezione che solleva nei confronti della sua proposta è che non può funzionare perché si fonda troppo su una sua fallacia storicista (sic!) di fondo. La ricetta che alla fine dell'articolo viene suggerita è allora che i vescovi dovrebbero «davvero mettersi a fare i filosofi». Ma davvero piacerebbe al manifesto una repubblica retta da una casta di vescovi-filosofi? Per fortuna questa posizione è stata capovolta da Franco Carlini, che di recente ha suggerito anche lui al papa e ai suoi collaboratori di studiare di più. Ma di studiare più scienza, non più filosofia. E soprattutto ha suggerito loro di adottare un approccio più storicista, non meno. Imparerebbero così che «il carattere di scienza storica dell'evoluzione è da tempo accettato pressoché da tutti e che la sua storicità non ne inficia la robustezza scientifica». Eviterebbero di avallare con la loro autorità quella bufala nota come Disegno Intelligente.

Il secondo esempio di - come chiamarla? - incongruità delle pagine culturali con la visione originaria della testata sulle questioni di fondo della società. Si tratta di un articolo intitolato Questioni sulla bilancia del libero arbitrio di Mario De Caro, che, dopo aver discusso diverse posizioni sulla vera origine delle nostre azioni - libera o determinata da cause esterne alla nostra volontà - si conclude salomonicamente con la frase: «Forse noi siamo interamente determinati... o forse no. Sia come sia, potremo sempre serbare uno spazio per la nostra libertà, legandolo a contesti non scientifici, dunque alla nostra vita quotidiana».

Anche qui incontriamo un filosofo antistoricista che tende a far passare l'idea che la scienza, implicando la completa prevedibilità dei fatti futuri, costituisce il fondamento di una concezione deterministica del divenire. Secondo me, invece, andrebbe anzitutto chiarito che questo discorso non c'entra nulla con la storia e la cultura del manifesto. Nello specifico poi, non posso non rilevare che la tesi dell'autore, oltre a essere in ritardo di mezzo secolo, poggia su due argomentazioni fuorvianti.

La prima è un uso improprio dell'autorità di Einstein - notoriamente convinto che «il Signore non gioca ai dadi» - allo scopo di presentare il determinismo delle leggi di natura come una concreta possibilità ancora aperta. «Se ha ragione Einstein - argomenta De Caro - il fatto che non possiamo predire le nostre azioni dipende soltanto dalla nostra ignoranza». Ebbene, mi permetto di dire che si tratta di una affermazione priva di fondamento. Non si può infatti ignorare che trent'anni di esperimenti hanno dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che, a livello degli atomi e dei suoi costituenti, Einstein aveva torto.

La seconda argomentazione di De Caro riguarda alcuni celebri esperimenti del neurofisiologo Benjamin Libet, interpretati da molti come prova dell'illusorietà del libero arbitrio. Mi limito anche qui a osservare che è criticabile omettere nell'articolo in questione la convinzione dello stesso scienziato, secondo la quale anche se «il ruolo del libero arbitrio non sarà quello di cominciare un processo volontario» è comunque certo che «la volontà cosciente può controllare se l'azione avverrà».

Un ultimo esempio, del quale non posso tacere - e chiedo scusa se sono costretto ad accennare a una questione personale - riguarda la pubblicazione di una recensione del mio ultimo libro da parte di Giovanni Giannoli - persona stimabile e corretta, ma di idee assai diverse dalle mie - a lui commissionata con la richiesta esplicita (e documentata dall'autore) di esprimere apertamente le sue riserve sulle mie tesi. In particolare sulla questione essenziale del rapporto fra conoscenza scientifica e contesto sociale. Una scelta lecita, se non fosse che essa non poteva non essere interpretata dai lettori di lunga data come una sconfessione da parte del manifesto delle idee sostenute sulle sue pagine per decenni. Se questa era l'intenzione, andava detto loro chiaramente, e magari anche a me.

Concludo: in questo momento in cui è in corso un processo di riassestamento della sinistra che mette in gioco la sua sopravvivenza, il manifesto può avere più che mai un ruolo importante. Non c'è dubbio dunque che le sue pagine debbano essere aperte a un libero confronto fra posizioni diverse. A patto tuttavia che quelle dedicate alla cultura non siano un optional dove si può dire, senza avvertire il lettore, il contrario di quello che si dice nelle altre.

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