Print
Hits: 5112
Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Dalla tragedia terzomondista al pateracchio rossobruno

Le molte facce della "teoria" leniniana dell'imperialismo

Dino Erba

imperialismoI novant'anni di Fidel Castro hanno dato adito a esaltazioni alquanto fantasiose riguardo alla rivoluzione cubana. Quasi si volessero lanciare rossi lampi in un cielo assai cupo. Certo, Fidel si presenta con un volto assai più simpatico di altri cascami del socialismo reale (il coreano Kim Jong-un!). Ma la forma non cambia la sostanza. A Cuba come in Corea, la sostanza è il nazional-comunismo. Tuttavia la rivoluzione cubana presenta aspetti del tutto particolari che non devono essere assolutamente banalizzati, altrimenti non se ne capirebbe il prestigio, tutt’ora vivo.

Una riflessione su Cuba ci consente di sgombrare il campo da imbarazzanti eredità che viziano la possibilità di immaginare una prospettiva diversa da quella che ci propina l’ideologia dominante, di sinistra e di destra1.

 

Cuba: libertà e socialismo

La rivoluzione cubana (con l’Algeria e il Vietnam) fu l’esempio più alto delle lotte di liberazione nazionale (la decolonizzazione) che scoppiarono alla fine degli anni Cinquanta. In quel periodo, la «guerra fredda» andava attenuandosi mentre l’Unione Sovietica, col «disgelo» (destalinizzazione), guadagnava simpatie a livello internazionale. Contemporaneamente, per gli Stati Uniti veniva meno la spinta propulsiva democratica che aveva accompagnato (e nobilitato) il suo preminente ruolo nella Seconda guerra mondiale.

Via via, prevalevano spinte aggressive nei confronti di Paesi che mettevano in discussione l’egemonia dello Zio Sam. Il brusco risveglio reazionario (o imperialista) avvenne nel 1954, con l’intervento criminale in Guatemala, dove gli USA instaurarono una dittatura sanguinaria che durò 30 anni, incoraggiando altri regimi altrettanto sanguinari in Centro e Sud America. Sempre nel 1954, gli Stati Uniti sostituirono la Francia nella guerra d’Indocina, guerra che sarebbe durata 20 anni, con conseguenze devastanti.

Questi interventi furono la punta di un iceberg di una politica estera aggressiva che avrebbe smascherato la pretesa Nord americana di scalzare le vecchie Potenze coloniali (Inghilterra e Francia in primis), via via che le loro colonie riacquistavano la libertà, e costituire un nuovo punto di riferimento democratico (il cosiddetto neocolonialismo). Questo ruolo, gli USA lo avevano espresso nel 1956, durante la crisi di Suez, quando costrinsero Inghilterra e Francia a ritirarsi con la coda fra le gambe. I realtà fu un espediente per far accettare alle vecchie Potenze un ruolo subalterno agli USA.

Per l’Unione Sovietica di Chruščëv si apriva un campo di intervento assai promettente ma pressoché sconosciuto e rischioso. Riguardava un’area in cui i partiti comunisti filo sovietici erano poca cosa o erano inesistenti. O peggio, erano screditati, come a Cuba, dove il Partito comunista cubano fu connivente con la dittatura di Fulgencio Batista, contro la quale combatté il Movimiento 26 de Julio di Fidel Castro2.

Castro sosteneva fermamente di non avere alcuna simpatia comunista. In effetti, a parte Ernesto Che Guevara, l’unico esponente del Movimiento ad avere avuto rapporti organici con organizzazioni «comuniste» filo sovietiche era Raúl Castro. In più occasioni, Fidel dichiarò che il Movimiento era interclassista e non aveva alcun obiettivo sociale. Il suo obiettivo era puramente politico: l’abbattimento della dittatura di Batista e il ripristino della vita democratica3, manifestando tra l’altro simpatia per gli USA, dove contava sul sostegno della numerosa comunità cubana4.

Le cose andarono diversamente: Fidel Castro divenne «comunista». Non aveva scelta. Per dare sostanza alle parole, doveva passare ai fatti. Una volta al potere (gennaio 1959), il governo castrista varò una riforma agraria che toccava direttamente (e indirettamente) forti interessi yanqui.

Dopo le ritorsioni economiche (embargo) da parte dell’amministrazione Eisenhower (repubblicana), con l’amministrazione Kennedy (democratica), gli USA, passarono alle vie di fatto, attuando il tentativo di invasione della Baia dei Porci (17 aprile 1961). Fu un’operazione maldestra il cui scopo, forse, era un segnale per richiamare il governo cubano a più miti consigli. Ma ormai le aspettative dei braccianti e dei piccoli contadini cubani (ma anche dei lavoratori e della piccola borghesia urbana) non potevano essere tradite, senza dover far fronte a gravi (e incontrollabili) tensioni sociali. E così il governo cubano scelse la via del «meno peggio»: accettò l’aiuto sovietico e divenne «comunista». Il Primo maggio 1961 Cuba fu ufficialmente proclamata repubblica socialista. Dopo di che (3 ottobre 1965), veniva «rifondato» il Partito comunista di Cuba.

Oltre alla riforma agraria, furono attuate importanti riforme in campo sanitario e scolastico, nonché provvedimenti per favorire la piena uguaglianza etnica e di genere. In breve, un esempio di Welfare State da pochi Paesi uguagliato.

Su queste notevoli conquiste sociali, pesava tuttavia l’ipoteca sovietica, benché la distanza rendesse l’ingerenza russa meno soffocante rispetto a quella esercitata nei confronti dei Satelliti dell’Europa Orientale. Di fronte a questa evenienza, in seno alla leadership castrista si accese la critica di Ernesto Che Guevara. Il Che, intuendo la prospettiva di una grigia stabilizzazione (glaciazione) di stampo brezneviano, nel 1965 tentò la via del foquismo (la guerriglia diffusa), per allargare il processo rivoluzionario al Sud America (e tendenzialmente all’Africa), secondo la visione trotskista della «rivoluzione permanente». In questo modo, forse, Cuba, avrebbe potuto emanciparsi dall’URSS. Fu una breve e tragica esperienza che si concluse con la morte del Che il 9 ottobre 1967. Ciò nonostante, l’esempio del Che alimentò l’illusione che la sua ipotesi potesse essere ripresa e sviluppata.

In realtà, l’unico possibile riferimento avrebbe potu-to essere l’Algeria, senonché, il colpo di Stato di Boumedienne (giugno 1965), defenestrando Ahmed Ben Bella, cancellò le aspettative di una possibile evoluzione «alternativa» al modello sovietico. Il Vietnam, nonostante il vittorioso esito della guerra, si sarebbe allineato come e più di Cuba all’URSS. Una scelta che si contrapponeva alla minaccia di ingerenza dell’ingombrante vicino cinese.

L’epilogo fallimentare di questi tentativi di «costruire» un’alternativa al modo di produzione capitalistico non può essere addebitato esclusivamente alla protervia imperialista USA & Co (o sovietica). Ci sono altre implicazioni di fondo che cercherò di delineare.

 

Marx e L'imperialismo di Lenin

In uno studio di prossima pubblicazione (Il sole non sorge più a Ovest5), metto i luce che Marx sostenne decisamente le lotte contro l’oppressione coloniale eurooccidentale a danno dei popoli in cui prevalevano rapporti di produzione non mercantili: irlandesi, polacchi, indiani, cinesi, ceceni … Marx, per queste lotte, delineava una prospettiva assolutamente diversa da quella dell’Occidente capitalistico6. Non solo. Entrando nel merito della sua ipotesi, egli «capovolse la frittata», affermando che le lotte di quei popoli avrebbero aperto la via della rivoluzione nelle metropoli del capitale:

«La classe operaia inglese non farà mai nulla prima che sia riuscita a disfarsi del problema irlandese. La leva si deve applicare in Irlanda»7.

Affermazione che, apparentemente, potrebbe portare acqua al mulino delle tesi di Lenin sull’«anello più debole della catena imperialista» o di Lin Biao (il vice di Mao Zedong) sull’«accerchiamento della città da parte della campagna». Ancora una volta, mai fermarsi alle apparenze. Le tesi di Lenin e di Lin Biao avevano solo un valore tattico, riguardavano la fase insurrezionale della rivoluzione. Per il dopo, ossia scopo e significato della rivoluzione socialista, ricadono in quella concezione secondo la quale il governo proletario potrebbe «controllare» il capitalismo verso uno sbocco socialista, «abbreviando le doglie del parto» della fase capitalista, di cui si è a lungo disquisito.

Contestualmente, la tesi di Lenin dell’«anello più debole» (e in subordine quella di Lin Biao) è figlia della «teoria» leniniana dell’imperialismo che si riduce a un’esposizione dei rapporti di forza tra i principali Paesi capitalistici dell’epoca, condita con qualche nozione di critica dell’economia di Marx. Alla prova dei fatti, la «teoria» leniniana dell’imperialismo si è mostrata un malleabile espediente per giustificare in nome dell’antimperialismo le varie capriole della politica estera sovietica, dal Trattato di Rapallo (1922) con la Germania all’alleanza con Gran Bretagna e USA (1941), passando prima dal Patto Moltov-Ribbentrop (1939)8.

Il terzomondismo fu la risposta all’antimperialismo Made in URSS, nel tentativo di difendere sia l’autonomia politica dei movimenti di liberazione nazionale sia le condizioni di uno sviluppo «autocentrato» degli Stati del Terzo Mondo. Uno sviluppo che, nella sua sostanza, non si discostava dal capitalismo, se non nell’illusione di «controllarlo», attenuandone gli aspetti negativi9. Nonostante alcune parvenze, l’ipotesi dei populisti russi di una prospettiva sociale differente non venne contemplata neppure teoricamente, con l’unica e marginale eccezione di Fodé Diawara10.

 

L’antimperialismo rossobruno

Come si vede, la «teoria» leniniana dell’imperialismo si è mostrata molto malleabile. Tra le sue ultime evoluzioni c’è la versione rossobruna.

«Rossobruno è un termine relativamente recente, che va a identificare quelle aree politiche che una volta si sarebbero definite, più sinteticamente e più efficacemente, nazimaoiste. Nel corso degli anni, soprattutto nei primi anni Novanta, il nazimaoismo mandato in pensione dalla fine delle ideologie cambiava definizione ma non sostanza, identificandosi col “comunitarismo”. I rossobruni si mimetizzano molto bene, nascondendo la loro identità politica ben argomentata dietro simbologie e parole d’ordine apparentemente di sinistra. Ma una cosa principalmente caratterizza tutta l’area rossobruna: ogni fenomeno della vita collettiva viene interpretato come episodio di politica internazionale. Nel fare questo, si servono di una determinata materia scientifica, la geopolitica, strumento analitico col qua-le interpretano ogni fenomeno politico rilevante. Lo sviluppo sociale è determinato, secondo questa, dalla continua dialettica fra blocchi nazionali o macroregionali culturalmente omogenei e in contrapposizione, in perenne scontro fra loro per l’egemonia – o la sopravvivenza – culturale. Anche i singoli episodi della vita sociale nazionale (il termine nazionale è una costante, mentre mai o quasi mai vie-ne citata la parola stato – se non come sinonimo di comunità nazionale) derivano le proprie cause – e la spiegazione generale – dai rapporti di forza internazionali. In questo scontro globale, il concetto di Stato diviene sinonimo di Nazione, e questo viene assimilato a quello di Popolo. Altra caratteristica peculiare del rossobrunismo è la costante rivendicazione identitaria ed etnicista. Ogni scontro statale si trasforma così in scontro fra nazioni, e cioè in scontro fra popoli. Nel fare questo, il rossobrunismo (e tanta parte della geopolitica), inventano di sana pianta territori e culture assolutamente artificiali, come ad esempio il concetto di “Eurasia”, o “Eurabia”, mitiche regioni accumunate cultural-mente dall’opposizione all’egemonia statunitense. Leggiamo questa definizione di Eurasia e dei problemi ad essa sottostanti che ne fa Claudio Mutti, storico nazimaoista ora direttore della rivista omonima “Eurasia”, la “rivista di studi geopolitici”»11.

Negli ultimi anni, questa tesi «antimperialista» è stata spartita da ambienti di sinistra (il cosiddetto «campo antimperialista»)12 che hanno intrecciato implicite (ma a volte esplicite) alleanze con ambienti del-la destra rossobruna, in funzione anti USA, in un mistico afflato, condito di suggestioni complottiste. Cui si aggiunge una componente antisemita, attribuendole, ovviamente, una patente anticapitalistica…

Negli ambienti della sinistra cialtrona è abbastanza diffusa la tesi di stampo keynesiano secondo la quale l’attuale crisi economica sarebbe causata dalla finanza (la speculazione) che rovina l’industria (l’economia reale). Ignorando il nesso indissolubile che lega queste due manifestazioni del modo di produzione capitalistico. Implicitamente, questa tesi ha implicazioni antisemite, secondo il luogo comune della cattiva finanza ebraica13.

L’attuale approdo rossobruno non cade dal cielo, ha le sue premesse nelle teorie avanzate da Karl Radek (il compagno Parabellum) nel 1923, in occasione del tentativo insurrezionalista in Germania, conosciuto come «Ottobre tedesco», ordito dal Komintern, In realtà, fu un’iniziativa assolutamente surrettizia (putschista) e finita malamente. In tali circostanze Radek sostenne che la Germania, in seguito alla pace di Versailles, si trovava nelle medesime condizioni di oppressione delle colonie vere e proprie. Di conseguenza, proponeva l’alleanza del Partito comunista con i movimenti nazionalisti tedeschi, decisamente di destra, tra cui il neonato Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (NASDP), di Hitler14.

Nel corso di un secolo, la «teoria» leniniana dell’imperialismo ha dato vita a un coacervo di correnti politiche di stampo nazionalista più o meno radicali (Castro, Ben Bella …) che, strada facendo, riducevano però ai minimi termini le originarie premesse classiste (Chávez…). Oggi, hanno finito per assumere anche connotazioni decisamente reazionarie, come ISIS: una brutta copia del capitalismo, fuori tempo massimo.

Infine, c’è da dire che una fuorviante impronta squisitamente ideologica è stata impressa alle lotte antimperialiste dalle infatuazioni partigiane (la Resistenza antitedesca) e guerrigliere (da Cuba al Vietnam, sempre anti USA) che hanno alimentato una mitologia, in cui la forma (lo spettacolo) supera spesso (se non sempre) la sostanza.

Queste degenerazioni non sono il frutto di una cattiva interpretazione o di una distorsione del verbo leniniano. No. Sono consustanziali al verbo leniniano15.

Oggi questi sono i fantasmi di un passato che può tornare solo negli incubi…


Note
La questione è assai impegnativa, questi sono solo appunti da sviluppare. Nelle note indico alcuni libri per approfondire.
Dichiarazione di Fidel Castro: ANDREW ST. GEORGE, Sono stato nel covo del Robin Hood cubano, «Tempo», febbraio 1958, p. 26. Vedi anche Partido socialista popular: s.wikipedia. org/wiki/Partido_Socialista_Popular_ (Cuba). Per una visione complessiva, consiglio un vecchio libro che, poiché fu scritto a caldo, non è suggestionato dal «senno di poi»: UMBERTO MELOTTI, La rivoluzione cubana, Dall’Oglio, Milano, 1967. Ricordo anche il sempre valido (nonostante lo sciocco titolo dell’edizione italiana): TAD SZULC, Fidel il caudillo rosso, SugarCo, Milano, 1989. Il titolo originale è: Fidel: A critical Portrait.
Ibidem.
CHARLES SHUMAN, Nostra intervista a Fidel Castro. Sono sicuro di vincere, «Visto», aprile 1958, p. 12. Non c’è da stupirsi, anche Osama bin Laden ricevette aiuti yanqi.
Lo spunto mi è offerto da: KEVIN B. ANDERSON, Marx aux antipodes. Nations, ethnicité et sociétés non occidentales, EditionSyllepse, Paris – Editeur M, Québec, 2015.
Vedi in particolare la lettera di Marx a Vera Zasulič dell’8 marzo 1881, ora in: KARL MARX e FRIEDRICH ENGELS, India, Cina, Russia, Prefazione, traduzione e note di Bruno Maffi, Il Saggiatore, Firenze, 1965, [nuova edizione 2008], p. 237. In breve, Marx dava implicitamente credito alle tesi populiste, come è argomentato in: ETTORE CINNELLA, L’altro Marx, Della Porta Editori, Pisa-Cagliari, 2014.
Lettera di Marx a Engels, 10 dicembre 1869, in KARL MARX e FRIEDRICH ENGELS, Sull’Irlanda, A cura di Andrea Iovane, Gianfranco Pala, Mario Tiberi, Napoleone, Roma, 1973, p. 350.
Vedi: DINO ERBA, Cosa lega William Haywood a Sultan-Galiev? Dal Comintern all’NKVD: la parabola della politica estera sovietica, in LOREN GOLDNER, Il «socialismo in un solo Paese» prima di Stalin e le origini dell’«anti-imperialismo reazionario». Il caso della Turchia (1917-1925), PonSinMor, Gassino (Torino), 2010. La concezione antimperialista di Lin Biao ebbe una vita ancor più accidentata e nefasta di quella leninista, come mostrarono i chiari di luna della Cina nei confronti dei movimenti di liberazione nazionale negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Prevalse allora il contrasto con l’Unione Sovietica che indusse la Cina di Mao ad avvicinarsi agli Stati Uniti, il capintesta dell’imperialismo!
Della variegata schiera di teorici del terzomondismo, secondo me l’esponente più coerente e che più ha approfondito la questione è Samir Amin, vedi SAMIR AMIN, Sviluppo autocentrato, autonomia collettiva e nuovo ordine economico internazionale, «Terzo Mondo», a. XI, n. 35-26. 1978. Molti suoi recenti libri sono stati pubblicati in Italia dalle Edizioni Punto Rosso di Milano [www.punto rossolibri.it].
10 FODÉ DIAWARA, Manifeste de l’homme primitif, Grasset, Paris, 1972. Niente a che vedere con Zerzan! Per certi aspetti, Diawara si connette all’orientamento successivamente proposto da Edward Saïd [Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, Feltrinelli, Milano, 2002]. Su un piano più cultural-teorico che politico possiamo annoverare nella corrente terzomondista Frantz Fanon, Jean-Paul Sartre e Maurice Godelier. Esponenti di un milieu intellettuale non privo di ingenuità che prestarono il fianco alle critiche, in particolare: PASCAL BRUCKNER, Il singhiozzo dell’uomo bianco. Una critica demolitrice dei miti terzomondisti, Longanesi, Milano, 1984. Opera che suscitando facili suggestioni ha avuto un successo confermato dalla riedizione del 2008 da parte di Guanda. Una vera e propria apologia della democrazia capitalista.
11 GIANCARLO MURGIA: https://6viola.wordpress.com /2013/12/29/ cosa-significa-rosso-bruno/. Sottolineature mie. Per le contaminazioni «sinistra/destra», resta valido, nonostante qualche pic-cola imprecisione, il ben documentato articolo: CLAUDIA CERNIGOI, La strategia dei camaleonti: comunitarismo e nazimaoismo, «La Nuova Alabarda», Trieste, 2003, ora anche in: http://www.nuovaalabarda.org/dossier/comunitarsti_e_nazimao isti.pdf.
12 Emblematica è la facciata «estremista» sfacciatamente ostentata da Corrado Basile che ha proposto la formazione di «un movimento popolare contro la politica atlantica», affermando: «Agire contro i legami della grande borghesia europea con gli Stati Uniti e con lo Stato di Israele […] è un obiettivo alto»vedi: CORRADO BASILE, Appunti sulla sinistra comunista italiana, sull’«economicismo imperialistico» e sulla questione dell’Europa, Graphos, Genova, 2005, p. 11.
13 Per una sintetica esposizione, vedi: MOISHE POSTONE, Antisemitismo e nazionalsocialismo, Traduzione a cura di Irene Battaglia e Fabrizio Bernardi, Asterios Editore, Trieste, 2014.
14 Questa «teoria» è stata recentemente rilanciata da: CORRADO BASILE, L’«ottobre» tedesco del 1923 e il suo fallimento. La mancata estensione della rivoluzione in Occidente, Colibrì, Paderno Dugnano (Milano), 2016.
15 Per concludere, rimando alla bella la testimonianza algerina del «vecchio bordighista» Turi Padellaro (Libertino), in: http://www.nucleocom.org/archivio/archivioriceviamo/bordiga_ politico.htm.

 

Web Analytics