Che moltissimi imprenditori piccoli e medi vedano oggi lo Stato come un nemico è un dato di fatto. È un sentimento comprensibile, dato che le loro interazioni quotidiane con lo Stato sono fatte perlopiù di tasse e burocrazia. Ma gli imprenditori commettono un errore madornale nell’identificare il nemico nello Stato tout court piuttosto nelle specifiche politiche portate avanti da questo Stato. Per il semplice fatto che, se è vero che oggi lo Stato è causa di molti dei loro mali, è altresì vero che solo lo Stato può risollevare le loro sorti. La soluzione, tuttavia, non consiste – come pensano probabilmente molti imprenditori, che se lo sentono ripetere tutti i giorni da anni dalle veline liberiste che affollano le tribune politiche, nonché da praticamente tutti i partiti politici dell’arco parlamentare – nel “lasciarli lavorare” (o laissez-faire, come direbbero i francesi), cioè in una semplice riduzione dell’opprimente interferenza dello Stato nella vita economica delle imprese. L’idea che le tasse e la burocrazia rappresentino il principale freno dell’economia italiana, e che basterebbe levare queste di mezzo perché le imprese tornino a volare – come ama ripetere Salvini –, è seducente (perché intuitiva) quanto sbagliata.
Ora, è evidente che tutte le imprese beneficerebbero da una riduzione delle tasse e/o da una semplificazione della burocrazia. Questo lo capirebbe anche un bambino. L’errore sta nel considerare queste misure sufficienti per rilanciare l’economia. Basti pensare che, secondo i dati della Banca mondiale, la pressione fiscale sulle imprese negli ultimi otto anni è scesa di ben nove punti, dal 68 al 59 per cento; nello stesso periodo, nella classifica internazionale “Doing Business”, redatta sempre dalla Banca mondiale, che calcola la “facilità di fare impresa”, l’Italia è passata dal 78esimo al 58esimo posto. Qualcuno ha notato grandi balzi in avanti nell’economia nel periodo in questione? Appunto.
1. Premessa. Maastricht e il Trilemma di Rodrik
Il trilemma di Rodrik[1] suona: non puoi avere democrazia, globalizzazione e sovranità nazionale tutti assieme. Affermazione che riecheggia il trilemma di Triffin, che non puoi avere contemporaneamente tre opzioni: cambi fissi, movimenti incontrollati di capitali e politiche espansive, ma solo due.[2] Il che rinvia direttamente all’impostazione data dai Trattati di Maastricht al rapporto tra stati nazionali, mercati globali e politiche economiche europee.
Il trilemma di Triffin[3] fu enunciato in riferimento agli accordi di Bretton Woods come anticipazione di un loro finale fallimento, come fu. Ma gli accordi di Maastricht seguono un’impostazione opposta a quelli di Bretton Woods. E se i primi sono storicamente collegati al nome di Keynes i secondi lo sono - anche se in modo meno pubblicamente esplicito - al nome dell’arci-antagonista di Keynes, Friedrich von Hayek. E, di fatto, a questi Trattati si applica maggiormente, come si è visto dopo la crisi del 2008-09 (e anche adesso) il Trilemma di Rodrik.
Quindi, se il Trilemma di Triffin rinvia a Bretton Woods e a Keynes. Il Trilemma di Rodrik rinvia piuttosto ad Hayek e alle sue idee sul federalismo.
2. Hayek & la Teoria Generale. Una recensione in maschera.
Sappiamo che alla base dei Trattati di Maastricht ci fossero idee elaborate da Hayek. L’economista Issing, - che fu tra gli estensori - ne era un seguace e lo dichiara in una conferenza all’Institute of Economic Affairs di Londra.[4]
Alcuni hanno considerato Spetti di Marx il libro più importante scritto nell’ultimo mezzo secolo da un filosofo di primo piano e dedicato a Marx. Altri, soprattutto marxisti, hanno considerato questo libro come l’occasione per un’adesione (sempre che si tratti di adesione) tardiva di Derrida al marxismo, adesione in grado di nobilitare una carriera votata a un nichilismo inconcludente.
Sia come sia questo libro c’è, e bisogna farci i conti. Non basta citarne qualche frase per arricchire una propria uscita con un frammento di un accademico figo. Oppure bollarlo in blocco come un testo farraginoso, esagerato, eccessivo, baracco. Bisogna dedicargli l'attenzione che merita e mostrare la torsione che imprime al marxismo novecentesco, soprattutto alla Moneta e alla Valorizzazione del capitale. Bisogna misurarsi con il «Paradosso dell’iterabilità» - essa (l’iterabilità) fa sì che l’origine debba originariamente ripetersi e alterarsi per valere come origine, cioè per conservarsi (Nome di Benjamin).
L’iterabilità non impedisce una certa sostanzializzazione. Ecco perché occorre stare in guardia contro i suoi pericoli. In più, l’iterabilità che opera nell’origine – o in una cosiddetta accumulazione originaria – non si consuma, ma agisce in ogni atto in cui la moneta o il capitale si pongono ogni volta nuovamente in gioco in uno scambio – e non solo in uno scambio con il lavoro.
In virtù di questa legge della iterabilità, la distinzione - che regge la tesi circuitista - tra Moneta (emessa originariamente dalla banca centrale) e Denaro (usato nelle transazioni ordinarie), perde la sua consistenza.
La MMT viene definita dai suoi sostenitori come un nuovo modo radicale di comprendere il denaro e il debito. Ma ci vorrà più di qualche battuta sulla tastiera di un computer per cambiare l'economia
Quando li sogniamo, quando li sogniamo, quando li sogniamo
Li sogneremo, li sogneremo gratuitamente, soldi gratis
soldi gratis, soldi gratis, soldi gratis, soldi gratis, soldi gratis, soldi gratis
— Patti Smith
Ora che le politiche rese famose da Bernie Sanders, come Medicare for All e il college gratuito, e quelle più recenti come il New Deal verde3, stanno penetrando nel mainstream politico, i sostenitori si trovano sempre più di fronte alla domanda: "come li pagheresti?" Sebbene a "questa domanda" ci siano buone risposte che potrebbero anche essere ridotte ad una lunghezza e ad un vocabolario adatti alla TV, non sempre sono fruibili. Persino i socialisti autodefinitisi sembrano avere difficoltà a pronunciare la parola "tasse". Quanto sarebbe bello se si potesse semplicemente respingere la domanda come una distrazione irrilevante?
Esiste opportunamente una dottrina economica che consente di fare proprio questo: la Modern Monetary Theory (MMT). La neoeletta Alexandria Ocasio-Cortez manifesta almeno una certa curiosità per la MMT, e tale teoria è presente in tutti i gruppi di lettura marxisti e nei capitoli dedicati ai Democratic Socialists of America. Si sta diffondendo persino nelle pubblicazioni aziendali: Joe Weisenthal di Bloomberg è un simpatizzante di tale dottrina. James Wilson del New York Times ha twittato recentemente: "La velocità con cui i giovani attivisti sia di sinistra che di destra stanno migrando verso la MMT avrà un profondo effetto sulla politica americana negli anni 2020- 2030".
Mentre gli adepti affermano strenuamente che la MMT è più fine e più complessa di questo, il suo punto di forza principale è che i governi non devono tassare o prendere in prestito per spendere: possono semplicemente creare denaro dal nulla. Basta pigiare alcuni tasti del computer e tutti ricevono un'assicurazione sanitaria, scompare il debito degli studenti e possiamo anche salvare il clima, senza tutto quel caotico conflitto di classe.
Siamo in piena crisi. Il Pil italiano 2020 potrebbe diminuire fino al 9% e il deficit del bilancio pubblico arrivare all'11%. È la fotografia scattata il primo luglio dall'Ufficio parlamentare di Bilancio nel "Rapporto sulla programmazione di bilancio 2020". Numeri che potrebbero peggiorare ulteriormente, avvisa il report, perché si basano sul presupposto di una progressiva ripresa dell'economia senza una seconda ondata Covid 19 in autunno. Il fabbisogno di risorse pubbliche a giugno è stato di 21 miliardi contro i 903 milioni di giugno 2019, arrivando a totalizzare 62 miliardi in più rispetto agli stessi sei mesi dell'anno precedente; denaro che finora il governo ha raccolto emettendo nuovi titoli di Stato, dunque aumentando il debito pubblico - che si prevede possa superare il 160% del Pil.
Sul fronte europeo, sempre il primo luglio i tecnici della Commissione dichiarano che al più tardi nella primavera 2021 si dovranno fornire indicazioni sui tempi e sulle condizioni per il ritorno a una piena applicazione, o la revisione, del Patto di Stabilità e Crescita, sospeso a marzo scorso (il Fiscal compact, che prevede un deficit massimo al 3% e una riduzione progressiva del debito pubblico fino ad arrivare a un rapporto con il Pil del 60%); il vicepresidente della Commissione Dombrovskis conferma che la questione sarà affrontata in autunno o in primavera.
In questo contesto si sta consumando il dibattito politico italiano sul MES (Meccanismo europeo di Stabilità) e sul Recovery Fund. Se il primo scatena un confronto - utilizzarlo sì/no, prevede condizionalità sì/no -il secondo trova tutti d'accordo: è finalmente la risposta della Ue che si aspettava, strutturata su sovvenzioni a fondo perduto e prestiti e, una volta trovato il compromesso tra i 27 Paesi, non c'è alcun motivo per non aderire, anzi.
Come sapete, il 20 e 21 settembre si svolgerà un referendum confermativo ex art. 138 della Costituzione sulla legge costituzionale concernente "Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari".
Posto che votare è un dovere civico (art. 48 Cost.), vi ricordo che non c’è quorum, quindi l’astensione è irrilevante ai fini del risultato.
Credo possa essere interessante un esame molto semplice ma – speriamo – preciso degli argomenti pro e contro più direttamente attinenti al taglio del blog (per gli altri, vi rimando all’articolo della Algostino linkato al n. 5), alla luce di un approccio alla Costituzione che intenda “prenderla sul serio”, come dice Dworkin.
1. In primo luogo un riferimento temporale: come si legge su Wikipedia, fu dagli anni Settanta che cominciò ad essere agitato l’auspicio di una riduzione del numero dei parlamentari. Difficile non lasciar correre il pensiero al paradigma della governabilità lanciato dalla Trilaterale (qui, addendum) e da allora dominante nei salotti, buoni o meno buoni che siano.
Questo scambio in Costituente fra Einaudi, ovviamente favorevole alla riduzione, e Terracini tende ad avvalorare molto i sospetti circa la matrice antidemocratica, e specificamente neo-liberale, del provvedimento oggetto del referendum:
Sono oltre una dozzina i vaccini contro Covid-19 su cui i i ricercatori stanno attualmente lavorando: in quest'articolo, Luca Savarino (Università del Piemonte Orientale), Guido Forni (Accademia Nazionale dei Lincei) e Paolo Vineis (Imperial College) fanno il punto sulle loro caratteristiche, ma anche sugli effetti che la "corsa al vaccino" ha avuto sui tempi e le fasi della sperimentazione in diversi Paesi del mondo, per concludere con alcune importanti considerazioni etiche sull'eventualità di un obbligo vaccinale.
Al momento attuale, oltre una dozzina di vaccini contro il virus SARS-CoV-2 sono in sperimentazione sull’uomo. Solo pochi tra questi sono stati preparati seguendo tecnologie “tradizionali”, già ben collaudate con numerosi altri vaccini, cioè partendo dal virus che viene reso incapace di riprodursi (inattivato) o che è in grado di causare solo una malattia molto lieve (attenuato). La sperimentazione sui vaccini tradizionali di questo tipo è portata avanti principalmente da alcuni enti di ricerca in Cina e in India.
Al contrario, la maggior parte dei vaccini messi a punto per prevenire la Covid-19 sono creati utilizzando sequenze di RNA o di DNA che codificano parti del virus SARS-CoV-2 (WHO, 2020). In certi casi, la sequenza di RNA viene introdotta all’interno di una piccolissima vescicola lipidica (tecnicamente, dentro un liposoma) oppure dentro all’involucro di virus (adenovirus, virus del morbillo, virus della stomatite vescicolare…). Una volta inoculati in un essere umano, questi involucri permettono alla sequenza di RNA di entrare nelle cellule che, sulla base dell’informazione contenuta nell’RNA, producono la proteina verso cui si intende vaccinare (Callaway, 2020).
Reportage dalla manifestazione No Mask tenuta a Roma il 5 settembre
0. Una doverosa premessa
Da qualche tempo sembrerebbe essere tornato in voga un vecchio adagio, per cui bisognerebbe «fare quel che si dice, dire quel che si fa». Fedeli a questo assunto, abbiamo pensato che convenire sull’avvento di una nuova composizione di riferimento – le famose piazze «spurie», che sempre di più trovano la loro genesi nel declassamento e nella conseguente crisi di mediazione del cosiddetto ceto medio – per poi etichettare a priori (leggi: senza nemmeno avventurarsi in una di queste piazze) i movimenti in ascesa come «imbecilli», «pazzi» o «reazionari», sarebbe da considerare un’operazione se non problematica, quantomeno inutile.
Per questo, sabato siamo andati a vedere con i nostri occhi la famigerata piazza dei «No Mask», certi del fatto che solo lo sguardo inchiestante possa davvero osservare il presente per tracciare linee di ragionamento scevre da due rischi opposti ma speculari: da un lato, appunto, quello di liquidare ogni momento di piazza che esuli dai nostri rigidi (e ormai ristrettissimi) confini come ontologicamente «reazionario» – magari basandoci solo sulle testimonianze del Gruppo L’Espresso o del Partito di Repubblica, oppure sulle dirette Facebook degli interventi dal palco, dimenticando invece che l’importanza delle piazze, anche nostre, sta, in genere, lontano dai riflettori. Dall’altro lato, invece, sta il rischio di trasformare in feticci cose che non stanno né in cielo né in terra: dire che le piazze di oggi e di domani saranno «spurie» (come se poi ci fossero mai state delle piazze – rilevanti – «pure») non vuol dire esaltare e innalzare a emblema dell’imminente rivolta dei soggetti che vanno in giro vestiti come un Gesù blasfemo che brucia la foto del Papa o quelli che naufragano al largo di Ustica alla ricerca della fine della terra (chiaramente, considerata piatta).
<Dire fare baciare lettera testamento…>
Filastrocca per un gioco infantile
Vi ricordate questo gioco infantile? Era basato sulle penitenze. Il malcapitato/a doveva pagare pegno e sottostare a delle penitenze che suo malgrado era lui/lei stesso/a a scegliere. Ad occhi chiusi doveva toccare la mano di un compagno/a scegliendo un dito: le cinque dita della mano corrispondevano a dire, fare, baciare, lettera, testamento e ad una relativa penitenza ed era veramente difficile dire quale fosse la peggiore.
Con riferimento alla situazione politica, economica, sociale e personale, gli italiani non sanno quale dito scegliere, qualunque sia la loro scelta pagheranno pesantemente. E non solo gli italiani/e, parliamo del nostro paese solo per semplicità di riferimenti e perché siamo qui.
Il neoliberismo si è caratterizzato per la distruzione delle istanze e delle strutture collettive, per la destituzione di partiti, sindacati, forme politiche organizzate, delle stesse istituzioni rappresentative delle nostre democrazie occidentali diventate democrazie autoritarie e democrazie di mercato in cui l’uno e l’altro aspetto non sono in contraddizione bensì due facce della stessa medaglia. Le grandi raffigurazioni politiche ma anche sociali ma anche religiose che costituivano nei secoli passati il riferimento in cui la persona poteva ritrovarsi e costituirsi sono state smontate in nome dell’autonomia del soggetto a cui è stato imposto il farsi da sé in una costruzione personale che viene propagandata come il massimo della libertà di scelta, di azione, di realizzazione. Si sperimenta così una nuova condizione soggettiva della quale però nessuno possiede le chiavi di interpretazione, tanto meno le nuove generazioni a cui è stata negata perfino la conoscenza e l’esperienza del passato recente.
“Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere. Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi. Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa volta invece sono bastate un paio di settimane”: quanto dichiarato alla rivista francese Le Grand Continent da una scienziata di valore come Ilaria Capua in riferimento all’esplosività della diffusione globale del coronavirus[1] si può traslare alla discussione sulle conseguenze economiche del Covid-19[2].
Il virus, prima ancora che creare ex novo fattori di instabilità nell’economia, accelera e complica le tendenze già esistenti, funge da elemento di cesura. Per alcune settimane, la globalizzazione ha preso due strade divergenti. Da un lato, è accelerata nella sua componente immateriale, con le piattaforme tecnologiche, i social network e le aziende specializzate nell’elaborazione dati e nelle discipline più innovative[3] che hanno lavorato a pieno regime acquisendo ulteriore centralità nei sistemi produttivi. Dall’altro si è gradualmente paralizzata[4] sul fronte dei commerci internazionali e della produzione industriale, facendo emergere come preponderante il tema della gestione delle catene del valore.
Le catene del valore “globali” saranno al centro di numerosi discorsi di tema politico ed economico nella fase post-pandemica[5]: e anche qui notiamo come non ci si trovi di fronte a nuovi scenari aperti dalla pandemia, ma a un’accelerazione dettata dall’impatto del virus sugli equilibri globali.
Andrew McAfee, Erik Brynjolfsson: “La macchina e la folla. Come dominare il nostro futuro digitale”, Feltrinelli, 2020
Il libro di McAfee e Brynjolfsson[1] è stato pubblicato nel 2017 e segue di tre anni il best seller di cui abbiamo già parlato[2], “La nuova rivoluzione delle macchine”[3]. Ne è in qualche modo un aggiornamento. Se il testo del 2014 impostava il suo discorso sulla base di una sorta di determinismo tecnologico (le tendenze economiche e sociali, per esse l’ineguaglianza di cui in quegli anni si parla molto[4], sarebbero determinate dall’evoluzione tecnologica, anziché, ad esempio, dalla stagnazione secolare derivante da deficit di domanda e dinamiche demografiche[5], o da dinamiche del sovraindebitamento[6]), in questo segue implicitamente la stessa strada e ne esplora le conseguenze più recenti. In modo ancora più pronunciato, in questo testo gli autori prendono posizione per l’esaltazione, sopra ogni rischio tecnologico di disintermediazione del lavoro e della mente umana, della “genialità del libero mercato” e per la sua capacità di “inventare” soluzioni ai problemi che esso stesso crea.
Siamo da tempo in una sorta di compromesso sociale, fondato su un consenso che si ripresenta spesso anche in forme apparentemente imprevedibili[7], che fa leva sul consumo anziché sull’integrazione sociale ed il lavoro. A causa di questa condizione l’insieme di determinanti e di nessi nei quali siamo immersi erode costantemente le condizioni della riproduzione della vita e rende instabili le nostre società. La lettura di libri come quello di Brynjolfsson e McAfee aiuta a focalizzare una delle più potenti di queste determinanti: la tecnologia (informatica, Ia, meccanizzazione/automazione) e le nuove modalità di comunicazione, creazione, distribuzione ed accumulo di informazione. E, precisamente, consente di misurare il grado di spiazzamento (in rapidità e magnitudine) del lavoro in tutte le sue dimensioni.
Pubblichiamo l’introduzione di Giorgio Galli, intitolata “Sdoppiamento” al libro di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli “Il prometeismo sdoppiato: Nietzsche o Marx?” che uscirà a novembre con la casa editrice Aurora
Gli elaboratori della teoria dello sdoppiamento, che l’hanno utilizzata per una originale interpretazione della successione dei modi produzione, si impegnano, in questo libro, ad applicarla ad una ricostruzione storica che, appunto, a quella basata sul succedersi dei modi di produzione, può efficacemente accompagnarsi, ma che presenta forti tratti di novità. Il succedersi millenario dei modi di produzione, sino all’odierno capitalismo globalizzato delle multinazionali, ha costantemente dato luogo a società nelle quali gruppi privilegiati sfruttavano maggioranze sottomesse e talvolta ribelli, con relative contese (la marxiana lotta di classe): è quella che nella teoria dello sdoppiamento viene definita linea nera, la società classista fondata sullo sfruttamento, nella quale però coesisteva, pur molto minoritaria, una linea rossa del collettivismo egualitario.
Mentre questa linea interpretativa, a mio avviso un arricchimento di quella marxista, è occasione di ulteriori approfondimenti, i suoi autori propongono un secondo sdoppiamento, questa volta a livello culturale e, quindi, marxisticamente, sovrastrutturale livello che definiscono prometeico, del quale danno questa iniziale definizione: “Una complessa e contradditoria corrente culturale e politica che risale all’era paleolitica e che ha accumulato quasi tremila anni di storia scritta in Europa, che ai nostri giorni si materializza anche nelle avanzate scoperte scientifiche sul potenziamento genetico della nostra specie, col processo di sdoppiamento verificatosi sin dalle origini fra la corrente fraterno-cooperativa e quella del titanismo elitario-classista”: anche a questo livello, dunque, una linea nera prevalente e una linea rossa minoritaria, che hanno ritmato lo sviluppo umano per ben trentamila anni”. In precedenza, come detto, la tesi era stata avanzata a livello economico in due libri dell’editrice Aurora, “Microsoft o Linux?” e “Effetto di sdoppiamento, il ‘paradosso di Lenin’ e la politica struttura”, quest’ultimo con mio intervento al quale voglio aggiungere qualche considerazione circa “Microsoft o Linux?”.
La confusione continua a essere grande sotto il cielo e lo sarà anche nella nebbia d’autunno. I politici italiani amano ripetere che con le loro misure di contrasto al Covid-19 si stanno scrivendo pagine di storia. Del resto, fin dall’inizio della pandemia, governi, media, addetti ai lavori hanno parlato di guerra, linee del fronte, armi, nemico unico, eroi. Dopo molti mesi la narrazione rimane invariata. Tuttavia c’è chi si fa domande
L’educazione usa e getta
Rigorosamente monouso dovranno essere le montagne di mascherine che si useranno in classe. Il 1 settembre così ha deciso il Comitato tecnico scientifico (Cts) di nomina governativa che detta le linee anti-Covid agli italiani. Niente mascherine cosiddette di comunità di stoffa, lavabili e riutilizzabili (e meno che mai autoprodotte), pur ammesse dai Dpcm dei mesi scorsi. Ogni mattina, senza creare assembramenti per carità, le monouso saranno distribuite a tutti. Undici milioni al giorno, ha annunciato il commissario al Covid Domenico Arcuri. E insieme, 170.000 litri di gel igienizzante x le mani a settimana (https://www.orizzontescuola.it/ritorno-in-classe-arcuri-saranno-distribuiti-11-milioni-di-mascherine-al-giorno-e-170-mila-litri-di-gel-igienizzante-a-settimana/).
Anche a non voler contestare l’utilità sanitaria e l’accettabilità psico-pedagogica dei dispositivi in ambiente scolastico, rimane il loro onere ambientale. Non solo mascherine, non solo gel, non solo «sanificazione» a gogò. Dalle scuole usciranno verso la rottamazione tre milioni di banchi, sostituiti dai nuovi arrivi: quelli a rotelle per il tablet, e gli altri monoposto. Usciranno anche un numero difficilmente quantificabile di piatti e stoviglie di plastica, visto che (https://www.peopleforplanet.it/scuola-post-covid-e-pasti-monoporzioni-in-mensa-ce-chi-dice-no/), come denuncia la petizione di Foodinsider.it con Food Watcher e MenoPerPiù, il ministero dell’istruzione indica il lunch box e le monoporzioni come una soluzione per consumare il pasto in classe uno dei possibili scenari della mensa scolastica antiCovid che si prefigura è questo: pasti in monoporzioni di plastica sigillate e menù semplificati stile fast food. Un disastro i contenitori, un disastro il contenuto.
La crisi del capitalismo ha come cause la questione ecologica, la natura dell’accumulazione capitalistica e le crescenti diseguaglianze fra nazioni. L’immissione di liquidità non può risolvere questi problemi. Serve il ritorno del protagonismo delle classi lavoratrici e una politica estera indipendente
Alan Freeman, uno dei principali economisti della Greater London Authority ai tempi di Ken Livingstone, è stato docente universitario ed è uno dei massimi esponenti della scuola del Temporary Single System Interpretation (TSSI). Ha pubblicato, come autore e curatore, diversi libri sulla teoria del valore di Marx. Attualmente è condirettore del Geopolitical Economy Research Group e anche in tale veste è autore di diversi libri sui cambiamenti che stanno intervenendo a livello geopolitico. Le sue pubblicazioni si possono trovare qui.
Dopo l’intervista a Domenico Moro, continuiamo con Alan, che ringraziamo per la disponibilità, le nostre interviste a economisti e lavoratori militanti sulla situazione che si va affermando a seguito della pandemia che ha investito il modo e soprattutto i paesi a conduzione liberista, molto più impreparati ad affrontare l’emergenza sanitaria.
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Domanda (D). Alan, la pandemia da Covid-19 ha senz’altro fatto da detonatore della crisi economica e l’ha inasprita. Noi riteniamo però che essa sia intervenuta in un momento già critico per l’economia mondiale e che pertanto non possa essere considerata l’unica responsabile dei problemi economici che stiamo vivendo. Per te qual è la natura di questa crisi?
Risposta (R). Tutte le crisi sono la conseguenza di una combinazione di cause. Il problema non è di utilizzare questo fatto ovvio in una maniera facile e superficiale per evitare decisioni difficili, come fanno molti commentatori, ma, per poter agire, di identificare in ciascuna crisi particolare quali cause particolari operano.
Jacques Bidet, nato nel 1935 da una famiglia di contadini, è un filosofo e teorico sociale francese, attualmente professore emerito all’Université Paris-Nanterre.
Già membro del Partito Comunista Algerino clandestino negli anni ‘60 e del Partito Comunista Francese, nel 1986 fonda con Jacques Texier la rivista Actuel Marx, tra le più importanti riviste teoriche marxiste del mondo.
Tra i suoi libri principali ricordiamo “Que faire du « Capital » ? : Matériaux pour une refondation”; “Altermarxisme : un autre marxisme pour un autre monde”; “Foucault avec Marx”; “Explication et reconstruction du « Capital »” e “Théorie de la modernité, suivi de Marx et le marché”. Quest’ultimi due libri sono disponibili anche in italiano.
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1. La ricerca di una teoria generale della modernità, ti ha portato all’elaborazione dell’idea della metastruttura, un livello più astratto della struttura, in cui convivono mercato ed organizzazione, ribaltante con un segno di classe nel capitalismo. Questa metastruttura è il riferimento per i subalterni per ribaltare con le proprie lotte il capitalismo e costruire un ordine contrassegnato dalla libertà, l'uguaglianza e la razionalità. Dire che nelle modernità convivono mercato ed organizzazione, mi sembra un voler tornare al progetto originario di Marx di distinguere ciò che è proprio del capitalismo e ciò che non gli appartiene. Come ci aiuta questa riflessione nel ricostruire la teoria di Marx?
R 1. Marx espresse con forza nei Grundrisse - e cito spesso questo testo, che mi sembra molto significativo - l'idea che dal momento in cui consideriamo il processo lavorativo nella sua dimensione sociale, ci troviamo di fronte a due possibilità di coordinamento razionale, sia del mercato che dell'organizzazione.
1. La scoperta dell’Antropocene
La nozione di Antropocene è diventata un tema di riflessione di grande importanza nel dibattito culturale moderno. Introdotta nel 2000 dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, essa intende indicare il fatto che la specie umana è ormai divenuta un fattore di modifica delle dinamiche del pianeta, paragonabile quindi alle forze naturali che hanno agito, da milioni o miliardi di anni, sul pianeta stesso. La nozione di Antropocene viene proposta come una effettiva nuova epoca geologica, che pone termine all’Olocene, iniziato con la fine dell’ultima glaciazione. Su questa proposta la comunità scientifica non ha ancora preso una decisione finale, ma il termine, come si è detto, si è ormai imposto nel dibattito culturale, toccando ambiti molto vari, dall’arte alla filosofia e alla politica [1]. In attesa di una decisione da parte delle organizzazioni scientifiche competenti su questo piano, l’inizio dell’Antropocene è assegnato, da diversi autori, a diversi momenti della storia, che spaziano dalla scoperta dell’agricoltura agli anni ‘50 del Novecento. Mi sembra che le datazioni più lontane tendano a nascondere la novità rappresentata dalla modernità, e personalmente condivido l’opinione di chi propone per l’inizio dell’Antropocene una data che non sia più lontana dell’inizio della rivoluzione industriale. Un altro rilievo importante da fare è che la nozione di Antropocene potrebbe apparire, sul piano assiologico, abbastanza neutrale, cioè come un dato di fatto che non si caratterizza né in senso positivo né in senso negativo. La preoccupazione per le conseguenze dell’attività umana sul mondo, e la sensazione diffusa che la specie umana stia distruggendo le stesse condizioni oggettive della propria esistenza, hanno però l’effetto di togliere questa apparente neutralità, per cui la discussione sulla nozione di Antropocene si carica quasi sempre di una forte preoccupazione per le sorti della biosfera e della specie umana al suo interno.
Nella cultura occidentale lo schiavo è qualcosa come un rimosso. Il riemergere della figura dello schiavo nel lavoratore moderno si presenta quindi, secondo lo schema freudiano, come un ritorno del rimosso.
G. Agamben, L’uso dei corpi
Una pratica millenaria, un istituto giuridico, una tecnica seduttiva. Le molte facce della schiavitù non cessano di affascinarci, indignarci, intrigarci. Forse perché “schiavitù” è una parola che si trova all’incrocio, all’articolazione di tutta una serie di questioni estremamente attuali e, troppo spesso, rimosse. Una nozione-ragno, un concetto viscoso – vertiginosamente oscillante tra il giuridico/politico e l’erotico/psicologico –, che rifiuta definizioni di sorvolo e racchiude in sé un prezioso segreto “strategico” (individuale e politico).
Questo pretestuoso tentativo di nobilitare moralmente lo schiavo è quanto di più fuorviante possiamo incontrare nelle nostre ricerche sulla schiavitù
1) Il primo problema metodologico di una “nuova” genealogia delle odierne schiavitù consiste nell’aggirare la pesantissima deformazione storica prodotta dall’autocommiserante immagine cristiana del fedele come servo/schiavo (di dio e del suo Prossimo). Questa auto-rappresentazione, e questo pretestuoso tentativo di nobilitare moralmente lo schiavo – peraltro magistralmente smascherato dal Nietzsche della Genealogia – è quanto di più fuorviante possiamo incontrare nelle nostre ricerche sulla schiavitù. È infatti una via che conduce alla radice storico-ideologica di quello che oggi viene denunciato come “buonismo”: una narrazione tanto potente quanto irrealistica, un boomerang ideologico a tutto vantaggio di chi gli schiavi li sfrutta.
Dici “maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni ’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di una Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss mafiosi e sicari, ma padri e madri di famiglia – classe operaia del segmento modenese più povero e precario –, accusati di aver lottato per difendere la propria condizione.
I processi riguarderanno due vertenze importanti, quella consumatasi ai cancelli dell’azienda Alcar Uno di Castelnuovo Rangone, e quella relativa alla rinomata Italpizza di Modena – vertenze assurte agli onori della cronaca nazionale, in tempi diversi e per ragioni diverse. La Alcar Uno, storico marchio della lavorazione carni suine, è stata anche il teatro, oltre che di una dura battaglia sindacale, del gaglioffo tentativo di incastrare Aldo Milani, incappato nel 2017 in una provocazione dagli esiti fallimentari; mentre la vertenza Italpizza, ha investito un’eccellenza dell’export italiano, vezzeggiata e iper-protetta dalla politica locale .
Gli inquisiti-operai sono sostanzialmente accusati di aver picchettato i cancelli di aziende in cui hanno speso anni e anni della loro vita – ivi producendo valore e profitti. Nell’impostazione della Procura, lo sciopero è l’arma del reato. La busta paga e la dignità, il movente. La scena del delitto: la precarietà, i cambi appalto, le finte cooperative, l’abuso di contratti penalizzanti – le storie tristemente comuni, ormai di massa, dell’Emilia di oggi.
INTRODUZIONE a «Tornare al lavoro. Lavoro di cittadinanza e piena occupazione», a cura di Jacopo Foggi, Castelvecchi, Roma, 2019, pp. 17-27 [con saggi di Riccardo Bellofiore, Sergio Cesaratto, Guglielmo Forges Davanzati, Mathew Forstater, Claudio Gnesutta, Philip Harvey, Enrico Sergio Levrero, William Mitchell, Mario Seccareccia, Pavlina Tcherneva, Randall Wray et al.]
Il libro sui piani di lavoro garantito curato in modo esemplare da Jacopo Foggi per lo CSEPI è un volume importante, tanto per la qualità e la completezza di quello che contiene e che dice, quanto per quello che resta sullo sfondo e rimane ancora da articolare con più precisione e ricchezza, e magari da mettere meglio a fuoco. In queste poche righe di introduzione mi propongo di presentare al lettore, senza alcuna possibile pretesa di completezza, alcune considerazioni evidentemente soggettive, essendo io stesso parte attiva di questo dibattito in corso.
Il problema della disoccupazione in Italia è un problema che affonda le radici nel passato. Anche limitandoci al secondo dopoguerra, non solo esso non è stato mai risolto, ma alla sua risoluzione non hanno affatto contribuito né la apertura al commercio internazionale, né il miracolo economico, né gli abortiti tentativi di programmazione: semmai, l’emigrazione. La svolta degli anni ’80 prima peggiorò le cose, poi provvide una falsa soluzione nella sottoccupazione dovuta alla caduta della produttività e alla precarizzazione. Si può dubitare che sia mai davvero esistita da noi una fase keynesiana (molti guardano con nostalgia malriposta ai cosiddetti trent’anni gloriosi), e il keynesismo criminale stigmatizzato da de Cecco ne fu un povero sostituto. Il che lascia dubitare che sia possibile una soluzione keynesiana oggi, fondata sulla sola espansione della domanda effettiva, che rovesci l’austerità che ci accompagna da decenni. Si può dire che in varia forma la disoccupazione si sia tramandata tanto nello sviluppo quanto nella crisi, come anche che la crisi italiana sia di lunga durata, e risalga in realtà alle occasioni perse di metà anni ’60. È una crisi che ha aspetti strutturali, non solo congiunturali: e la stessa cosa si può dire della problematica della disoccupazione. La crisi recente, successiva alla nuova “grande crisi” esplosa nel 2007-2008 e aggravata dalle dinamiche interne all’area europea, va relativizzata come parte di questo quadro complessivo.
La pandemia di Coronavirus può essere l’occasione per ripensare radicalmente i compiti e gli obiettivi delle istituzioni pubbliche. Ma perché tale occasione non vada sprecata, occorre uno Stato che “funzioni davvero”. Qualche buon esempio (e qualcuno meno buono) dall’esperienza del Regno Unito
We shall meet again: è stato con un diretto riferimento alle vicende della guerra che la regina Elisabetta ha voluto sostenere il morale dei suoi sudditi durante i giorni più bui del lockdown nel Regno Unito. We shall meet again – “Ci rincontreremo” – cantava infatti la mitica Vera Lynn visitando i soldati al fronte, mentre le bombe della Luftwaffe riducevano in macerie le città inglesi.
Nell’epoca del coronavirus il ricorso a paragoni con le vicende belliche è stato assai diffuso. Si è cercato così di dare riconoscimento alla gravità degli eventi in corso, ma anche di trasmettere il senso della speranza in un “dopo”, nella ricostruzione che inevitabilmente seguirà.
Il secondo dopoguerra ha visto la nascita dello stato sociale nella sua accezione moderna. Fu proprio la straordinaria mobilitazione collettiva innescata dallo sforzo bellico a gettare le basi per un nuovo patto sociale che attribuiva a stati e governi compiti estremamente più ambiziosi che in passato: ad esempio, il celebre Rapporto Beveridge – o, come da titolo originale, il Report on Social Insurance and Allied Services – fu pubblicato in Inghilterra quando le sorti della guerra erano ancora molto incerte (1942).
Oggi molti auspicano che la ricostruzione “post-Covid” possa essere l’occasione per un analogo salto di qualità della nostra convivenza civile, soprattutto per quanto concerne la “riconversione ecologica” dei nostri sistemi produttivi.
Questo articolo scritto dal direttore del sito Marco Pondrelli compare in contemporanea su ‘marx21’ e su Ragioni&Conflitti
L'esplosione del 4 agosto al porto di Beirut ha provocato una vera e propria strage, ovviamente la politica e la stampa, italiane e non solo, sanno già chi sono i responsabili: i 'terroristi' di Hezbollah. Questa propaganda prolifera sulla scarsa conoscenza del Libano e di tutto il Medio Oriente (o Vicino Oriente). Quando si parla di politica internazionale queste posizioni sono la norma ma è solo grazie all'elargizione di luoghi comuni a piene mani che si possono fare affermazioni a dir poco azzardate come, ad esempio, definire l'Iran antisemita, dimenticando (o forse ignorando) quali sono le popolazioni semitiche e che, tolto Israele, la più grande comunità ebraica del Medio Oriente si trova in Iran, dove gli ebrei non solo godono di molti più diritti dei palestinesi ma sono anche presenti in Parlamento.
È necessaria quindi un'analisi che espunga questi luoghi comuni e che si basi sulla lettura della realtà e non su interpretazioni fantasiose.
Enigma Libano
Un bel film di Ziad Doueri, l'insulto, uscito nel 2017 racconta un processo in cui sono coinvolti un cristiano ed un rifugiato palestinese, è un processo che spacca il paese, perché viene a caricarsi di significati che vanno oltre la contesta fra due persone. È un film che rappresenta bene l'attuale Libano, un paese prostrato da infinite guerre.
Un piccolo excursus storico è il punto da cui partire per capire come quella che un tempo era conosciuta come la Svizzera del Medio Oriente sia ora persa in una durissima crisi: politica, economica e sociale.
Conobbi David a Sapporo, nell’anno 2008 nella palestra dove si teneva la riunione iniziale delle giornate di contro-summit, mentre il G8 si riuniva in qualche luogo iper-protetto della città capitale dell’Hokkaido. Eravamo arrivati da poche ore, io e Claudia dall’Italia, David da Londra, e avevamo un sonno bestiale. Mentre i compagni giapponesi facevano i discorsini introduttivi al contro-summit, David si stese per terra e si addormentò per un po’.
Quando la riunione si concluse lui si alzò tutto stropicciato e ce ne andammo all’Hotel dove eravamo ospitati, o per meglio dire inscatolati. Ma la sera bussò alla nostra porta e ci chiese se avevamo qualcosa contro il mal di pancia. Avevamo quel che occorreva e lui si fermò per un’oretta a raccontarci quando era stato in Madagascar, e la percezione del tempo nella cultura africana e il fatto che è inutile darsi appuntamento qui o là tanto nessuno va mai agli appuntamenti, si dice tanto per dire allora ci vediamo alle tre al caffè, poi è inutile che ci vai tanto non ci trovi nessuno. Magari puoi fermarti lì in attesa che prima o poi quello con cui avevi preso appuntamento passi di lì casualmente e allora sai che festa, che gioia, che fortuna vederti.
Nel settembre del 2008 (ci conoscevamo da poco) mentre crollava la Lehman Brothers e altri colossi barcollavano, David mi mandò un messaggio che diceva: Non so se ho le traveggole ma mi sembra di capire che il capitalismo è finito.
Poi ci rivedemmo a New York con il nostro comune amico Sabu Kosho. E poi ci rivedemmo a Londra un paio di volte. L’ultima volta che ci siamo visti è stato un anno fa. E’ venuto a Bologna con Nika, e io li ho portati a vedere il Compianto di Niccolò dell’Arca nella chiesa di Santa Maria della Vita.
Un re taumaturgo (*) ha stregato gran parte dell’extra-sinistra italiana: John Maynard Keynes. Intendiamoci: fra coloro che si ritengono portatori di un “progetto di sinistra”, di una “alternativa di classe”, di una “trasformazione radicale” della società (espressioni che da tempo sostituiscono il riferimento diretto alla rivoluzione e all’abbattimento dello Stato borghese, concetti non spendibili con facilità, specie in vista “delle necessarie aggregazioni elettorali”), ben pochi si riferiscono esplicitamente all’opera e alle ricette di questo economista come al proprio evangelo.
E tuttavia oggi la maggioranza di coloro che si pretendono comunisti, e che quasi sempre alla critica del capitalismo prediligono le invettive contro “il liberismo” o “l’ordoliberismo”, hanno da tempo scelto il keynesismo come l’orizzonte strategico entro cui collocare la propria azione politica. E identificano le soluzioni e gli elementi programmatici di una ipotetica azione di classe, o almeno i suoi “primi passi”, proprio a partire dal modus operandi di quella che per lunghi anni è stata la politica ufficiale dei principali Stati capitalistici.
Togliatti, togliattismo e “democrazia progressiva”
Una tale dipendenza è del tutto spiegabile, se consideriamo le tradizioni politiche da cui la maggior parte degli attuali “comunisti italiani” discende – tradizioni politiche tutte saldamente incardinate nella collaborazione di classe, nella rivendicazione della “democrazia progressiva”, nella lunga marcia dentro le istituzioni borghesi, a partire dalla glorificazione della Costituzione della Repubblica borghese post-fascista, che avrebbe avuto il merito di rappresentare la forma politica nuova entro cui poteva e doveva darsi l’emancipazione della classe operaia. Il togliattismo, insomma, come adattamento dello stalinismo alle condizioni italiane, e radice comune di tanta parte delle “opposizioni” oggi esistenti.
La prolissità non è un eccesso di parole, annotò Nicolás Gómez Dávila fra i suoi Escolios a un texto implícito (1977), ma una carenza di idee.
L’aforisma trova conferma nell’inesausto discorso sulla scuola italiana, riassunto – si fa per dire: son quattrocento pagine e passa – in uno dei tanti manuali per aspiranti insegnanti su cui io e altre decine di migliaia aspiranti insegnanti ci prepariamo al concorso previsto per l’autunno. Nel frattempo aspettiamo di conoscere il punteggio che verrà assegnato nelle diaboliche gps, le graduatorie provinciali dalle quali saranno scelti i supplenti nei prossimi due anni. (Le province, a proposito: vero emblema di resilienza nell’architettura costituzionale italiana.) Oltre settecentocinquantamila domande pervenute sulla piattaforma digitale del Miur: non il milione che era atteso, ma accontentiamoci.
Nel frattempo, a poche settimane dall’inizio del nuovo anno scolastico, si continua a dare i numeri – quanti alunni per classe? quante immissioni in ruolo? quante aule da predisporre? … – ma la voce degli studenti non si sente più. Le loro bocche (anzi: rime buccali, copyright Comitato tecnico-scientifico istituito per l’emergenza coronavirus) non si sono più aperte dopo aver rivendicato il diritto alla notte prima degli esami – la maturità essendo uno dei riti collettivi nel calendario annuale di questo Paese, tra il festival di Sanremo e la classifica delle estati più calde dell’ultimo secolo. Non hanno niente da dire su come immaginano e vorrebbero la “loro” scuola? O invece parlano ma non sono ascoltate?
Il Commissario Europeo Gentiloni ha svolto il primo settembre un’audizione presso le Commissioni Bilancio e Politiche della Ue della Camera e Senato nella quale ha descritto il meccanismo del “Next Generation Eu”, risposta europea alla crisi creata dalla emergenza sanitaria dovuta al virus ed alla sua malattia (Covid-19)[1].
Nei primi venticinque minuti Gentiloni ha presentato il meccanismo del “Next Generation Eu” come cruciale per il futuro e come sfida. Enfatizzando inoltre la novità data dalla raccolta di ingenti risorse a debito comune e il loro impiego, bisogna qui fare attenzione, per la “ripresa e riconversione” delle economie europee. La domanda immediatamente pertinente è quindi: riconversione per cosa? Questo il punto qualificante, per costringere (con carota e bastone, come mostrava Gabriele Pastrello[2]) le economie europee ad andare insieme verso una maggiore competitività, resilienza e sostenibilità (l'ordine vero è l'opposto di quello enunciato dal Commissario).
Il pacchetto di strumenti risponderebbe quindi ad una situazione potenzialmente esplosiva sia nel breve termine (abbiamo milioni di nuovi disoccupati ed intere filiere produttive, in particolare nei servizi, in grandissima sofferenza) e nel medio periodo (con la radicale crisi del modello export-led che ha guidato fino ad ora la Ue, in quanto imposto dai paesi nordici) e nel lungo (con lo spostamento dei rapporti di forza internazionali).
Questo esito è stato prodotto dalla durissima trattativa condotta nel Consiglio Europeo Straordinario del 17-21 luglio[3] che ha portato in extremis ad un accordo tra i “frugali” e i “mediterranei”, grazie all’allineamento con questi ultimi del “Gruppo di Visegrad”.
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