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La "rivoluzione" di Naomi Klein non ci salverà neanche un po'

Sebastiano Isaia

«Quando Al Gore divenne la voce dell’ambientalismo, disse esattamente questo: “Ecco quello che tu, consumatore, puoi fare. Vai in bici. Sostituisci le vecchie lampadine”. Gore aveva reso l’ambientalismo una moda: ma le mode passano. E quel modello, che continuava a considerarci come consumatori, non come membri di comunità, ha fallito. Per quanto importanti, i cambiamenti individuali da soli non bastano: sono le comunità che possono fare pressioni e ottenere risultati. Abbiamo perso. Ma i movimenti non sono lineari, e non sono morti: si reincarnano, e imparano dai loro errori. Il primo è stato quello di fidarsi di figure messianiche, affidare a loro il cambiamento e tornarsene a casa. È successo con Obama, ad esempio. […] Il nostro sistema economico e il nostro sistema planetario sono oggi in conflitto. O, per esser più precisi, la nostra economia è in conflitto con molte forme di vita sulla terra, compresa la stessa vita umana. Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile». Così parlò Naomi Klein.

Prima di correre ad accendere un cero a San Carlo Marx, per il supposto miracolo, il marxista ortodosso – che ha snobbato Il fondamentalismo del mercato secondo Naomi Klein postato da chi scrive lo scorso settembre – deve sapere che per l’eroina No-Global il nemico del pianeta e dell’umanità non è il capitalismo tout court, il capitalismo “nudo e crudo”, in sé e per sé, ma il «capitalismo deregolamentato», cioè a dire il capitalismo ultraliberista venuto fuori dalla “controrivoluzione” degli anni Ottanta. E deve altresì sapere, il marxista duro e puro di cui sopra, che quando straparla di «rivoluzione» la militante di successo allude a movimenti politici sinistrorsi del calibro di Syriza e di Podemos, in effetti quanto di più “radicale” possa presentarsi agli occhi dei cosiddetti “radical chic”, soprattutto se di successo.

«Il più importante errore dei movimenti», ammette oggi la scrittrice canadese, «è stato quello di avere detto molti “no” senza avere dei “sì” altrettanto convincenti. Alle persone non piace l’ingiustizia, la diseguaglianza, il riscaldamento globale: ma hanno paura dell’alternativa, se non è elaborata con cura. Podemos, in Spagna, è un partito nato da movimenti sociali; le 900 cooperative energetiche in Germania mostrano che le fonti alternative non sono favole. Questi sono dei sì, degli esempi tangibili» (Corriere della Sera, 1 febbraio 2015). Gran bella alternativa, non c’è che dire. Forse una rivoluzione ci salverà; di sicuro la “rivoluzione” che ha in testa Naomi Klein al massimo potrà aiutare il “sistema” a sviluppate tecnologie e strutture di potere in grado di supportare al meglio la necessità che fa premio su tutte le altre: la continuità dei rapporti sociali capitalistici.

A tal proposito suona assai significativo il passo che segue (tratto da Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli, 2015): «Se un numero sufficiente di persone smettesse di voltarsi dall’altra parte e decidesse che il cambiamento climatico è una crisi degna di una risposta al livello di un piano Marshall, esso diverrebbe davvero una crisi e la classe politica dovrebbe rispondere in modo adeguato, sia rendendo disponibile le risorse per affrontarla, sia piegando quelle regole del libero mercato che si sono dimostrate così flessibili quand’erano in gioco gli interessi delle caste». L’analogia col Piano Marshall, la chiamata in causa della «classe politica» (possibilmente “di sinistra”) e la solita tirata contro «gli interessi delle caste»: tutto ciò, e altro ancora, la dice lunga sul miserabile concetto di “rivoluzione” in voga nella comunità progressista mondiale dei nostri inquinati tempi. Ridurre la disprezzata (ma del tutto incompresa) «logica del profitto» agli interessi di una generica «élite di potenti» significa alimentare confusione e mancanza di autonomia politica nei confronti delle classi dominanti in quei movimenti che in qualche modo contestano la devastante marcia del capitalismo. Devastante, si badi bene, in primo luogo per ciò che riguarda la vita del “capitale umano”, intrappolato nel buco nero della «logica del profitto», la cui essenza è radicata appunto nei rapporti sociali che rendono possibile lo sfruttamento sempre più scientifico dell’uomo e della natura.

«Bonificare le nostre democrazie dall’influenza corrosiva delle corporation» è una frase che può forse mandare in visibilio il militante di Syriza, di Podemos o di Cinque Stelle, ma che certamente desta una qualche perplessità in chi ha maturato un minimo sindacale di autentica concezione critico-rivoluzionaria. Un minimo, non di più. E certo sarebbe ridicolo tentare di spiegare ai guru del progressismo mondiale come la democrazia non sia che una delle forme politico-ideologiche che può assumere il dominio sempre più totalitario degli interessi capitalistici. Per quanto mi riguarda, infatti, si tratta piuttosto di bonificare le classi subalterne dall’influenza corrosiva del feticismo democratico. Lo so, arduo programma. Diciamo.

Scriveva qualche giorno fa Emanuele Salvato presentando ai lettori del Fatto Quotidiano l’ultimo libro della Klein: «Serve insomma una rivoluzione, come suggerisce il titolo del libro, per garantire una speranza all’umanità. Una rivoluzione ecologica e culturale. E serve un sacrificio: rinunciare a un po’ di benessere per non estinguersi». Confesso che la «rivoluzione ecologica e culturale» di cui parlano i progressisti mi spinge a pensieri che con il politicamente corretto non hanno nulla a che fare. Forse perché difetto di benessere e perché col tempo si è acuita la mia intolleranza nei confronti della parola “sacrificio”: altro che global warming!

Civettare con la “rivoluzione” senza mettere in questione la struttura di classe (altro che “caste” ed “élite di potenti”!) della società-mondo del XXI secolo significa fare del cinismo, che appare tanto più odioso quanto più la fraseologia pseudo rivoluzionaria dei professionisti dell’”anticapitalismo” ammicca alle speranze delle persone umanamente più sensibili.

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