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Non una vera crisi economica, ma una strategia

Dietro le quinte dell’economia internazionale

di Luca Benedini

In gran parte del mondo “sviluppato”, la crisi economica continua ad essere un tema mediatico di primo piano sin dalla “crisi dei mutui” esplosa nel 2008. L’ampia disoccupazione e la povertà sempre più diffusa anche tra i lavoratori occupati e i pensionati sono le espressioni più drammatiche ed evidenti della problematicità dell’attuale situazione economica. Recentemente, diversi economisti hanno addirittura formulato l’idea di un pesante rischio di “stagnazione secolare” nell’intero mondo “sviluppato”. L’idea è stata anche esaminata dal Fmi nei suoi volumi semestrali del World Economic Outlook, nei quali quel rischio è stato considerato dapprima indubbiamente plausibile (nell’ottobre 2014) e poi seriamente presente (nell’aprile e nell’ottobre 2015). In particolare, nell’aprile si è esplicitato che «il rischio permarrà finché la domanda è debole» e che, «dopo sei anni di debolezza della domanda, la probabilità di danni alla potenzialità produttiva costituisce sempre più una preoccupazione». La domanda economica aggregata è debole ovviamente a causa soprattutto dei bassi consumi, conseguenti in particolare al basso e ristagnante reddito disponibile delle famiglie dei lavoratori, ma anche a causa sia della caduta degli investimenti privati (analizzata ampiamente nel volume dell’aprile 2015) sia della scarsa spinta fornita dagli investimenti pubblici (l’importanza dei quali è stata messa in forte rilievo nel volume dell’ottobre 2014).

 

Investimenti e tendenze politiche

Peraltro, la caduta degli investimenti privati nel mondo “sviluppato” è affiancata da un costante aumento degli stessi in numerosi paesi emergenti dove tipicamente le retribuzioni dei lavoratori sono estremamente basse e dove sono decisamente scarsi i controlli ambientali, la tutela dei diritti umani e la pressione fiscale complessiva sulle imprese. Nel contempo, se tecnicamente persino il Fmi ricorda il grande significato degli investimenti pubblici, di fatto i vertici politici dello stesso Fmi e di molte altre istituzioni sovranazionali – inclusa l’UE – da tempo favoriscono concordemente politiche governative caratterizzate dal neoliberismo e dall’austerità nelle quali lo spazio per gli investimenti pubblici è sempre più ridotto.

In altre parole, dietro le quinte appare esservi una precisa scelta delle élite economico-politiche mondiali indirizzata sostanzialmente a lasciare che nei fatti la domanda aggregata complessiva rimanga debole nel mondo “sviluppato”, dove vi è la compresenza di una corposa tradizione sindacale tra le classi lavoratrici, di un’ampia consapevolezza ambientale e di un consistente senso dei diritti umani e del ruolo delle istituzioni pubbliche (incluso il fisco) all’interno della società.

Del resto, in questi due secoli di “economia di mercato” la caduta degli investimenti privati nei paesi in cui erano particolarmente spiccate le rivendicazioni e la capacità organizzativa popolari ha sempre fatto parte delle tipiche reazioni individuali e collettive delle élite economiche, tanto più quando vi erano altri paesi “meno politicizzati” in cui era possibile delocalizzare concretamente o finanziariamente gli investimenti. Tali reazioni hanno sempre avuto un duplice scopo di fondo: 1) cercare di evitare investimenti a rischio; 2) utilizzare la recessione economica derivante da quella caduta come mezzo per indebolire progressivamente l’organizzazione politica alternativa tra i lavoratori e per riaffermare il proprio ruolo dominante nell’attività produttiva e nella società. L’attuale deliberata compressione degli investimenti pubblici da parte di quasi tutti i governi non fa che rafforzare quest’ultima tendenza.

 

Consumi e tendenze economiche

Tuttavia, la questione è ancor più vasta e globale, girando intorno al fatto che nella domanda aggregata il ruolo più imponente ce l’hanno i consumi, soprattutto privati (ma anche quelli pubblici possono avere un notevole peso dove vi sono ampi servizi pubblici). È ben noto che i vari ceti sociali hanno tipicamente una propensione al consumo che tende ad aumentare nettamente passando dai ceti più ricchi a quelli più poveri.1 In un recente studio di alcuni economisti del Fmi (Causes and Consequences of Income Inequality: A Global Perspective, di Era Dabla-Norris e altri, giugno 2015) che ha confermato e approfondito i risultati di diversi altri studi precedenti, si è appunto riscontrata internazionalmente «una relazione inversa tra la quota di reddito che va ai ceti abbienti (il 20% più ricco) e la crescita economica. Se la quota di reddito del 20% più ricco aumenta di 1 punto percentuale, in effetti il Pil nei 5 anni seguenti cala di 0,08 punti percentuali, suggerendo che i benefici economici dei ricchi non si trasferiscono al resto della popolazione. Invece, un analogo aumento della quota di reddito del 20% più povero è associato ad una crescita del Pil di 0,38 punti percentuali. Questa relazione positiva tra quote di reddito disponibile e crescita si mantiene anche per il secondo e il terzo quintile» della popolazione disposta in base al reddito (i quali costituiscono solitamente la sezione principale delle classi lavoratrici) e vale in piccola misura anche per il quarto quintile (cui comunemente corrisponde il cosiddetto ceto medio):2 rispettivamente, +0,32, +0,27 e +0,06.

Ora, le «stime suggeriscono che quasi metà della ricchezza mondiale è oggi detenuta da appena l’1% della popolazione, per un ammontare pari a 110 mila miliardi di dollari – 65 volte la ricchezza totale della metà della popolazione mondiale che ne detiene meno». E, «in gran parte dei paesi con dati disponibili, la quota posseduta dall’1% della popolazione più ricco sta accrescendosi a spese del 90% della popolazione meno ricco». Se poi si considera che, come stimava l’Oxfam nel 2013, i più ricchi hanno a disposizione anche altri 18-19 mila miliardi sottobanco nei “paradisi fiscali”, emerge una situazione veramente impressionante. Questa tendenza al crescente arricchimento dei più ricchi si è rafforzata sempre più negli ultimi 25 anni, con la globalizzazione impostata in senso neoliberista dalle élite politico-economiche mondiali e da organismi come Fmi, wto, ecc..

Un altro fatto ben noto è che, mentre i vari governi continuano a invitare la popolazione a consumare il più possibile per facilitare l’uscita del proprio paese dalla crisi economica, le élite fanno tutt’altro: mantengono relativamente bassa la loro propensione al consumo (e tanto più quello di prodotti locali) e preferiscono usare le loro enormi ricchezze per investire nella finanza, in beni-rifugio o nella speculazione immobiliare, riservando alla vera e propria economia reale un po’ di investimenti soprattutto in paesi dove i lavoratori, l’ambiente e i diritti umani sono pochissimo tutelati. Da qui anche le grosse “bolle immobiliari” esplose in vari paesi nella seconda metà degli anni Duemila e la “crisi dei mutui”, legata alla finanza speculativa e a tali bolle....

 

Al di fuori dell’economia reale

Come stupirsi dunque se viviamo da decenni in un’economia sempre più asfittica? Una parte ampia – e costantemente crescente – del reddito mondiale finisce deliberatamente al di fuori dell’economia reale, entrando nel mondo della speculazione finanziaria o della tesaurizzazione e tagliando inevitabilmente in modo drammatico la domanda aggregata complessiva, e ciò tanto più nei paesi dove vi è una tradizione di tutela dei lavoratori, dell’ambiente e dei diritti umani.... Questa, dunque, non è affatto una vera crisi, è semplicemente la strategia complessiva di gran parte delle maggiori élite economiche mondiali. Come mettevo in evidenza vent’anni fa,3 tali élite stavano tentando di attuare «una sorta di ritorno mondiale ai metodi brutali tipici dell’industrialismo europeo del secolo scorso» e a una società impostata su quella concezione. La loro attuale “strategia di crisi” è uno dei principali aspetti di tale tentativo.


Note
1 Tale propensione corrisponde alla percentuale del proprio reddito spesa in consumi.
2 Ogni quintile corrisponde a un 20% della popolazione.
3 In un articolo apparso col titolo Pensare ed agire globalmente e localmente (nella rivista Ecologia Politica - CNS, gennaio-giugno 1996, pagg. 85-103, e novembre 1996, pag. 159).
Questo articolo – scritto in marzo – è pubblicato su Rocca del 15 giugno 2016 col titolo Dietro le quinte dell’economia internazionale. Per contatti con l’autore: “This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.”. Il sito Internet della rivista è “www.rocca.cittadella.org”.

Comments

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Luca Benedini
Monday, 28 January 2019 17:27
In pratica, un seguito di questo articolo è a questo indirizzo:
"https://www.sinistrainrete.info/keynes/10306-luca-benedini-oltre-keynes.html" (pubblicato nel luglio 2017).
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Luca Benedini
Monday, 20 June 2016 14:28
Va bene: o ci sei, o ci fai.... Per tutto parlano l'ultima tua frase e l'ultima mia: io chiedo a te "di cosa parli"; tu mi rispondi "Hai proprio ragione di chiederti di cosa parli"....
Ma non è solo questo: è anche tutto il resto. Con chi stai parlando? Non certo con me.... Adios
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Claudio
Saturday, 18 June 2016 23:23
Carissimo Luca, mi dispiace che te la sia presa così per due parole messe lì solo per dire che tanti di quei numeri che hai dato nello scritto servono a poco, per il resto ognuno ha le proprie opinioni, giuste o sbagliate che siano. Detto ciò, non credo proprio che la classe che detiene il potere economico, politico e finanziario sia in grado, con un semplice atto di volontà, di porre fine ad una profonda crisi mondiale (un dato di fatto, non un'opinione o un modo di chiamarla), che non è solo economico/finanziaria, ma del sistema capitalistico di produzione, della quale sono in buona parte colpevoli, ma che non l'hanno certamente cercata. Che poi preferiscano questo genere di mondo in crisi e pieno di problemi anche per loro, è una tua opinione rispettabilissima, su questo non ci piove, anche se non mi convince, L'abbassamento dei salari reali nei paesi sviluppati è un altro dato di fatto statisticamente provato. Lo chiamo guerra al salario dal momento che è stata studiata, decisa e portata avanti dal potere della grande finanza neoliberista, come una vera e propria strategia globale, se non ti piace chiamalo pure in altro modo, ma la sostanza non cambia. Non cambia cioè che le condizioni di vita di gran parte delle classi sociali subordinate siano peggiorate, vuoi per effetto della crisi, vuoi per la terza rivoluzione industriale, o per altro. Questo peggioramento non dico affatto che sia la causa di tutto, ma una delle cause dell'abbassamento dei consumi. Avendo scritto che la politica dei sacrifici è stata "applicata di buon grado dai governi, che altro non sono che ubbidienti valletti di chi realmente comanda", non significa affatto che credo ciecamente in loro, ma l'esatto contrario. Che gli stati si siano indebitati per sostenere i profitti d'industriali e banchieri, e per cercare di sostenere le aziende in crisi, anche questo è un dato di fatto, testimoniato dall'aumento del debito pubblico da un lato e dall'aumento della tassazione sulle classi meno abbienti dall'altro. La parte finale della tua replica, quando affermi che i governi dicono "di non avere invece i soldi...per redistribuzione dei redditi" e ti lamenti perché non parlano di "imposte sui grandi patrimoni" mi fai cascare le braccia, è come se tu credessi che non vivessimo in una società divisa in classi contrapposte e che i governi non fossero espressione della classe dei capitalisti che detengono il potere, ma fosse il governo di tutti, poveri e ricchi senza distinzione! Hai proprio ragione di chiederti di cosa parli.
Un caro saluto.
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Luca Benedini
Saturday, 18 June 2016 13:46
Non amo più l'eccessiva minuziosità, tipica tra l'altro non certo di Marx ed Engels ma di moltissimi dei cosiddetti "marxisti", nella quale non si coglie più la contraddizione principale (o le contraddizioni principali) ma si mescolano tutte le contraddizioni insieme facendo un miscuglio indecifrabile - o ricomponibile artificiosamente a proprio esclusivo piacimento - tra contraddizioni principali e secondarie. Mettiamola così: se le maggiori élite economico-politiche del mondo di oggi volessero uscire rapidamente da questa che loro amano chiamare "crisi economica" saprebbero benissimo come farlo, e senza rimetterci affatto dei soldi. Ma preferiscono questo genere di mondo, perché quello che a loro interessa di più non è la ricchezza in sé e per sé ma sono soprattutto i privilegi e il dominio, e questi richiedono la presenza di poveri, disoccupati, precari, ecc.
Dopo di che, caro Claudio, puoi dire quello che vuoi: che la causa di tutto è la "guerra al salario e alle condizioni di vita di tutte le classi sociali subordinate" oppure una strategia in parte deliberata e in parte inerente ai tipici comportamenti classisti di quelle élite.... Che differenza fa? A me pare esattamente la stessa cosa, semplicemente vista da un lato o da un altro. Perché pretendi di litigare sulle parole e di divertirti a tacciare subito di "aria fritta" chi dice più o meno le tue stesse cose ma con un linguaggio leggermente diverso?
Stranamente poi sembri credere ciecamente ai governi che dicono di essere diventati poveri per salvare le povere aziende in crisi e di non avere invece i soldi e i margini, guarda caso, per gli investimenti pubblici o per una redistribuzione dei redditi.... Tra l'altro, hai mai sentito parlare di imposte sui grandi patrimoni? Se volessero, lì i governi potrebbero trovare tutti i soldi necessari per una politica non di austerità.... Quindi, di che parli...?
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Claudio
Friday, 17 June 2016 20:52
La tesi da voi sostenuta mi convince solo a metà, nel senso che penso anch'io che l’insuperabilità della lunga crisi sia in parte dovuta ad una precisa strategia, ma da li al sostenere che “non sia una vera crisi economica” mi sembra una tesi oltremodo azzardata, o per meglio dire, insostenibile.
Per fare il punto proviamo Innanzitutto a cercar di capire perché "la povertà (è) sempre più diffusa anche tra i lavoratori occupati e i pensionati". Secondo il modesto parete di un autodidatta, che cerca di riflettere sui dati che ci forniscono i vari poteri, che, come sappiamo, spesso non corrispondono al vero, in quanto sono finalizzati unicamente ad accrescere i loro profitti, l'accrescimento generalizzato della povertà nei paesi più sviluppati, e non soltanto in essi, la quale non colpisce solo lavoratori, giovani e pensionati , ma anche un numero crescente di appartenenti alla piccola e media borghesia, è dovuta ad un disegno preciso della grande finanza neoliberista globalizzata, che per aumentare i propri profitti, ormai da decenni ha dichiarato guerra al salario e alle condizioni di vita di tutte le classi sociali subordinate, una linea questa che è stata fatta propria dall’intera borghesia. Non è pertanto dovuto al caso se i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Questa guerra politica, scatenata dalla classe dei grandi capitalisti, ha portato ad una riduzione generalizzata di salari e redditi, e quindi dei consumi privati, che sono una componente significativa di quella che voi chiamate "domanda aggregata", la quale, a sua volta, ha portato ad un eccesso di produzioni in quasi tutti i settori produttivi, e quindi alla sua contrazione, alla chiusura di fabbriche ed al conseguente forte aumento della disoccupazione.
Passo agli altri punti che avete esposto in modo piuttosto contorto. “La caduta degli investimenti privati”, a mio parere sono dovuti ad una delle regole elementari del sistema capitalistico di produzione, ossia al semplice fatto che quando il mercato non tira, investire diventa eccessivamente rischioso, in quanto invece di generare gli ambiti profitti è molto più probabile che realizzino perdite, e pertanto s’astengono. In quanto poi “alla scarsa spinta fornita dagli investimenti pubblici”, ciò non è dovuto, come voi sostenete, al fatto che “i vertici politici dello stesso Fmi e di molte altre istituzioni sovranazionali – inclusa l’UE – da tempo favoriscono concordemente politiche governative caratterizzate dal neoliberismo e dall’austerità nelle quali lo spazio per gli investimenti pubblici è sempre più ridotto”, ma ad un fatto molto più semplice, e cioè all’eccessivo indebitamento degli stati, causati dai troppi esborsi fatti per sostenere il profitto e salvare le aziende e banche in difficoltà a causa della crisi. Le politiche dei sacrifici, o di austerità, come viene un po’ più dolcemente chiamata, è stata anch’essa imposta dalla grande finanza globalizzata, come parte specifica della generale guerra al salario, ed applicate di buon grado dai governi, che altro non sono che ubbidienti valletti di chi realmente comanda. L’eccessiva ingordigia di profitti, della grande finanza neoliberista, sta portando verso una “stagnazione secolare”, o meglio alla insuperabilità dell’attuale crisi economica. Questa, in parole semplici, mi sembra la sostanza, tutto il resto è solo aria fritta che serve soltanto a cercare di confondere un po’ le idee, come se non fossero abbastanza nebulose, come del resto anche il vostro scritto dimostra ampiamente.
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Riccardo
Thursday, 16 June 2016 16:18
Interessante.
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